Nel 1972 Kerr, Wyllie e Currie pubblicarono sul British Journal of Cancer, un articolo dal titolo “Apoptosis: A basic biological phenomenon with wide ranging implications in tissue kinetics”.
Se la parola apoptosi, fino a quel momento, era usata per indicare “la caduta dei petali dei fiori” (www.unaparolaalgiorno.it), i tre ricercatori la usarono per indicare un meccanismo naturale di eliminazione cellulare utile alla crescita del sistema. Che ci fosse un equilibrio fra morte e riproduzione cellulare non era una novità, ma la scoperta fu che non si tratta di un processo casuale, bensì di “un fenomeno attivo, programmato su base innata” (Kerr et al., 1972), che quindi esiste nella misura in cui fa parte delle possibilità insite nel sistema cellula: la cellula nasce con le informazioni per la propria scelta di duplicazione? Così nasce con quelle utili alla propria scelta di eliminazione.
Forzando la metafora, potremmo dire che le cellule singole sacrificano la propria vita per la salute e la crescita dell’organismo che compongono. Ma pensiamoci: come possono le cellule sacrificarsi? Il sacrificio è una proprietà dell’occhio umano e (per quanto ci è dato sapere) non ha nulla a che vedere con i processi biologici di base. Parafrasando Heinz von Foerster: le cellule fanno le cellule.
Questo è uno dei principi che von Foerster introduce parlando dei neuroni, nell’ultimo capitolo di “Sistemi che osservano” (1987) ed è un principio che richiama fortemente l’idea di autopoiesi di Humberto Maturana e Francisco Varela, idea che venne esposta per la prima volta proprio nel 1972, idea secondo la quale ogni cellula fa quello che le è concesso dai limiti della propria organizzazione: cambia nella misura in cui può, si riproduce nella misura in cui può e, riprendendo l’apoptosi, si elimina nella misura in cui può. Chissà se Kerr, Wyllie e Currie avevano letto Maturana e Varela. Chissà se Maturana e Varela avevano letto Kerr, Wyllie e Currie.
Di certo, Maturana e Varela erano stati letti da von Foerster che, quando parla di autopoiesi, oltre a ridefinirla nel proprio linguaggio – “l’autopoiesi è quell’organizzazione che computa la propria organizzazione” (1987, p. 201) – si augura che Varela possa approfondirla, perché solo lui e Maturana sono titolati a spulciarne le sfaccettature.
Purtroppo, né Varela né Maturana sono ancora oggi interrogabili. Per fortuna, scrissero.
Cosa vuol dire che scrissero?
Indossiamo i loro occhiali. Vuol dire che hanno prodotto dei segni che i sistemi di molti possono fare propri, viverli come perturbazioni, oppure no. Per alcuni, i testi di Maturana e Varela possono essere poco più che accròcchi di lettere stampate su fogli rilegati; per altri, delle sberle dopo le quali “il mondo è un luogo diverso” (Maturana & Varela, 1980/1985, p. 140).
Mi piacerebbe dire di appartenere solo alla seconda categoria, ma non posso negare di essere passato anche dall’altra.
Quando mi approcciai per la prima volta a un loro testo – “L’albero della conoscenza” (Maturana e Varela, 1984/1987) – mi sentii dentro una relazione impossibile. Se le interazioni comunicative sono fonti “di deformazioni comprensibili” (Maturana & Varela, 1972/1992, p. 82), a me sembravano tutt’al più intuibili.
Forse per questo non immaginai quanto le implicazioni di quel pensiero si sarebbero ripresentate nel lavoro clinico. Su tutte, la responsabilità della propria presenza nell’incontro con l’altro, che impone la transitorietà delle ipotesi, apre allo stupore della scoperta, rifugge l’ovvio, nella consapevolezza che è la reciproca finitezza a rendere possibile l’incontro stesso.
Evidentemente, mi dico oggi, quella prima esperienza fu una perturbazione più profonda di quello che avevo percepito. Una perturbazione che mi porta oggi a riscoprire il lavoro dei due biologi sudamericani nella coincidenza della morte di Maturana e della lettura dell’articolo sull’apoptosi.
Cosa è cambiato da quel primo incontro? La mia vita come clinico? Le relazioni fra i miei neuroni? Il mio rapporto con la lettura? Il mio rapporto con il caos delle cose fuori da me, quindi la mia disponibilità a ridiscutermi?
Considero ognuna di queste ipotesi, anche incrociandole, perché ogni ipotesi e ogni incrocio costituisce una storia dei cambiamenti vissuti dal mio sistema, cambiamenti attraverso i quali arrivo a sedermi a un tavolo, aprire un esile volume giallo – “giallo busta postale” (www.lastampa.it) distintivo dell’editore Astrolabio – e, prima di aprirlo, accarezzarne il titolo, come se il tatto avesse un valore nell’esperienza di lettura, come se esistesse su quella copertina un braille-non-braille che i miei polpastrelli possono sentire, come se dovessi togliere della polvere che non vedo, come se volessi fare un gesto rituale che dia inizio all’esperienza, come se mi stessi riappacificando con qualcuno che sapevo sarebbe tornato sulla mia strada, come se volessi imprimermi bene le parole: “Macchine ed esseri viventi. L’autopoiesi e l’organizzazione biologica” (Maturana & Varela, 1972/1992).
Uscì in originale nel 1972, in Italia nel 1992, ed è il primo volume nel quale Humberto Maturana e Francisco Varela espongono al mondo la loro teoria dell’autopoiesi.
Iniziano smontando il pregiudizio che si ha di fronte alla parola “macchine”, ovvero che queste siano legate a una finalità:
una macchina autopoietica è una macchina organizzata come un sistema chiuso di processi di produzione di componenti; tali processi sono collegati tra loro in modo da produrre dei componenti che, a loro volta: 1. generano processi (relazioni) di produzione che li producono mediante le loro continue interazioni e trasformazioni e 2. costituiscono la macchina come un’unità nello spazio fisico. (ibidem, p. 31)
Già da queste righe è possibile intuire lo stile puntuale con cui i due raccontano la loro teoria, come se (inferenza mia) ne comprendessero la portata rivoluzionaria e, temendone l’incomprensione, cercassero la maggiore chiarezza possibile.
Proviamo allora a pensare a questa portata rivoluzionaria.
Se iniziamo a considerare gli esseri viventi come macchine autopoietiche – “la nozione di autopoiesi è necessaria e sufficiente per caratterizzare l’organizzazione dei sistemi viventi” (ibidem, p. 36) – possiamo ridefinire tutta una serie di a-priori sui quali costruiamo i nostri sguardi.
Decade l’idea di poter causare qualcosa dentro qualcun altro, in favore dell’idea per la quale ogni essere vivente può fare quello che l’organizzazione del proprio sistema gli permette di fare e questo qualcosa può essere processato in termini perturbativi da un altro sistema, nella cui autopoiesi si potranno creare delle modificazioni. È l’osservatore – sia esso esterno, sia esso uno dei sistemi in gioco che vuole ordinare i processi che vive – che legge in questo processo un legame deterministico lineare, che, per lo stesso principio, appartiene all’autopoiesi dell’osservatore stesso.
Questo, come svilupperanno in “Autopoiesi e cognizione” (Maturana & Varela, 1980/1985), implica che l’apprendimento smetta di essere accumulazione, ma “un continuo processo di trasformazione del comportamento attraverso il continuo cambiamento nella capacità del sistema di sintetizzarlo” (ibidem, p. 112).
Implica inoltre che lo sviluppo individuale e l’evoluzione non siano processi migliorativi: l’ontogenesi – “processo di sviluppo di un organismo” (www.treccani.it) – si ridefinisce in una storia di cambiamenti, per cui bambino e adulto sono due condizioni nel contesto storico di un sistema chiuso che mira a mantenere la propria autopoiesi (Maturana & Varela, 1972/1992, p. 38-41); la filogenesi – “Storia evolutiva di un gruppo di organismi alla luce delle loro relazioni reciproche di discendenza e di affinità” (www.treccani.it) – è un percorso di perturbazioni e cambiamenti raccontabili, focalizzate al mantenimento dell’organizzazione del sistema vivente (Maturana & Varela, 1972/1992, p. 60-66).
Ma quale sistema?
Questo è un altro punto a cui i due autori fanno particolare attenzione, ovvero la possibilità di salire di ordine quando si parla di sistemi autopoietici. Se la cellula è un sistema autopoietico, allora il corpo umano è un sistema autopoietico di ordine superiore? E se il singolo umano è una macchina autopoietica, la coppia può essere un sistema autopoietico? E la società?
Premesso che questi temi entreranno molto nei loro lavori successivi[1], è interessante che, già in “Macchine ed esseri viventi”, i due si spendano per chiarire al massimo i criteri necessari per definire un sistema come autopoietico: l’omeostasi, l’autonomia, l’individualità, l’assenza di input e output, la definizione sulla base dell’organizzazione, ovvero sulla base non delle caratteristiche degli elementi che compongono il sistema ma delle relazioni fra questi elementi (Maturana & Varela, 1972/1992, p. 33-34).
Questa attenzione ci restituisce, dal mio punto di vista, non solo la sensibilità sociale dei due autori[2], ma anche un aspetto solo apparentemente paradossale: la teoria dell’autopoiesi, ovvero la teoria dei sistemi viventi che si autocreano – “autos ‘da sé’ poiesis ‘creazione’” (www.unaparolaalgiorno.it), tanto che nel testo si parla proprio di “autoriproduzione” (Maturana & Varela, 1972/1992, p. 57-60) -, si rivela una teoria incentrata sulla relazione: la relazione come specificatrice dell’organizzazione delle macchine autopoietiche, la relazione come occhio di un sistema su se stesso, la relazione come interazione fra esseri viventi, la relazione come possibilità di contatto perturbativa fra lettura e scrittura, la relazione come responsabilità dell’esistenza vincolata all’unità, la relazione come modo per vivere, dove vivere e scegliere, fosse anche scegliere di morire, come fanno le cellule con l’apoptosi, diventano sinonimi indistricabili.
Bibliografia
Foerster, H. v. (1987). Sistemi che osservano. M. Ceruti & U. Telfener (Eds.). Roma: Astrolabio-Ubaldini Editore.
Kerr, J. F., Wyllie, A. H., & Currie, A. R. (1972). Apoptosis: a basic biological phenomenon with wide ranging implications in tissue kinetics. British Journal of Cancer, 26 (4), 239-257. https://doi.org/10.1038/bjc.1972.33
Maturana, H. R., & Varela, F. J. (1985). Autopoiesi e cognizione: La realizzazione del vivente. (A. Stragapede, Trad.). Venezia: Marsilio. (Opera originale pubblicata 1980).
Maturana, H. R., & Varela, F. J. (1987). L’albero della conoscenza: Un nuovo meccanismo per spiegare le radici biologiche della conoscenza umana. (G. Melone, Trad.). Milano: Garzanti. (Opera originale pubblicata 1984).
Maturana, H. R., & Varela, F. J. (1992). Macchine ed esseri viventi: L’autopoiesi e l’organizzazione biologica. (A. Orellana, Trad.). Roma: Astrolabio-Ubaldini Editore (Opera originale pubblicata 1972).
Sitografia
www.lastampa.it/tuttolibri/recensioni/2016/01/01/news/un-color-giallo-busta-postale-per-intrecciare-inizio-e-fine-1.37630633
www.treccani.it/enciclopedia/tag/filogenesi/
www.treccani.it/vocabolario/ontogenesi/
www.unaparolaalgiorno.it/significato/apoptosi
www.unaparolaalgiorno.it/significato/autopoiesi
Nota sull’autore
Alessandro Busi
Institute of Constructivist Psychology
alessandrobusi.ab@gmail.com
Alessandro Busi è psicologo-psicoterapeuta e scrittore. Si occupa di psicoterapia e formazione con gruppi di adulti e adolescenti, con particolare attenzione ai temi della costruzione di sé nelle nuove tecnologie.
Note:
- Ne “L’albero della conoscenza” (Maturana & Varela, 1984/1987), per esempio, parleranno di deriva ontogenetica, di accoppiamento strutturale. ↑
- In “Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente” (Maturana & Varela, 1980/1985) dedicheranno alcune pagine alle implicazioni sociali ed etiche dell’autopoiesi che, soprattutto secondo Maturana, dovrebbero condurre verso un sistema di stampo comunitario-libertario. ↑
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