“Einstein allora fornì una nuova spiegazione in termini di raggi luminosi, di treni che portano orologi e di osservatori disseminati qua e là; alla fine l’interlocutore sorrise soddisfatto, dichiarando che questa volta aveva capito perfettamente. Il padre della teoria della relatività si disse molto lieto di aver elaborato una spiegazione comprensibile: purtroppo quello che aveva spiegato in quei termini non era più il concetto di relatività”.
(Orellana, A. nella prefazione a Maturana & Varela, 1992)
Flatlandia è un mondo in due dimensioni, abitato da poligoni che per distinguersi fra loro devono intuirsi “tastandosi” o osservando le proprie sfumature, e a partire dalle loro forme si organizzano in modo rigidamente gerarchico. Questo universo saldo, dove supposte leggi di natura e morale si fondono in reciproche tautologiche conferme, è ciclicamente minacciato da sfere che appaiono a turbare la prevedibilità delle due dimensioni con l’annuncio dell’esistenza di una terza popolata da solidi.
Il racconto è stato scritto dal reverendo londinese Edwin Abbott Abbott (1838-1926). Pubblicato anonimo nel 1882, è un’opera al confine fra il romanzo distopico, il racconto politico-pedagogico e la letteratura di divulgazione scientifica. Abbott fu rettore scolastico illuminato e innovatore. C’è chi attribuisce a questa sua opera un’intenzione critica verso i rigidi dettami della società vittoriana, in ambito scientifico invece l’attenzione allo scritto deriva dalle assonanze molteplici con la teoria della relatività. Einstein stesso, sottolinea D’Amico nella prefazione dell’edizione italiana al racconto, ha “salutato nel suo autore […] un profeta” (Abbott, 2009, p.14). Il racconto infatti tratteggia razionalmente la possibilità dell’esistenza di una quarta dimensione in un’epoca in cui essa era poco più che un’ipotesi per un manipolo di matematici arditi.
La lettura di questo grande classico della letteratura fantastica e scientifica è una matrioska di possibilità interpretative, ognuna delle quali ne contiene altre. Quante? Un’infinità di interpretazioni possibili, così come l’esistenza di un’infinità di dimensioni possibili è l’epifania del protagonista del libro, un Quadrato
incarcerato a vita nelle patrie prigioni proprio per il fatto di sostenere l’esistenza di altri mondi oltre Flatlandia, mondi invisibili ai suoi abitanti principalmente per il fatto di non essere mai stati nemmeno concepiti.
Il reverendo fa parlare il Quadrato in sua vece, ponendo al lettore una delle importanti questioni con cui fa i conti il nostro mondo – o meglio la sua costruzione umana –: l’essere situato dello sguardo e di ogni certezza. Accanto a questo sottolinea la ferocia con cui ciascun individuo – e organizzazione sociale – difende la propria prospettiva.
Per chi utilizza la lente costruttivista nella comprensione dei fenomeni, la lettura di questo testo non va presa sotto gamba. La fin troppo immediata analogia fra le intuizioni del Quadrato protagonista e l’alternativismo costruttivo (Kelly, 1955) potrebbe portare ad anticipare in queste pagine un’esperienza di conferma e validazione dei presupposti teorici costruttivisti, eppure la lettura di Flatlandia può diventare persino scomoda se fatta esperendola anziché intellettualizzandola.
Durante la lettura non è sempre facile guardare il mondo di Flatlandia come un Quadrato lo vedrebbe, e per questo l’autore – consapevole della ginnastica di prospettive a cui ci costringe – più volte rispiega “da zero” le cose. Altre volte nel racconto si può inciampare nelle implicazioni che derivano dal vivere in due dimensioni, scontate per il protagonista ma non certo per il lettore che ne sarà talvolta stupito, altre contrariato. Insomma Abbott non sta semplicemente spiegando un concetto attraverso l’espediente narrativo, sta letteralmente permettendo al lettore di farne esperienza.
Le pagine del racconto richiamano all’inevitabile cecità al di fuori delle proprie costruzioni: se assumiamo che ogni realtà possa essere costruita in tanti modi quanti se ne riescono a immaginare, è altrettanto possibile ipotizzare che vediamo solo ciò che abbiamo effettivamente avuto la possibilità di costruire. Non stiamo leggendo del Quadrato che scopre il mondo delle linee o dei solidi, siamo gli esseri umani che scoprono Flatlandia attraverso gli occhi del suo narratore. Questa Flatlandia possiamo comprenderla solo per analogia con quanto già conosciamo del nostro mondo, e per questo la fraintendiamo spesso, ci sorprendiamo, e potremmo essere persino portati a giudicarla: in poche parole perdiamo la prospettiva del narratore ogniqualvolta, più o meno consapevolmente, al nostro mondo facciamo ritorno.
Fin dall’inizio, con la prima nota che Abbott sceglie di inserire nel testo, ci viene suggerito che ciò che consideriamo scontato e noioso può essere essenziale nella costituzione dell’esperienza personale, in particolare in quella del comprendere il punto di vista dell’altro e dell’essere a nostra volta compresi: “L’Autore desidera ch’io aggiunga che il fraintendimento di questo punto da parte di alcuni critici lo ha indotto a inserire alle pp. […] certe osservazioni sull’argomento in questione che aveva precedentemente omesso come noiose e superflue” (Abbott, 2009/1884 p. 26).
Le riflessioni che mi ha suscitato questo testo e che desidererei condividere qui partono proprio da quello che mi ha permesso di sentire: nella lettura di Flatlandia ogni passo verso la scoperta del nuovo è accompagnato da sentimenti per nulla piacevoli. Abbott ci ricorda che prima d’aver dato un senso alle nuove dimensioni, ciò che è più prevedibile che accada è che veniamo attraversati, trafitti e infine scombinati da sensazioni come paura, sgomento, ansia, rabbia.
Mentre leggevo la mia mente è volata più volte ai momenti in cui, come terapeuta, ho vissuto l’esperienza del dare per scontata l’osservazione del mondo con gli occhi dell’altro (Chiari & Nuzzo, 1998) e del muovermi nella relazione terapeutica come fossi nel “mio” mondo senza nemmeno rendermene conto. Quanto mi sentivo a mio agio e bene in quei momenti, quanto sentivo di capire davvero tutto mentre ero distante anni luce dalla persona: momenti persi a galleggiare nella mia personalissima Flatlandia, continuando a vedere l’altro come un cerchio anziché una sfera. D’altra parte lo spavento, la sensazione di ansia nella seduta, la paura di non capire, sono stati segnali anticipatori di passi e movimenti importanti nella relazione e nel processo terapeutico. Rabbia, noia, fastidio, paura, in Flatlandia sono gli indizi di un’opportunità, ed è così che da terapeuti possiamo considerarli quando ci trafiggono: porte verso altre dimensioni e non banali esiti di un errore (nostro o dell’altra persona).
Ineludibilità del pregiudizio e critica del medesimo, questa passeggiata a braccetto fra posizioni solo apparentemente opposte, costeggia nel racconto molti temi che definirei “epocali”, e lo fa come si farebbe con i paesaggi che si contemplano dal sentiero senza addentrarvisi. In evidenza fin da subito sono temi sociali e politici sollevati ad esempio nelle pagine in cui si racconta delle ragioni della rigida gerarchia fra poligoni. Un secondo tema trasversale è quello della comunicazione e del potere ontogenetico del linguaggio, sollevato con forza nelle pagine sulla differenza espressiva nei generi maschile e femminile e
nelle diverse età. Un altro tema molto forte nel racconto e al quale vorrei dedicare qualche riga in più è la questione della disparità di genere.
Abbott dovette affrontare l’infamante accusa di misoginia dopo la pubblicazione del racconto (Carluccio, 2015), e ci volle oltre un secolo per fugare definitivamente queste accuse. La descrizione della situazione femminile in Flatlandia venne infatti letta alla lettera dai suoi contemporanei, e intesa come sorta di manifesto sull’inferiorità del genere femminile (Gouthier, 2001).
Il reverendo aveva uno scopo altro, poneva la questione femminile al suo tempo in modo ironico e provocatorio, ma il fatto che così tanti e per così tanto tempo abbiano “frainteso” quelle pagine, è a mio avviso la traduzione in vita reale di quanto narra il racconto. Ai nostri occhi e alle nostre orecchie, allenate da un po’ al confronto con la pluralità e con l’ingoiare l’amaro riconoscimento della disparità di genere esistente nella nostra società, il racconto di Abbott appare “evidentemente” critico verso il maschilismo imperante dell’epoca, ma se ci immergiamo in quella società, possiamo immaginare come non ci fosse spazio per l’ironia sulla questione. Parlare di donne come segmenti acefali con cui non si può comunicare razionalmente o lealmente, come esseri temuti quanto incompresi, significava per i più descrivere semplicemente la realtà dell’epoca. Descriverla senza condannarla – anzi giustificandola così come nel racconto si giustifica la repressione delle devianze nella società – probabilmente significava avvallarla. L’autore si ritrovò così accusato di misoginia malgrado nella sua vita quotidiana si spendesse molto per far riconoscere i meriti delle donne con le quali collaborava (Carluccio, 2015). Nemmeno Abbott era esente dall’essere “interpretato” dalla sua epoca, a prescindere dalla ragione delle sue ragioni.
Ogni pagina di Flatlandia apre riflessioni e dilemmi sulla natura dell’esperienza, sulla sua limitatezza e fragilità, sul fatto che ogni cambiamento a qualunque livello del sistema può essere rivoluzionario nelle sue implicazioni se compreso ed esplorato appieno.
Abbott mi ha lasciata soprattutto con l’amara consapevolezza del fatto che nessuno è al riparo dalla cecità circa i propri presupposti e che siamo tutti a rischio di escludere o vessare il prossimo qualora li minacci. Dunque qual è l’antidoto? Il Quadrato protagonista ci dà in apertura del racconto un suggerimento prezioso: non è nell’erudizione che si trova un rimedio alla schiavitù del pregiudizio, bensì nella modestia, “…qualità rarissima ed eccellente Fra le Razze Superiori Dell’UMANITÀ SOLIDA” (Abbott, 2009/1884, p. 21).
Come il protagonista che dalle carceri tenta di non dimenticare la terza dimensione, a distanza di giorni dalla lettura mi ci vuole un certo impegno a ricordare il mondo di Flatlandia così come lo percepisce il Quadrato, ma spero che la mirabile avventura di questa piccola figura piana, il suo appello al coraggio e alla modestia, mi tornino alla mente ogniqualvolta sulla comoda poltrona dello studio inizierò a sentirmi scomoda e a disagio.
Bibliografia
Abbott, E. A. (2009). Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni (M. D’Amico Trad.). Milano: Adelphi. (Opera originale pubblicata 1884).
Carluccio, C. (2015). La complessità del diverso nella piattezza di Flatland. Lingue e linguaggi 13, 55-74. doi:10.1285/i22390359v13p55
Chiari, G., & Nuzzo, M. L. (1998). Con gli occhi dell’altro. Il ruolo della comprensione empatica in psicologia e in psicoterapia costruttivista. Padova: Unipress.
Gouthier, D. (2001). Cinque tappe nella quarta dimensione: agli abitanti dello spazio tridimensionale. Un saggio su “Flatlandia” di Edwin Abbott Abbott, un universo contemporaneamente piatto e ricco di dimensioni. Consultato da http://archivio.torinoscienza.it/dossier/cinque_tappe_nella_quarta_dimensione_agli_ abitanti_dello_spazio_tridimensionale_3071.html
Kelly, G. A. (1955). The psychology of personal constructs (vol. 1-2). New York, NY: Norton.
Maturana, H. R., & Varela, F. J. (1992). Macchine ed esseri viventi. L’autopoiesi e l’organizzazione biologica (A. Orellana, Trad.). Roma: Casa editrice Astrolabio – Ubaldini Editore. (Opera originale pubblicata 1972).
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