Tempo di lettura stimato: 69 minuti
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Un programma di ricerca per gli studi queer

La teoria queer e la membership categorization analysis di Harvey Sacks[2]

A research programme for queer studies

Queer theory and Harvey Sacks’s Membership Categorization Analysis

di

Carmen Dell’Aversano

Università di Pisa, Pisa, Italia

Institute of Constructivist Psychology, Padova, Italia

CIRQUE Centro Interuniversitario di Ricerca Queer, Pisa, Italia

Abstract

Questo lavoro parte definendo il queer come deontologizzazione delle categorie e denaturalizzazione delle loro rappresentazioni. Il suo obiettivo è delineare un programma di ricerca per gli studi queer a partire dal lavoro sulle categorie sociali del sociologo statunitense Harvey Sacks. Questo renderebbe possibile generalizzare l’applicazione della teoria queer all’analisi delle conseguenze repressive di tutte le forme di categorizzazione ed evidenziare questi effetti repressivi in un’immensa varietà di contesti sociali e situazioni; in questo modo il campo di pertinenza della teoria queer risulterebbe considerevolmente esteso.

This paper starts by defining queer as the de-ontologization of categories and the denaturalization of their performances. Its aim is to map out a research programme for queer studies based on the work of US sociologist Harvey Sacks. This would make it possible to generalize the application of queer theory to the analysis of the repressive consequences of all forms of categorization and to highlight these repressive effects in a huge variety of social contexts and situations. This would considerably broaden the range of convenience of queer theory.

Keywords:
Teoria queer, studi queer, Harvey Sacks, membership categorization analysis | queer theory, queer studies, Harvey Sacks, membership categorization analysis
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“It is the use of such a procedure [membership categorization] which is the important thing. You might want to knock out this or that statement, thinking you would do away with the trouble it makes, where what you want to knock out, if you want to do away with the trouble, is the use of the procedure”.

(Harvey Sacks)

 

“O bailan todos o no baila nadie”.

(Tupamaros)

 

1. Considerazioni preliminari

La promessa rivoluzionaria del queer, espressa con così orgogliosa consapevolezza fin dalle sue prime affermazioni, e così determinante nel dare forma all’entusiasmo e all’aspettativa che le ha accompagnate, sembra essersi realizzata solo in misura molto parziale nella sua storia fino a questo momento. Uno dei motivi è che nella pratica concreta, anche se non nei pronunciamenti teorici, il queer ha avuto la tendenza ad allinearsi alla posizione, epistemologica prima ancora che politica, LGBT; questo ha portato a una selezione piuttosto parziale e prevedibile sia degli oggetti d’indagine sia degli obiettivi politici. È importante notare che questo esito, lungi dall’essere inevitabile, si pone in contrasto piuttosto radicale con la concezione del queer sostenuta da moltissimi dei suoi primi e più originali esponenti[3]:

“Il queer è per definizione qualunque cosa si ponga in contraddizione con il normale, il legittimo, il dominante. Non ha necessariamente un particolare referente. È un’identità priva di essenza” (Halperin, 1995, p. 62, tda).

“Il queer […] non designa una classe di patologie o perversioni già oggettivate; descrive piuttosto un orizzonte di possibilità la cui precisa estensione e la cui portata eterogenea non possono in linea di principio essere delimitati a priori” (ibidem, tda).

“Il queer delimita uno spazio flessibile per l’espressione di tutti gli aspetti di produzione e recezione culturale non- (anti-, contro-) normativa” (Doty, 1993, p. 3, tda).

Gran parte del lavoro più interessante che ha per oggetto il “queer” espande il termine lungo dimensioni che non possono in alcun modo essere sussunte dal genere o dalla sessualità. […] L’impulso denaturalizzante del queer può benissimo trovare articolazione precisamente all’interno di quei contesti a cui è stato giudicato indifferente. […] Rifiutando di cristallizzarsi in qualsiasi forma specifica, il queer mantiene una relazione di resistenza rispetto a qualunque costituzione della normalità. (Sedgwick, 1993, p. 9, tda)

È necessario affermare la contingenza del termine [queer], lasciare che venga sconfitto da coloro che ne restano esclusi ma che legittimamente si aspettano di venir rappresentati al suo interno, lasciare che assuma significati che al momento non siamo in grado di anticipare per opera di una generazione più giovane il cui lessico politico potrà essere portatore di un diverso insieme di investimenti. (Butler, 1993, p. 230, tda)

La finalità, insieme teorica e politica, che anima e dà senso a tutto il mio lavoro sul queer e che è alla base di questo contributo, è rendere questa visione del queer non soltanto interessante in astratto, ma rilevante e utile come strumento analitico in un’ampia gamma di contesti disciplinari e sociali, attraverso un’esplorazione sistematica e creativa delle sue implicazioni per quanto riguarda sia le scelte di metodo che la definizione degli oggetti di ricerca. Questo lavoro presenta una versione, inevitabilmente grezza e frammentaria, di due proposte di metodo, che considerano la teoria queer capace e meritevole di ispirare un programma di ricerca straordinariamente ampio dotato di un notevolissimo potenziale di innovazione. La prima si propone di generalizzare e astrarre il queer, evidenziando l’applicabilità dei suoi costrutti teorici al di là dell’ambito, storicamente centrale, dell’identità di genere; la seconda va invece nella direzione della particolarizzazione e concretizzazione di questi costrutti, attraverso la loro applicazione all’analisi di singoli testi e situazioni sociali concrete. Pur nella loro apparente diversità, questi due obiettivi sono in realtà strettamente collegati e interdipendenti, in quanto entrambi si fondano sulla stessa base teorica, rappresentata dal lavoro di Harvey Sacks, la cui straordinaria ricchezza concettuale e il cui eccezionale rigore teorico lo rendono una fonte di ispirazione inesauribile[4].

Come l’articolo indeterminativo nel titolo di questo lavoro può sufficientemente chiarire, il punto di partenza della mia ricerca non è la convinzione che debba (o possa) esistere un unico “programma di ricerca” che unifichi l’intero campo degli studi queer. Questo non è solo impossibile, ma non sarebbe neppure desiderabile, dal momento che non esiste (e non ci sarà mai) un’unica versione o forma definitiva e normativa degli studi o della teoria queer. Qualunque tentativo di fornire una definizione definitiva e onnicomprensiva del queer, di imporre un copyright, di stabilire un’ortodossia, di scomunicare eretici e miscredenti, non è semplicemente condannato al fallimento, ma risibile, in quanto tradisce una profonda incomprensione delle radici dell’insopprimibile vitalità del queer, come pure della sua produttività politica. Nel seguito della mia argomentazione, prenderò le mosse da una particolare visione del queer, non con il proposito di affermarne la superiorità rispetto ad altre o di propagandarla a chi non la condivide, ma semplicemente con il fine di rendere possibile valutare, e pertanto accettare o respingere, la mia proposta, e formarsi un’opinione razionale di come potrebbe o non potrebbe risultare utile, e di ciò a cui potrebbe servire. Non sorprendentemente, questa visione è quella che condivido con i colleghi con cui ho fondato il

CIRQUE (Centro Interuniversitario di Ricerca Queer) e che costituisce il fondamento del nostro lavoro comune.

Secondo questa visione, l’idea più fondamentale e al tempo stesso più astratta della critica queer è la deontologizzazione delle categorie, in primo luogo delle categorie rispetto a cui una determinata cultura rende obbligatorio posizionarsi, vale a dire quelle che configurano l’identità sociale. La performatività, che può essere considerata il concetto di più ampia applicazione nella teoria queer, rappresenta, dal punto di vista logico, soltanto una conseguenza di questa messa in questione e decostruzione delle categorie: infatti, a meno che le categorie sociali non vengano deontologizzate, non è possibile rivelare che esse non sono altro che il risultato dell’iterazione di rappresentazioni. Storicamente questa decostruzione ha riguardato in primo luogo le categorie dell’identità sessuale e di genere, e ancor oggi la stragrande maggioranza degli studi e dei contributi che si collocano in ambito queer riguardano questi temi. Per quanto questa direzione di indagine si sia dimostrata produttiva, essa nasconde un rischio: focalizzare la decostruzione delle categorie identitarie sulle variabili della sessualità e del genere vuol dire aderire, in maniera implicita e per questo ancora più insidiosa, a una definizione dell’identità incentrata appunto sui tratti della sessualità e del genere, e di conseguenza, in ultima analisi, non problematizzare l’identità ma, al contrario, essenzializzarla, collegandola a un insieme ristretto e omogeneo di parametri considerati incondizionatamente fondanti e ineludibilmente definitori. Un epifenomeno, marginale ma rivelatore, di questa tendenza è l’ultima aggiunta all’elenco, in continua espansione, delle etichette identitarie minoritarie e sovversive con cui il queer si identifica, o almeno simpatizza, politicamente: i classici LGBT (che stanno per “lesbica”, “gay”, “bisessuale” e “transgender”) sono ormai sempre più spesso accompagnati non solo dalla Q di “queer” e dalla I di “intersessuale” ma anche della A di “asessuale”. Ora è (o almeno, dovrebbe essere…) evidente che la relazione, insieme logica ed esistenziale, di una persona asessuale con la categoria dell’identità sessuale è profondamente diversa da quella di una persona, ad esempio, bisessuale: una persona bisessuale potrà avere difficoltà ad affermare la personale definizione della propria identità sessuale nelle più varie situazioni sociali e relazionali e potrà per questo essere vittima, in tali situazioni, di marginalizzazione, discriminazione, o violenza; ma per una persona asessuale la categoria della sessualità, semplicemente, non è pertinente. Costringere una persona asessuale a posizionarsi in relazione a questa categoria è, semplicemente, una nuova forma di oppressione che è ancora più insidiosa di quella che l’eteronormatività imperante esercita nei confronti delle persone con un’identità sessuale minoritaria: anzitutto perché viene paradossalmente esercitata con il fine dichiarato della liberazione, ma soprattutto perché “ortodossi” e “devianti”, nel campo della sessualità come in tutti gli altri, condividono, se non altro, un orientamento nel mondo e una definizione delle priorità.

Per l’inquisitore come per l’eretico la fede e il dogma sono, anche se con segno opposto, costrutti nucleari. Ma offrire, come forma di liberazione, a una persona i cui costrutti legati alla sessualità non hanno nessuna relazione con l’esperienza vissuta e con la percezione di sé, la possibilità di “integrarsi” ed “essere rappresentata” da un movimento caratterizzato proprio dalla centralità e dalla produttività della sessualità (e di tutte le esperienze, positive o negative, ad essa collegate), è più o meno equivalente ad offrire a una persona che non ha alcun interesse per il calcio, la possibilità di “integrarsi nella società” dichiarandosi tifosa di una qualche squadra, magari anche frequentando lo stadio tutte le domeniche.

Il caso, marginale ma teoricamente assai significativo, dell’asessualità, non è l’unico motivo per ritenere che confinare la produttività del queer alle questioni riguardanti la sessualità e il genere possa dimostrarsi alla lunga non soltanto teoricamente soffocante ma anche politicamente retrivo. Essenzializzare, attraverso un’attenzione esclusiva e continua, le categorie identitarie legate alla sessualità e al genere vuol dire, in pratica anche se non in teoria, confinare nel non-detto e nel non-visto teorico, sociale e politico tutte le altre. Reiterare la centralità e la non-negoziabilità del diritto ad affermare le componenti sessuali e di genere della propria autodefinizione significa rendere, per effetto di una disattenzione e di un silenzio forse inconsapevoli ma certamente non innocenti, marginali e negoziabili le altre, creando una situazione in cui innumerevoli modalità e situazioni di oppressione possono continuare non soltanto a perpetuarsi, ma ad essere escluse dall’ambito del concettualizzabile e del percepibile, purché non riguardino pochissime variabili predefinite (l’orientamento sessuale, il genere, nei casi più avventurosi la razza…) che vengono rese oggetto di una sistematica vigilanza[5].

È importante notare che questa essenzializzazione e ipostatizzazione, per quanto possa essersi dimostrata utile nel determinare la fortuna accademica e politica del queer, si colloca in un conflitto abbastanza insanabile con i suoi fondamenti teorici. Questo è il segreto di Pulcinella degli studi queer: tanto evidente quanto scrupolosamente passato sotto silenzio, in un campo che professa il culto di “San Foucault”[6]. Madhavi Menon è non solo la prima ma anche l’unica studiosa, finora, ad osservare la radicale incompatibilità fra lo smascheramento dell’identità, come effetto del discorso professato da Foucault, e la testarda insistenza del queer nel vederla come ontologicamente fondante e politicamente rilevante[7].

Come ha già osservato Michel Foucault nelle sue analisi del potere, parlare dell’identità come di una causa alla base della classificazione degli individui vuol dire mettere il carro davanti ai buoi. Secondo Foucault, anche se l’identità ha numerosi effetti reali, spesso oltremodo spiacevoli, è anche essa stessa un effetto. L’identità è la richiesta formulata dal potere – dicci chi sei così possiamo dirti cosa puoi fare. E adeguandoci a quella richiesta, analizzando senza fine i particolari che rendono le nostre identità diverse le une dalle altre, quello che facciamo è inserirci nelle caselle predisposte da una struttura di potere, non smantellarla […].

L’unica cosa che si può dire è che la verità più onnipresente di quella vissuta è troppo molteplice per attenersi ad un codice di differenza identitaria: la realtà vissuta è in contraddizione con le politiche identitarie. Questo è il motivo per cui è così stupefacente che tanti di noi sembrino accontentarsi di pensare le proprie vite attenendosi scrupolosamente alle strutture che le imprigionano, parlando senza alcuna ironia dell’immutabilità della razza o del genere o della sessualità. La razza, il sesso, il genere e la classe sono indubbiamente oggetto di una sorveglianza repressiva feroce in tutte le società. Ma per quale motivo confondiamo questa sorveglianza repressiva con la verità su noi stessi? Il problema è la categorizzazione, non il nostro metterla in questione[8]. In un incomprensibile atto di solidarietà con i nostri oppressori, prendiamo a cuore regimi che ci limitano, e poi ci diciamo che questa limitazione è la verità del nostro essere nel mondo. (Menon, 2015, pp. 2-3, tda) [corsivi nell’originale]

Oltre ad essere in contraddizione con i fondamenti teorici del queer, la focalizzazione esclusiva su un numero ridotto di questioni, rischia anche di limitare fortemente le sue potenzialità di innovazione sia sociale che intellettuale. Un altro problema, tutt’altro che ipotetico e futuribile, riguarda l’incomprensione spesso manifestata da persone che affermano di identificarsi, per motivi teorici o esistenziali, con un orientamento queer per le implicazioni non tanto etiche ma banalmente logiche delle proprie rivendicazioni. Affermazioni come “vedere una ragazza che bacia un cane mi fa schifo” oppure “la gente dovrebbe vergognarsi di essere cattolica” (che non ho alcuna intenzione di attribuire a persone precise, ma che sono state effettivamente pronunciate) sono incompatibili con il queer, per motivi che non hanno a che fare con i loro contenuti (chiunque può provare avversione per qualunque oggetto e ha pieno diritto alle proprie reazioni viscerali) ma con la loro formulazione. Non dovrebbero essere necessarie capacità di astrazione particolarmente sviluppate per rendersi conto che esprimere schifo verso una manifestazione di affettività fisica tra due soggetti socialmente inappropriati, o esortare qualcuno a vergognarsi di quello che è, sono due stereotipi retorici dell’eteronormatività più bieca e oppressiva, e che esternazioni di questo genere sono pertanto abbastanza incompatibili con il queer comunque declinato. Al di là dei limiti dell’empatia di ciascuno e delle inclinazioni o antipatie personali, dovrebbe essere chiaro a tutti che sul piano propriamente politico una posizione coerentemente queer non può che proporsi di difendere la libertà di esprimersi e di autodefinirsi di qualunque soggetto, e non solo di quelli compresi nella litania LGBT e nelle sue estensioni: è un caso, come direbbero i Tupamaros, di “o ballano tutti, o non balla nessuno”.

A questo proposito, è interessante osservare che già da diversi anni alcune delle personalità centrali della teoria queer hanno espresso, in contesti molto visibili e rappresentativi, una perplessità anche profonda sulle reali potenzialità di sovversione politica e teorica delle identità tradizionalmente considerate più vicine al queer, senza però mai arrivare a mettere in discussione in maniera sistematica e teoricamente consapevole l’identificazione storicamente canonica del queer con le tematiche del sesso e del genere.

Quattordici anni dopo la pubblicazione in Social Text di “Fear of a Queer Planet” [“Paura di un pianeta queer”] e otto anni dopo di “Queer Transexions of Race, Nation, and Gender” [“Transessioni queer di razza, nazione e genere”] questo numero speciale doppio propone una nuova valutazione dell’utilità politica del queer ponendo la domanda “cosa c’è di queer, adesso, negli studi queer?”.

L’attuale normalizzazione dell’identità gay e lesbica – come stile di vita consumistico propagandato dai media e come categoria alla base di battaglie legali – esige un rinnovamento degli studi queer, una continua attenzione al fatto che la sessualità è intersezionale, non estranea ad altre modalità di differenza, e una solida concezione del queer come metafora politica priva di referenti fissi.

[…]

Che l’essere queer rimanga aperto ad una costante critica delle sue operazioni escludenti è sempre stata una delle sue più importanti promesse teoriche e politiche. Ciò che potrebbe essere definita la critica alla soggettività da parte degli studi queer sconfessa qualsiasi tentativo di ipostatizzare un soggetto o un oggetto che rappresentino un punto di riferimento teorico e insiste che il queer non ha referenti politici fissi. L’epistemologia queer è orientata in base a questa premessa. […] Prendere in considerazione l’epistemologia queer vuol dire anche affermare che la sessualità – la categoria in base a cui sono organizzati gli studi gay e lesbici – deve essere ripensata in relazione ai suoi presupposti positivisti. (Eng, Halberstam e Muñoz, 2005, p. 1, tda)

L’evidente “attuale normalizzazione dell’identità gay e lesbica” non ha l’effetto di spingere gli autori ad esplorare la possibilità di generalizzare l’applicabilità delle categorie ermeneutiche e politiche del queer a situazioni e condizioni non caratterizzate e non caratterizzabili in riferimento alla sessualità, bensì unicamente quello di indurli a tentare di espandere ulteriormente l’ambito di fenomeni collegabili, e pertanto in ultima analisi riducibili, a categorie sessuali. La conclusione, retoricamente obbligatoria, che sottolinea l’assenza di referenti fissi come peculiarità teorica definitoria, e perciò irrinunciabile, del queer, non inficia minimamente la determinazione a continuare a identificare l’analisi e l’attivismo queer con un ambito fisso, ristretto e ormai tradizionale al punto di poter essere considerato conservatore: l’esplorazione e la problematizzazione di tematiche relative all’identità sessuale e di genere.

Ma l’assenza di “referenti fissi”, così spesso ribadita (pur se con funzione meramente rituale) nella teoria queer, non ha nulla di esornativo o di arbitrario. Come ho osservato all’inizio, l’atto fondazionale e definitorio del queer, sul piano teorico come su quello politico, è problematizzare e decostruire la rappresentazione di categorie: un tale atteggiamento non può avere un referente fisso perché la sua natura è per definizione astratta, dal momento che il piano in cui si esplica è puramente logico. Purtroppo, questa problematizzazione e decostruzione è rimasta nella stragrande maggioranza dei casi focalizzata su una gamma ristrettissima e completamente prevedibile di categorie (il genere, l’orientamento sessuale, magari, per i teorici particolarmente arditi e avventurosi, la classe o la razza…), e questa mancanza di immaginazione e di coraggio intellettuale, etico e politico, rischia di ridurre il queer a una delle tante etichette, intercambiabili nella loro irrilevanza, della “theory” disponibili nel supermercato dell’accademia postmoderna. Ma la causa di questa lacuna nello sviluppo storico del queer è da ricercarsi in un difetto, ben altrimenti serio e invalidante, di natura teorica ed epistemologica: a trent’anni dalla pubblicazione dei testi che lo hanno imposto come una presenza vitale e innovativa nel panorama accademico e politico, il queer non ha ancora sviluppato un programma di ricerca che spieghi in maniera verificabile e riproducibile come esattamente procedere in questa operazione di problematizzazione e decostruzione[9].

La disponibilità di un programma di ricerca di questo genere avrebbe sullo sviluppo del queer due effetti, entrambi straordinariamente positivi. Da un lato, generalizzando ed astrattizzando l’applicabilità del queer, permetterebbe di estendere l’analisi ad ambiti di esperienza finora non solo trascurati dalla prospettiva queer[10] ma anche, in molti casi, socialmente (e quindi politicamente) invisibili[11]. Dall’altro, attraverso lo sviluppo e l’impiego di procedure focalizzate sui dettagli più concreti di fenomeni particolari, permetterebbe di percepire, osservare e dimostrare l’azione repressiva della normatività nelle situazioni quotidiane più banali e, apparentemente, più neutre, aprendo il campo immenso ma strettamente sorvegliato della “normalità” quotidiana alla consapevolezza critica e all’azione politica.

Come ho detto, la premessa teorica fondamentale da cui parte la mia proposta è l’autopresentazione del queer (espressa in una serie di autorevoli affermazioni che lo hanno accompagnato fin dalla sua fondazione) come teoria definita dal fatto di autotrascendersi, da un’inquietudine, esistenziale ed etica prima ancora che intellettuale, che la porta a spingere sempre più oltre il confine della propria applicabilità e, di conseguenza, ad esplorare sempre nuovi ambiti di riflessione e di attività non solo teorica ma anche e soprattutto sociale e politica. Sono convinta che la maniera più produttiva, e allo stato attuale certamente più innovativa, in cui il queer può autotrascendersi è osando un salto di livello logico, che lo faccia passare dal piano della critica dei contenuti di particolari categorie o delle modalità di specifiche rappresentazioni, a quello dell’analisi della formazione, dell’impiego e della funzione delle procedure stesse della categorizzazione e della rappresentazione, e dei loro effetti esistenziali, gnoseologici, psicologici, sociali e politici, finalizzata a una loro messa in questione teorica e pratica. E vorrei sottolineare che quello che potrebbe sembrare un passo nella direzione dell’astrazione, di rilevanza esclusivamente teorica, è al contrario portatore di implicazioni oltremodo concrete, e di conseguenze etiche e politiche rilevantissime e immediate: un passo del genere

renderebbe possibile percepire, e pertanto mettere in questione e combattere, l’azione repressiva di tutte le forme di categorizzazione e di tutte le rappresentazioni che le costituiscono; questo ci permetterebbe di renderci conto che ciò che Butler (1993) descrive come “un rituale ripetuto sotto e in virtù della costrizione, sotto e in virtù della forza della proibizione e del tabù, dove a controllare e a rendere obbligatoria la forma della produzione sono la minaccia dell’ostracismo e persino della morte […]” (p. 95, tda) è parte dell’esperienza di un immenso numero di persone in una varietà stupefacente di situazioni. E accorgersi che, come diceva Franco Basaglia, “visto da vicino nessuno è normale”, non costituisce soltanto un risultato di considerevole interesse teorico, ma ha una rilevanza politica straordinaria, dal momento che rappresenta la necessaria premessa per la costituzione di quella che Angela Davis (2011) descrive come una “nuova maggioranza” composta da “vecchie minoranze” che possono e devono combattere insieme.

Se si accoglie come produttiva questa direzione di indagine, non si può fare a meno di osservare che la nascita della teoria queer, in questo senso massimamente astratto ma proprio per questo particolarmente produttivo, precede di molto le opere sincroniche di Judith Butler e di Eve K. Sedgwick, e la fortunata creatività terminologica di De Lauretis. Va invece collocata negli anni tra il 1964 e il 1972, quando Sacks, mentre fondava l’analisi della conversazione, dedicava gran parte della sua acribia analitica e della sua genialità teorica proprio allo studio dell’uso sociale delle categorizzazioni linguistiche e al problema della normalità intesa non come caratteristica bensì come attività, come risultato di un “lavoro”[12]. In particolare, nella prima lezione del corso del secondo semestre del 1970, Doing ‘being ordinary’ (titolo che potremmo tradurre con “la performance della normalità”; sulla traduzione si veda sotto la nota n. 27) Sacks sostiene almeno due tesi di immensa rilevanza per la teoria queer: una è che “ogni sorta di cose che vengono nominalizzate – caratteristiche personali e roba del genere” (vale a dire non solo “essere normale” ma, di conseguenza, anche “essere americano”, “essere disabile”, “essere un uomo/una donna/un bambino”, “essere etero/omosessuale”, “essere giovane/adulto/vecchio, e così via all’infinito) “sono lavori che si fanno, che richiedono un certo tipo di sforzo, di addestramento e così via” (Sacks, 1992, vol. II, p. 216). L’altra tesi è che la sua critica della “normalità”, o, se è per questo, di ogni sorta di cose che vengono “nominalizzate” è il nucleo centrale del corso che sta tenendo (e di conseguenza, si può presumere, dell’analisi della conversazione come disciplina nel suo complesso), e che il senso di una presa di coscienza del funzionamento delle categorie sociali non è meramente teorico, bensì politico:

Di solito comincio il corso facendo quello che faccio nel corso, senza nessun’affermazione programmatica, senza alcuna indicazione riguardo il motivo per cui dovrebbe interessare a qualcuno. Ma – e questo magari è ingiusto – il corso poi risulterà assai più pesantemente tecnico di quanto potrebbe interessare alla maggior parte delle persone, e una buona percentuale lo abbandonerà, e di solito la conseguenza di questo è che se vengono a una sola lezione del corso non gli rimane nulla. Così ho deciso di impiegare la prima lezione a raccontargli qualcosa che secondo il mio punto di vista non può non suscitare interesse; così poi quando abbandonano almeno avranno avuto quello che secondo me dovrebbe valere il prezzo del corso. E credo di dover precisare che se questo non vi interessa, non potete neppure immaginare quanto poco interessante sarà il resto.

[…] Il messaggio più generico è che il mondo in cui vivete è organizzato in maniera assai più capillare di quanto possiate immaginare. […] Farò alcune osservazioni sui motivi per cui lo studio di come si raccontano le storie dovrebbe essere interessante per chiunque. Ma non è necessario continuare a seguire il resto del corso per comprendere quel messaggio, e per essere armati di una serie di materiali che permettono di andare in giro a notare cose che magari non si sarebbero notate, e trovarle orrende. (ibidem, p. 215, tda) [primo corsivo di Sacks, altri miei]

Secondo lo stesso Sacks, il senso di fare ciò che fa è, naturalmente, come per qualsiasi tipo di lavoro scientifico, diventare in grado di notare cose che altrimenti sarebbero sfuggite alla nostra attenzione; ma questo potenziamento delle nostre capacità percettive deve essere necessariamente accompagnato da un mutamento del nostro atteggiamento; l’atteggiamento che prescrive Sacks non ha nulla a che vedere con quelli che vengono considerati naturalmente appropriati per la rappresentazione dell’identità sociale dello studioso, come la neutralità, l’impersonalità, o il distacco scientifico. Quello che Sacks si aspetta è che, una volta che abbiamo notato queste cose, noi non ci limitiamo a trovarle interessanti o a scriverci sopra dei lavori che cercheremo di pubblicare su riviste con un alto impact factor. Sacks si aspetta, piuttosto, che la nostra reazione sia tanto etica quanto politica: “trovarle orribili”. Questo è il motivo per cui i materiali che ci presenta sono, come dice, qualcosa con cui “veniamo armati”: perché il loro impiego corretto non è soltanto la critica intellettuale, ma anche la ribellione politica. E che questa convinzione fosse condivisa almeno da un’altra persona tra i fondatori dell’analisi della conversazione è dimostrato dal fatto che, quando a Gail Jefferson (molto prima di curare un’edizione completa delle lezioni di Sacks; anzi, quando nessuno avrebbe potuto prevedere che una simile edizione sarebbe mai esistita) venne chiesto di mettere insieme un breve saggio che potesse esemplificare la portata e il senso del lavoro di Sacks, lei scelse di aprirlo con questa lezione, e non omise queste osservazioni (Sacks, 1984).

Si può pertanto sostenere che l’impresa a cui si dedicò Sacks, la sua denaturalizzazione delle categorie sociali e del “lavoro” che implicano, fu esattamente parallela a quella che Butler avrebbe compiuto quasi vent’anni più tardi per mezzo del fortunato termine performance, e ne anticipò le epocali conseguenze ontologiche.

Non è possibile dare un’idea chiara delle prospettive e dei problemi che verrebbero aperti da un tentativo serio e sistematico di applicare Sacks al queer senza fornire qualche telegrafica informazione sulla sua situazione bibliografica. Nel 1975, quando morì a quarant’anni in un incidente d’auto, Sacks aveva pubblicato circa una dozzina di articoli, ma godeva di notorietà internazionale grazie alle trascrizioni delle sue lezioni, che da una decina d’anni circolavano tra sociologi, psicologi e linguisti di tutto il mondo anglofono, e che avevano reso la disciplina da lui fondata, l’analisi della conversazione, pur nell’assenza di qualsiasi codificazione manualistica, straordinariamente vivace e produttiva[13]. Tutte le lezioni superstiti sono state pubblicate a cura di Gail Jefferson (prima allieva di Sacks e creatrice del sistema di trascrizione oggi

universalmente usato dagli studiosi che si occupano di analisi della conversazione) nel 1992. Tutto ciò che finora è pubblicamente accessibile del lavoro di Sacks sulle categorie è contenuto nelle Lectures, mentre testi più ampiamente accessibili come On Doing ‘Being Ordinary’ (Sacks, 1984), sono stati assemblati dopo la morte di Sacks a partire da materiale presente nelle Lectures[14]; pertanto, è nelle Lectures che vanno cercati i fondamenti concettuali e metodologici del programma di ricerca che propongo. Le Lectures sono trascrizioni di testi orali rivolti a un pubblico di principianti assoluti; inoltre coprono un periodo di nove anni, durante il quale gli interessi e le teorie di Sacks subirono cambiamenti di direzione sotto l’influsso di fattori diversi e in gran parte impossibili da ricostruire: di conseguenza sono caratterizzate da discontinuità, incoerenze e ripetizioni. Le idee di Sacks sulle categorie non hanno quindi mai ricevuto una formulazione definitiva e sistematica, ma vanno recuperate attraverso un paziente e prolungato lavoro di spoglio e, in parte, per mezzo di collegamenti inferenziali tra sezioni di testo non contigue e non esplicitamente collegate, necessari a completare o ad approfondire la definizione dei vari concetti e delle loro modalità di applicazione. A titolo esemplificativo, vorrei proporre alcuni esempi della forma che questo lavoro dovrebbe assumere e dei risultati che sarebbe lecito attendersene, in maniera da permettere di valutarne l’interesse e l’opportunità.

Mi limiterò a tre campioni, prendendo in esame tre concetti: accountable action, category-bound activity e quello di doing being ordinary. Sono stati scelti secondo due criteri: la loro facilità di comprensione per un uditorio che suppongo privo di qualsiasi familiarità con il pensiero, del resto assai complesso, di Sacks, e la loro rilevanza rispetto alle attuali priorità teoriche e politiche del queer. L’esemplificazione avrà lo scopo di illustrare il modo in cui questi concetti permettono di riformulare questioni centrali nell’attuale dibattito sui temi della sessualità e del genere, introducendo una prospettiva nuova, rigorosa e produttiva, che permette di delineare una posizione propriamente queer, posizione che, come tale, in molti casi si dimostra chiaramente distinta non solo dal generico liberalismo progressista ma anche da una specifica adesione ai valori e alle priorità LGBT. Il compito, assai più stimolante, di mostrare come l’ambito teorico e politico del queer possa essere ridisegnato e ripensato a partire da una riflessione sistematica sull’opera di Sacks, dovrà essere rimandato a un altro momento.

 

2. Tre esempi

 

2.1 L’omosessualità come “soggetta a spiegazione”

Nella prima lezione, Sacks introduce il concetto di accountable action (azione soggetta a spiegazione):

Ciò che si fa quando si chiede “Perché?” è implicare riguardo a qualche azione che si tratta di un’”azione soggetta a spiegazione”. Vale a dire, “Perché?” è un modo di chiedere una spiegazione. Le spiegazioni sono una cosa incredibile. E l’uso delle spiegazioni, e l’uso delle richieste di spiegazione, sono fenomeni sottoposti ad una ferrea regolazione. (Sacks, 1992, vol. I, p. 4, tda)

Tra le norme sociali che regolano le spiegazioni, c’è che non tutte le attività sono considerate “soggette a spiegazione”:

A: Spero che tu ti diverta.

B: Perché?

Il “Perché” in questo caso è evidentemente una risposta paranoica, e da tutta la conversazione da cui è tratto questo estratto risulta chiarissimo che la persona che la pronuncia è paranoica (ibidem, p. 19, tda).

Trattare come accountable un’attività non-accountable espone al rischio di una diagnosi psichiatrica (più o meno ufficiale), o almeno alle reazioni tutt’altro che amichevoli descritte da Harold Garfinkel nei suoi resoconti di breaching experiments[15].

Altrettanto rilevanti per la pragmatica del concetto di “azione soggetta a spiegazione” sono due osservazioni che Sacks fa in altri luoghi delle Lectures. Anzitutto, le spiegazioni sono sempre potenzialmente controverse (“il compito della persona a cui viene presentata la spiegazione può dunque essere, in qualche modo, di respingerlo” (ibidem, p. 5)). Pertanto, designare qualcosa come accountable vuol dire implicitamente e quasi necessariamente mettere in posizione di inferiorità la persona che è chiamata a fornire la spiegazione, perché qualunque spiegazione può essere messa in questione. Questo ha l’effetto, che può essere psicologicamente e socialmente devastante, di mettere potenzialmente la persona alla mercè dell’interlocutore. In secondo luogo,

le variazioni dalla normalità sono fenomeni osservabili. […] E se il prodotto di una qualche verifica evidenzia uno stato che varia rispetto alla norma, questo fa sì che quello stato sia osservabile, e genera un’occasione per una spiegazione per quello stato. Vale a dire, giustifica l’inizio di un’investigazione su come mai si è prodotto. (ibidem, p. 58, tda)

In altre parole, l’essere “soggetto a spiegazione” è una proprietà sociale degli stati percepiti come variazioni rispetto a una normalità.

Non è necessaria una grande immaginazione teorica per rendersi conto che i concetti di “soggetto a spiegazione” e di “non soggetto a spiegazione” potrebbero rappresentare una risorsa utilissima per un’analisi queer. Ad esempio, tutte le teorie sull’origine dell’omosessualità, per il fatto stesso di proporne una spiegazione e di ipotizzarne un’eziologia, la presentano per definizione come “soggetta a spiegazione”, e quindi, secondo una logica implicita ma ineludibile, come “anormale”[16]. In una prospettiva queer (che in questo come in altri campi si distingue piuttosto nettamente da quella LGBT liberal-progressista-diritti civili) non esistono teorie dell’omosessualità buone (all’epoca del femminismo lesbico di any woman can scelta politicamente consapevole, oggi biologica, domani chissà) o cattive (capriccio perverso e colpevole, effetto nevrotizzante della mamma frociogena, seduzione da parte di lercio pedofilo che non è stato castrato in tempo…): l’unico teorico dell’omosessualità buono è quello morto, in quanto aderire a una qualsiasi teoria dell’omosessualità vuol dire implicitamente definire l’omosessualità come qualcosa di accountable, ciò che evidentemente nessuno mai si sognerebbe di fare in relazione all’eterosessualità. Il fatto che ci siano maniere più o meno ripugnanti di sfruttare questa fraudolenta asimmetria non rende l’asimmetria stessa meno epistemologicamente insostenibile, né meno politicamente perniciosa. L’unica reazione coerentemente queer a operazioni del genere, del tutto indipendente dal loro “contenuto”, è usare contro di loro lo stesso costrutto gnoseologico su cui si fondano, presentando come “soggetta a spiegazione” non il fenomeno che vorrebbero spiegare, bensì l’azione stessa di cercarne una spiegazione (ad esempio, organizzando erudite giornate di studio su “Perché studiare l’origine dell’omosessualità? Un problema di sociologia della scienza”) o ribaltando l’uso del dispositivo della “spiegazione” (“Eziologia dell’eterosessualità: ipotesi a confronto in una prospettiva interdisciplinare”).

 

2.2 La femminilità come archetipo della degradazione

In una notevole varietà di contesti socioculturali, dall’antica Grecia[17] alla Palermo o alla Napoli dei giorni nostri[18], si può osservare un curioso fenomeno: ad essere colpiti dal marchio della devianza sessuale, con tutte le sue devastanti conseguenze sociali, non sono entrambi i partner di un rapporto tra uomini ma unicamente quello passivo, mentre chi ricopre il ruolo attivo (che si suppone si identifichi con la penetrazione) non è in alcun modo stigmatizzato, e continua a considerarsi e a definirsi, e ad essere considerato e definito, come aproblematicamente “virile”.

La logica piuttosto peculiare alla base di questa asimmetria può essere chiarita facendo riferimento a un tema centrale nella riflessione di Sacks, quello delle categorie usate in una società per classificare i membri e per catalogare e produrre informazioni che li riguardano:

Sembra che ci sia una classe di insiemi di categorie. Per “insiemi di categorie” intendo esattamente questo: un insieme composto da un gruppo di categorie. Esiste più di un insieme, ciascuno dei quali può essere identificato, e hanno proprietà comuni. Ed è questo che intendo quando dico che sono una “classe”.

Una prima cosa che possiamo dire su questa classe di insiemi di categorie è che i suoi insiemi sono del genere “quale”. Con questo intendo che, quale che sia il numero di categorie che contiene un insieme, e indipendentemente dall’aggiunta o dalla sottrazione di categorie per quell’insieme, le categorie di ciascun insieme classificano una popolazione. Ora, queste categorie non le ho inventate io, sono categorie usate dai membri di un gruppo sociale. I nomi degli insiemi sarebbero cose come sesso, età, razza, religione, forse occupazione. E in ciascun insieme ci sono categorie che possono classificare ciascun membro della popolazione. Li chiamo insiemi sono del genere “quale” perché le domande che riguardano ciascuno di loro possono essere formulate come “Per un insieme dato, quale sei?”, e si presume che “Nessuno” non sia un elemento di nessuna delle categorie. […] E naturalmente per alcuni insiemi non c’è bisogno di fare la domanda.

Una seconda cosa che possiamo dire su questa classe di insiemi di categorie è che le sue categorie sono quel che potremmo chiamare “inferenzialmente ricche”. Con questo intendo che una grande quantità delle conoscenze che i membri di una società posseggono riguardo alla società è immagazzinata nei termini di queste categorie. E con “immagazzinata nei termini” intendo che molta della conoscenza ha un qualche termine di categoria appartenente a questa classe come soggetto. […]

Una terza caratteristica è che si presume che qualsiasi membro di qualsiasi categoria sia un rappresentante di quella categoria per i fini dell’uso di qualunque conoscenza sia immagazzinata in riferimento a quella categoria. (ibidem, pp. 40-41, tda)

Secondo Sacks, una proprietà fondamentale delle categorie sociali è quella di essere organizzate in insiemi che hanno tre caratteristiche: 1) le categorie di ciascuno possono essere usate per classificare tutti i membri di una società (ad esempio, tutti devono avere un’età o un sesso); 2) le informazioni che una società crea e fa circolare riguardo ai suoi membri sono collegate a queste categorie (si ritiene comunemente di poter attribuire alle persone di una certa età o di un certo sesso determinate caratteristiche); 3) queste attribuzioni riguardano tutti i membri di una certa categoria (“le donne sono fatte così”).

Tra le informazioni collegate in maniera necessaria e sostanziale alle categorie c’è l’attribuzione a particolari categorie di determinate attività, che perciò Sacks definisce “attività legate a categorie”:

Introduciamo adesso un termine, che chiamerò “attività legate a categorie”. Quello che intendo con questo termine è che ci sono moltissime attività che i membri di un gruppo sociale assumono vengano compiute da una qualche particolare categoria di persone, o diverse categorie di persone […]. (ibidem, p. 241, tda)

È abbastanza ovvio che, agli occhi di un numero sufficientemente alto di individui deplorevolmente privi di immaginazione, la penetrazione e l’essere penetrati sono “attività legate a categorie”, e le categorie a cui sono legate sono, rispettivamente, quella di maschio e di femmina; non è quindi stupefacente che il senso comune possa considerare l’”attività legata a categorie” dell’essere penetrati (o la sua semplice possibilità, per quanto vaga, astratta e indiretta) come un pretesto sufficiente per una categorizzazione femminile e, quindi, per la stigmatizzazione di coloro che osano mettere in questione la propria appartenenza alla categoria maschio dedicandosi a un’attività “legata alla categoria” di femmina.

Tuttavia, per quanto semplicistica e pretestuosa possa essere la logica che tratta un’unica “attività legata a categorie” come un dato sufficiente a mettere in dubbio la categorizzazione di un individuo, il suo funzionamento non spiega ancora la valenza profondamente negativa che viene unanimemente attribuita a qualunque traccia, sospetto o paranoia di “effeminatezza”[19]. Quando dico “unanimemente” non mi riferisco, purtroppo, soltanto, e neppure in primo luogo, a contesti culturali retrivamente omofobi o a persone che non hanno mai visto un omosessuale (almeno, non consapevolmente) e che se ne costruiscono un’immagine assurda e chimerica, deformata dall’ignoranza e dal pregiudizio.

SONO UN MASKIO E CERCO UN MASKIO

Fin qui non ci sarebbe decisamente nulla da eccepire (a parte l’ortografia), se non fosse per il fatto che questo è il testo di un annuncio pubblicato su un sito gay, in cui quindi tutti i possibili interlocutori sono per definizione “maski”. A chiarire il senso di questo apparente pleonasmo è la continuazione dell’annuncio:

NO KEKKE

Evidentemente, per l’anonimo autore il pubblico dei siti gay può essere diviso in due categorie: i “maski” come lui e le “kekke”, con cui non intende avere alcun rapporto.

MASCHIOGARANTITO

MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100% MASCHIO 100%

CERCO SOLAMENTE MASCHI 100%, PER FAVORE EVITATE DI CONTATTARMI… TANTO UNA VOLTA SENTITO AL TELEFONO O VISTO IN CAM SI CAPISCE TUTTO!!!

L’enfasi con cui quest’altro inserzionista ribadisce quella che rappresenta la condizione normale e necessaria per trovarsi sul sito (l’essere, appunto, “maschio”, esattamente come tutti gli altri utenti) rivela anche nel suo caso l’azione di una categorizzazione che distingue i “masch[i] garantit[i]” al “100%” come lui da un’altra categoria, che secondo lui vorrebbe passare per tale (come dimostra l’intenzione, che viene loro attribuita, di rispondere all’annuncio), ma che, per la presenza di evidenti tratti screditanti[20], può essere smascherata da una verifica via webcam o telefono.

Non si tratta, purtroppo, di casi isolati: la breve e deprimente rassegna che segue (che avrei potuto estendere all’infinito) è il risultato di qualche minuto di browsing su uno dei più frequentati siti di annunci personali gay (www.gayromeo.com):

Cerco un maskio di nome e di fatto alla larga quindi bimbetti vari, eff o kekke nn fanno x me

Sono maschile e pretendo lo stesso, fuori dalle balle checche effeminati e indecisi

NO a effemminati (ops…donne mancate) a grassi, depilati, e checche isteriche!

MASCHIO PER MASCHIO. SE CERCHI IL CLASSICO FINOCCHIO CON ME MARCA MALE

Sono un uomo, sotto tutti gli aspetti e con tutti gli attributi, che si comporta da uomo. E vorrei relazionarmi con un uomo che si comporta da uomo.

Non sono interessato a finte donne o a donne mancate, nè a checchè isteriche.

No a checche o donne mancate, no a dichiarati. Cerco uomini con la U maiuscola!

…NO DONNE…NO KEKKE…NO POLSI ROTTI…NE GENTE EFFEMMINATA

Il Bello di essere Maskio con altri Maski! Sottolineo MASKI! NO a iperpassivi!!!

…POTETE BARDARVI CON FINIMENTI DA CAVALLO, MA SE SIETE DELLE CIUCHE…SEMPRE TALI RESTERETE!!!

Stilemi come “maskioxmaskio”, “no effeminati”, “astenersikekke” (in infinite variazioni, tra cui molte piuttosto crude) sono onnipresenti non solo nel testo delle richieste di contatto[21], ma anche come username, e rappresentano spesso l’unica informazione sulle esigenze e le preferenze dell’autore[22]. E la possibile obiezione che questi annunci si limitano ad esprimere, per quanto in maniera enfatica e poco urbana, una preferenza estetica, è resa assolutamente insostenibile dalla loro formulazione chiaramente insultante, legittimata (linguisticamente prima ancora che socialmente) solo dalla condivisione culturale di una categorizzazione stigmatizzante: è del tutto impossibile, ad esempio, immaginare annunci di questo tipo:

Sono bruno e pretendo lo stesso, fuori dalle balle biondi rossi e calvi

No a biondi o rossi mancati, no a calvi. Cerco bruni con la B maiuscola![23]

Il disprezzo e la ripugnanza che esprimono, che non hanno nulla da invidiare alle esternazioni dei leghisti più ruspanti, possono essere, se non compresi, almeno spiegati facendo riferimento a un importante sviluppo del concetto di “attività legate a categorie”:

Il termine “bambino” è parte di un insieme di quelle che chiamerò “categorie posizionate”: “bambino” … “adolescente” … “adulto”. I puntini significano che ci sono altre categorie in mezzo, in vari posti. Per “posizionato” intendo una cosa come che si può dire che B è più in alto di A, e se B è più in basso di C, allora A è più in basso di C, ecc. […]

Se c’è un’attività “legata” a una qualche categoria dell’insieme posizionato, allora una cosa che possiamo trovare in riferimento a questo è che se una persona è un membro di un’altra categoria del genere, e compie l’azione che è legata a questa categoria, allora si può dire che “si comporta come un X”, dove X sta per qualsiasi categoria a cui l’attività è legata. E quando si dice a qualcuno che si sta “comportando come un X”, o qualcosa del genere, viene fuori che questa può essere una di due generi di azioni. Se l’attività è legata ad una categoria più bassa di quella in cui si trova la persona, allora l’affermazione è una “degradazione”. Se l’attività è legata ad una categoria più in alto di quella in cui si trova la persona, allora l’affermazione è una “lode”. Così che, per dire, nel caso di un “adolescente” che piange, si può dire che “si comportano come un bambino”, e quell’affermazione verrà vista come un’affermazione “degradante”. […]

Di conseguenza è possibile usare affermazioni del tipo “comportarsi come un X”, “sembra un X” ecc. per cominciare a raccogliere alcuni dati rilevanti per dimostrare che una qualche affermazione di cui si vuole dimostrare che è legata a una categoria lo è oppure no. Ed è possibile raccogliere, ad esempio, gli specifici usi insultanti delle categorie, vale a dire quando si dice di qualcuno “è un X” quando non è vero, constatando che la cosa che ha fatto è “legata alla categoria” “quella gente lì”. (ibidem, pp. 586-587, tda)

 

Che le categorie maschio/femmina nella nostra cultura siano rigidamente gerarchizzate è evidente (se non altro) dall’assenza di espressioni come “*uomo con le ovaie” o “*comportati da donna!”. E questa gerarchizzazione, onnipresente e di fatto indiscutibile, spiega non solo la ridicolizzazione che nelle più varie culture colpisce i partner “passivi” di un rapporto omosessuale tra uomini, ma, purtroppo, anche l’intolleranza feroce e la repulsione violenta manifestata per qualunque sospetto di degradante femminilità dai membri di un gruppo che, per continua e dolorosa esperienza, dovrebbe dimostrarsi particolarmente sensibile a questa forma di stigmatizzazione, e che invece si dà da fare con tutte le sue forze per perpetuarla. E che si tratti esattamente della stessa forma di stigmatizzazione, con lo stesso significato, è dimostrato dal fatto, altrimenti inspiegabile, che la categoria delle “kekke” viene normalmente caratterizzata da un modificatore non genericamente negativo ma quintessenzialmente femminile come “isteriche”, e associata a quelle degli “effeminati” e delle “donne mancate”[24].

Naturalmente, non sto in alcun modo implicando alcun tipo di continuità storica o di coerenza consapevole fra la sessualità mediterranea tradizionale e i valori, gli atteggiamenti e i comportamenti dei gay contemporanei: ad esempio, sono ben consapevole del fatto che gran parte degli autori degli annunci “maschiopermaschio” nel modello mediterraneo verrebbero classificati come passivi, e che non vedono alcuna contraddizione tra questa preferenza sessuale e le loro aggressive e intolleranti rivendicazioni di virilità[25]. Quello che sto dicendo è che il disprezzo per le donne costituisce il fondamento soggiacente di una varietà di costruzioni di quella che chiameremmo omosessualità, ciascuna delle quali è poi ulteriormente determinata da un’ampia gamma di altri fattori. E che questi fattori non siano soltanto storici e sociali ma possano essere anche, ad esempio, intensamente politici, si può capire se si contestualizza nel modo appropriato ciò che Sedgwick (1990) chiama:

la contraddizione tra il vedere la scelta oggettuale omosessuale da un lato come una questione di liminalità o transitività fra i generi, e vederla dall’altro lato come riflessione di un impulso verso il separatismo – anche se non necessariamente separatismo politico – all’interno di ciascun genere. (p. 2, tda)

Sedgwick colloca correttamente questa “contraddizione” agli albori del movimento tedesco per i diritti omosessuali, più specificamente nel conflitto tra Magnus Hirschfeld e Benedikt Friedländer:

L’immanenza di ciascuno di questi modelli per tutto il corso della storia della definizione moderna dell’omosessualità maschile risulta chiara dalla precoce spaccatura nel movimento tedesco per i diritti omosessuali tra Magnus Hirschfeld, fondatore (nel 1897) del Comitato scientifico-umanitario, che credeva nel “terzo sesso”, che assumeva (nella parafrasi di Don Mager), “un’equazione perfetta […] tra comportamenti che trasgredivano il binarismo di genere e il desiderio omosessuale”; e Benedict [sic] Friedlander [sic], co-fondatore (nel 1902) della Comunità degli speciali, che al contrario concludeva “che l’omosessualità era il più alto, più perfetto stadio evolutivo della differenziazione tra i generi”. Come spiega James Steakley, secondo questa tesi successiva “il vero tipo invertito, distinto dall’omosessuale

effeminato, era visto come il fondatore della società patriarcale e collocato al di sopra dell’eterosessuale in quanto a talento per la leadership e l’eroismo. (pp. 88-89, tda)

Tuttavia, Sedgwick trascura di contestualizzare la controversia Hirschfield/Friedländer nell’ambito più ampio della cultura, della società e della politica tedesche del tempo. Lungi dall’essere una questione astratta di rilevanza meramente teorica, il conflitto tra una definizione dell’omosessualità maschile come stadio intermedio tra uomo e donna (e pertanto come forma di accettazione, o di appropriazione, della femminilità) o, al contrario, come forma di ipermascolinità di gran lunga superiore a quella attingibile dai semplici uomini eterosessuali (e pertanto come ripudio radicale e senza compromessi e svalutazione della femminilità), non è che un aspetto relativamente marginale di un conflitto ben altrimenti cruciale, assai più vasto e meno rassicurante. Nel suo contesto storico originale, l’ipervirilità di Friedländer si affermava – e veniva letta – in opposizione non solo alle teorizzazioni alternative di Hirschfeld ma, in maniera ben altrimenti saliente, alla dubbia e insufficientemente aggressiva mascolinità degli uomini ebrei[26]; la sua contiguità con l’emergente razzismo “ariano” è evidente non solo dal fatto che Friedländer era un ebreo convertito e violento antisemita, ma anche nelle preferenze politiche dei suoi seguaci, difensori settari della “razza ariana” contro la contaminazione dell’“effeminatezza ebraica”. Magnus Hirschfeld (come parecchi dei suoi sostenitori) era, naturalmente, ebreo[27].

La conclusione, ammesso che ci sia bisogno di esplicitarla, è che una critica queer condotta in maniera rigorosa e sistematica si trova costretta a riconoscere che omosessuali e omofobi (pur nella loro eterna contrapposizione, sul piano politico come oppressi e oppressori e spesso, purtroppo, nella vita quotidiana come vittime e carnefici) trovano inopinatamente un punto d’incontro in quello che rischia di dimostrarsi il fondamento più saldo e meno discutibile, quasi indipendentemente dall’epoca e dalla latitudine, di innumerevoli forme di identità culturale: una violenta, rabbiosa, irrazionale misoginia.

 

2.3 Il matrimonio come “performance della normalità”[28]

Qualunque cosa possiate pensare su cosa sia essere una persona normale nel mondo, una trasformazione da cui cominciare è non pensare a “una persona normale” come ad una qualche persona, bensì come a qualcuno che ha come proprio lavoro, come oggetto della propria concentrazione costante, il fare “essere normale”. Non è che qualcuno è normale; forse è che questo è il suo compito, e richiede lavoro, come qualsiasi altro compito. Se soltanto decidete di estendere l’analogia di ciò che concepiamo come lavoro – come qualunque cosa che richieda energia analitica, intellettuale, emotiva – allora riuscirete a vedere che tutte le cose che vengono nominalizzate (ad esempio, le caratteristiche personali) sono lavori che vengono eseguiti, che hanno richiesto una qualche forma di sforzo, di addestramento, e così via.

Perciò non parlerò di una persona normale come di questa o quella persona, o come di una media; vale a dire, come di una persona non eccezionale su qualche base statistica, ma come qualcosa che rappresenta il modo in cui qualcuno si autocostituisce, e, in effetti, un lavoro in cui le persone, e la gente intorno a loro, possono essere impegnate coordinando le loro azioni, in modo da conseguire che ciascuna di loro, insieme, siano persone normali.

Una domanda fondamentale è: in che modo le persone riescono a fare “essere una persona normale”? In prima approssimazione, la risposta è facile. Tra i modi in cui si fa “essere una persona normale” c’è il trascorrere il tempo in modi soliti, avere pensieri soliti, interessi soliti, così che per essere una persona normale la sera non ci sia bisogno di fare altro che accendere la TV. Ora, il punto è vedere che non è che si dà il caso che uno faccia ciò che fa tantissima altra gente, ma che uno sa che il modo di fare “avere una serata solita”, per chiunque, è fare quella cosa. Non è che uno per caso decide, ehi, stasera guarderò la tivù, ma che uno ne fa un lavoro, e trova la risposta a come fare “essere normale” stasera. […]

Perciò una parte del lavoro è che bisogna sapere che cos’è che chiunque/tutti stanno facendo; facendo normalmente. Inoltre, è necessario avere la disponibilità di fare quella cosa. Ci sono persone che non hanno la disponibilità di fare quella cosa, e che specificamente non possono essere normali. (Sacks, 1984, pp. 414-415, tda)

Nelle lezioni del 1970-71 (dal cui testo trascritto Gail Jefferson, dopo la morte di Sacks, mise insieme questo saggio nel 1992), Sacks aveva affrontato, circa vent’anni prima di Butler, il tema della normalità come risultato di un’attività continua e sistematica, perseguita con impegno indefesso e la cui esecuzione esige, tra l’altro, la disponibilità di determinate risorse. E la questione delle risorse necessarie per quella che la teoria queer definisce la performance della normalità[29], e che Sacks chiamava “doing being ordinary”, e della loro disponibilità, a costituire, secondo me, il punto di partenza più illuminante per formulare una presa di posizione propriamente queer sulla questione del matrimonio delle persone omosessuali. Preciso, anche se non dovrebbe essere necessario, che non solo una prospettiva queer non si identifica necessariamente con una prospettiva LGBT o politicamente progressista, ma che una presa di posizione queer può anche collocarsi in contrasto con considerazioni elementari di filosofia del diritto (esattamente come considerazioni di filosofia del diritto potrebbero – se solo i filosofi del diritto fossero a conoscenza dell’esistenza del queer – collocarsi in contrasto con i più elementari principi di critica queer). Una sentenza come quella della Corte costituzionale (la 245/2011), che afferma che il matrimonio è un “diritto umano fondamentale”, che pertanto non può essere negato neanche allo straniero clandestino, mentre la stessa Corte aveva stabilito (con la sentenza 138/2010) che questo “diritto umano fondamentale” dovesse continuare ad essere negato a tutte le persone omosessuali che non fossero interessate a contrarre un matrimonio etero, dal punto di vista giuridico è evidentemente e univocamente una mostruosità, in quanto non è concepibile, nel quadro dell’attuale definizione di Stato, che esista un diritto che in uno Stato spetta allo straniero clandestino ma non ai cittadini[30].

In una prospettiva queer, tuttavia, vanno considerate pertinenti anche altre considerazioni. In particolare, il matrimonio non è soltanto, come ha giustamente ribadito la Corte costituzionale, un diritto umano fondamentale (non solo degli stranieri clandestini eterosessuali ma anche degli italiani omosessuali!), bensì anche un’indispensabile risorsa per svolgere il lavoro della normalità. In questa prospettiva, tutta la battaglia sul tema del matrimonio tra persone dello stesso sesso, in tutti i suoi aspetti giuridici, politici e mediatici, può essere interpretata come una battaglia per il diritto a “performare la normalità” e pertanto come un’implicita, ma fortissima, convalida della desiderabilità assoluta e oggettiva della normalità come unico oggetto legittimo e ragionevole delle aspirazioni esistenziali di chiunque.

È evidente che il matrimonio non è unicamente un oggetto scenico per la rappresentazione della normalità,

ma fornisce anche importantissime tutele giuridiche; tuttavia dovrebbe essere altrettanto evidente che la sua funzionalità in questa prospettiva è tutt’altro che ottimale, e che questa (sacrosanta) finalità di tutela potrebbe essere senza danno (anzi, con considerevoli vantaggi) assolta da istituti giuridici più razionali e flessibili[31]; la mia parte queer (ammesso che il 100% possa essere definito una parte) non riesce a non chiedersi se il fatto che queste alternative continuino a ricevere un’attenzione scarsissima o nulla, non solo nel dibattito politico ma anche da parte degli specialisti, non dipenda in primo luogo dall’impossibilità di utilizzarle per la “performance della normalità”.

Il problema è che il lavoro della normalità è eticamente e politicamente tutt’altro che neutro[32]. Per comprendere la natura dei suoi effetti e il meccanismo attraverso cui sono conseguiti, dobbiamo fare di nuovo riferimento a uno degli ambiti più profondi e più produttivi della riflessione di Sacks, il suo lavoro sulle categorie. L’interesse di Sacks per i processi di categorizzazione non ha nulla di astratto, ma nasce dal ruolo centrale che le categorie assolvono in tutti i processi socialmente mediati, a cominciare da quelli tanto elementari e fondamentali che potrebbero sembrare regolati da meccanismi puramente individuali di tipo fisiologico o cognitivo, come la percezione e la comprensione. Per la natura dei suoi interessi e della sua formazione (su cui si veda sopra la nota n. 3) Sacks colloca al centro della propria riflessione le categorie che servono a designare quelli che (con un termine derivato da Garfinkel e, in ultima analisi, da Parsons) il lessico tecnico dell’analisi della conversazione continua a definire members, vale a dire i membri di una società. Tra queste, quella più importante è proprio quella di member, vale a dire di membro a pieno titolo di un gruppo sociale; uno dei principi più importanti relativi al suo funzionamento che è possibile inferire collegando diversi luoghi delle Lectures è che essa è delimitata da “categorie marginali” (boundary categories; Sacks, 1992, vol. I, p. 71), che hanno la funzione di limitare e mettere in questione il diritto di alcuni individui (o di alcuni gruppi) di essere considerati membri a pieno titolo della società. Se ci chiediamo per quale motivo così tanta gente impieghi una quantità così ingente di tempo e di energie nel lavoro non precisamente produttivo (e tutt’altro che gratificante) della normalità, la risposta che è possibile inferire dalle Lectures è che la normalità rappresenta una condizione necessaria per essere categorizzati come members e avere diritto a tutta una serie di privilegi che si possono considerare minimali e scontati fino a quando non ci si rende conto di quanto facilmente siano revocabili:

Potreste adesso tenere a mente questo punto e, guardandovi vivere nel mondo – o guardando qualcun altro, se è più piacevole – potreste vederli lavorare per trovare come renderlo normale. Presumibilmente, sarebbe a partire da questo genere di consapevolezza percepita, ad esempio, della facilità con cui, in conseguenza dell’esercizio, vedete solo le caratterizzazioni più usuali delle persone che passano (quella è una coppia di coniugi e quello è un nero e quella è una vecchia signora) o che aspetto ha un tramonto, o di cosa consiste un pomeriggio con la vostra ragazza o il vostro ragazzo, che potete cominciare a rendervi conto che esiste un qualche genere di meccanismo immensamente potente che gestisce le vostre percezioni e i vostri pensieri, al di là delle cose note e immensamente potenti come la chimica della visione e così via.

Questo genere di cose non spiegherebbero come mai va a finire che vedete che, ad esempio, non è successo niente; che potete tornare a casa giorno dopo giorno e, a chi vi chiede cos’è successo riferire, senza dissimulare, che non è successo niente. E, se state dissimulando, ciò che dissimulate, se venisse riferito risulterebbe non essere nulla di speciale. E come succede a voi, così succede alle persone che conoscete. E inoltre, che avventurarsi al di fuori dell’essere normali ha virtù sconosciute e costi sconosciuti. Vale a dire, se tornate a casa e riferite che aspetto aveva l’erba lungo l’autostrada; che si potevano osservare quattro sfumature diverse di verde, alcune delle quali erano comparse soltanto ieri a causa della pioggia, allora è ben possibile che chi vi ascolta diventi un po’ teso. E se lo doveste fare abitualmente, la gente potrebbe decidere che avete qualcosa di strano; che siete pretenziosi. Potreste scoprire che vi invidiano. Potreste perdere degli amici. Vale a dire, potrebbe interessarvi farvi un’idea di quali costi avrebbe avventurarvi nel rendere epica la vostra vita. (Sacks, 1984, pp. 418-419, tda)

Per quanto tantissima gente sia convinta che l’esperienza sia una gran cosa, e apparentemente almeno alcune persone siano ansiose di avere esperienze, si tratta di un genere di cose regolate in maniera straordinariamente precisa. Le occasioni di titolarità ad averne sono regolate con precisione, e poi l’esperienza che si ha titolo ad avere nell’occasione in cui si ha titolo ad averla è ulteriormente regolata con precisione. Nella misura in cui raccontare fa parte dell’esperienza, allora il raccontarla costituisce uno dei modi in cui ciò che potresti farne per conto tuo è soggetto al controllo di una presentazione pubblica, anche a quello che pensavi fosse un amico.

Vale a dire, i tuoi amici non ti aiuteranno, in genere, quando gli racconti una cosa, a meno che tu non gliela racconti nel modo in cui chiunque dovrebbe raccontarla a chiunque. Allora saranno divertiti o dispiaciuti nel modo appropriato. Altrimenti ti accorgerai che ti osservano per vedere che, per esempio, stai esagerando qualcosa che non hai titolo ad esagerare, o stai sminuendo qualcosa che dovrebbe essere più grande, o non ti sei accorto di qualcosa che avresti dovuto vedere, tutti fatti che si possono dedurre in virtù del modo in cui hai dato forma alla cosa come si doveva. (ibidem, pp. 428-429, tda)

Il tentativo, da parte di qualsiasi individuo o gruppo a cui, con qualunque pretesto, venga negato lo status di membro a pieno titolo della società, di procurarsi un’attrezzatura il più possibile completa per la rappresentazione della normalità (per quanto possa essere considerato legittimo dal punto di vista della o delle vittime di discriminazione, e pertanto degno di essere sostenuto per ragioni di umanitarismo progressista), in una prospettiva queer ha il difetto, non secondario e non marginalizzabile, di non mettere minimamente in discussione il confine che separa i membri a pieno titolo dalle categorie marginali, ma di proporsi unicamente di spostarlo un po’ più in là, dove ad essere vittima dei suoi effetti discriminatori sarà qualcun altro.

Questo perché il premio del lavoro ingrato e indefesso della normalità, l’agognata condizione di membro, non può essere elargito a tutti: non perché pochi sono disposti a lavorare seriamente per ottenerlo, ma semplicemente perché l’esistenza di categorie marginali rappresenta una necessità logica per il suo funzionamento e la sua stessa definizione. Che infilandosi nella normalità si finisca sempre per lasciar fuori qualcun altro non è uno scherzo crudele e imprevedibile del destino cinico e baro: la normalità è fatta per lasciare fuori qualcuno. Se la condizione di member potesse essere estesa a chiunque, smetterebbe di esistere come tale, in quanto la sua struttura più profonda è logicamente esclusiva e pertanto moralmente ricattatoria: offre il privilegio di non essere additati, criticati, ridicolizzati, repressi in cambio dell’obbligo a diventare come tutti gli altri, a mutilare in maniera crudelissima e sistematica tutte le peculiarità più intime e individuali del proprio modo di essere, di sentire, di pensare, di vivere per farle entrare nella bara di Procuste della normalità.

Stando così le cose, l’unico atteggiamento coerentemente queer ed eticamente ammissibile è, a livello individuale, rifiutarsi di entrarci, e a livello politico combattere non per la normalizzazione delle varie categorie marginali ma, al contrario, per evidenziare gli effetti e le valenze repressive della condizione di membro e della performance della normalità (su cui il lavoro di Sacks offre indicazioni preziosissime), anche e soprattutto nei confronti di coloro che sono abituati ad assumere la normalità come punto di riferimento aproblematico, anzi, come fondamento di un’identità di cui essere orgogliosi. Coloro che non si sentono repressi dalla normalità sono semplicemente coloro su cui la repressione ha funzionato meglio: sono coloro che hanno perso persino la memoria di tutto ciò che hanno dovuto sacrificare all’omologazione. Lungi dal rappresentare un modello, sono loro i primi ad aver bisogno di un movimento di liberazione.

 

3. Conclusioni: per un’etica queer

Per quanto provocatorio, questo accenno a un programma di azione politica mi offre l’occasione per affrontare finalmente il tema, centrale e ineludibile, della definizione di un’etica e di una politica queer. Ritengo, e questa non è una provocazione ma l’espressione diretta e sincera di una convinzione profonda, che non si tratti di un tema particolarmente complesso. Il queer ha come base teorica ed epistemologica la decostruzione delle categorie e la denaturalizzazione delle rappresentazioni; da questo duplice fondamento discendono, in maniera diretta e necessaria, un impegno etico e una missione politica analogamente bipartiti.

La prima parte riguarda la sostituzione della differenza all’uguaglianza come criterio di inclusione. Finora, l’espressione più ardita e innovativa, in quanto massimamente sistematica, di questa posizione è quella di Madhavi Menon (2015), che sostiene la rilevanza della lettura proposta da Alain Badiou dell’universalismo paolino alla teoria queer. Menon posiziona il proprio lavoro “contro l’investimento nella differenza che contraddistingue la nostra attuale iterazione delle politiche identitarie” e il suo punto di partenza è “prendere sul serio la politica dell’indifferenza” (ibidem, pp. 1-2, tda). Il nucleo della sua proposta è “resistere ad un regime della differenza talmente universale da fissare la differenza in identità” “institu[endo] un progetto di antifilosofia che si oppone alla certezza della conoscenza identitaria” (ibidem, p. 5). Il suo progetto implica “una rivoluzione in cui il sé diventa indifferente a se stesso”, dal momento che, come osserva Badiou (citato in Menon, 2015):

è unicamente diventando individualmente capaci di attraversare le differenze che si può sperare di allentare la presa degli altri sulle loro specificità. O, piuttosto, attraversare le differenze aderendo all’universale fornisce il modello di un modo di essere in cui i soggetti non sono obbligati a rinunciare alle differenze in base a cui funzionano nel mondo mentre al tempo stesso riescono ad apprezzare l’universale che chiede loro di trascendere questi confini nelle loro implicazioni identitarie. In questo modo l’individuo rimane un individuo segnato dalla razza, dalla classe, dal genere, dalla cultura, e al tempo stesso decide di smettere di fondarsi in tutti questi segni. (p. 12, tda)

Ciò a cui mira Menon (2015) non è negare le differenze, bensì deontologizzarle: questo è ciò che rende queer la sua posizione:

La differenza che turba il discorso delle differenze non performa più la divisione ontologica ingiunta dal termine. Invece, diventa indifferenza. La differenza ci chiede di attenerci alle limitazioni che impone, mentre l’indifferenza non esige alcun tipo di adesione. […] Pur esistendo, le differenze non possono essere tradotte in identità specifiche: le differenze sono tappe, ma mai mete; in realtà l’universalismo è un movimento attraverso queste tappe che non giunge ad un punto fermo ideologico. (p. 12)

Definirò “queer” questo universalismo indifferente non perché abbia a che fare con un’identità che possa essere compresa come queer, ma precisamente perché, come l’universalismo, anche il queer è segnato da un desiderio che rifiuta i contorni di un corpo fisso. (p. 15)

Come tale, l’universalismo queer spinge per superare i confini dei campi definiti da identità che presuppongono un processo stabile di formazione del soggetto. […] Cerca di esplorare un non-fondazionalismo che prende l’essere queer abbastanza sul serio da rifiutare di saldarsi ad alcuno specifico soggetto o identità. In opposizione alle proprietà additive degli studi LGBT, ad esempio, l’universalismo queer intraprende il rifiuto dell’identità delineato da Lee Edelman quando osserva che “il queer non può mai definire un’identità: può sempre solo turbarla”. La negazione su cui insiste l’essere queer di Edelman è l’universale di Badiou. (pp. 18-19, tda)

L’unica osservazione sensata che mi sento di aggiungere è che, lungi dall’essere una proposta puramente teorica priva di qualsiasi rilevanza politica, l’universalismo queer sostenuto da Menon ha come punto di partenza le uniche due posizioni politiche rivoluzionarie che si siano mai dimostrate in grado di fare una differenza nelle vite di miliardi di persone nel corso di generazioni: il Cristianesimo paolino (che è l’oggetto della riflessione di Badiou) e il Marxismo (ibidem, pp. 9-13)[33]. In entrambe queste proposte utopiche “le differenze continueranno ad esistere ma perderanno il loro potere definitorio” (ibidem, p. 13). Questo è il motivo per cui il Cristianesimo paolino (a differenza della babele di altre fedi in competizione nel floridissimo mercato religioso dell’impero romano) riuscí ad infiltrare tutte le classi sociali, e ad attirare da tutti gli angoli dell’impero un seguito talmente numeroso e diversificato da rendere solo una questione di tempo la sua sostituzione del pantheon olimpico come religione dell’impero: perché, a differenza dell’ebraismo e di tutte le altre religioni antiche, che definivano l’appartenenza su base etnica o sociale, faceva posto a tutte le differenze e al tempo stesso le svuotava del loro potenziale di generare dissenso o conflitto negando il loro potere di definire, e pertanto di creare limiti alla solidarietà e all’empatia[34].

È tuttavia importante ricordare che anche prima di Menon, da diverso tempo, alcuni dei tentativi più coraggiosi nell’ambito della teoria queer (come Edelman, 2004), si sono mossi nella direzione di una radicale messa in questione di alcuni dei valori su cui si fonda l’azione uniformante della stereotipizzazione culturale, come l’investimento narcisistico nella continuazione speculare garantita dalla riproduzione[35]. Quando Edelman scrive che “il queer nomina la parte di coloro che non ‘combattono per i bambini’, la parte fuori dall’unanimità per cui qualunque affermazione politica conferma il valore assoluto del futurismo riproduttivo” (ibidem, p. 3), ciò che sta in realtà sostenendo, nel senso più astratto e quindi teoricamente più produttivo, è lo smantellamento di tutto l’apparato di standardizzazione e omologazione che produce i soggetti come soggetti a cui possono essere riconosciuti dei diritti, e pertanto subordina il godimento di qualsiasi diritto alla disponibilità e alla capacità a presentarsi riconoscibilmente come prodotti di tale apparato (come razionali, come normali, come umani, ecc.). La forma estrema, e per questo teoricamente più interessante e politicamente più urgente, di questo smantellamento è naturalmente rappresentata dal riconoscimento dei diritti ai soggetti meno uniformabili e meno standardizzabili, e questo è il motivo per cui la mia elaborazione teorica del queer e il mio attivismo politico si concentrano da sempre sulla questione dei diritti degli animali. Ma il principio permette, anzi esige, un’applicazione assolutamente generalizzata. È naturalmente impossibile scendere nel dettaglio in questa sede, ma è prioritario e urgente esplicitare almeno un’implicazione teorica necessaria e centrale: la violenza è il tentativo di affermare il sé sull’altro limitandone o estinguendone l’esistenza; che essa si eserciti antonomasticamente sul diverso e sull’escluso (in primo luogo, ovviamente, sul diverso e sull’escluso dalla condizione di appartenenza più generale e fondante, quella della specie umana) non è un accidente storico ma fa parte della sua definizione. Rinunciare al sogno di una comunità di uguali in favore della realtà di un mondo di diversi, sostituire alla riproduzione narcisistica del sé, che fonda l’uniformità sociale con le sue pratiche di esclusione, la curiosità verso le innumerevoli forme che può assumere l’altro quando viene lasciato libero di esistere, implica rinunciare, necessariamente e incondizionatamente, alla violenza.

La seconda parte dell’impegno etico e della missione politica del queer ha a che fare con la denaturalizzazione delle rappresentazioni. Se la creazione di un’“ossimorica comunità della differenza”[36], che estenda la propria inclusività fino ai limiti estremi dell’animato, rappresenta la cifra di una politica queer, l’aspirazione a definirsi contro l’evidenza delle categorizzazioni sociali uniformanti e repressive rappresenta

la sua cifra esistenziale ed estetica: l’affinità del queer per il drag non è un accidente della storia del gusto, bensì l’espressione di un legame teorico sostanziale e fondante.

Il motto del queer (come individuo, non come orientamento teorico) è la frase del trans Agrado nel film Tutto su mia madre di Almodovar (1999), “si è tanto più autentici quanto più ci si avvicina all’idea che si è sognata di se stessi”; la sua fiaba della buona notte è Il brutto anatroccolo; i santi patroni a cui rivolge la sua preghiera prima di chiudere gli occhi sono quelli che nelle loro vite hanno spinto l’impulso all’autodefinizione fino ai limiti estremi, con risultati a volte favolosi, a volte tragici o grotteschi, ma sempre commoventi:

Il mio fratello maggiore Rheinhold […] diventò, se così si può dire, di destra, ed esibì tendenze assimilazioniste persino più forti di quelle di mio padre. Più tardi diventò membro della Deutsche Volkspartei, e se i Deutschnationale avessero accettato membri ebrei probabilmente si sarebbe iscritto. Nel 1938 emigrò in Australia, e quando, poco dopo il suo ottantesimo compleanno, lo incontrammo a Zurigo mia moglie, che non aveva una conoscenza particolarmente approfondita di queste questioni tedesche, gli chiese cosa fosse veramente. Lui, forse esagerando un po’, le rispose “Sono un Deutschnationaler”. “Cosa?” rispose mia moglie “E dici una cosa del genere dopo Hitler?” “Non mi farò imporre le mie convinzioni da Hitler!” replicò. Questo la lasciò senza parole. (Scholem, 1977/1980, pp. 42-43, tda)

Milton “Mezz” Mezzrow, figlio di ebrei russi immigrati a Chicago e uno dei massimi clarinettisti jazz della sua epoca, arrivò a dichiarare la propria defezione razziale. Dopo un viaggio fatto in Missouri da ragazzino, ricordava “al sud quando ero lì mi chiamavano nigger lover[37]. Ed era vero. Non soltanto amavo quei ragazzi di colore, ma ero uno di loro – mi sentivo più vicino a loro che ai bianchi, e venivo anche trattato come loro… Quando tornai a casa sapevo che da quel momento in poi avrei passato tutto il tempo vicino ai neri. Erano la mia gente. E avrei imparato la loro musica e l’avrei suonata per il resto dei miei giorni. Sarei stato un musicista, un musicista nero, e avrei portato il blues per il mondo come sanno fare solo i neri.

Mezzrow suonò in jazz band in cui era l’unico bianco, sposò una donna nera e si trasferì a Harlem. Non soltanto si dichiarava “un nero volontario”, ma diventò anche un “cattivo nero”. Negli anni Trenta Mezzrow si affermò come il principale fornitore di droga nell’ambiente del jazz, e nel 1940 venne arrestato e condannato per possesso e traffico di marijuana. Quando arrivò a Riker’s Island disse alle guardie di essere nero, e venne rinchiuso nella sezione segregata per i neri.

Nel 1946, la rivista Ebony onorò Mezzrow in un articolo intitolato Il caso di un ex uomo bianco, come “uno dei pochi bianchi” che avessero “attraversato il portale Jim Crow della vita dei neri per vivere alla pari con i suoi abitanti oppressi”. Naturalmente, come osservava l’articolo, “fisicamente” Mezzrow “non potrebbe passare per nero neppure per idea; la sua pelle è troppo bianca”. Ciononostante, affermava l’articolo “la sua conversione ‘alla razza’ ha avuto luogo in gran parte nella sua interiorità. Nella struttura psicologica, è completamente un nero, e lo ammette orgogliosamente.” (Russell, 2010, pp. 171-172, tda)

La voce di Reinhold Scholem giunge fino a noi solo attraverso la mediazione del fratello (Scholem, 1977/1980) che, malgrado tutta la sua filologia, non sa trattenersi dal cercare in tutti i modi di neutralizzarne le implicazioni radicali e la portata sovversiva (“se così si può dire”; “probabilmente”; “forse esagerando un po’”). È forse paradossale, e sicuramente istruttivo, che, invece, una rivista popolare americana del 1946 riesca ad esprimere in maniera semplice e diretta, su un fenomeno del tutto analogo, una posizione perfettamente queer. L’equivalente in termini di race della distinzione tra sesso e genere è assolutamente chiara al giornalista e, a giudicare dal tono calmo e neutro in cui è espressa, al suo pubblico; soprattutto, la possibilità di “attraversa[re] il portale Jim Crow” è presentata come un’eventualità rara (“uno dei pochi”), ma è ben lontana dall’essere oggetto dell’ansia repressiva e della violenza soppressiva che normalmente accompagnano i tentativi di mettere in questione nel solo contesto che conti, quello della pratica concreta dell’esistenza vissuta, la convenzione della “naturalità” delle categorie sociali e la prassi obbligatoria della loro rappresentazione, e che vengono, giustamente, così spesso sottolineate nelle riflessioni teoriche queer[38]. A rendere possibile questo miracolo di empatia e di inclusione è la disponibilità, da parte dell’autore del pezzo, ad accettare la versione di Mezzrow su se stesso, ad adottare la sua convinzione interiore come criterio di verità: secondo parametri esterni, “oggettivi” e “razionali”, Mezzrow “non potrebbe passare per nero neppure per idea”, “la sua conversione ‘alla razza’ ha avuto luogo in gran parte nella sua interiorità”, ma questo è del tutto sufficiente, e gli vale il diritto elementare ma fondamentale di definirsi, nel bene e nel male (la sezione per neri di una prigione statunitense dei primi anni Quaranta non doveva essere un posto particolarmente salubre, ed è verosimile che la portata addirittura autolesiva della coerenza dimostrata da Mezzrow abbia contribuito a rafforzare la sua credibilità), a prescindere da come lo definirebbero gli altri.

Indagare i meccanismi insidiosi e onnipresenti della categorizzazione normativa è intellettualmente interessante e può dimostrarsi politicamente produttivo. Ma se, dopo averli indagati, vogliamo superarli, dobbiamo essere disposti a cambiare qualcosa anzitutto in noi stessi, ad ammettere che gli altri, tutti gli altri, non importa quanto lontani dalla nostra idea preconcetta di soggetto, sono portatori di una versione di sé che merita di esistere accanto alla nostra versione di noi, che vale quanto la nostra, e che va presa sul serio. E non riesco a immaginare ispirazione e guida migliore, in questo cammino difficile, faticoso e straniante, dell’atteggiamento rispettoso, accogliente, forse persino credulo[39], di un dimenticato giornalista nero di quasi settant’anni fa.

 

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Note sull’autrice

 

Carmen Dell’Aversano

Università di Pisa

carmen.dellaversano@unipi.it

Insegna nel dipartimento di scienze umane dell’Università di Pisa e in diversi istituti di formazione in psicoterapia (Institute of Constructivist Psychology di Padova; European Institute of Systemic-Relational Therapies di Milano; Centro studi in Psicoterapia Cognitiva di Firenze). I suoi interessi di ricerca principali, gli studi ebraici, il costruttivismo, e i diritti animali, abbracciano le aree della teoria letteraria, della psicologia, dell’analisi del discorso e della teoria queer. Nel 2015, insieme a colleghi di varie istituzioni italiane e internazionali, ha fondato CIRQUE (Centro Interuniversitari di Ricerca Queer), il primo centro in Italia per la ricerca queer, che attualmente dirige.

 

Note

 

  1. L’espressione “programma di ricerca” fa ovviamente riferimento a Imre Lakatos (1978). È probabile che istituire un collegamento tra gli studi queer e la filosofia della scienza, verrà percepito (da entrambe le parti) come una forma di irriverenza che confina con il sacrilegio, cosa che contribuirà a creare un contesto appropriato per interagire con ciò che segue.
  2. Articolo originale disponibile al link: https://whatever.cirque.unipi.it/index.php/journal/article/view/23. Dell’Aversano, C. (2018). A research programme for queer studies. Queer theory and Harvey Sacks’s Membership Categorization Analysis. Whatever. A Transdisciplinary Journal of Queer Theories and Studies, 1, 35-73. doi: https://doi.org/10.13131/2611-657X.whatever.v1i1.23
  3. Una nota sulla rilevanza teorica, etica e politica delle lunghe citazioni nel testo. Sono perfettamente in grado di redigere riassunti fin dai tempi della scuola elementare. La ragione per cui preferisco citare estesamente altri autori invece di riassumere, è che concepisco il lavoro intellettuale come un dialogo, e la mia idea di dialogo non comprende il mettere in bocca le parole agli altri. Inoltre, uno degli effetti che mi auguro che i miei lavori abbiano sui lettori (ammesso naturalmente che questi lettori esistano…) è quello di rappresentare un ponte verso il lavoro e il pensiero di altri autori, incomparabilmente più importanti di quanto io possa mai sperare di diventare. Non dimenticherò mai il momento di quasi vent’anni fa in cui una citazione di due righe in C’è un testo in questa classe? di Stanley Fish mi fece correre in biblioteca per prendere in prestito le Lectures on Conversation di Harvey Sacks. Nessun riassunto, nessuna parafrasi avrebbe potuto avere un simile effetto. Del resto, se considerassimo i riassunti o le parafrasi equivalenti ai testi originali, l’intera disciplina degli studi letterari, fondata com’è sulla laboriosa acquisizione della competenza in lingue talvolta estinte, e sulla minuziosa analisi, e potenzialmente infinita interpretazione, di tratti che non possono in alcun modo conservarsi neppure nel riassunto o nella parafrasi più fedeli, collasserebbe.Tuttavia, la mia preferenza per le lunghe citazioni ha un senso ulteriore, e questo senso ha una rilevanza diretta per il queer. Nel corso degli anni ho molto riflettuto sui confini del queer: sulle aree nelle quali i teorici beneducati sanno che è bene non avventurarsi, perché metteranno tutti a disagio e per questo verranno ridicolizzati o aggrediti. Uno è certamente la natura performativa del binarismo uomo/animale, al quale ho infatti dedicato la maggior parte delle mie energie in questo ambito, ma un altro è, con altrettanta certezza, il binarismo che rende i vivi e i morti sia essenziali per la reciproca definizione sia impossibili da contemplare insieme. Per me il lavoro di ricerca in ambito umanistico, che consiste nel dedicare decenni della propria vita all’opera di autori morti, o agli eventi e alle usanze di tempi andati, ha uno scopo che può essere descritto unicamente come metafisico: attraversare il confine tra la vita e la morte, e permettere ai morti di parlare nuovamente attraverso di noi. La mia scelta di citare estesamente invece di riassumere o parafrasare è un tentativo di farmi da parte in modo da permettere alle loro voci di essere udite ancora una volta. Per me, questa, rappresenta una considerazione etica di primaria importanza e un punto politico assolutamente vitale.
  4. Harvey Sacks (1935-1975) è passato alla storia come il fondatore dell’analisi della conversazione; la sua più importante opera pubblicata, Lectures on Conversation (la trascrizione di tutte le sue lezioni conservate, che abbracciano il periodo 1964-1972), contiene tuttavia innumerevoli spunti che trascendono ampiamente i confini disciplinari della linguistica, non importa quanto applicata, e trovano senso in un tentativo di rifondare, su basi rigorosamente sperimentali, la sociologia. Questo tentativo ambizioso venne condotto con assoluto rigore, e i suoi risultati, per quanto frammentari, possono essere definiti soltanto cosmogonici:Tutta la sociologia che leggiamo non ha una dimensione analitica, nel senso che chi scrive si limita a metter lì una categoria. Per noi la cosa può aver senso, ma lo fanno semplicemente come membri di un gruppo sociale. Non hanno descritto il fenomeno che stanno cercando di descrivere – o che dovrebbero star cercando di descrivere. Quello che devono fare è fornirci una procedura per scegliere la categoria che viene usata per presentare una certa informazione. (Sacks, 1992, vol.I, pp. 40-42)

    Sto cercando di sviluppare una sociologia in cui il lettore ha tante informazioni quante ne ha l’autore, e può riprodurre l’analisi. Se vi capita di leggere un lavoro di biologia dirà, ad esempio ‘Ho usato la tale cosa che ho comprato alla drogheria di Giovanni.’ E vi dicono precisamente cosa fanno, e voi lo potete copiare e vedere se regge. Potete ripetere le osservazioni. Qui, io mostro i miei materiali, e gli altri li possono analizzare anche loro. (ibidem, p. 24)

  5. La distinzione tra una forma di oppressione che viene almeno concettualizzata e pertanto risulta percepibile, e può di conseguenza essere biasimata, e una che è invece invisibile e perciò non può essere oggetto di azione politica, è sottile ma fondamentale: innumerevoli persone, anche nei paesi più “civili”, vengono oppresse perché sono non bianche, omosessuali, migranti, e così via. La differenza sta nel fatto che queste forme di oppressione sono visibili e generalmente riconosciute come tali. Il che ha l’effetto, tutt’altro che trascurabile, di permettere a chi le subisce di ricevere solidarietà e sostegno, e di esporre, almeno potenzialmente, chi le pratica alla riprovazione della società e alle sanzioni della legge. Purtroppo, altrettante persone vengono oppresse in conseguenza di caratteristiche o comportamenti che non sono riconosciuti come possibili cause di oppressione o – peggio ancora – sono unanimemente circondati da uno stigma generale e non problematizzato, che può assumere forme che vanno dal ridicolo alla malevolenza attiva e criminosa esercitata senza alcuna forma di riprovazione sociale e senza alcuna sanzione da parte delle istituzioni. Un esempio, tratto dalla mia esperienza personale, è quello dei gattari. In Italia da trent’anni una legge nazionale (la 281/91) e venti leggi regionali tutelano gli animali randagi, stabilendo in particolare che i gatti che vivono liberi sul territorio vadano regolarmente alimentati e sterilizzati a carico delle pubbliche amministrazioni; la legge riconosce esplicitamente il ruolo dei volontari (appunto, i gattari) nel coadiuvare le istituzioni nel perseguimento di queste finalità. In tutta Italia, innumerevoli persone che si prendono cura di una colonia felina in prossimità del proprio posto di lavoro, rispettando rigorosamente i termini della legge, sono oggetto di feroci discriminazioni, che spesso culminano nel licenziamento; le persone che si occupano di colonie feline in prossimità delle loro abitazioni sono spesso vittime di danneggiamenti alle loro proprietà; tutte sono esposte al rischio (per niente teorico) di veder uccidere gli animali di cui si occupano. Naturalmente, tutti i comportamenti messi in atto dai loro oppressori sono reati; altrettanto naturalmente si dimostra regolarmente impossibile interessare le istituzioni a questi casi, e ottenere una qualsiasi forma di tutela per le vittime, umane come non umane.
  6. Saint Foucault: Towards a Gay Hagiography [San Foucault: per un’agiografia gay] è il titolo di un importante libro di teoria queer.
  7. Una delle più ardite e più radicali critiche dell’identità nelle quali mi sia imbattuta è quella che da più di venticinque anni conduce nel suo lavoro di antropologo Francesco Remotti (1996; 2010). La sua rilevanza per gli studi queer è tanto misconosciuta quanto considerevole, al punto che Remotti è uno tra gli studiosi che “font du queer sans le savoir”.
  8. Circa cinquant’anni prima di Menon, questa era anche la posizione di Sacks (1992):la cosa importante è l’uso di una procedura di questo tipo [la categorizzazione dei soggetti sociali]. Potrebbe venir voglia di levare di mezzo questa o quella affermazione pensando che questo eliminerebbe i guai che combina, mentre quello che bisogna levare di mezzo, per eliminare i guai, è l’uso della procedura. (p. 336)
  9. Come osservato all’inizio, non credo che la strutturale pluralità del queer potrà (o dovrà) mai essere ridotta a un’unità, e pertanto non immagino che possa esistere un unico programma del genere: mi sto limitando a deplorare l’assenza di qualunque considerazione, dibattito o proposta in merito ai metodi, agli strumenti e alle procedure che potrebbero rivelarsi maggiormente adatti a mettere in pratica gli obiettivi della teoria queer, comunque definiti. Sono perfettamente consapevole che la definizione del queer che condivido con i miei colleghi del CIRQUE non è che una, in un insieme interminabile e in continua evoluzione di definizioni possibili e praticate, la cui pluralità è per me la benvenuta, e la apprezzo. Sono anche consapevole che la proposta metodologica che sto presentando in questo lavoro inevitabilmente dipende da questa definizione, e non è di alcun interesse per coloro che non trovano utile tale definizione. Tuttavia non posso fare a meno di augurarmi che coloro che hanno sviluppato definizioni diverse del queer avanzino le proprie proposte per programmi di ricerca che prendano le mosse da queste definizioni, e che mostrino in che modo applicarle all’analisi di testi e situazioni concrete (ad esempio, ho cercato di mostrare come la definizione del queer che ispira il mio lavoro possa essere applicata ai testi letterari in Dell’Aversano, 2017); e il motivo per cui mi auguro che lo facciano è che sono convinta di poter imparare molto dal loro lavoro.
  10. Un esempio oltremodo interessante è Yergeau (2017).
  11. Questo è il senso, insieme teorico e politico, della mia personale elaborazione del queer in senso animalista (Dell’Aversano, 2010): gli animali e gli umani (con pochissime eccezioni già in partenza discretamente marginali, e destinati a diventarlo ulteriormente…) che si ostinano, affrontando l’ostracismo, l’irrilevanza, il disprezzo e il ridicolo, a soccorrerli, ad amarli, e pertanto necessariamente a soffrire senza possibilità di consolazione per loro e con loro, sono il caso focale della condizione descritta da Butler (1990, p. viii): «vivere nel mondo sociale come ciò che è “impossibile”, illeggibile, non realizzabile, irreale e illegittimo». Il fatto che la maggior parte dei miei lettori troveranno questa affermazione scandalosa o ridicola rappresenta in realtà una potente conferma della sua verità.
  12. Per spiegare nella maniera più univoca e precisa cosa sto e cosa non sto effettivamente sostenendo, credo possano essere opportuni alcuni chiarimenti terminologici. In primo luogo, può essere utile ricordare che queer, come qualsiasi termine descrittivo nelle scienze umane e sociali, può essere usato con due sensi diversi: in senso storico, in riferimento ad un insieme di eventi accaduti contemporaneamente, oppure in senso teorico, al fine di astrarre da tali eventi un insieme di caratteristiche definitorie, che possono in linea di principio ripresentarsi in qualsiasi momento o contesto storico. Pertanto, si può plausibilmente sostenere che l’atteggiamento di Callimaco nei confronti della mitologia era postmoderno, sebbene storicamente il postmodernismo abbia avuto origine negli anni Sessanta, e senza venire accusati di star con questo sostenendo la tesi risibile che Callimaco conoscesse il lavoro di Baudrillard; si può sostenere che la lettura che Virgilio ha dato dell’epica greca era classicista anche se precede di sedici secoli il classicismo in senso storico, e così via.In merito, più specificamente, a ciò che intendo sostenere qui riguardo alla relazione tra l’opera di Sacks e la teoria queer, potrebbe poi essere utile una distinzione ulteriore tra relazioni di tipo genealogico, storico e cronologico: esiste una relazione genealogica quando può essere dimostrato un contatto diretto: ad esempio, tra l’uso che Teresa De Lauretis fece del termine “queer” in differences e l’uso dello stesso termine da parte dei successivi teorici queer; una relazione storica invece non richiede un contatto diretto bensì unicamente la condivisione di un comune ambiente socioculturale: ad esempio, Darwin e Wallace lavorarono del tutto indipendentemente a due versioni separate della teoria dell’evoluzione, che fanno entrambe parte della storia delle scienze della vita in Occidente; infine, una relazione cronologica può sussistere a prescindere da qualsiasi contatto culturale, semplicemente sulla base delle posizioni relative di due eventi nel tempo: un esempio è il disco di Festo, che non esercitò alcuna influenza sulla storia delle tecniche di stampa, alla quale non lo lega alcuna relazione genealogica o storica, ma che cronologicamente va incontestabilmente considerato la prima attestazione documentata dei caratteri mobili nella storia dell’Occidente.

    Sulla base delle definizioni appena fornite, ciò che affermo non è altro (ma non è neppure meno) che questo: se si accetta la definizione di “queer” che ho proposto sopra, e se si accetta che “queer” abbia (come qualsiasi altro termine descrittivo nelle scienze umane e sociali) sia un significato storico sia un significato teorico, allora il lavoro di Sacks sui processi di categorizzazione è il primo esempio noto di teoria queer. Naturalmente, data la completa mancanza di contatto, fino a questo momento, fra la teoria delle categorie sociali di Sacks e la teoria queer, la portata della mia affermazione non è genealogica o storica, ma esclusivamente cronologica. Per una tesi simile sulla rilevanza decisiva della tradizione di ricerca di cui Sacks fa parte per la teoria queer si veda Love (2015).

  13. Ciò che resta di Sacks è incommensurabilmente più interessante, più intenso, e più rilevante, intellettualmente ed esistenzialmente, di qualsiasi cosa io possa mai sperare di pensare o di scrivere, qui o altrove. Una conseguenza di questa consapevolezza è che ho cercato nella mia argomentazione di dare spazio alla voce di Sacks, di assumere il ruolo di un ponte attraverso cui i miei lettori (ammesso che esistano) possano avere accesso diretto, per quanto parziale, alle parole di una delle menti più brillanti del ventesimo secolo, la cui opera è ancora praticamente sconosciuta al di là di una ristretta cerchia di specialisti. Cercherò di essere sincera: per me sarà valsa la pena di lavorare sul queer se almeno alcuni dei miei lettori (ammesso che ne abbia…) saranno spinti dal mio lavoro a fare due cose: 1) denaturalizzare la descrizione socialmente prevalente di alcuni degli oggetti che normalmente si trovano nei loro piatti; e 2) leggere almeno On doing “being ordinary” (Sacks, 1984). Le due cose sono, tra l’altro, tutt’altro che scollegate, come una riflessione anche breve e superficiale su ciò che Sacks scrive sulle emozioni e sulle esperienze non dovrebbe tardare a dimostrare.
  14. Nel Department of Special Collections della biblioteca dell’UCLA sono conservate 144 scatole di “note, abbozzi, diari, lezioni non pubblicate, nastri registrati, lezioni e materiale miscellaneo relativo alla vita e all’opera di Harvey Sacks” (http://oac.cdlib.org/findaid/ark:/13030/tf8s2009gs); non è possibile immaginare quali e quante scoperte attenderebbero i filologi, se solo ci fossero filologi disposti ad occuparsene.
  15. Harold Garfinkel, creatore dell’etnometodologia (un orientamento metodologico della sociologia che studia i metodi che i membri di una cultura usano per dare senso alla realtà, in particolare per spiegare le azioni proprie e altrui), esercitò una notevole influenza su Sacks il quale, quando i due si conobbero, stava lavorando con Goffman a un dottorato in sociologia, materia di cui Garfinkel era professore. Uno dei metodi più originali messi a punto da Garfinkel per lo studio delle norme del comportamento sociale sono i cosiddetti breaching experiments, dove, in una normale situazione sociale, qualcuno contravviene in maniera deliberata e sistematica a una delle regole più elementari che dovrebbero governare l’interazione; chi fosse interessato a suggerimenti su come rendere più vivaci le serate in compagnia potrà consultare con profitto il secondo capitolo di Garfinkel (1967), Studies of the routine grounds of everyday activities.
  16. Questo punto è stato sollevato già quasi trent’anni fa nell’ambito della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP): si veda Epting, Raskin e Burke (1994).
  17. Il testo fondazionale sull’omosessualità nella Grecia antica è naturalmente Dover (1978); una raccolta estesa e assai utile di fonti in Hubbard (2003); riferimenti stigmatizzanti all’omosessualità maschile “passiva” abbondano in Aristofane, Marziale e Giovenale, tra gli altri.
  18. Si vedano ad esempio Barbagli e Colombo (2001), Massad (2002), Whitaker (2006), Barbagli, Dalla Zuanna e Garelli (2010, pp. 145-146), Guardi e Vanzan (2012, pp. 113-114), Burgio (2016).
  19. E che fa sì che io personalmente accolga come una boccata d’aria fresca qualunque informazione su culture in cui questo non si verifichi. Per un esempio particolarmente godibile si veda Boyarin (1997).
  20. “Dove sussista una discrepanza tra l’identità sociale effettiva di un individuo e quella virtuale è possibile che questo fatto ci sia noto prima che noi normali entriamo in contatto con lui, o che sia chiaramente evidente quando egli si presenta a noi. Costui è una persona screditata” (Goffman, 1963, p. 41).
  21. L’eccezione è un utente che, probabilmente dopo un’esperienza analoga alla mia, scrive “AVETE ROTTO CON LA FRASE MASCHIO X MASCHIO! NON MI SEMBRA DI AVER VISTO DONNE SUL SITO!” Il mio primo impulso è stato quello di contattarlo, ma probabilmente sarei stata fraintesa.
  22. Ancora più rilevante della loro endemica diffusione è il fatto che, come mi è stato confermato da vari informanti, la “non effeminatezza” (comunque definita) è al vertice della gerarchia delle qualità desiderabili: una persona fornita, anche in misura assai notevole, di tutte le doti convenzionalmente considerate importanti in un partner erotico (bellezza, gioventù, simpatia e un pene di ragguardevoli dimensioni accompagnato dalla disponibilità alla sperimentazione sessuale), ma “effeminata” viene istantaneamente scartata, mentre persone assai meno gradevoli ma più “virili” non hanno nessuna difficoltà a trovare compagnia. Ma il dato dirimente, e al tempo stesso più sinistro, è che, secondo i miei informanti, l’“effeminatezza” viene considerata in maniera fortemente negativa anche nelle semplici frequentazioni sociali senza alcuna prospettiva di coinvolgimento erotico.
  23. Uso qui la convenzione linguistica di far precedere da un asterisco le espressioni non grammaticali.
  24. Nonché a quella dei “bimbetti”, che nella gerarchizzazione delle categorie per classi di età (bimbettouomo) occupa un posto equivalente a quella di “donna” nella gerarchia dei generi (donnauomo).
  25. Trovo interessante, in questo senso, l’uso di “iperpassivi” in uno degli annunci. Da un lato, l’autore è evidentemente consapevole del fatto che la passività rappresenta una preferenza sessuale legittima, e che coloro che la condividono non dovrebbero essere stigmatizzati; dall’altra, non sembra trovarsi a suo agio con questa possibilità. La soluzione retorica al suo dilemma è la creazione di una nuova categoria, quella di iperpassivi, verso i quali si sente libero di esprimere il disprezzo, che sa che non verrebbe tollerato se ad esserne oggetto fossero i “passivi” “normali”.
  26. Che era all’epoca un luogo comune onnipresente, di cui Weininger (1903) non rappresenta che l’esempio oggi più noto. Per una rivendicazione radicale di questa costruzione non come fandonia antisemita bensì come tratto reale, e positivo, della mascolinità ebraica si veda Boyarin (1997).
  27. Ulteriori informazioni su questa questione affascinante in Steakley (1975).
  28. Scelgo, con consapevole e deliberato anacronismo, di tradurre così l’espressione di Sacks “doing being ordinary” per evidenziare la sovrapponibilità tra il costrutto da lui elaborato e quello che viene normalmente identificato come fondamento teorico del queer; si veda anche la nota seguente.
  29. Andrebbe notato che il termine performance e quello, ad esso collegato, di performatività (con cui la teoria queer fa riferimento alle iterazioni che producono l’illusione di un’identità stabile), traggono origine dalla teoria drammaturgica dell’interazione sociale di Erving Goffman. Goffman era il relatore di dottorato di Sacks, e nelle Lectures Sacks segnala esplicitamente il lavoro di Goffman come il miglior possibile ausilio alla comprensione del suo (Sacks, 1992, vol. I, p. 619). Potrebbe essere altresì interessante osservare che Butler (1988), nella cui opera compare per la prima volta il concetto di performatività, fa esplicitamente riferimento a Goffman (ibidem, p. 528), per quanto ne so per la prima e ultima volta. Nella sua “Prefazione” del 1999 a Gender Trouble, Butler cita Derrida come origine delle proprie riflessioni sulla questione (Butler, 1990, p. xiv; è anche importante essere consapevoli del fatto che Sedgwick usa il termine “performativo” con il senso che ha nella teoria degli atti linguistici; si vedano ad esempio Sedgwick, 1990, pp. 3, 9, 47-48, 82, 110, 137, 173).Heather Love sta svolgendo un lavoro importante sul ruolo della sociologia statunitense classica nella genealogia intellettuale degli studi queer; il suo punto di partenza, con il quale non potrei essere più d’accordo, è che lo studio delle norme e della devianza è centrale per la genealogia intellettuale degli studi queer. Uno dei siti chiave da investigare in questo senso è la ricerca sulla devianza sociale condotta dopo la guerra dagli studiosi di sociologia, antropologia, psicologia e criminologia. […] Il campo degli studi queer – con la sua attenzione per la marginalità, la non conformità, e varie forme di differenza […] è impensabile senza i contributi della ricerca svolta dopo la guerra sui problemi sociali, inclusa l’omosessualità (Love, 2015, pp. 74-75).

    Il mio lavoro teorico sul collegamento fra la Membership Categorization Analysis di Harvey Sacks e la teoria queer si pone in dialogo con il suo.

  30. Di fronte a una tale aberrazione normativa, e di un così indegno e violento dispregio dei loro diritti civili, l’unica risposta adeguata da parte delle persone omosessuali interessate a un’effettiva parità di diritti sarebbe l’obiezione fiscale di massa. Tuttavia, questa forma di protesta non è mai stata né proposta né contemplata, per non dire praticata. Questo, per me, è assolutamente incomprensibile.
  31. Come quelli descritti in maniera articolata e argomentata da Polikoff (2008), che propone di superare l’istituto del matrimonio in favore della tutela giuridica di tutte le famiglie, comunque costituite.
  32. Questo punto è stato sollevato da coloro che hanno criticato la lotta per il matrimonio egualitario da una posizione queer; una delle argomentazioni più importanti è quella di Warner (1999); si vedano anche, tra i (pochi) altri, Conrad (2010) e Clark (2011).
  33. L’efficacia tattica – anzi, la necessità strategica – della formazione di un fronte il più possibile ampio, vale a dire di superare la definizione attraverso le differenze in favore di una forma di universalità, è stata naturalmente da gran tempo riconosciuta dai rivoluzionari. Un’affermazione memorabile e utile in Alinsky (1971):le ragioni per cui chi si propone di organizzare un movimento politico deve sviluppare più fronti di intervento sono varie. Anzitutto, soltanto mobilitandosi su più fronti è possibile coinvolgere un gran numero di persone. […] In un’organizzazione che si batta su più fronti ciascuno sta dicendo agli altri: “Da solo non riesco ad ottenere quello che voglio, e non ci riesci neppure tu. Facciamo un accordo: io sosterrò te nell’ottenere quello che vuoi e tu sosterrai me su quello che voglio io.” Questi accordi diventano il programma. Non soltanto un’organizzazione interessata a intervenire su un solo fronte, o anche su due ti condannano ad avere un’organizzazione piccola, è assiomatico che un’organizzazione che si propone di agire su un unico problema non durerà. Un’organizzazione ha bisogno di azione come un individuo ha bisogno di ossigeno. Con soltanto uno o due problemi l’azione prima o poi arriverà a una pausa, e questo significa la morte. Più fronti di intervento significano azione continua e vita. (pp. 76-78)

    Personalmente trovo di una tristezza inesprimibile che la presenza più visibile della visione di Alinsky nella politica contemporanea sia nella reazione contro di essa incarnata nell’atteggiamento “divide et impera” (“dividi e regna” che rappresenta la strategia comune delle élite conservatrici e della destra populista.

  34. Che le categorie identitarie e sociali funzionino in modo da limitare l’empatia era molto chiaro a Sacks (1992):se da qualche parte nel mondo capita un guaio, allora un modo tipico di gestirlo è, ad esempio, trovare a quale famiglia appartiene il guaio e, siccome è il guaio di una famiglia non è il guaio di nessun altro. A volte risulta che non è possibile formularlo in maniera soddisfacente come guaio di una famiglia in quanto potrebbe risultare che è il guaio di un quartiere. Ma se è il guaio di un quartiere allora non è il guaio del quartiere di nessun altro. In questo modo ad esempio i crimini più o meno vengono storicamente trattati in questo modo. A viene rapinato o ferito e questo è un guaio per B e C ma non è un guaio per nessun altro. E in questo modo, naturalmente uno allora non è costantemente inondato dai guai del mondo. Invece succede che la gente può essere grata del fatto che i guai capitino altrove. (vol. II, p. 245)
  35. “Il Bambino segna la fissazione feticistica dell’eteronormatività; un investimento di carica erotica nella rigida uniformità identitaria che è centrale alla narrazione obbligatoria del futurismo riproduttivo” (Edelman, 2004, p. 21).
  36. La bellissima espressione è di Louise Sloan (1991).
  37. Espressione insultante usata dai bianchi razzisti per denigrare i bianchi che empatizzano o frequentano con piacere o comunque si dimostrano vicini ai neri.
  38. «“Performance” non indica un singolo “atto” o evento, bensì una produzione ritualizzata, un rituale ripetuto sotto e in virtù della costrizione, sotto e in virtù della forza della proibizione e del tabù, dove a controllare e a rendere obbligatoria la forma della produzione sono la minaccia dell’ostracismo e persino della morte […].» (Butler, 1993, p. 95).
  39. Il riferimento è all’atteggiamento credulo prescritto da Kelly al terapeuta come fondamento essenziale della pratica professionale e della relazione terapeutica (Kelly, 1955, Vol. I, p. 121; pp. 241 ss.). Questo non è che uno dei molteplici punti di contatto tra la PCP e il queer; su questo tema ho messo a punto un workshop e sto scrivendo un grosso lavoro teorico. Su un livello più personale, l’atteggiamento credulo è anche un importante motivo per cui, tra i molteplici campi di ricerca in cui sono attiva, riconosco nella comunità internazionale della PCP la mia casa.