Caro Massimo, innanzitutto ti ringraziamo per aver accettato di incontrarci: per noi questa intervista è un’occasione per scoprire qualcosa in più di un mondo di cui sappiamo ancora poco. Per iniziare, abbiamo deciso di riprendere in mano una frase che abbiamo trovato nella presentazione di un tuo workshop passato: “Navigare è una potente quanto condivisa metafora di vita”. Vorremmo chiederti che significato ha per te navigare in barca a vela, facendo riferimento anche a questa affermazione.
Io credo che la metafora di vita più rappresentativa sia quella del viaggio, e quella del viaggio è una metafora molto antica. Forse non è un caso che il viaggio inteso come vita sia stato nell’antichità presentato proprio attraverso un mito, il mito degli Argonauti. Argo era la prima nave della storia su cui si imbarcarono dei giovani eroi achei alla ricerca del Vello d’Oro. L’idea dietro a questo mito è che a un certo punto devi uscire dal porto. Il porto può essere casa tua, può essere la tua famiglia, possono essere gli amici della tua infanzia, e arriverà il momento in cui dovrai allontanarti da lì e cominciare un’esplorazione. Allontanarsi, però, implica che ci sia un porto da cui ti distanzi: non c’è viaggio se non c’è un punto di partenza. Ulisse non avrebbe compiuto nessun viaggio se non fosse partito da un luogo, che era Itaca, a cui la sua mente ritornava sempre, quantomeno come misura delle miglia percorse. E questo mito antico – che non a caso vede un viaggio in barca – secondo me è proprio una metafora della vita, o meglio di ciò che per noi rappresenta la vita: dopo un periodo trascorso nel nostro porto sicuro, ‘usciamo’, anche grazie a dei compagni di viaggio, ed esploriamo. E ora vi chiederete… perché il mare? Beh, questo forse ha una radice un po’ più poetica, un po’ più familiare per me: io vengo da una famiglia di mare. Ogni volta che mi avvicino a una battigia, io non guardo la riva, guardo l’orizzonte, e mi chiedo che cosa possa esserci lì in fondo; il mare mi ispira il viaggio, mi ispira l’avventura, mi ispira l’idea sperimentata di trovarsi in un orizzonte completamente circolare, circondati dall’acqua, e quindi proprio nella dimensione dell’ignoto, del non controllabile, pur avendo una direzione. Quindi sì, per riprendere la domanda, quella del viaggio in barca è una metafora piuttosto antica, che affonda in quella più ampia del viaggio in generale. Per diventare adulti viaggiamo, giusto?
Giusto. Ci piacerebbe sapere in che modo l’esperienza in barca a vela si può trasformare in uno strumento per la formazione personale. Ti va di parlarcene?
L’esperienza in barca a vela può essere considerata uno strumento di formazione personale per molte ragioni, alcune definibili in termini puramente corporei, altre più prettamente mentali. Mi spiego meglio: io ho descritto la navigazione in barca a vela anche come un potentissimo acceleratore di processi sociali. In barca le persone, in fondo, non possono che essere loro stesse e dimostrare chi sono, nel bene e nel male; in particolare, dimostrano chi sono stando in relazione con gli altri, perché mettono immediatamente in atto ciò che sono, trasformando in azione ciò che pensano, la visione di loro stesse e degli altri. Allo stesso tempo, devono fare i conti con un aspetto fondamentale della navigazione, cioè il fatto che durante la navigazione in barca a vela non si ha il controllo di tantissime cose, tra cui la forza e la direzione del mare, l’altezza e la direzione delle onde, le correnti marine. Anche le previsioni metereologiche non sono mai assolutamente certe, dipendono da tante cose: in parte dall’incertezza del tempo atmosferico in sé, in parte dalle caratteristiche specifiche delle terre che circondano il mare. Quindi, ti ritrovi in una situazione di imponderabilità, in una condizione che non puoi controllare. Mentre invece il controllo, che nei nostri termini chiamiamo costrizione, è spesso un’illusione. Dunque, come fai a muoverti in un contesto così radicalmente non controllabile? Puoi solo governare ciò che accade, e adattarti alla situazione. E come lo fai? Attraverso una profonda conoscenza della tua barca, che diventa una parte di te, e tramite il modo in cui prendono forma le relazioni con tutto l’equipaggio, che diventano a loro volta una parte del mezzo. Queste due cose messe insieme permettono il governo della situazione, e senza di esse affondi o vai alla deriva. In sostanza, quindi, si tratta di un esercizio fondamentale di governo, di esperienza costante di relazione con gli altri e con le condizioni ambientali, in cui costantemente ti adatti e senti la barca. Conosci la barca, la senti fisicamente. Questa è una prima condizione che assume valore terapeutico, e che ha un valore formativo per i terapeuti che sentono il bisogno di sapere sempre cosa dire e di avere tutte le risposte in anticipo. In barca, invece, non hai mai le risposte in anticipo. Succede, poi, un’altra cosa fondamentale in queste esperienze: se da una parte la barca attiva una serie di schemi, dall’altra parte li rompe, su un piano anche corporeo. Vi faccio notare una cosa: guardateci, notate come siamo seduti. Abbiamo assunto una posizione. Una posizione che esprime un senso anche di identità, ha un significato, comunica qualcosa. In barca non puoi scegliere una posizione fissa e mantenerla, per il solo fatto che la barca si muove. Questo aspetto corporeo ha, secondo me, un’implicazione in termini più profondamente identitari: in barca non puoi minimamente – permettetemi il termine – mostrare, in barca puoi essere, e lo puoi fare solo in connessione alla barca. Questo allenta una serie di costrutti corporei, facilitando permeabilità e creatività nel rimettere insieme rapporti diversi.
A tal riguardo, ci interessava sapere come costruisci la connessione tra l’esperienza in barca a vela e l’esperienza terapeutica.
Vedo una connessione tra le due cose: la barca a vela può essere uno strumento anche di terapia, sia per dimensioni personali sia per dimensioni gruppali o, nella maniera più assoluta, relazionali. Senza girarci troppo intorno, certi problemi personali o interpersonali in barca emergono immediatamente. In termini formativi, se c’è l’intenzione di migliorare qualcosa di sé l’esperienza di cambiamento può essere rapidissima.
Riprendendo il discorso di poco fa, ci dicevi che l’esperienza potrebbe essere utile per chi si sta formando come terapeuta. Vale lo stesso anche per ə terapeutə già formatə?
Direi proprio di sì, nella misura in cui per scelta o per difficoltà personali tendiamo a diventare terapeuti controllanti. Per scelta professionale, perché aderiamo a un paradigma della manipolazione, che mira a voler far fare al paziente ciò che noi riteniamo giusto per lui, a credere di sapere meglio del paziente stesso cosa è bene per lui o cosa significa per lui qualsiasi cosa. In termini personali, invece, anche un terapeuta costruttivista, che ha tutto il desiderio di presentarsi forte della propria ignoranza, può cadere nella trappola del bravo terapeuta, cercando di avere tutte le risposte, di controllare e di operare una costrizione sul proprio paziente. In entrambi questi casi la barca a vela è utile proprio perché non permette alcun controllo. Tanto per fare un esempio, quando portiamo in barca gruppi di terapeuti/e in formazione facciamo tutta una serie di esercizi. Un esercizio con il timone è il seguente: “cerca di mantenere questa rotta e di non perdere il vento” (“non perdere il vento” vuol dire mantenere sempre un certo angolo, tra la prua della barca e il vento). Inizialmente, ma non solo per esperienza, proprio per l’applicazione di una certa visione di se stessi, del mondo e degli altri, il tentativo è quello di controllare la barca. Capita, quindi, di essere molto rigidi al timone e, a quel punto, la barca comincia a fare ciò che vuole, ad andare un po’ di qua e di là. Quando bendi la persona e le dici: “prova a sentire come va la barca, com’è inclinata, come senti il vento sulla faccia, come vibra sotto i piedi, e prova a mantenere il punto su queste sensazioni. Quindi prova a entrare un po’ in dialogo con la barca” ecco che comincia a timonare in maniera efficace. E, paradossalmente, questo avviene quando togli uno degli strumenti di controllo a cui siamo più abituati, cioè la vista. La persona inizia a governare, e non più a tentare di forzare la barca a fare quello che vuole lei. Comincia, finalmente, a entrare in una relazione. Secondo il nostro approccio, entrare in relazione non è controllare le dinamiche con l’altra persona. Piuttosto, è essere in una sorta di co-costruzione di una direzione, esattamente come quando si timona. In genere, un buon timoniere esperto tiene la rotta e può farlo senza guardare la bussola, continuando a chiacchierare, con una mano sola e magari fumando una sigaretta. Questo perché sente la barca. Questa è una bella metafora della relazione, dell’essere in una relazione.
Giunte a questo punto, riprendendo la metafora kelliana dell’uomo ricercatore, ti chiediamo: quali esperimenti fai tu come formatore? E, secondo te, quali esperimenti fa chi sale in barca con te?
Oltre a quelli che vi ho già descritto, un esperimento fondamentale che fanno le persone in barca è quello di esplorare i limiti della propria visione di sé in relazione agli altri. In barca è necessario che l’equipaggio comunichi in tutti i modi, verbalmente e non. Ogni movimento e ogni manovra, in barca, devono essere corali. E in una situazione in cui dobbiamo essere corali, ovvero entrando in accoppiamento strutturale con gli altri, emergono tutti i nostri limiti ma anche le nostre possibilità. Potrebbe, ad esempio, emergere che una persona non sia predisposta all’ascolto, o che sia focalizzata su un compito ma non riesca a vedere gli altri, può emergere la sua ostilità e il suo tentativo di imporsi in tutti i modi sugli altri, o può non essere disposta ad assumersi la responsabilità di svolgere o delegare un compito. Oppure, al contrario, potrebbero emergere aspetti positivi, come la sua capacità di avere uno sguardo a centottanta gradi, di stare in ascolto o di chiedere aiuto. A seconda di tutte queste difficoltà, pregi o risorse, si possono fare esercizi diversi e, quindi, fare esperimenti diversi. Per cui, ad esempio, una persona che ha molta difficoltà a chiedere aiuto (tematica che emerge frequentemente) scoprirebbe che, se non lo facesse, non sarebbe più forte e autonoma ma, al contrario, peggiorerebbe la situazione. Contemporaneamente, però, farebbe un’altra esperienza, ossia quella di chiedere aiuto, e la manovra assumerebbe non solo efficacia, ma anche armonia e bellezza. E l’armonia e la bellezza sono delle cose importanti: le sperimenti quando la barca si muove fluidamente, rapidamente, riprende velocità, la senti con il corpo, e senti che funziona, ed è qualcosa che percepisci immediatamente. Senti che funziona anche perché stai chiedendo aiuto e ti stai facendo ascoltare, è questo che solitamente la gente tende a portarsi anche a terra. Quindi, sì, viene fuori tanto materiale interessante da queste esperienze.
Probabilmente in queste situazioni emergerà anche il modo in cui la persona gestisce le critiche.
Assolutamente sì, davanti alle critiche c’è chi si chiude e c’è chi si apre. Ma dal momento che i risultati sono immediati e sono fisici, si può riflettere e si può immediatamente fare qualcosa di diverso. E, nel farlo, il risultato è immediato ed evidente. Funziona. Noi siamo portati a cambiare quando le cose funzionano, non quando non funzionano, quindi dobbiamo fare esperienza di validazione. La barca permette una rapida invalidazione tanto quanto una rapida validazione e, dunque, fondamentalmente ha estrema utilità da questo punto di vista. Tu salpi con un gruppo, e rientri al porto con un gruppo già diverso. Poi c’è chi è tanto bravo da portarsi a casa queste perturbazioni, e c’è chi invece le circoscrive all’esperienza in barca a vela.
Immaginiamo che questi momenti siano molto perturbanti anche per te.
Sono onesto quando dico che i primi anni sono stati più perturbanti degli ultimi. Per me è tutt’ora perturbante il senso del viaggio, nel senso che mi emoziono ancora in barca, ma forse sono molto più pacato e tranquillo, e anticipo meglio quando faccio formazione in barca. Posso dire di essere aperto a cogliere ciò che è perturbante per gli altri. Navigare in barca, però, è sempre meraviglioso: salpare senza sapere dove andare è un senso di libertà entro vincoli enorme. I vincoli sono la tua barca e tutto ciò che non controlli. Poi, se ci pensate, si è in un ambiente piuttosto piccolo, con varie persone… infatti, si dice tradizionalmente che in barca si rompono o si stringono grandi amicizie! Ovviamente, se c’è un occhio professionale, da questo punto di vista, i rischi si riducono, o meglio, i vantaggi aumentano.
Ci incuriosiva farti un’ultima domanda. Kelly ci ricorda di “sfidare e andare oltre l’ovvio” per superare i nostri limiti, evolvere e crescere. Su due piedi, quali certezze dovrebbero essere lasciate a casa quando si sale in barca e si va per mare?
Dipende come ci vai e a fare cosa. Ma vi direi che l’unica certezza, anzi, l’unica illusione che va lasciata a casa è quella della certezza. Non c’è certezza in mare. Potrei aggiungere, pescando un po’ nei miei ricordi, che per me il mare, e la navigazione a vela in particolare, sono stati un grande insegnamento. Credo che la stessa cosa valga per molte esperienze fatte in maniera immersiva nella natura. Il mare ti insegna quanto sei piccolo. Dopo navigazioni di alcuni giorni, magari in condizioni estreme, molti problemi che avevo a terra mi sono sembrati insignificanti. Personalmente mi ha insegnato un’altra cosa, che ha a che fare col governo e col controllo: non ho imparato solamente che io non ho il controllo, ma anche ad accettare nell’imponderabile ciò che si nasconde di ineluttabile. Mi è capitato di navigare con un mare molto mosso, in condizioni estreme, nelle quali ho pensato che avrei potuto morire. Quando vedi all’orizzonte una tromba marina, sai che è inutile sfuggirle. Avete presente Samarcanda, la canzone di Vecchioni? Il soldato vede la morte e fugge proprio verso il luogo in cui la morte lo stava aspettando. A me è capitato di pensare: “non posso farci proprio nulla, e sapete che c’è? Fumiamoci una sigaretta”. Quindi sono arrivato ad accettare anche ciò che nell’imponderabile si nasconde di ineluttabile, e vi assicuro che lo si può affrontare anche con una certa serenità. Questo è stato un grande insegnamento nella mia vita. Posso dire che andare per mare mi ha insegnato ad avere meno paura.
Ed è stato automatico per te portare poi a casa, e quindi nella vita di tutti i giorni, queste perturbazioni?
Non so se userei il termine “automatico”. Probabilmente non è sempre stato un click, forse in alcuni casi sì, in altri invece è stato un accumulo di “evidenze”; però, certamente, molta di questa consapevolezza l’ho portata a casa. Specifico, in realtà, rispetto alla paura dell’ineluttabile nell’imprevedibile, che forse questa cosa vale più per me e non l’ho imparata abbastanza per i miei cari: sono molto meno spaventato di ciò che può succedere a me rispetto a ciò che può capitare ai miei cari.
Dicevi che la barca ti ha insegnato ad avere meno paura e ad allentare i tentativi di controllo?
Mi ha insegnato ad esercitare governo, e a non tentare di esercitare controllo.
Ti va di dirci qualcosa in più su questo aspetto del controllo?
Per un/una terapeuta in formazione può essere inevitabile all’inizio cercare di controllare, ma più si cercherà di avere controllo sulla relazione e più essa sfuggirà. La stessa cosa succede in barca a vela. Quando cominci, invece, a cercare un contatto e ad entrare in accoppiamento strutturale, dinamico, attivo, momento per momento, ecco quello non è più controllo, è governo. Tu non hai il controllo quasi su nulla. Certo, puoi avere il controllo della barca, ma non del mare, né di tutte le condizioni metereologiche. Puoi avere il controllo delle tue competenze teoriche, puoi essere consapevole di ciò che metti in una relazione in termini di autoriflessività, ma non avrai mai il controllo di ciò che passa per la testa dell’altra persona, semplicemente perché non dipende da te. Se sei in comunicazione con lei, però, il vostro modo di stare in relazione sarà significativo, e da qualche parte vi condurrà. Devi conoscere, così come conosci momento per momento il mare. Ecco un’altra cosa del mare: il mare non lo conosci mai del tutto. Il mare è sempre uguale, ma sempre diverso.
Intendi dire che c’è qualcosa che puoi anticipare sull’esperienza, come ci dicevi prima, ma non del tutto?
Io ho il controllo sulla tua mente in questo momento?
No.
Allora la tua mente è come il mare.
Grazie per il tempo che ci hai dedicato.
Note sulle autrici
Miriam Martinello
Institute of Constructivist Psychology
martinellomiriam@gmail.com
Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata in Psicologia clinico-dinamica presso l’Università di Padova, con una tesi sulla schizofrenia, portando due casi clinici molto diversi tra loro per sottolineare l’unicità di “ogni” schizofrenia. Dopo esperienze di lavoro e volontariato all’estero in scuole elementari, orfanotrofi e ospedali, lavora come educatrice in una comunità per minori e in una scuola d’infanzia.
Giulia Piovan
Institute of Constructivist Psychology
giuliapiovan9@gmail.com
Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata in Psicologia clinico-dinamica a Padova, dedicando la sua tesi alla violenza di genere e al ruolo cruciale dei Centri antiviolenza nel prevenire e contrastare tale fenomeno. Ha lavorato per anni come educatrice per bambinə e adolescentə, ora si occupa di pratica clinica e di consulenze psico-sociali orientate all’inclusività.
Francesca Pistonesi
Institute of Constructivist Psychology
francesca.pistonesi@gmail.com
Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata in Neuroscienze e Riabilitazione Neuropsicologica a Padova, dedicando la tesi alla diagnosi cognitiva differenziale tra malattia di Parkinson e demenza a corpi di Lewy. Collabora con la Clinica Neurologica dell’Azienda Ospedaliera di Padova occupandosi di valutazioni neuropsicologiche e di ricerca nell’ambito dei disturbi del movimento.
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