- Introduzione
Peter è stato un paziente che mi ha fatto pensare, e in questo articolo voglio riflettere su alcune questioni: la più importante, dal punto di vista teorico e terapeutico, è il formarsi del suo senso di identità, alla luce della sua storia personale e delle sue relazioni attuali e significative. Che ruolo avevano avuto le innumerevoli diagnosi psichiatriche che gli erano state date nel corso della sua vita, sin dalla prima infanzia? Oltre a renderlo una persona con un disturbo, gli erano servite come cornice, come contenitore per il suo fragile sé?
Ho fatto uno sforzo per comprendere i sottili strati, le sfumature del suo comportamento in terapia, e per avere un miglior quadro di ciò che stava accadendo nel nostro lavoro assieme. L’analisi della nostra relazione mi ha dato le basi per capire questo giovane uomo che manifestava una patologia, ma che, al tempo stesso, nei suoi momenti buoni, aveva successo in diverse cose.
C’era una linea sottile tra normalità e patologia, e proverò a dimostrarla raccontando la storia di Peter. Chiaramente, ero interessato a capire cosa fosse successo in quel nostro incontro della durata di 3 mesi.
Una notte c’era una terribile tempesta con fulmini, tuoni, acqua a dirotto e vento ululante. All’improvviso qualcuno bussò alla porta del castello. Il vecchio re andò ad aprire e fuori vi trovò una giovane donna. Disse di essere una principessa che era stata colta dalla tempesta. Dio mio, come l’avevano ridotta la pioggia e il brutto tempo! Gocciolante di acqua dai capelli e dai vestiti, le entrava dalla punta delle scarpe e straripava fuori; eppure lei dichiarò di essere una vera principessa. «Questo lo vedremo!» pensò la vecchia regina.
(“La principessa sul pisello”, H. C. Andersen)
- Il principe senza mezzi
Peter era un uomo di 35 anni dalla Croazia, arrivato in terapia con la speranza di sconfiggere la depressione che l’aveva colpito dopo la rottura della relazione con una donna: si sentiva devastato per essere stato rifiutato. Non andò in terapia in quell’occasione, e uno psichiatra gli prescrisse degli antidepressivi dicendogli che gli sarebbero serviti anni di psicoterapia, se se la fosse potuta permettere.
Si presentava come una persona educata, con un buon eloquio, di bell’aspetto e spontaneo, con un buon senso dell’umorismo. Accettava qualsiasi cosa gli offrissi, come il caffè. Viveva di risparmi, che sarebbero presto finiti. Il suo problema era la mancanza di energia e l’incapacità di impegnarsi nel fare qualsiasi cosa. In quel periodo non aveva nessuna persona significativa a fianco, dal momento che non viveva in Croazia da anni.
La causa della sua depressione era la fine di una relazione con una donna. Questa gli aveva detto che avrebbe dovuto trovarsi un posto in cui vivere e un lavoro, altrimenti sarebbe finita. Quando ci incontrammo, non riusciva a pensare di far nulla. Sebbene, nel corso degli anni, avesse lavorato in diverse mansioni, in qualche modo, per una ragione o per un’altra, aveva lasciato il lavoro e continuato a vivere a spese della sua ragazza.
- Storia dello sviluppo
Peter era nato e cresciuto in Croazia, e più tardi aveva ottenuto la cittadinanza americana. Aveva viaggiato per tutto il mondo. La sua breve permanenza in Croazia era dovuta alla fine della sua relazione. I suoi genitori divorziarono, dopo una serie di litigi, quando aveva sette anni. Fino all’età di 18 anni dipese dalle cure materne, e affermava di ricordare a malapena il padre. La sua famiglia era costituita da suo nonno, sua madre e se stesso.
La madre era una donna estremamente energica e forte, che lo aveva ritirato da scuola a causa delle sue diagnosi psichiatriche. Il figlio “disabile” era la sua arma contro il padre, usata per ottenere la proprietà dell’appartamento in cui vivevano. Il rischio era concreto; avrebbero potuto perdere la casa in cui vivevano,
in quanto il padre aveva già mandato via la sua prima moglie e i loro due figli. Nel giro di alcuni anni a Peter era stata diagnosticata l’enuresi, l’encopresi, l’ADHD e la depressione. Mi disse anche di aver avuto terrori notturni, da bambino. Un tema ricorrente era un personaggio malvagio, IT, dai film tratti da Stephen King, anche se, all’epoca, diceva di non aver mai visto i film.
Per un periodo, sua madre lo portò in giro in una specie di carrozzina, affermando che non potesse camminare. Gli era concesso di camminare a casa, quando nessuno poteva vederlo. All’età di 11 anni gli lasciò prendere lezioni di ballo. Gli piaceva ancora ballare il tango, e affermava “sono il migliore”.
- I suoi innumerevoli ruoli
Da bambino, diceva di essere stato lo schiavo di sua madre. Puliva, cucinava e lavorava per guadagnare qualche soldo. Allo stesso tempo, viveva nel suo mondo immaginario (un eroe; potente). Un altro dei suoi ruoli era l’“abile, fantasioso manipolatore”. Come la madre, era bravo ad inventare e creare un suo mondo immaginario, ma non era un bugiardo, quella era la specialità di sua madre. Dall’età di 7 anni non aveva più frequentato la scuola, ma essendo abile e intelligente aveva passato tutti gli esami fino al college. Diceva che, raggiunti i 18 anni, fu finalmente libero, ma senza energia. Aveva iniziato a studiare, ma si sentiva completamente fuori luogo. Aveva avuto diverse relazioni sentimentali sempre finite male. Gli chiesi come succedeva. Si ripeteva lo stesso scenario; veniva rifiutato sentendosi impotente, inutile e disperato. “Ho questi momenti in cui vado su, mi sento entusiasta della vita, e poi precipito nel vuoto”.
- Diagnosi
Soffriva davvero di DBP? Secondo il DSM-IV, il primo criterio diagnostico del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è un “un pattern pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti”. IL DSM-IV-TR elenca 9 criteri aggiuntivi per la diagnosi, tra cui “umore disforico, spesso interrotto da periodi di rabbia, panico o disperazione che riflette un’estrema reattività a stress interpersonali” (DSM-IV-TR, 2004, pp. 706-708). Perché usare il DSM-IV? Possiamo farne a meno? Sì e no: per alcuni aspetti, i costruttivisti si posizionano come la “fedele opposizione” alle tendenze mainstream in psicologia: sono all’opposizione perché combattono gli aspetti della disciplina più de-umanizzanti, ma leali, perché generalmente lottano per rimanere all’interno del sistema, assicurando un servizio ai loro clienti, mantenendo un pubblico che possa ripagare i loro sforzi. A volte, ai terapeuti postmoderni può essere richiesto di essere “poliglotti”, ovvero di parlare un linguaggio che si adegui alle richieste del sistema sanitario, fornendo risultati misurabili ai piani alti. Inoltre, gli può essere richiesto di utilizzare una modalità di discorso concettualmente più ricco con i colleghi psicoterapeuti; e infine di usare un linguaggio più metaforico e personale con i clienti, dei quali cercano di cogliere il mondo di significati (Neimeyer & Raskin, 2000, pp. 9-10).
Una prospettiva pluralista è auspicabile. Il DSM-IV non dà strumenti o un piano per il trattamento psicoterapeutico, ma fornisce una buona e completa descrizione delle sindromi. Pertanto, il tema di questo articolo è presentato usando un concetto che è ben riconosciuto sia dai professionisti che dai profani, in continua elaborazione dalla prospettiva della PCP e del costruttivismo. Peter non possedeva le più invalidanti caratteristiche del DBP, come gli estremi eccessi di rabbia, l’impulsività potenzialmente autolesiva o il rischio di autolesionismo. Non aveva ricevuto trattamenti psichiatrici, tranne che per un contatto con un medico, né si era sottoposto ad una psicoterapia, fino ad ora.
- Una prospettiva PCP sul DBP
Winter e colleghi (2003) e White (2014) hanno proposto un set di caratteristiche come alternativa alla costruzione del DBP del DSM, concettualizzandolo da una prospettiva PCP. Questo senza dubbi apre uno spazio al lavoro terapeutico. Elencherò quelle caratteristiche che sono rilevanti per il caso qui in esame.
Per prima cosa, c’era il suo senso di vuoto come reazione emotiva ad una importante invalidazione. Il fallimento ad investire in qualsiasi cosa, per non parlare del trovarsi un lavoro, di cui aveva disperatamente bisogno. In termini kelliani, può essere descritto come il fallimento nell’essere aggressivo e completare un nuovo ciclo dell’esperienza. In ogni caso, questo non è il quadro completo, dal momento che abbiamo notato aree di aggressività abbastanza presto nella terapia. La sua disperata reazione emotiva al rifiuto indicava una dipendenza non distribuita, un percorso di dipendenza caratterizzato da minaccia (Chiari & Nuzzo, 2010, p. 129). Le sue relazioni attuali erano costruite negli stessi termini di quelle infantili, ovvero, con un problema di attaccamento insicuro. Considerata la sua storia infantile, è qualcosa che ci si potrebbe aspettare.
Quello che nel DSM-IV è descritto come “un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iper idealizzazione e svalutazione” in PCP viene visto come una “tendenza alla costruzione prelativa; cambiamento per contrasto; sovraordinazione di costrutti relativi alla valutazione di sé e degli altri; frammentazione e scarsa socialità” (White, 2014, pp. 30-1). Winter e colleghi (2003) suggeriscono che il valore di sé e degli altri, e del sé in relazione con gli altri, costituisca un focus importante rispetto a come le persone con DBP organizzano psicologicamente il loro mondo. Questi problemi sono stati elaborati in terapia.
Stojnov e Procter (2012, p. 12) lo accentuano ancora di più, citando l’affermazione di Kelly che “una persona è un intreccio di diverse dimensioni personali di costrutto, così come la personalità è la nostra astrazione dell’attività degli altri. Kelly ha reso l’alterità un prerequisito della nostra esistenza”. In realtà, “Kelly stava cercando di definire una teoria delle persone in relazione – che era chiaramente la ragione per cui aveva inizialmente chiamato la teoria dei costrutti personali una teoria del ruolo” (ibidem). Stojnov e Procter hanno elaborato ulteriormente l’idea del sé distribuito, proponendo tecniche che aiutano ad esaminare il sé relazionale.
La stima che Peter aveva di sé era estremamente frantumata, a causa del suo sé frammentato. Quando era giù si sentiva inutile, incapace di muoversi in nessuna direzione; gli altri non esistevano. Operava una massiccia costrizione a favore della protezione del sé. Indubbiamente, un consolidato senso di auto-consapevolezza è una precondizione essenziale alla capacità di regolare e\o controllare le emozioni. Appare ovvio che l’incoerenza in quest’area guidi a interazioni problematiche nelle relazioni con gli altri significativi. Che dire della sua valutazione degli altri? Costrutti lassi e un’incapacità ad anticipare lo facevano ritirare dalle relazioni. Le sue anticipazioni erano in gran parte raggruppate attorno alla dicotomia io buono – io cattivo, vista attraverso relazioni di ruolo come me accettato – me rifiutato. Gli chiesi come mai i suoi buoni rapporti, nelle sue storie con le donne, dopo un periodo di tempo si deterioravano fino al punto di rottura. Come iniziavano a litigare? Riguardo a cosa? Come poteva essere che questo uomo gentile, ben educato, potesse diventare scortese e arrabbiato? Si tratta, come direbbero Leitner et al. (2000, p. 184), di un caso di oggettivazione dell’altro come opposto ad intimità? Erano forse il terrore e la possibile ferita, sperimentati nella sua infanzia, ad indurlo a trovare dei modi per ritirarsi da genuine relazioni di ruolo e dall’impegnarsi in relazioni interpersonali, e usare invece le persone per riempire gli spazi e il suo senso di vuoto? Il suo ritiro da una relazione di ruolo (se mai si fosse impegnato in una) potrebbe essere visto come una mossa auto-protettiva con lo scopo di mantenere l’integrità del sé nucleare. Abbiamo scoperto di più, riguardo a questo, nel corso della terapia. La frammentazione è chiaramente uno dei meccanismi principali all’opera. Secondo il corollario della frammentazione “una persona può impiegare di volta in volta una varietà di sottosistemi di costruzione che sono deduttivamente incompatibili gli uni con gli altri” (Kelly, 1955/1991, vol. 1, p. 58). Qui possiamo notare la frammentazione del sé come una risposta di sopravvivenza all’invalidazione e al trauma infantile. In terapia, lo abbiamo identificato come un bambino disperato – che si vedeva come il mio bambino arrabbiato, quasi autistico – versus sé che stanno bene. I due sistemi sono incompatibili e non hanno alcuna connessione l’uno con l’altro. Il bambino infelice non ha alcun contatto, nonché supporto, con il ragazzo capace che è in grado di trovare lavori e persuadere gli altri a soddisfare alcuni dei suoi bisogni. Ecco del materiale che è venuto fuori usando le tecniche PCP.
All’inizio della terapia, Peter si vedeva nei seguenti termini: “Chi sei?” “Non so chi sono – un’anima vuota”. “E se dovessi fare un disegno che ti rappresenta ora?” Il suo disegno consisteva in un piccolo cerchio scarabocchiato col blu, e uno grande rosa che conteneva il piccolo. “Questo cerchio interno rappresenta il mio bambino arrabbiato e spaventato. Il cerchio esterno sono io – come mi comporto nel mondo fuori. Non è il mio vero io; il mio vero io è quel bambino arrabbiato. Il bambino è quasi morto; è il fardello pesante di Peter. Un tempo era creativo, ora è stanco e sofferente. Di tanto in tanto appare pieno di energie, e dopo un po’ mi abbandona.” “Puoi provare a parlagli?” “Non vuole parlarmi… è seduto sulla sabbia. Lo vedo da dietro. Se si girasse, ho paura che potrei vedere la sua brutta faccia piena d’odio. Come un personaggio dei miei incubi da bambino”. “E il cerchio esterno?” “è solo una facciata, una maschera. È una sorta di manipolatore; il tizio gentile, capace, ma finto”.
Usando l’ABC (Tschudi, 1977) per il costrutto me vuoto, depresso – me normale, siamo arrivati a questo: quali potrebbero essere gli svantaggi di sentirsi vuoto e depresso? “Essere immobilizzato, incapace di muoversi o fare niente…” “E i vantaggi di sentirsi vuoto e depresso?” “Questo sono realmente io, qui sono in contatto con il vero me stesso. Sincero con me stesso”. “Quali sono i vantaggi di essere ‘normale’?” “Potrei sentirmi bene, ma non sarei il vero me”. “Svantaggi dell’essere ‘normale’?” “Come dicevo, non è il me reale. Nella media, noioso. Alla fine, le persone ‘normali’ vanno a finire male, come mio nonno, che era stato un ristoratore di successo, ma per anni non era uscito di casa – un’altra persona ‘disabile’ nella famiglia di mia madre!”. Come “schiavo di sua madre” era produttivo, e nel suo mondo privato era un bambino pieno di immaginazione. Una volta libero, tutta questa energia andò persa. “Significa che è rischioso essere libero, fare le cose per te stesso, piuttosto che essere parte del progetto di qualcun altro?” “No, il rischio è di essere nuovamente schiavizzato ora, nel mondo degli adulti. Le norme, le regole, le gerarchie… le competizioni. È spaventoso. Voglio rimanere libero”.
Per capire meglio questa persona ho dovuto prestare più attenzione al suo e al mio comportamento mentre lavoravamo assieme. Gli avevo espresso alcuni dubbi riguardo gli effetti della psicoterapia per il DBP, ma lui lo sapeva bene. Peter aveva letto in internet che, per il DBP, la psicoterapia funziona. Gli appuntamenti sarebbero dovuti durare un’ora e mezza, per due volte a settimana. Ci accordammo così. Era estremamente puntuale e gentile tutte le volte, ma i compiti che gli davo non venivano eseguiti, tranne che nei colloqui. Lavorava in terapia nel modo che gli si confaceva, tendendo ad ignorare i miei suggerimenti nelle sedute e al di fuori di esse. Quando si sentiva giù, era sincero con se stesso. “Perché non scrivere poesie, o solo scrivere, per dar spazio a questi livelli più profondi che mi sembrano il vero me?” “I bravi poeti parlano di disperazione, dei lati oscuri della loro personalità, condividendoli con il pubblico”. Lui scriveva; una delle sue storie era su Mark, il ragazzo a cui non piaceva dormire nel suo letto, cambiando letti tutta la vita. Non condivise interamente la storia con me, nonostante ebbi il privilegio di fargli da pubblico, per quel che durò. Alcuni aspetti dell’approccio narrativo sembravano utili, a quel punto. Durante i nostri incontri, ero io ad ascoltare le sue storie. Secondo diversi autori (Musicki, 2017), i due metodi, la PCP e l’approccio narrativo, possono amalgamarsi. La narrazione può essere vista come un principio organizzatore. “Nel tentativo di spiegarsi il mondo, le persone utilizzano i loro poteri immaginativi per creare significato, facendo collegamenti causali incastonati nelle storie che raccontano” (ibidem, 2017, p. 362). Le storie non sono solo spiegazioni; le persone vivono le loro storie. Per dirla come McLeod, “c’è un potere implicito nell’essere un autore, nell’avere una voce. Essere potenti richiede che gli altri ascoltino, sentano; siano influenzati da ciò che quella voce ha da dire” (McLeod, 1997, p. 93).
Qual era stato il ruolo del comprendere gli altri nella sua costruzione del sé? Si aggrappava alle sue relazioni intime, mentre ad un certo punto troncava alcuni rapporti con uomini, a causa del suo ritiro. “Pensi di capire poco il mondo delle persone adulte?” gli chiesi “No, capisco bene le persone, ma… non faccio niente con la mia buona comprensione”.
Aveva fatto terapia per anni, parlando con se stesso. “Borderline” era la sua spiegazione riguardo quello che gli stava accadendo. Osservando il suo comportamento nel lungo periodo, era più una persona evitante, e questo è emerso in terapia. C’era anche molto nei termini di comportamento ossessivo-compulsivo (più atteggiamento che comportamento). Il suo bisogno di base era di comprendere se stesso, i suoi alti e bassi, e poneva uno sforzo disperato nell’analizzarsi fin nei minimi dettagli. Questo gli costava più energia rispetto all’investimento negli altri, il che richiama un tratto di personalità narcisistico.
La sua resistenza al cambiamento era facilmente interpretabile come un legittimo tentativo di proteggere il suo nucleo. Come suggeriscono Winter e Procter (2013), i clinici non dovrebbero sfidare i costrutti nucleari troppo presto nella terapia, almeno non finché non si è stabilita una relazione terapeutica basata sulla fiducia. La resistenza al cambiamento risulta dagli sforzi di preservare le certezze. In alcune aree otteneva una sostanziale validazione del suo senso di sé. Si prendeva cura della sua condizione fisica… dieta, esercizio: “La bellezza è la mia unica risorsa”. “E gli altri ruoli?” “Uno di quelli è essere un buon casalingo, una persona che si prende cura dei soldi, della casa. Cosa c’è di male? Sono stato educato così, e lo faccio bene”.
C’era anche il Peter che corregge e insegna agli altri. Lo faceva da piccolo con la mamma. Se l’era data come parziale spiegazione dei suoi guai con la sua ragazza. La stava aiutando a capire le sue mancanze, i suoi problemi psicologici; il suo sé psicologicamente orientato al lavoro. Una volta che identificò questo ruolo come io maniaco del controllo, si aprì lo spazio per lavorare sul costrutto senza controllo – maniaco del controllo.
Riguardo il suo bisogno di guidarmi e controllarmi, una volta gli chiesi: “Mi sta trattando con accondiscendenza?” “No, dottore, la sto ascoltando attentamente (sorriso)”. Quando gli chiesi come si sentiva a parlarmi, mi disse: “Si sta bene nel suo studio, e lei è normale”. Doveva essere se stesso, indipendente e libero. Ma continuava a dimenticarsi cose quando se ne andava, un giorno lasciò anche lo zainetto nel mio ufficio. Si stava facendo coinvolgere nella terapia più di quello che avrebbe voluto ammettere. Mi aveva dato i dettagli più intimi di sé, ma allo stesso tempo teneva una sorta di distanza, dato che un più profondo attaccamento al terapeuta avrebbe potuto essere rischioso.
Alla fine dell’ultima seduta mi disse: “Vorrei darle un piccolo regalo, ma nel profondo non me la sento di farlo”. Non ci fu tempo di chiedergli di elaborare, ma rispettai la sua onestà.
La terapia si fermò lì, dato che stava lasciando il paese. La ragione della fine fu chiara; voleva tornare negli USA e fu felice di dirmi che era stato ripreso dalla sua ragazza. Era lui che stava chiudendo la storia, nei termini della terapia. Non voleva continuare su Skype, ma mi disse che gli sarebbe piaciuto rimanere in contatto con me telefonicamente.
“Quindi, l’ansia e la depressione si sono ridotti; e ora?” Alla fine facemmo un piccolo riassunto del nostro lavoro. La sua domanda riguardava la sua esperienza d’infanzia. “Come risolvo la mia esperienza infantile traumatica, e la paura dell’abbandono?”
La mia domanda principale riguardava il suo posizionamento e funzionamento sociale. Perché abbandonava persone e mollava un lavoro dopo l’altro? “Le persone sono deboli e non interessanti, o forti, e non mi vogliono”. Vedeva le persone come forti o deboli, e nella sua visione i forti non lo volevano, mentre i deboli non gli interessavano. Questa risposta sembrava ben al di sotto della sua capacità di vedere gli altri nella loro complessità; era la ripetizione di un vecchio schema.
Alla fine della terapia, disse di sentirsi soddisfatto. Aveva iniziato a raccogliere e leggere vecchie copie di una rivista per bambini (dai 7 ai 77). Mi sembrava che il suo bambino interiore stesse tornando in vita di nuovo. “Cosa lo manteneva nel ruolo di disoccupato che viveva a spese degli atri?” Il suo bisogno di rimanere libero… questo. Sospettavo anche che desiderasse in qualche modo rimanere speciale. Un bambino di cui ci si prende cura. E forse, questa vita è una ricompensa per essere stato per anni schiavo della madre.
In realtà egli negava tutte le precedenti diagnosi da DSM; erano un’invenzione di sua madre. Comunque, mi disse che, da bambino, una volta trattenne le feci per sei giorni, cosa di cui fu contento (controllo?) e finì per sporcare il letto. Non provò a trovare una spiegazione per l’encopresi in internet.
- Conclusione
Peter era stato un bambino emotivamente abusato, che aveva lottato con la modalità seduttiva materna, che lo vedeva “speciale” e lo rifiutava trattandolo come una “feccia”. Credo che fossero entrambi personalità forti, che lottavano per il dominio. Peter, in quanto bambino, era quello in svantaggio. Tuttavia, questa tenacia era stata la sua maggior forza per tutta la sua vita. Credo che abbia sofferto di enuresi ed encopresi da bambino. La domanda è: “Stava fingendo?” Che fosse il suo modo di soddisfare le aspettative ovvero il bisogno di sua madre di presentarlo come bambino disabile? Che fosse un bambino ipersensibile e fantasioso in grado di produrre sintomi psicopatologici? E, più avanti negli anni, di riproporre uno scenario nel quale si sentiva a suo agio?
Dopo che la terapia si concluse, mi chiamò per raccontarmi che aveva ricevuto due offerte di lavoro e stava valutando di accettarle. Un’offerta era per le sue ottime capacità comunicative, l’altra per le sue competenze manuali – ristrutturare una vecchia casa con una buona paga. Gli suggerii che, questa volta, poteva comportarsi da abile negoziatore.
Anche nella sua relazione sentimentale erano cambiate alcune cose. Sperava potesse migliorare, ma allo stesso tempo era pronto ad accettarne la fine. Si era reso conto che la sua compagna era una persona estremamente possessiva; voleva controllare ogni aspetto della sua vita, e si arrabbiava quando lui incontrava altre persone interessanti con cui socializzare. A questo punto, la relazione divenne meno importante, un vero miglioramento rispetto al periodo della sua grande crisi.
Come accennato prima, sono stata il suo pubblico; la sua voce era ascoltata in un’atmosfera accettante, non minacciante. Le difficoltà con il potere e il controllo erano state elaborate in un nuovo modo. Rimaneva aperta la questione se potesse riuscire a ricomporre i vari pezzi, senza rinunciare al suo prezioso vero sé, ma agendo con un senso di sé continuo. Questo implica anche il poter distribuire le sue dipendenze in una maniera più funzionale, con nuove persone nella sua vita, agendo come un adulto. A questo punto, la storia finisce qui. Qual era il verdetto della Vecchia Regina?
1. Non sembrava che Peter soffrisse di DBP: più probabilmente, era affetto da un qualche tipo di disturbo della persona o pattern, come direbbero Lingiardi e McWilliams (2017), parlando di dimensioni del disturbo. Le diverse categorie di disturbi della personalità sono “sempre più viste come problematiche, poiché le categorie dei disturbi di personalità sono altamente in comorbidità, e spesso si sovrappongono l’una con l’altra (e con gli altri disturbi mentali), con il risultato che molti pazienti soddisfano i criteri per diagnosi multiple” (Raskin, 2019, p. 386). Un nuovo modo di concettualizzare le categorie diagnostiche è suggerito anche nel DSM – 5, con l’idea di continuità, piuttosto che di dicotomia. Il modello alternativo (ma non ufficiale) dei disturbi di personalità proposto dal DSM – 5 (a volte chiamato modello ibrido o modello ibrido dei tratti) combina l’assessment dimensionale e quello categoriale nel diagnosticare disturbi di personalità (ibidem, 2019, p. 392). Richiede, tra le altre cose, la valutazione del livello di funzionamento della personalità del paziente, che spazia da ‘lieve o nessuna compromissione’ fino a ‘estrema compromissione’. Credo che Peter non si presentasse come una persona con un disturbo della sfera relazionale; fu solo quando ci avventurammo nei suoi innumerevoli fallimenti (in particolare nel funzionamento interpersonale ed occupazionale, e meno in quello sociale) che la compromissione divenne evidente. Sembra che a questo punto il disturbo evitante di personalità possa essere la descrizione più accurata del caso di Peter. Dopo che la terapia fu formalmente conclusa, Peter mi chiese per la prima volta “di cosa ho paura?”. Questo potrebbe costituire l’inizio di un nuovo ciclo per lui, con o senza la terapia.
2. Le sue numerose diagnosi erano il suo principio organizzatore. Il suo sviluppo personale era organizzato su diversi livelli; alcune delle sue identità erano funzionali, altre meno. Il suo “sé disabile” aveva una finalità; collaborava con gli sforzi di sua madre, aiutandola ad organizzare le loro vite attorno all’idea di “avere un figlio disabile”. Più tardi, trovò che la diagnosi di ‘borderline’ era una spiegazione per le sue pesanti reazioni all’abbandono. A qualche livello, Peter stava giocando con l’idea di avere un disturbo; come se “fosse solo finzione, un interpretare un ruolo”.
3. La sua resistenza al cambiamento era evidente. Questo è prevedibile nelle persone con un particolare tipo di personalità o disturbo. Una volta sentitosi meglio (“ora sono soddisfatto”) voleva andare avanti con la sua vita; non sentiva il bisogno di continuare con la psicoterapia.
4. La relazione col terapeuta era ambivalente. Continuava a dimenticarsi cose nel mio studio, pur cercando di evitare a tutti i costi di diventare dipendente da me. La relazione, credo, non poteva essere migliore; c’era rispetto reciproco, ma il suo “sé egoista” era tipico di una sua vecchia modalità. È questo il modo in cui interpretai il suo “non voler darmi un regalo”. Fu un problema di relazione di ruolo o intimità. Era affamato di attenzioni e amore (qualsiasi cosa significasse) ma non era pronto a dare qualcosa in cambio. Non c’è stato abbastanza spazio per elaborare questo punto.
5. Questa terapia non è la storia di un successo, quanto la storia di un incontro inusuale. All’inizio la terapeuta era un’ascoltatrice. Più tardi, dopo che il bisogno di Peter di avere controllo sul processo fu riconosciuto, il suo sé controllante divenne il principale argomento dei nostri scambi. Questo lo fece sentire meglio riguardo la sua relazione con la compagna, comprendendo il suo ruolo, e infine dandole lo spazio di andarsene (e lasciarlo libero).
6. Siamo ancora in contatto. Le novità sono che si è trasferito in un appartamento da solo, e ha accettato il lavoro ben pagato, anche se non fisso. Si sente comunque sempre stanco e sofferente, ma non ha abbastanza soldi per vedere uno specialista. Psicosomatica? Come da tradizione PCP (tollerando l’incertezza), mi sento libero/a di ammettere che non lo so.
Bibliografia
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Note sull’autore
Nada Dimčović
The Serbian Union of Associations for Psychotherapy, Belgrade, Serbia
Background formativo: Diploma di psicologo, MA, PhD, psicologa clinica e dell’educazione presso l’Università di Belgrado, Facoltà di Filosofia, Dipartimento di Psicologia. Nel 2000 ha completato la specializzazione in psicoterapia al Centre for Personal Construct Psychotherapy a Londra, UK. Esperienza lavorativa: psicologa clinica nell’Ospedale Psichiatrico di Kovin (vicino Belgrado); psicologa clinica nel servizio ambulatoriale specialistico per bambini e adolescenti a Belgrado; psicologa nella Scuola Elementare di Belgrado per la protezione della vista; psicologa presso il Barnet, Enfield and Haringey Mental Health NHS Truss, Londra, UK. Attualmente lavora come psicoterapeuta privatamente a Belgrado, in Serbia.
Note
- Ringraziamo gli editori della rivista Personal Construct Theory & Practice e l’autrice per aver gentilmente concesso la traduzione dell’articolo. L’originale è disponibile al link: http://www.pcp-net.org/journal/pctp19/dimcovic19.pdf. Dimčović, N. (2019). On construing a disorder: an unusual case of borderline. Personal Construct Theory & Practice, 16, 64-71 ↑
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