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Una prospettiva costruttivista nella terapia (non necessariamente costruttivista) per persone straniere o migranti

A constructivist glimpse of a (not necessarily constructivist) therapy for foreigners and migrants

di

Simone Cheli
Centro di Psicologia e Psicoterapia, Tages Onlus, Firenze, Italia
Scuola di Scienze della Salute Umana, Università di Firenze, Firenze, Italia

 

Joan Miquel Soldevilla Alberti
Centro di Psicologia e Psicoterapia, Tages Onlus, Firenze, Italia
Facultad de Psicologia, Universitat de Barcelona, Barcellona, Spagna

 

Francesco Velicogna
Centro di Psicologia e Psicoterapia, Tages Onlus, Firenze, Italia
Institute of Constructivist Psychology, Padova, Italia

Abstract

I mutamenti nei flussi migratori e il costante ed inarrestabile processo di ibridazione culturale della nostra società impone ai clinici la definizione e lo sviluppo di interventi specificamente rivolti a persone con storia di recente o rilevante migrazione. L’obiettivo del presente articolo è quello di delineare alcuni principi fondati sulla prospettiva costruttivista che possano supportare questo processo. Integrando riflessioni teoriche e cliniche ci siamo concentrati sul ruolo, a nostro avviso cruciale, che possono svolgere l’approccio credulo, la prospettiva narrativa e le costruzioni non-verbali come declinate da George A. Kelly ed altri autori. Abbiamo inoltre cercato di motivare come una prospettiva costruttivista non debba essere necessariamente vincolata ad interventi definiti come costruttivisti, quanto piuttosto svolgere da punto di partenza ed ispirazione di una pratica clinica finalizzata al supporto di persone straniere o migranti.

Changes in migratory flows and the constant and unstoppable process of cultural hybridization of our society forces therapists to define and develop interventions specifically aimed at people with recent or significant migration history. The aim of this article is to outline some principles based on a constructivist perspective that may support such a process. By integrating theoretical and clinical reflections, we focused on the crucial role of the following George A. Kelly’s and other authors’ assumptions: credulous approach, narrative perspective and non-verbal constructions. We tried to motivate how a constructivist perspective should not necessarily be constrained to interventions defined as constructivist, but rather to act as a starting point for a clinical practice aimed at supporting foreigners or migrants.

Keywords:
Costruttivismo; psicologia dei costrutti personali; migranti; terza onda della CBT | constructivism; personal constructs psychology; migrants; third wave of CBT
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1.K. e l’approccio credulo

Tutto il reparto sembrava spaventato da K. La responsabile del servizio riportò come tutti i medici avessero avuto problemi nel relazionarsi con lei. E come queste difficoltà fossero originatesi, da un lato, dal timore che suscitava lo sguardo e l’atteggiamento non-verbale della paziente, dall’altro, nel sentirsi giudicati e svalutati dalle sue parole. K., la protagonista suo malgrado di questa storia, era una paziente taiwanese in trattamento per la recidiva di un carcinoma mammario. Di origini per metà cinesi e per metà giapponesi, parlava e comprendeva assai poco la lingua italiana e mostrava un portamento estremamente distinto e posato in ogni gesto. Di elevata scolarizzazione e background socio-economico riteneva giustamente offensivo che nessuno volesse spiegarle un significativo cambio di piano terapeutico e che tutti l’appellassero cinese. Come spiegò ad uno di noi nella prima seduta: “Tu chiameresti inglese un irlandese? Come pensi reagirebbe?”. Ecco, chiamare un taiwanese “cinese” è come chiamare un livornese “pisano” o un catalano “castigliano”!

Vogliamo avviare questa nostra riflessione sull’utilità di un approccio costruttivista alla psicoterapia rivolta a pazienti di recente o significativa storia di migrazione, a partire da una persona che niente aveva dello stereotipo del migrante spesso oggetto di digressioni generalisti, xenofobe o addirittura razziste. K. era estremamente acculturata, viveva in Italia per scelta pratica (ed estetica) svolgendo una professione di continui viaggi, aveva una raffinata e sovraordinata capacità di comprendere i propri e gli altrui vissuti. La ripetuta mancanza di reciprocità in questi processi da parte della sua équipe curante aveva semplicemente irrigidito il suo modo assai puntuale e diretto di relazionarsi agli altri. Assertivamente chiedeva numi sul suo piano terapeutico e un approccio linguistico e comunicativo più consono e coerente al suo.

Uno dei paradossi nel lavorare con persone con storia di recente o rilevante migrazione è che, per quanto dobbiamo essere pronti a modificare, modulare ed articolare le nostre strategie e tecniche terapeutiche, alla fine è opportuno che teniamo lo stesso approccio genuinamente aperto all’unicità dell’altro che dovremmo tenere in ogni psicoterapia (Cheli, 2018a). Dovremmo dunque mantenere una prospettiva che George A. Kelly (1955) definiva, con un termine volutamente confondente per il lettore, credula. Credulo è infatti colui che è disposto a credere anche a fronte di poche o incerte evidenze. E dunque un approccio apparentemente in contrasto con un auspicato rigore analitico. Creando un parallelo tra la dominante cultura commerciale della sua era e la psicoterapia, Kelly arriva ad affermare che “l’utente (lett. client) – come il proverbiale cliente (lett. customer) – ha sempre ragione!” (Kelly, 1955, p. 322). Questo invito a tralasciare la prospettiva del giudice e considerare scientificamente e clinicamente rilevante tutto quel che il paziente ci porta va ben oltre la definizione di vero o falso, giusto o sbagliato. L’approccio credulo ha infatti per Kelly una funzione ed un razionale che vanno ben oltre la sua opera. Se rileggiamo infatti le frasi in cui parla di tale costrutto troviamo una delle poche citazioni manifeste del suo opus magnum. L’approccio credulo discende infatti dall’osservazione partecipe di Harry Stuck Sullivan (Kelly, 1955, p. 174) che, oltre alla Psicologia dei Costrutti Personali (PCP), ha ispirato in quegli anni la Semantica Generale (Kendig, 1990, p. xxiii), la Terapia Sistemico-Familiare (Ray, 2006) e molte altre correnti nelle decadi successive. L’idea di fondo è, infatti, che il terapeuta

nell’ascoltare il suo paziente, deve comprendere che sta partecipando al comportamento verbale che corrisponde primariamente alla concettualizzazione di me e tu, con manifestazioni corrispondenti ai fattori che hanno distorto e continuano a complicare le relazioni interpersonali della personalità del soggetto. In quanto persona che parla è ben consapevole che sta utilizzando processi linguistici in una configurazione all’interno della quale l’uditore interviene assai significativamente nella risultante del tentativo di comunicare (Sullivan, 1946, p. 45).

E quindi il mind-set di esser creduli apre all’unica strada percorribile in terapia che sta nel riconoscere i continui e reciproci apporti tra le due persone coinvolte in tale processo: il paziente ed il terapeuta.

Il maggiore e più duraturo contributo di Kelly alla moderna psicoterapia sta forse nell’aver dettagliato, tramite la posizione epistemologica dell’alternativismo costruttivo e la operativizzazione clinica di questa nel postulato fondamentale e nei suoi corollari, un approccio partecipe di co-costruzione che prescinde dal background tanto del terapeuta quanto del paziente. Basti pensare come, ad esempio, Aaron T. Beck (Beck & Weishar, 2000) rintracci l’origine dell’empirismo collaborativo della Terapia Cognitivo-

Comportamentale (TCC) nell’approccio credulo, o come Steven C. Hayes (2004) individui nella rinascita costruttivista degli anni ’80 una delle matrici teoriche della Terza Onda della TCC. E giungiamo dunque al nostro primo nucleo argomentativo: sebbene una prospettiva costruttivista riconducibile all’approccio credulo sia ineludibile nel confrontarsi con pazienti di recente o rilevante migrazione, non necessariamente tale prospettiva deve limitarsi alla PCP o escludere l’integrazione con prospettive terapeutiche diverse. La concettualizzazione condivisa del suo funzionamento con K. evidenziò due processi ricorrenti inquadrabili tramite il costrutto di perfezionismo (definito in un’ottica integrata TCC e psicodinamica) di Paul L. Hewitt (Hewitt, Flett & Mikail, 2017) ed il costrutto di auto-critica (definito in un’ottica integrata TCC ed evoluzionistica) di Paul Gilbert (2009). Quella apparente rigidità di K. nascondeva anticipazioni molto strette e vincolanti in termini appunto di perfezionismo auto- ed etero-prescritto e di una ricorrente auto-critica che le faceva vivere una rilevante colpa interpersonale. Tale colpa è sia spiegabile in termini evoluzionistici di fallimento delle strategie pro-sociali della paziente e del suo contesto familiare (Gilbert, 2009), sia in termini costruttivisti di scostamento del sé dalle altrui strutture nucleari di ruolo (Kelly, 1955). L’intervento fu pertanto indirizzato ad una co-costruzione del suo funzionamento primariamente incentrata sulle sue self presentation strategies perfezionistiche (Hewitt et al., 2017) e ad una serie di pratiche esperienziali miranti a favorire un più sostenibile posizionamento interpersonale (Gilbert, 2009).

 

  1. Il gruppo SPRAR e l’approccio narrativo

Ad uno degli autori fu richiesto di condurre un gruppo per richiedenti asilo di uno SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). La richiesta nasceva dal coordinatore del centro che, nonostante la numerosità limitata degli ospiti, aveva ravvisato significative problematiche psicologiche. I richiedenti asilo erano circa 30, ma di questi almeno un terzo mostrava, a detta del medico di riferimento, sintomi depressivi, post-traumatici, ed una generale difficoltà ad interagire col personale e con i propri connazionali presenti nello SPRAR. A complicare la situazione si aggiungevano ovviamente vincoli temporali, numerici ed economici. Il dilemma operativo stava nel riconoscere come da un lato non vi erano risorse (1 terapeuta x 0 fondi!) per offrire dei percorsi individuali, dall’altro tutti gli interventi di maggiore e comprovata efficacia rivolti ad una simile utenza (e a chiunque abbia sintomi post-traumatici) mirano a favorire un processo di esposizione progressiva (American Psychological Association, 2017) all’evento o agli eventi traumatici vissuti. In breve, pur essendo i protocolli di gruppo assai poco documentati e validati erano in quel caso l’unica alternativa possibile.

Per chi osserva l’esperienza definibile come post-traumatica in un’ottica costruttivista il rivivere ricorsivamente ed incontrollatamente il trauma e le successive implicazioni rappresenta una cesura nella capacità della persona di costruire una narrazione coerente e complessa di sé. Il trauma è dunque leggibile come un fallimento nell’integrazione tra processi narrativi esterni (come costruisco gli eventi) ed interni (come costruisco la mia esperienza interiore) che ha come esito infausto una compromissione dei processi narrativi riflessivi, ovvero quelli deputati all’attribuzione di senso personale all’esperienza nel suo insieme e contestualmente a noi stessi come soggetto ed oggetto di ogni narrazione (Neimeyer & Levitt, 2001). Come ha più e più volte dettagliato nel corso della sua opera Jay S. Efran (Efran, Lukens & Lukens, 1990) fin quando noi continuiamo a perpetuare la stessa narrazione di noi stessi non potremo mai cambiare e, pertanto, il cambiamento è necessariamente un processo narrativo, una sorta di atto creativo di sperimentazione in cui formuliamo ipotesi sufficientemente lasse che poi porteremo a verifica nella nostra esperienza (si veda la definizione kelliana di ciclo della creatività; Kelly, 1955, p. 529).

Uno degli interventi psicoterapeutici con maggiori evidenze, rivolti a pazienti migranti e/o richiedenti asilo, prende le mosse da una simile prospettiva. La Terapia dell’Esposizione Narrativa (Schauer, Neuener & Elbert, 2011) nasce infatti dall’esigenza di declinare i principi della TCC standard dell’esposizione progressiva in setting fortemente destrutturati e con persone con background estremamente disparati. Il format breve e dettagliatamente articolato offre un rilevante vantaggio in termini sia di costi-benefici che di transculturalità. Il razionale, pur fondandosi su solide basi neuroscientifiche legate agli studi sulla memoria autobiografica, si dipana in due forme di interventi. Da un lato si offre al paziente una psico-educazione finalizzata ad aumentare la consapevolezza sulla sua esperienza problematica e riattivare il monitoraggio solitamente compromesso dal processo post-traumatico. Dall’altro lato si ricostruisce in forma narrativa la storia di vita del paziente sia antecedente che successiva al trauma con l’obiettivo di inserire la tecnica di esposizione progressiva in una cornice più ampia di ri-attribuzione e ri-acquisizione di senso. Nel format originario si costruisce una linea della vita utilizzando una corda (un filo o una linea) e oggetti diversi che rappresentano eventi rilevanti di vita. Visto il setting di gruppo e l’eterogeneità dei partecipanti (migranti tutti provenienti dall’Africa occidentale anglofona) la procedura fu leggermente modificata (Cheli, 2018b). Il format di gruppo (attualmente ancora in fase di validazione) prevedeva infatti di considerare le singole storie di vita come affluenti di un medesimo fiume che avrebbe poi rappresentato il percorso comune o quantomeno sovrapponibile. Dopo un colloquio di ingresso individuale in cui si sono ricostruite sia la decisione di intraprendere il viaggio che la prima fase dello stesso, i diversi “fiumi” sono confluiti in una narrazione condivisa a partire dall’arrivo in Libia, l’esperienza di diverse forme di detenzione, il viaggio in mare ed i centri di accoglienza in Italia. Ed arriviamo dunque al nostro secondo nucleo argomentativo che ruota attorno alla centralità di una comprensione, condivisione e ricostruzione della narrazione di sé e della propria vita nell’impostare un intervento rivolto a migranti e/o stranieri. Tale centralità poggia sia su considerazioni cliniche come quelle sopra descritte, sia su un fattore di mantenimento psicopatologico assai rilevante: ovvero la frammentazione linguistica, culturale, sociale e personale a cui sono sottoposte persone con recente o rilevante storia di migrazione (Bughra, 2004).

 

  1. Le costruzioni non verbali di S.

Una delle più prolifiche intuizioni di Kelly, che a nostro avviso è stata troppo data per scontata, è la concezione integrata mente-corpo dei processi di costruzione. O meglio, al di là delle numerosissime analisi e declinazioni teoriche del monismo kelliano, nell’armamentario di tecniche della PCP il corpo sembra assai poco ricorrente. Nella sua opera Kelly descrisse nel dettaglio fondamentalmente un’unica procedura terapeutica standardizzata dedicandole un capitolo intero del suo opus magnum (la terapia del ruolo fisso; Kelly, 1955) e non è a nostro avviso un caso che questa fosse una tecnica diremmo oggi esperienziale. La terapia del ruolo fisso è né più né meno una procedura drammaturgica mutuata direttamente ed esplicitamente dal sociodramma di Jakob L. Moreno (1946), il cui razionale è che se io interpreto, incarnandolo, un ruolo diverso quasi fosse un testo teatrale sperimenterò una visione diversa del mondo. Negli anni in cui Kelly si formava e poi sviluppava le sue idee, molti altri autori iniziano ad utilizzare tecniche drammaturgiche, corporee ed immaginative. Basti pensare alla nascita della coeva Terapia della Gestalt (Perls, Hefferline, & Goodman, 1951) o dell’Ipnoterapia Eriksoniana (Erikcson, 1948). Sfortunatamente, sia dentro che fuori dalla PCP, questa spinta ad agire terapeuticamente in maniera coerente ai presupposti teorici sembra essersi anno dopo anno affievolita. Negli ultimi anni invece, grazie al crescente interesse per i processi di dissociazione strutturale conseguenti agli sviluppi traumatici (La Rosa & Onofri, 2017) e per il ruolo svolto dalla memoria procedurale nel mantenimento di stili di coping disfunzionali (Dimaggio, Ottavi, Popolo & Salvatore, 2019), il corpo sembra aver rincontrato la mente.

Quando S. si presentò al primo colloquio riusciva a malapena a parlare. Era stata da poco “ricollocata” nello SPRAR e pochi giorni dopo il suo arrivo le fu proposta una psicoterapia. S. guardava fissa lo spazio a terra attorno ai piedi del terapeuta e le sue spalle, le sue braccia, tutto il suo corpo sembravano quasi privi di forza e volontà. Come avremmo poi scoperto successivamente, S. era stata vittima di numerose violenze ed abusi all’interno di quella cornice apparentemente neutra denominata human trafficking (Yakushko, 2009). Il terapeuta (uno degli autori), memore degli insegnamenti di due dei massimi esperti mondiali di problematiche post-traumatiche, si concentrò su due principi: (i) una lenta e accorta costruzione dell’alleanza terapeutica (Liotti & Farina, 2011); (ii) un’integrazione di tecniche cognitivo-linguistiche con tecniche corporee-esperienziali al fine di favorire un monitoraggio ed un’elaborazione guidata delle memorie traumatiche (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006). Nelle prime sedute S. sperimentò dunque la possibilità di far emergere il suo vissuto nei suoi tempi e nella misura in cui percepiva la relazione sufficientemente sicura. Tramite tecniche di open monitoring tipiche della mindfulness (Vago & Silberzweig, 2012) fu possibile accedere verbalmente a vissuti corporei che erano presenti qui ed ora nella stanza della terapia senza necessariamente richiamare gli eventi traumatici attivanti. Tramite tecniche di imagery rescripting (Arntz, 2012) fu possibile richiamare ed elaborare progressivamente quelle inenarrabili, insormontabili memorie traumatiche.

 

  1. Alcuni possibili principi operativi

La letteratura scientifica riporta dati caratterizzati da elevata eterogeneità (e quindi limitata significatività) sia per quanto riguarda la prevalenza delle problematiche psicopatologiche sia per quanto riguarda le linee guida psicoterapeutiche (Bughra et al., 2011; Priebe, Giacco & El-Nagib, 2016). Ciò non deve essere né un’autorizzazione implicita a non avere un razionale e delle solide basi da cui partire, né a pensare che sia giustificabile navigare a vista. La complessità e problematicità dei setting transculturali, soprattutto se rivolti a persone che hanno vissuto ripetute e pervasive esperienze traumatiche, richiede un costante rigore nella concettualizzazione del caso e nell’impostazione della terapia.

Prendendo le mosse da una prospettiva PCP, abbiamo cercato di delineare alcuni principi operativi che ben si applicano a persone con recente o rilevante storia di migrazione e che al contempo riteniamo possano essere estesi, almeno in parte (si vedano punti 1 e 3 del seguente elenco), ad altri ambiti:

  1. La PCP e le psicoterapie ad orientamento costruttivista hanno delineato alcuni principi teorici generali che risultano estremamente prolifici in contesti caratterizzati da elevata complessità e difficoltà (almeno iniziale) nel costruire una base esperienziale, linguistica e culturale comune tra paziente e terapeuta.
  2. Nel supporto a persone con recente o rilevante storia di migrazione tre principi costruttivisti sembrano a nostro avviso cruciali: (i) un approccio credulo nel relazionarsi allo specifico ed unico vissuto del paziente; (ii) una prospettiva narrativa che ambisca ad integrare narrazioni interne ed esterne in un’ottica di riflessività; (iii) un presupposto operativo di integrazione mente-corpo che supporti il terapeuta nell’affrontare i devastanti effetti delle memorie traumatiche.
  3. Definire e perseguire un mind-set costruttivista che ricorsivamente consideri questi tre principi (i-iii), non implica necessariamente, o meglio non dovrebbe implicare, che il terapeuta si rivolga esclusivamente alla psicologia costruttivista per la concettualizzazione del caso e/o per l’impostazione della terapia. A nostro avviso dar coerentemente seguito ai nucleari principi costruttivisti implica esser pronti a revisionare e perché no invalidare Kelly stesso.

“Infatti l’uomo giunge a comprendere il suo mondo attraverso una serie infinita di successive approssimazioni” (Kelly, 1955, p. 43). E se fossero proprio i costruttivisti a dimenticarsi il principio fondante del costruttivismo, allora il costruttivismo diverrebbe qualcosa da lasciar nei libri.

 

Bibliografia

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Note sugli autori

 

Simone Cheli

Centro di Psicologia e Psicoterapia, Tages Onlus, Firenze, Italia

Scuola di Scienze della Salute Umana, Università di Firenze, Firenze, Italia

simone.cheli@unifi.it

Psicologo Psicoterapeuta; Docente di Psicologia Clinica dell’Università di Firenze; Responsabile della Ricerca della SOSD Psiconcologia, USL Toscana Centro; Presidente di Tages Onlus.

 

Joan Miquel Soldevilla-Alberti

Centro di Psicologia e Psicoterapia, Tages Onlus, Firenze, Italia

Facultad de Psicologia, Universitat de Barcelona, Barcellona, Spagna

jmsoldevilla@ub.edu

Psicologo Psicoterapeuta; Professore all’Universitat de Barcelona e l’Universitat Oberta de Catalunya; Presidente dell’Asociación Española de Psicoterapias Cognitivas.

 

Francesco Velicogna

Centro di Psicologia e Psicoterapia, Tages Onlus, Firenze, Italia

Institute of Constructivist Psychology, Padova, Italia

francesco.velicogna@gmail.com

Psicologo Psicoterapeuta; Specialista in Psicologia Clinica; Didatta in Psicoterapia presso la Scuola di Psicoterapia dell’Institute of Constructivist Psychology di Padova.