“Ci sono infiniti lavori che non sono quelli del potere e del successo. Io considero questi come i valori più bassi per i quali noi possiamo agire e disporre delle nostre capacità.
Insomma, si perde di vista ciò che è importante nella vita: la curiosità, la creatività, la compassione, la simpatia per il prossimo, per me sono molto più importanti che il successo”
Rita Levi-Montalcini[1]
Spesso mi trovo a domandarmi quale possa essere il compito di noi psicoterapeuti impegnati nell’ambito della marginalità e credo che un utile punto di partenza sia una riflessione sul mandato sociale che ci viene riconosciuto in tale contesto. Nella mia esperienza, sino a qui, prevale l’opinione comune che lavorare con e nella marginalità abbia a che fare con l’assistenza ed il controllo. In altre parole, ho costruito l’idea che gli interventi siano prevalentemente orientati alla riduzione del danno, ovvero al minimizzare l’impatto delle problematiche e/o patologie e ad evitare l’insorgenza di nuove. Accanto a questo ho anche l’impressione che ci si aspetti dalla marginalità che guarisca, che non crei disordini sociali e che non disturbi, appunto, la non-marginalità. La fantomatica guarigione dovrebbe avvenire tramite il sostegno e gli interventi dei non-marginali, che si suppone abbiano gli strumenti conoscitivi e operativi adeguati. Tuttavia, la realtà dei fatti è che sempre più spesso siamo di fronte al fallimento dell’idea di guarigione come totale sparizione dei sintomi patologici e reinserimento nel tessuto sociale, ed un conseguente spostamento verso obiettivi di “cronicità”, che implicano un mantenimento in vita ed una limitazione dei sintomi patologici. Generalmente gli interventi coinvolgono poco i marginali, che piuttosto vengono costruiti come passivi soggetti fruitori dell’intervento stesso e, in quanto tali, non attivi interlocutori nel processo di cura. Quanto detto potrebbe tuttavia condurci verso un atteggiamento di rinuncia frustrante ai principi di re-integrazione e recupero, fondanti la società moderna. Per tentare di uscire da questa visione poco incoraggiante, potremmo fare ricorso ad alcune visioni e considerazioni alternative. A tal proposito, poco tempo fa, a riaccendere la mia speranza sono state queste parole di bell hooks[2]: “La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza. Un luogo capace di offrirci la condizione di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi. Non si tratta di una nozione mistica di marginalità. È frutto di esperienze vissute.”[3] Dunque, un utile starting point potrebbe essere domandarci cosa succederebbe se iniziassimo a vedere nei marginali non una popolazione sfortunata da rieducare, bensì un gruppo di persone che adottano stratagemmi creativi per vivere e sopravvivere, e per creativi intendo comunque efficaci – anche se non convenzionali. Da questa visione potrebbe derivare un atteggiamento meno improntato sull’assistenzialismo che prevede un’asimmetria tra curante e curato, virando verso una concezione della relazione terapeutica fondata sulla parità, dove i soggetti coinvolti prima che essere utenti e professionisti sono persone con visioni del mondo e strategie di sopravvivenza diverse. Cosa accadrebbe se vedessimo nei deboli, negli emarginati, nei diversi, non solo una minoranza svantaggiata nei termini di risorse, bensì un manipolo di altrettanto coraggiosi e impegnati esseri umani, e se, spingendoci più in là, li guardassimo con curiosità? Sicuramente questa prospettiva ci inviterebbe ad uscire da una dimensione di giudizio tra giusto e sbagliato, sano e malato, che genera spesso posizioni conflittuali e necessità di repressione e controllo[4]. Azzardo ancora, suggerendo di aggiungere al nostro sguardo un pizzico di gentilezza così come la definisce Gianrico Carofiglio: “La gentilezza, la cedevolezza, la non durezza è dunque una sofisticata virtù marziale. È una tecnica, ma anche un’ideologia per la pratica e la gestione del conflitto. […] La pratica della gentilezza non significa sottrarsi al conflitto. Al contrario, significa accettarlo, ricondurlo a regole. Renderlo un mezzo di possibile progresso e non un evento di distruzione.”[5] Questo atteggiamento, che nasce dall’accettazione attiva dell’incertezza e della complessità del mondo, costituirebbe per Carofiglio la base per un agire collettivo laico e tollerante. La gentilezza, in questo senso, non è una buona maniera, ma un modello relazionale che accetta le diversità ed il conflitto, praticandoli secondo regole stabilite e condivise, ma con audacia. Tale prospettiva, che possiamo definire costruttiva e non distruttiva, implica porsi delle domande sul senso del nostro agire per non trovarsi imbrigliati in luoghi comuni e pratiche considerate utili solo in quanto condivise. Questo riapre la partita per noi terapeuti nella marginalità e dunque anche nuove possibilità di movimento, ma ad una condizione, ovvero quella di essere professionisti irriverenti[6], impegnati nello sforzo costante di sfidare i modelli che fondano le istituzioni, le relazioni personali e la nostra mente di psicoterapeuti. Humberto Maturana, in un’intervista rilasciata poco prima della sua scomparsa, riassume magistralmente quanto detto sino a qui: “Siamo un’unità biologico-culturale come umanità, e potremo uscire dalla crisi che stiamo vivendo solo non competendo ma collaborando, correggendo i nostri errori nel rispetto reciproco, agendo in un progetto comune”. A lui abbiamo dedicato questo numero della Rivista, faro e meta per molti di noi, pilastro fondante del nostro agire clinico e delle nostre riflessioni epistemologiche, pensatore unico ed intramontabile. Professionista ed essere umano che magistralmente ci ha raccontato come tutti gli esseri viventi siano interconnessi in un necessario accoppiamento strutturale con ciò che ci circonda, in una relazione con ciò che è esterno da noi, che ci può mantenere in vita o meno, non in una logica di causalità deterministica, bensì in un’ottica di limiti e possibilità, ambiente esterno che ci offre dunque l’opportunità di autorganizzarci in una logica autopoietica.
Concludo, prima di augurarvi una buona lettura, con una riflessione aperta: può l’agire di un clinico prescindere dalla responsabilità che ci lega tutti come esseri viventi? E cosa significa praticare tale responsabilità?
Bibliografia
bell, h. (2020). Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà. Milano: Meltemi.
Carofiglio, G. (2020). Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose. Milano: Feltrinelli.
Cecchin, G., Gerry, L., & Wendel, A. R. (2016). Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i terapeuti. Milano: Franco Angeli.
Sitografia
- Tratto da un’intervista disponibile su RSI Archivio RAI. ↑
- bell hocks è lo pseudonimo di Gloria Jean Watkins (1951-2021), una scrittrice, attivista e femminista statunitense. Lo pseudonimo va scritto, secondo la scrittrice, in minuscolo. ↑
- Lo stralcio di testo è preso dall’introduzione di Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, 2020, Meltemi, Milano. ↑
- A tal riguardo, per esempio, a Padova nel 2006, per ragioni di ordine pubblico, venne costruito il muro attorno alle abitazioni di via Anelli, luogo spesso associato a spaccio e marginalità. ↑
- Gianrico Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio. Breviario di politica e altre cose, 2020, Feltrinelli, Milano, pp. 15-16. ↑
- Sull’irriverenza come tecnica terapeutica si rimanda al testo di Gianfranco Cecchin, Gerry Lane & Wendel A. R., Irriverenza. Una strategia di sopravvivenza per i terapeuti, 2016, Franco Angeli, Milano. ↑