Buongiorno Serena, grazie per aver partecipato a questa intervista. A fronte della sua esperienza professionale che significato attribuisce alla dipendenza? Come la formazione costruttivista ha contribuito a definire la sua posizione rispetto a questo tema?
La dipendenza è una risposta a una fatica, ma a volte anche una risposta a una difficoltà a trovare un senso, allo stare nelle relazioni, o anche un’eccessiva comodità all’interno di queste. Quindi, quando mi viene chiesto che significato attribuisco alla dipendenza, mi viene da pensare che prima di tutto è un’esperienza che ci contraddistingue in quanto persone che stanno all’interno delle relazioni. Io, con i bambini, ho sperimentato la loro dipendenza che ha rievocato in me una profonda dipendenza; la individuo come un’esperienza non critica, non da connotare in termini negativi, infatti io credo che sia questo l’elemento del Costruttivismo che mi ha permesso di creare un match perfetto tra un tirocinio che stavo facendo, la formazione costruttivista e un amore che è nato in quest’ambito: cioè il fatto di poter affrontare e stare all’interno di un sistema che curava persone con problematiche di tossicodipendenza con uno sguardo non giudicante, non punitivo, che leggeva le loro esperienze più che come un fallimento, un errore, una colpa, come una scelta. Questa lettura costruttivista mi ha dato molta speranza e ha fatto nascere in me molto interesse. In questo senso, la dipendenza, dal mio punto di vista, può essere letta come un esperimento che ogni persona fa nel corso della sua storia che a un certo punto comporta anche necessariamente un cambiamento a livello neurobiologico, ovvero una strutturazione di quell’esperienza e una prelazione della persona. Proviamo a immaginare una persona dipendente come una persona che fa esperimenti e, a un certo punto, tali esperimenti portano a una strutturazione a livello neurobiologico tale per cui la persona rimane imprigionata in un’idea di sé prelativa. In questo senso, l’oggetto con cui ha sviluppato questa relazione esclusiva, ovvero l’oggetto d’amore, diventa un oggetto strutturato, con il quale confrontare solo una parte di sé, che è quella tossica. La relazione con la dipendenza è una relazione morente, una relazione che non porta più evoluzione ed è questo il punto in cui le persone chiedono aiuto; l’obiettivo della terapia è di mettere in movimento una relazione morente.
Proseguendo con quanto appena detto, secondo lei, in che modo è possibile costruire la relazione terapeutica con la persona dipendente? Quali possono essere le implicazioni?
Quando incontriamo una persona dipendente, dobbiamo sempre chiederci cosa ci sia al di là del problema, chi sia quella persona e, quindi, provare a proporre ad essa una posizione un po’ più ampia di sé come persona, non solo come un portatore di sintomi. Questo, per una persona dipendente, non è così immediato, o meglio, è molto minaccioso, perché è come se ci fosse una fusione con la propria dipendenza: io e il mio oggetto di dipendenza siamo la stessa cosa. È un processo molto lento che richiede molta pazienza da parte del terapeuta. In terapia occorre accettare di far entrare nella stanza un ospite autorevole, una terza sedia metaforica, lavorando con dei role playing in cui inserire proprio il terzo elemento, ovvero la sostanza, il comportamento di abuso o la persona dalla quale si è dipendenti. Lasciare fuori questa sedia metaforica è come chiedere al paziente di non portare la sua soluzione, quella che nel bene o nel male ha comportato il suo stare in piedi, fino a oggi. La persona che abbiamo davanti, nonostante tutto, è viva ed è riuscita ad arrivare a noi grazie al sostentamento del suo oggetto di dipendenza; è come se arrivasse una persona con le stampelle, è bene non toglierle perché non sappiamo quanta capacità abbia di reggersi o di reggere l’urto della caduta, e quali sarebbero gli esiti. Questo primo passaggio può essere fastidioso per il terapeuta, ovvero frustrante, perché il paziente continua a parlare sempre della stessa cosa e non si sposta da lì. Il terapeuta, in questo primo momento, raccoglie molto materiale in termini di intuizioni, sensazioni ed elaborazioni terapeutiche, tuttavia non è sempre possibile utilizzarlo perché occorre prima costruire uno spazio per la sostanza sicuro, nel quale garantire al paziente che non dovrà lasciare questa stampella, non è messa in discussione, non è sotto esame e non è negativa. Il paziente, a questo punto, potrà iniziare a fare un piccolo esperimento e generalmente, l’esperimento che fa, è di spostare questo tipo di relazione in qualche modo sul terapeuta. Il terapeuta può avere difficoltà nella gestione della relazione terapeutica, e quindi nel sostenere la dipendenza del paziente, che è una dipendenza polarizzata: se rispondi al mio bisogno ti amo, se non rispondi ti abbandono. Possiamo definirla come una danza, in cui il terapeuta deve essere abile a cogliere la richiesta, riuscire a verbalizzarla, comprenderla, accoglierla e non necessariamente esaudirla, ma darle un senso, lavorando continuamente sulla costruzione di una giusta distanza.
Dopo questa prima fase iniziale si apre la storia che porta con sé il paziente, che ha rappresentato l’elemento di sostegno al funzionamento ottimale della dipendenza. A questo punto, molto spesso, assistiamo a un vero e proprio insight da parte del paziente come se, a un certo punto, arrivasse la consapevolezza tutta di un colpo, e quindi la sfida con il terapeuta è di non avere paura, o di condividerla, comprendendone la portata. Il terapeuta dovrebbe rassicurare il paziente e la terapia diventare un contenitore sicuro all’interno del quale iniziare a dare senso ai pezzi che, in qualche modo, emergono. Le implicazioni per il terapeuta riguardano due aspetti: il primo è strettamente legato alla dipendenza del paziente e alla posizione che il terapeuta tiene rispetto a quest’ultima. L’autoriflessività diventa quindi necessaria per non assumere il ruolo di “salvatore” o di chi è eccessivamente distante. L’altro aspetto riguarda l’idea che lavorare con un paziente dipendente voglia dire spuntare il successo terapeutico quando viene meno la sostanza. Questo è solo il primo passaggio che apre la strada alla terapia, è come se fosse una fase di disintossicazione, non medica ma relazionale, che permette di fare dei movimenti.
Dal suo punto di vista, in che modo i servizi sanitari territoriali (Serd, comunità, cliniche, ecc.) si posizionano in relazione alla persona con dipendenza? In merito al suo ruolo come formatrice cosa anticipa possa accadere in futuro?
Il trattamento delle dipendenze penso sia molto complesso nel setting individuale. I servizi con i quali collaboro, sia privati, privati convenzionati sia pubblici, riescono in qualche modo a essere efficienti nella misura in cui forniscono al paziente una serie di risposte specifiche e quindi riescono a offrirgli una lettura dei suoi bisogni in modo più specializzato, che non vuol dire frammentarlo ma aiutarlo a riconoscere i diversi aspetti del suo funzionamento e i diversi aspetti della sua sofferenza. Quindi, un’équipe professionale in questi casi è molto efficace perché promuove un lavoro che porta verso la distribuzione della dipendenza. Generalmente, il paziente, quando arriva ai servizi, porta lo stesso vissuto allo psicologo, allo psichiatra, all’assistente sociale e chiede a tutti la stessa cosa: tienimi, salvami, amami. Si tratta di una distribuzione della dipendenza indifferenziata, per cui è difficile trovare qualcuno che possa rispondere a tutti questi bisogni in modo efficace; infatti, nella sua vita il paziente ha sperimentato che le relazioni non sono in grado di sostenerlo e, non portando a revisione questa ipotesi, non si rende conto che è proprio questo modo di stare in relazione il motivo del fallimento. Quindi, il fatto che i servizi territoriali offrano una risposta più frammentata, permette al paziente di fare esperienza di modi diversi di stare in relazione e di distribuire la propria dipendenza con modalità, tempistiche, forme, livelli di soddisfazione e insoddisfazione diverse. Il paziente dipendente, generalmente, è molto bravo a capire cosa vogliono gli altri da lui e cosa si aspettano da lui, la pluralità di punti di vista garantita dai servizi promuove il processo di socialità che permette al paziente di aprirsi al punto di vista degli altri e comprendere l’effetto del proprio stare al mondo e delle proprie relazioni, facendo la propria esperienza nelle relazioni di cura.
Nel corso del tempo ho visto un cambiamento all’interno dei servizi territoriali: in passato si rivolgeva l’attenzione soprattutto all’aspetto medico, per cui l’obiettivo era quello di eliminare la sostanza, trovando un modo per togliere l’astinenza; negli ultimi anni, i servizi territoriali (Serd), oltre a svolgere la parte medica, si sono evoluti in una direzione rivolta al trattamento a lungo termine, anche se non così prolungato nel tempo come potrebbe essere per una terapia individuale o per una comunità specializzata. Un altro elemento da considerare è la numerosità delle persone che afferiscono ai servizi territoriali, che sono molte di più rispetto alla terapia individuale privata. Inoltre, noto che ci sono sempre più proposte di formazioni specifiche di nuove letture sul tema della dipendenza, come ad esempio la prospettiva psico-traumatologica. I terapeuti del servizio pubblico hanno iniziato ad usare la parola “addiction” al posto di “tossicodipendenza”, questo per me è conseguenza di un cambiamento. Infatti, attualmente vengono presi in carico vari tipi di “addiction”, tra cui gioco d’azzardo e cyber-sex addiction.
Un altro aspetto di questo cambiamento all’interno dei servizi territoriali è dato dalla presa in carico dei familiari dei pazienti, per cui si pone l’attenzione all’intero sistema che è coinvolto direttamente o indirettamente dal tema della dipendenza, realizzando sia gruppi che colloqui.
In terapia individuale, questo diventa difficile da sostenere, in quanto bisognerebbe creare una buona rete di professionisti diversi, con i quali si condividono i presupposti.
Quali sono le possibilità e i limiti del lavoro in comunità e quali invece possono essere le differenze e comunanze rispetto a una psicoterapia individuale?
Io trovo che la comunità abbia questa gruppalità di fondo che è un acceleratore di cambiamento, di grande elaborazione. Molti pazienti che ho incontrato individualmente si unirebbero ad un gruppo, anche se l’esperienza gruppale potrebbe essere minacciosa. Nella comunità, e quindi nella dimensione di gruppo, c’è una pluralità di punti di vista, di specchi che rimandano un’immagine del paziente con cui il paziente riesce a costruire anche delle revisioni rispetto a ciò che pensa di sé o a ciò che pensa che gli altri pensano di sé. Spesso il paziente arriva con una narrazione con cui costruisce la propria idea di dipendenza come “è una roba mia, gli altri non si accorgono”. Quando entrano in gioco altre persone, questa narrazione perde di significato e quindi scopre che il problema non riguarda solo il momento dell’alterazione, ma ha a che fare con il modo di costruire il mondo, le esperienze, le relazioni. Per tale motivo, le possibilità all’interno della comunità terapeutica sono, secondo me, potentissime proprio perché si può lavorare non solo sul problema, ma anche sulle risorse, inoltre il tempo a disposizione è maggiore. È come se il paziente in terapia individuale, durante i 50 minuti di colloquio, portasse il nucleo, e questo è faticoso e difficile per lui; mentre nella terapia all’interno di uno spazio comunitario, dove si hanno a disposizione più tempo e più esperienze, è possibile vedere la persona nel suo funzionamento totale, anche al di là della sua dipendenza. Questo significa poter avere veramente delle occasioni importanti per costruire con il paziente delle letture su se stesso, sul suo sé malato e sé funzionante in modo molto efficace. I limiti per il trattamento della dipendenza in comunità riguardano il fatto che il paziente lascia fuori la propria “valigetta” e, entrando senza, si mette i panni della persona sobria, che funziona e che fa terapia. Questo significa andare fuori a cercare le valigette e portargliele dentro, proponendo delle attività che rompano un po’ questa campana di vetro e sottopongano la persona a una stimolazione inattesa. A volte i gruppi di prevenzione della ricaduta possono rappresentare quest’occasione, questi spazi nei quali si può provare a osare un po’ di più. Per esempio, penso a un gruppo di giocatori d’azzardo in cui il mettere 50 euro in mezzo al tavolo, così come una birra chiusa in un gruppo di alcolisti, è come portare dentro la valigia, aprire e visualizzare la sofferenza, grazie alla quale è possibile fare un lavoro anche sulle parti più negate.
A fronte di queste riflessioni, secondo lei, è possibile che l’unione tra queste due modalità, individuale e gruppale, possa permettere l’ingresso di questa “valigetta”?
Generalmente, in terapia individuale si possono utilizzare alcuni strumenti che evocano la gruppalità e aiutano il paziente a mettere in azione la terapia piuttosto che a ragionarla semplicemente, ad esempio il role playing. Questi strumenti hanno a che fare con il bottom-up, ovvero permettono di riprodurre all’interno del setting individuale la pluralità dei punti di vista del setting comunitario. Questo è possibile chiedendo e aiutando il paziente a immaginare che lo spazio della terapia individuale sia tale per cui entrambi, terapeuta e paziente, possano pensare di invitare metaforicamente persone significative per comprendere meglio alcune parti di sé e del suo sistema. Tutto ciò è possibile se si favorisce la costruzione del punto di vista degli altri.
Qual è il ruolo del farmaco nella presa in carico della persona e nei processi che mette in atto?
Rispetto ai farmaci, personalmente, sono passata da un rifiuto, indiscusso e generalizzato, a una lettura forse più matura e più aderente a un dato di realtà. La dipendenza comporta dei cambiamenti che sono strutturati anche a livello neurobiologico e ci sono delle alterazioni tali che impediscono di poter lavorare con una persona in maniera efficace. Per descrivere questo piano uso spesso la metafora dei denti: se una persona ha un dente con un ascesso, il dentista dà l’antinfiammatorio e le chiede di tornare dopo una settimana, quando la situazione sarà meno infiammata. Ci sono delle situazioni in cui accade proprio questo: si sovrappongono dei piani di difficoltà che hanno a che fare con disturbi di personalità gravi, con un’ereditarietà genetica di problematiche importanti e noi terapeuti, anzitutto, dobbiamo avere un processo di elaborazione dell’utilità del farmaco in terapia e accettarla; in questo modo riusciremo a costruire un approccio con il paziente che integra questo come una delle risposte che possono essere utili per poter rimettere in equilibrio un sistema che ha perso la sua regolazione.
Inizialmente, ho fatto molta fatica a chiedere aiuto dal punto di vista farmaco-terapico e, ogni volta che l’ho fatto, sentivo di essere stata inefficace e di non aver avuto gli strumenti sufficienti per aiutare la persona.
Successivamente, questo pensiero mi ha condotto a un processo personale di elaborazione che mi ha permesso di integrare questo aspetto e riconoscerlo come uno degli strumenti che fa parte della mia cassetta degli attrezzi. Non possiedo un ricettario o le competenze neurochimiche per conoscere le molecole dei farmaci e saperli somministrare ma collaboro con molti professionisti.
Sono figure con le quali mi confronto, con le quali parlo del paziente, non solo del sintomo, e insieme cerchiamo di trovare una soluzione che possa aiutarlo ad elaborare meglio il momento che sta affrontando. Non sempre il farmaco e la terapia procedono parallelamente, tuttavia è opportuno tenere presente anche questa possibilità. Se ci si muove all’interno di un contesto comunitario o dei servizi territoriali è più “semplice”; nella terapia individuale la presa in carico della dipendenza richiede una formazione specifica, l’autoriflessività rispetto al chiedersi cosa sia la dipendenza per il terapeuta e tenere presente che la persona avrà dei bisogni grandi e diversificati, quindi collaborare con professionisti psichiatri non è auspicabile, è imprescindibile.
Abbiamo letto i suoi lavori riguardo il trauma e la dipendenza, ci ha molto incuriosito questa relazione. Che significato ha per lei la parola “trauma” e com’è possibile tradurla in termini costruttivisti?
In termini costruttivisti la parola trauma può essere definita come un’esperienza che va al di là del campo di conoscenze, un’esperienza che accade e che non ha significazione. La persona non ha sufficienti costrutti da applicare a questo tipo di esperienza tali da permettergli di inquadrarla sotto qualche tipo di lettura di significato. È quindi un’esperienza senza significato e rimane, in quanto tale, in una forma che non è etichettabile, non è comprensibile ma risiede nel tessuto preverbale. Il trauma risulta quindi essere incapsulato all’interno delle esperienze della persona come un’esperienza non elaborata e non elaborabile. Questo perché la persona, nel momento del trauma, non possiede gli strumenti necessari per elaborarlo, a causa del poco tempo a disposizione per formulare delle ipotesi e inserirle in una costruzione piuttosto che in un’altra; l’esperienza del trauma è quindi rapida e soverchiante. Il tessuto preverbale è quello che potremmo definire come corpo, ovvero il non verbale; mentre per verbale intendiamo la mente. Secondo me, è difficile pensare a una divisione tra mente e corpo, è più plausibile pensare a una persona con dei canali. I canali di elaborazione possono essere la significazione, la verbalizzazione e la comunicazione; mentre i canali di comprensione possono essere la somatizzazione, la sensazione emotiva, la regolazione vaso-vagale, il tono cardiaco, il battito e la respirazione. In questo senso io darei una visione della persona come dotata di porte di accesso: a volte ce n’è aperta una, altre volte un’altra. Come terapeuti abbiamo il dovere di servirci degli strumenti per poter abitare e accedere alle porte di accesso del paziente. Se queste porte sono verbali possiamo dare senso all’esperienza umana mettendola su una linea di coerenza temporale e spaziale, ovvero dare un senso ai passi che il paziente ha compiuto. Se invece queste porte non ci sono, perché si sono creati degli allentamenti e il paziente è in uno stato dissociativo rispetto alle esperienze preverbali, cioè sono completamente fuori dal livello della consapevolezza, è possibile che il toccare metaforicamente qualcosa di prossimo all’esperienza conduca a uno stato di minaccia profonda senza riuscire a significare neanche quella; è come se ci fosse un imperativo biologico. Questi strumenti possiamo definirli come bottom-up e psicotraumatologici, nulla tolgono, a mio avviso, all’epistemologia costruttivista, bensì possono essere degli strumenti che la elevano, in alcune situazioni cliniche, a porte di accesso della mente alla sofferenza. Quindi consentono la rimessa in movimento del sistema della persona, che è rimasto bloccato completamente o in parte, nel senso che possono essere bloccate solo alcune sue aree di vita connesse a quell’esperienza ma possono essere funzionanti delle altre. É come dire che una persona ha un aneurisma pronto a scoppiare da un momento all’altro, potrebbe non avere mai nulla o potrebbe incontrare un’esperienza che accende la potenzialità e crea una situazione di rottura che porta giù tutto quanto, cioè ferma il sistema completamente. In questo senso penso che il trauma, dove per trauma non intendo solo grandi cambiamenti di vita ma anche esperienze che soggettivamente non sono spiegabili, ha cambiato qualcosa della lettura della realtà senza sapere in che modo, quando e in quanto a livello di implicazioni.
Grazie per questa interessante riflessione. Lasciare aperto questo canale del corpo quindi sembra esser necessario e fondamentale per promuovere un lavoro con la mente, è corretto?
Mi è capitato frequentemente ed in generale di essere lì, di girarci attorno e di fermarsi ad un certo punto e dire “fermati un attimo e respira… Cosa senti? Dove lo senti? Stai un attimo lì con queste sensazioni, cosa ti viene in mente?”. Solitamente, dare questo piccolo spazio di ascolto è una deflagrazione mostruosa proprio perché la persona lo ha sempre saltato via come la rana dall’acqua bollente, “appena lo sento col cavolo che mi fermo”. Quindi nella stanza tranquilla e sicura dove ti dico “sono qui, diamogli un attimo di spazio, sono qua con te per qualunque cosa succeda” e per la prima volta la persona dice “va bene proviamo”. Non è mai un’esperienza bella, di solito è un’esperienza dolorosissima che permette però alla persona di aprirsi verso una serie di cose, un insieme di cose che non erano mai state toccate. Con le dipendenze ancora di più perché spesso il corpo è stato anestetizzato, è stato negato, è stato tolto e utilizzato come colui che doveva farmi solo sentire o non sentire, ma che non ho ascoltato come un interlocutore autorevole del mio “me”. Quindi quando togli la sostanza il paziente va a contatto con questo bagaglio. Vi sarà capitato di vedere pazienti che, dopo aver tolto la sostanza, iniziano a stare male, ad avere il raffreddore o l’influenza e si lamentano che non riescono a sopportare ma perché non l’hanno mai fatto, non hanno mai fatto esperienza di un corpo che esiste. Quindi anche banalmente riuscire a stare lì con il proprio mal di schiena e riuscire a rimpossessarsi di queste sensazioni, dargli senso… È come se riprendesse vita una parte della propria esistenza che è quella “corpo” con la quale hanno camminato nel mondo ma non hanno fondamentalmente vissuto.
Come i servizi hanno fatto fronte alla pandemia e quali sono state le conseguenze di questa emergenza sanitaria? Com’è cambiata la distribuzione delle dipendenze in seguito all’isolamento sociale?
In questo caso posso dire che per la mia esperienza personale mi sono occupata molto dei servizi per i giocatori ultimamente. Rispetto a questo, la chiusura dei punti gioco e delle sale gioco ha creato un’inattesa sospensione dell’attività di gioco. In secondo luogo, anticipavamo che sarebbero crollate le relazioni familiari. Sappiamo che la dipendenza nasce, cresce, si alimenta di dinamiche familiari e, durante il lockdown, le persone sarebbero rimaste chiuse all’interno delle dinamiche da cui sono nate o sono state mantenute le dipendenze. Ci aspettavamo delle riacutizzazioni o esacerbazioni sistemiche importanti. Per la nostra e la mia esperienza, nel mio piccolo, nessuna di queste. Non hanno giocato e hanno sollevato una campana di vetro e dicevano “magari andasse avanti così per sempre… che così non c’è il gioco e non abbiamo il problema” e sorprendentemente tolta la dinamica del gioco (e le sue conseguenze gioco-correlate) è come se fossero riemerse le parti un po’ più sane e le risorse delle coppie e delle famiglie sollevate da quelle dinamiche correlate al gioco. Risolte? Per niente. Semplicemente sospese. Quindi dal punto di vista del gioco rispetto al servizio durante il lockdown è accaduto questo. È rimasto tutto sospeso. Dopo le riaperture del 15 giugno, più o meno verso metà luglio sono iniziati gli scivoloni e poi le ricadute e di conseguenza si è riattivato tutto. Sarebbe stata un’ottima occasione, se non fosse stato che anche i servizi sono stati bloccati dal punto di vista dell’erogazione del servizio in presenza e quindi dove è possibile sono stati tradotti tutti in virtualità. Ma molto spesso l’utenza non era così informatizzata e neppure aveva la possibilità di farlo visto che erano chiusi in casa e quindi non c’era quella sensazione di sicurezza e privacy nel portare avanti gli incontri virtualmente, spesso rifiutavano perché non si sentivano in grado di poterlo fare. Penso sia stata un’occasione persa che stiamo cercando di ricostruire a posteriori come un periodo in cui le cose sono andate bene “perché ti è stato tolto lo stimolo, proviamo a ragionare su cosa è successo e cosa di diverso hai provato, ecc.”. Rispetto alle altre dipendenze non è cambiato assolutamente nulla riguardo all’erogazione dei servizi dei pusher e di assunzione di sostanze (cocaina, eroina, alcol e tabacco), è andato avanti tutto indistintamente.
Che impatto può avere avuto l’isolamento sociale? Le persone che sono state peggio, che abbiamo trovato peggio, sono quelle che non avevano relazioni e quindi durante il lockdown erano sole o erano anziane e hanno attraversato questo momento in solitudine, e ciò ci fa pensare che le relazioni siano, in un modo o nell’altro anche quelle disfunzionali, vitali per tutti in generale. Per quanto riguarda la popolazione, stiamo ancora aspettando che termini il “ciclo dell’esperienza” diciamo. L’isolamento ha portato un utilizzo maggiore di strumenti come Internet (per lavoro ma anche per costruire relazioni, ecc.) il che ha portato a una società virtuale amplificata e in molti casi ciò si è poi strutturato in una addiction rispetto a Internet e anche a giochi non da azzardo tipo cyber-sex, pornografia, ecc. (qui bisognerebbe aprire un tema immenso sul significato delle relazioni virtuali). Complice anche il fatto che nella costruzione delle relazioni virtuali c’è la possibilità di giocarsi un’identità ideale rispetto alla propria identità.
Privatamente come terapeuta ho visto un incremento importante, moltissime richieste d’aiuto, soprattutto da parte di ragazzi giovani, infatti l’età media dei miei pazienti si è abbassata moltissimo e potrebbero essere numerose ragioni come l’età o l’istruzione a distanza, ma sicuramento ho notato un maggior malessere.
La ringraziamo per il suo prezioso contributo e la sua disponibilità.
Note sugli autori
Francesca Barone
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata in Psicologia Clinica e della Salute presso l’Università degli Studi di Pisa e ha proseguito gli studi magistrali in Psicologia di Comunità presso l’Università degli Studi di Padova. Ha lavorato in vari contesti comunitari dedicati alla presa in cura di adulti con dipendenze e di adolescenti con sofferenze neuropsichiatriche e comportamentali. Attualmente collabora con il mondo dell’istruzione. È appassionata di poesia, di cui sta esplorando le potenzialità applicative in ottica terapeutica.
Annalisa Seiwald
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata in Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Padova. Da diversi anni lavora nell’ambito delle dipendenze patologiche all’interno di una comunità terapeutica. In tale contesto si occupa dei laboratori espressivi attraverso i quali dar voce ai vissuti emotivi delle persone.
Alessandro Zumerle
Institute of Constructivist Psychology
Psicologo e specializzando in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Laureato in Psicologia Clinica e di Comunità, attualmente svolge la libera professione occupandosi di psicologia clinica con adulti e minori e collaborando con diversi centri sociali territoriali di Verona, scuole e cooperative. Ha approfondito il tema del dolore cronico e dei disagi psicosomatici con la sua tesi di laurea, riguardante la fibromialgia, e le successive esperienze di formazione e ricerca nell’Università di Barcellona. Negli ultimi anni si sta occupando del tema delle dipendenze con e senza l’utilizzo di sostanza.
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