Ciao Aingeru, grazie intanto per la tua disponibilità. Vorremmo partire con una domanda sul contesto in cui operi come presidente: l’associazione basca di famiglie di bambini/e transessuali dal nome Naizen. Da quale esigenze/bisogni/desideri è nata l’associazione?
Prima di chiamarsi Naizen l’associazione si chiamava Chrysallis Euskal Herria. Nasce nel 2015 da 8 famiglie provenienti da differenti province del territorio Basco. Come famiglie facevamo già tutte parte dell’associazione statale Chrysallis, ma abbiamo capito che c’era bisogno di lavorare a partire dal nostro specifico territorio.
Avevamo intuito che ci fossero due bisogni importanti: l’appoggio mutualistico tra famiglie e il lavoro con le istituzioni regionali per riuscire a ottenere cambiamenti a livello legislativo e progressi in materia di educazione, sanità, ecc.
Per rispondere a questi bisogni abbiamo avvertito la necessità di avere un’associazione vicina territorialmente. In questo momento esiste ancora l’associazione Chrysallis, che opera in tutto lo stato spagnolo. Il nostro pensiero però è partito dalla considerazione che l’appoggio mutualistico fosse più difficile tra famiglie geograficamente lontane.
Perché è così importante l’appoggio mutualistico tra le famiglie?
Spesso queste famiglie si sentono sole, come se non ci fosse nessuno al mondo che viva la loro stessa esperienza. Può capitare di pensare che ciò che si sta vivendo sia una pazzia, che non abbia senso, che sia assurdo, o addirittura fantascienza. Questa è l’esperienza di molte delle famiglie con cui abbiamo deciso di fondare l’associazione. Può trattarsi anche di un periodo di tempo lunghissimo in cui ci si chiede: “Ma cosa sta succedendo?”, “Perché ci è successo?”, “Perché proprio a noi?”.
Queste sono domande che molte madri e molti padri si sono fatti senza riuscire a trovare per lungo tempo risposte, risorse e informazioni sul tema. Ciò che abbiamo notato è che avere la possibilità di chiamare qualcuno che ti ascolti e che ha vissuto un’esperienza simile alla tua è qualcosa di molto potente. È un’opportunità, perché all’altro capo del telefono trovi qualcuno che accoglie il tuo racconto come qualcosa di simile a ciò che ha già vissuto in prima persona.
Personalmente, ricordo che con mia figlia, da quando aveva 2 anni fino ai 7, non siamo stati capaci di farci carico di quello che stava succedendo, poiché non riuscivamo a trovare nessuno che ci aiutasse a fare un po’ di chiarezza.
L’associazione da un lato offre la possibilità di essere accolti e ascoltati, dall’altro di entrare in contatto con delle storie in cui trovare qualcuno che come te spera e sogna che il futuro dei/delle propri/e figli/e non sia orribile.
Una delle prassi dell’associazione è quella di accogliere le nuove famiglie anche attraverso un gruppo WhatsApp. È una specie di rito di benvenuto in cui le famiglie che fanno già parte dell’associazione accolgono i nuovi arrivati con qualche foto della propria famiglia. Si tratta per lo più di foto della quotidianità (una vacanza, una gita familiare…). Anche questo gesto risulta molto rassicurante per le nuove famiglie.
Con l’arrivo del Covid-19 e della quarantena tutto si è limitato a contatti virtuali, ma per i nuovi arrivati è stato importante sapere che l’associazione prevede la possibilità di passare un giorno o un fine settimana in compagnia di altre famiglie.
Per le famiglie nuove è infatti di forte impatto vedere che d’un tratto, nel mezzo del “tormento” che sentono, è comunque possibile una vita felice.
Spesso nei primi incontri le nuove famiglie hanno bisogno di raccontare quanto sia duro per loro attraversare i primi momenti di questa nuova consapevolezza. Questi incontri però non servono solo per ricevere consigli, ma anche per vedere direttamente che ci sono vie percorribili.
È come se molte famiglie, quando entrano nell’associazione, sentissero che qualcuno sta salvando loro la vita. Di fatto nessuno sta “salvando la vita” di nessuno, ma favorire una rete tra famiglie, una rete di legami e di conoscenza reciproca può essere un buon salvagente e un buon modo per far passare il messaggio che si può continuare a navigare.
L’associazione, inoltre, attraverso questi legami che si creano promuove la condivisione di conoscenza e di informazioni.
Diciamo che il lavoro che facciamo come associazione è un lavoro il cui fondamento sono la conoscenza e l’amore. Sappiamo chiaramente che per supportare le persone in queste esperienze è importantissimo avere
conoscenza, ma sappiamo anche che è necessario comprendere una realtà e un contesto prima di muoversi verso un cambiamento.
Questo approccio non ha a che fare solo con la comprensione dei bambini e delle bambine che attraverso le loro famiglie vengono accolti nell’associazione, ma anche con tutti gli ambiti sociali con cui la loro esperienza si confronta e si incontra.
Il nostro approccio come associazione, più che promuovere un attivismo a partire dalla “lotta”, promuove una rivoluzione a partire dalla conoscenza e dall’amore.
Questa convinzione si traduce prima di tutto in un’attenzione particolare a prenderci cura di noi: ciascuno nella propria famiglia, tra le diverse famiglie e tra famiglie e ambiente circostante.
Affinché i padri e le madri riescano a sostenere i propri figli e figlie, infatti, hanno necessità di fare a loro volta l’esperienza di essere sostenuti.
Con quali richieste le famiglie arrivano a Naizen? Quali sono le loro domande e qual è il vostro ruolo rispetto a esse? Nel concreto, quindi, cosa fate?
La prima cosa che mi viene in mente è che ogni famiglia chiede cose diverse.
Una delle cose di cui necessitano molte famiglie quando arrivano, e che solitamente non chiedono esplicitamente, è che qualcuno li ascolti senza giudicare e senza mettere in dubbio ciò che raccontano. Non necessitano solo di essere ascoltate a partire da qualcosa di razionale e logico, ma di essere abbracciate (metaforicamente e non).
L’abbraccio, infatti, può essere inteso sia come abbraccio fisico che come ascolto finalizzato a validare la propria narrazione, il proprio punto di vista, la propria esperienza senza che questa venga messa in dubbio.
Ci sono famiglie che hanno bisogno di poter piangere, di potersi “rompere”. Quando una famiglia chiama l’associazione ha già fatto un proprio percorso; spesso ha già vissuto un periodo che passa attraverso la negazione e il non voler o poter vedere cosa sta accadendo.
Quando una famiglia chiama un’associazione di famiglie di minori transessuali sa bene chi sta chiamando e spesso implicitamente vorrebbe sentirsi dire che quello che il proprio figlio sta vivendo non è “oggettivamente” configurabile come “transessualità”.
Rispetto a questo tipo di domande, come associazione, noi non rispondiamo né sì né no.
L’unica cosa che facciamo è ascoltare il racconto, validarlo, condividere informazioni, e in questa condivisione accompagniamo e sosteniamo i bisogni che possono esprimere queste madri e questi padri.
Come dicevo, noi non diciamo: “Tuo/a figlio/a è transessuale”. Noi ascoltiamo e facciamo un lavoro che si ispira alla psicologia umanistica, ossia sosteniamo e facciamo da specchio: restituiamo quello che loro riportano. Ad esempio, ci sono madri che iniziano a raccontare e dicono: “Mio figlio di 9 anni dice che vuole essere una bambina, e che vuole chiamarsi Maria…” usando per tutto il tempo del racconto la locuzione “mio figlio” o il maschile. In questi casi noi proviamo a far notare al genitore la scelta che sta attuando nel suo modo di raccontare, e ad esempio potremmo dire: “Visto che dice di essere una bambina, può essere che lo sia? E in tal caso per te sarebbe tuo figlio o tua figlia?”.
In molti casi le famiglie vengono per fare un passo definitivo di accettazione. Questo molte volte significa anche smettere di “non vedere” e rendersi conto che stanno già vedendo.
Nella maggior parte dei casi non anticipano che “camminare insieme ad altre famiglie” possa essere per loro una risorsa, ma quando vedono che questa possibilità esiste, quando si dà loro l’opportunità di entrare nei gruppi WhatsApp, ne sono entusiasti.
Altre famiglie invece si rivolgono a noi alla ricerca di una diagnosi, una sorta di certificazione per ciò che stanno vivendo. Chiariamo subito, però, che l’associazione non fornisce alcuna diagnosi, perché partiamo dal presupposto che l’identità sessuale non si possa diagnosticare in modo “oggettivo”.
Il nostro invito ai genitori è quello di ascoltare i propri figli, osservare ciò che comunicano con le parole e con i gesti e aiutarli a considerare i bisogni che in questo modo stanno esprimendo.
Il più delle volte i bisogni di questi/e bambini/e sono bisogni “piccoli” e sono gli adulti a viverli come “grandi” fin da subito. Molto spesso capita che un bambino esprima se stesso attraverso la richiesta di “tagliarsi i capelli” e talvolta i genitori vedono in questa richiesta un futuro di terapie ormonali e operazioni chirurgiche, laddove in quel momento la richiesta puntuale del bambino e il suo bisogno contingente è quello di esprimersi diversamente con un nuovo taglio di capelli.
C’è inoltre un altro aspetto da considerare rispetto al nostro modo di accompagnare le famiglie, che è quello di aiutarle a distinguere che sostenere le necessità dei propri figli, comprenderle, non equivale a soddisfare sempre le loro richieste. A volte capita che le famiglie, dinanzi alla sofferenza espressa dai vissuti dei propri figli, sentano di non poter porre alcun limite, sebbene questo non abbia nulla a che vedere col diventare attenti alle necessità e ai bisogni che questi stanno comunicando.
Molte delle richieste dei bambini hanno un significato simbolico evidente in termini di “stereotipi di genere”. Spesso chiedono di tagliarsi i capelli o di lasciarli crescere, di farsi i buchi per gli orecchini o di smettere di portare cerchietti e forcine. È importante tenere a mente che queste non sono solo delle richieste, ma occasioni per parlare con loro di stereotipi sociali circa la mascolinità o la femminilità.
C’è da considerare poi che le richieste sono cambiate nel tempo. Considerando anche solo gli ultimi cinque anni si possono osservare cambiamenti significativi. Si può dire che le famiglie che oggi si rivolgono a noi hanno già cercato e trovato informazioni, video e testi su internet, anche attraverso la documentazione che noi e altre associazioni rendiamo accessibili attraverso i nostri siti. Spesso, quindi, ci troviamo di fronte a persone che sono già molto informate. Secondo la mia visione delle cose, questo ha in qualche modo favorito il fatto di essere contattati sempre meno da persone che si percepiscono senza via d’uscita rispetto al vissuto della propria famiglia.
Avere facile accesso a queste informazioni, unitamente alla maggiore visibilità che i temi dell’identità sessuale assumono nei media, permette a queste persone di arrivare con un carico di sofferenza differente. Si è passati da richieste del tipo “aiuto, cosa mi sta succedendo?” a richieste come “quello che mi sta succedendo può avere a che fare con la transessualità?”.
Anche le biografie dei giovani ragazzi e ragazze stanno cambiando.
Allo stesso tempo, la maggiore visibilità del tema della transessualità infantile ha portato molte famiglie a porsi la questione della transessualità solo per via dell’espressione da parte dei figli di alcuni interessi sessualmente stereotipati. Ci sono ad esempio bambine che manifestano interesse per il calcio ma che non hanno mai comunicato di sentirsi bambini.
In alcune famiglie l’interpretazione di questi interessi, maniere, comportamenti o gusti suscita spesso di per sé domande legate alla transessualità. Anche in questi casi il nostro obiettivo è quello di ascoltare e fare da specchio rispetto a ciò che loro stanno raccontando della loro esperienza.
In ogni situazione il nostro accompagnamento si basa su questo suggerimento: ascolta ciò che ti dice tuo figlio/tua figlia e ascolta i suoi bisogni. Ciò non significa, come dicevamo prima, che ascoltare debba significare necessariamente rispondere a tutte le loro richieste concrete.
Ci sono famiglie che dopo avervi contattato hanno rifiutato il vostro “pensiero” sulla transessualità infantile? E se sì, secondo voi, perché?
Ci sono famiglie che, dopo essersi avvicinate a noi e dopo essere state accolte, hanno scelto di non venire più. Può essere per il fatto che, in alcuni casi, dopo il primo incontro si sono rese conto che la loro storia non aveva nulla a che fare con la transessualità, o forse perché dopo aver preso alcune informazioni non hanno ritenuto necessario condividere la loro esperienza con quella di altre famiglie. Non abbiamo mai raccolto resoconti circa le motivazioni per cui alcune famiglie scelgono di non venire più. La domanda è interessante, perché in qualche modo apre alla possibilità che possano esserci anche altri paradigmi o teorie da cui partire per dare una lettura e ipotizzare un accompagnamento alla transessualità.
Ci sono certamente approcci diversi da quello da noi adottato in Naizen, e questo forse lo si può considerare come qualcosa di positivo. La nostra teoria di riferimento è quella della Sexologia Sustantiva, ma nello stato spagnolo esistono associazioni che si rifanno alla “teoria queer” o che partono dall’attivismo più che da un approccio teorico particolare. Se dovessi provare a sintetizzare il nostro approccio sessuologico, direi questo: l’identità sessuale non è definibile attraverso i genitali, ed essere uomo o donna, ragazzo o ragazza ha a che fare con uno sviluppo che noi chiamiamo “sessuazione” e che è un processo intersessuale. Parlare della “sessuazione” come processo intersessuale significa che ciascuno di noi ha caratteristiche che consideriamo femminili e maschili combinate tra loro in modo differente. La transessualità non è esclusa da questa visione, né occupa un posto differente in questo discorso.
Cosa significa Sexologia Sustantiva? Potresti definirci cosa intendi con le parole “sesso” e “sessuazione”? E cos’è dal tuo punto di vista il “genere”?
La sessuologia a cui facciamo riferimento è quella che in Spagna ha come referente principale Efigenio Amezua, direttore dell’istituto sessuologico di Madrid (INCISEX). Si tratta di un approccio teorico che raccoglie la tradizione sessuologica a partire dalla fine del diciannovesimo secolo con i contributi dei cosiddetti “sessuologi di prima generazione” tra cui ritroviamo Magnus Hirschfield in Germania, Havelock Ellis in Inghilterra, Gregorio Marañon in Spagna e molti altri.
Hirschfield è stato il fondatore del primo istituto di sessuologia in tutto il mondo, a Berlino. C’è un’immagine che conosciamo in tanti che è quella dei nazisti che bruciano i libri in piazza. Ecco, in quell’immagine famosa, i libri di quel rogo sono quelli dell’istituto di sessuologia fondato da Hirschfield.
La Sexologia Sustantiva parte dal presupposto che ci sia materiale conoscitivo su cui fondare una disciplina sessuologica autonoma, riconoscendo quindi alla sessuologia un campo di studi specifico. In questo modo la sessuologia smette di essere una branca della psicologia o della medicina; smette di essere un aggettivo specifico di altre discipline per fondarsi come una disciplina unitaria a sé stante.
Questa disciplina, quindi, integra diversi modi di intendere la sessualità.
Secondo questo approccio la definizione di una persona come uomo o donna non ha tanto a che fare con il suo “essere”, quanto con il suo “farsi”. In questo senso entra in gioco il processo di “sessuazione”, secondo cui attraverso la nostra esperienza ci “sessuiamo” al maschile o al femminile, muovendoci entro un range intersessuale che non è altro che un concetto, una teoria attraverso cui ci definiamo.
La teoria dell’intersessualità è stata postulata circa un secolo fa proprio da Magnus Hirschfield. Secondo questa teoria, tutti abbiamo tratti e caratteri che definiamo maschili e femminili in diverse misure e proporzioni. In tal senso ciascuno di noi si costituisce e si definisce sulla base di una combinazione unica e differente.
Inoltre, la Sexologia Sustantiva fa un passo avanti riguardo ai presupposti del paradigma bio-psico-sociale a cui altri ambiti di studio della sessualità fanno riferimento. Per questa disciplina, infatti, gli ambiti biologico, psicologico e sociale nei soggetti sessuati non possono considerarsi piani separati. Si può scegliere di osservarli e analizzarli separatamente, sebbene facciano capo a un’esperienza che è percepita come un tutt’uno. Da questo presupposto ne deriva un metodo osservativo e di studio fondato principalmente sulla biografia dei soggetti. A livello biografico, infatti, questi piani non sono sempre così distinti nel resoconto delle persone e operare una frammentazione a prescindere implicherebbe perdere conoscenza e complessità. La scelta di una metodologia di tipo biografico in campo sessuologico è una direzione intrapresa da Havelock Ellis, il quale raccolse racconti in prima persona di ciò che per i soggetti intervistati significava essere uomini o donne, con le relative implicazioni in termini di relazione e interazione tra individui.
Ma torniamo alle definizioni… mi chiedevate ad esempio come si può intendere il “genere” all’interno di questa prospettiva teorica. Con il nostro approccio noi intendiamo il “genere” così come lo si intende a livello sociale, ovvero come “l’insieme di comportamenti e aspettative che una società attende dai soggetti in relazione al loro sesso”. Si tratta quindi di aspettative che altri hanno su di noi nel momento in cui veniamo letti come “uomini” o “donne”. Talvolta queste aspettative diventano quasi scontate e in alcuni casi addirittura imposte. Ad esempio, ci si aspetta che una donna si comporti in un certo modo o che anche fisicamente abbia determinate caratteristiche e non ne abbia altre, che abbia il seno e che non abbia peli, ecc. Poiché questa è la definizione di genere più diffusa allora per noi non ha senso parlare di “identità di genere”. Ed è per questo che parliamo solo di “identità sessuale”. È chiaro che questo ci espone ad uno “scontro” terminologico rispetto, ad esempio, al mondo anglosassone, in cui, a partire dagli anni ’80, il termine “genere” ha iniziato a prendere piede. Si inizia a parlare di genere con John Money, secondo la cui ipotesi tutti nasciamo come se fossimo una tabula rasa rispetto alla quale la società fornisce costruzioni di tipo sessuale. In altri termini, secondo questo approccio diventiamo uomini o donne perché il contesto sociale ci costruisce come tali. Egli partì da un esperimento attraverso cui dimostrò il contrario di ciò che voleva dimostrare. L’episodio da cui si originò il tutto fu un incidente: a pochi mesi di età, a seguito di un intervento di circoncisione mal riuscito, a un bambino venne bruciato il pene. A quel punto John Money intervenne proponendo alla famiglia di ricostruire chirurgicamente una vulva per il proprio bambino e di educarlo come se fosse una bambina, partendo dal presupposto che quell’incidente avrebbe provocato seri problemi a quel bambino rispetto al processo di identificazione con il maschile. In realtà, con il passare degli anni emerse da parte di questo bambino un vissuto di profonda sofferenza per il fatto di non essersi mai riconosciuto come una bambina. La storia si conclude poi con un finale tragico.
Possiamo paragonare questa sofferenza a quella che sperimentano i bambini e le bambine transessuali, i quali in modo esplicito invalidano i pensieri attraverso cui i propri genitori li costruiscono sotto il profilo sessuale.
Questa storia ci dice che le aspettative di genere del contesto in cui nasciamo non sono il principio su cui ci basiamo per definirci sessualmente.
In altri termini, se dal nostro punto di vista il sesso è qualcosa che si esprime a partire dall’individuo, il genere per come è stato definito si impone da fuori. Nel tempo si è osservato una progressiva rinuncia all’uso del termine “sesso” in favore del termine “gender”. Operare questa scelta significa operare un cambiamento molto forte senza una coscienza piena della portata concettuale che questo implica.
In Naizen quindi preferiamo parlare di identità sessuale e di transessualità.
In altri contesti si usa la parola “transessuale” per le persone che si sono sottoposte a interventi chirurgici, mentre si parla di “transgender” in tutti gli altri casi. Quello che solitamente si fa è dunque scomporre in etichette sempre più sofisticate che complicano la possibilità di osservare e comprendere l’esperienza di queste persone.
A nostro avviso, usare l’etichetta “gender” complica la comprensione delle cose.
Preferiamo a quel punto fare riferimento a locuzioni come “imposizioni di genere” o “aspettative di genere”.
A questo punto, però, mi piacerebbe anche dire che cos’è l’identità sessuale. Dal nostro punto di vista l’identità sessuale ha a che fare con ciò che uno definisce di essere. Spesso cadiamo nel tranello che per definirsi sessualmente basta essere “uomo” o “donna”, ma a voler essere più fini l’identità sessuale ha a che fare con il “come sono l’uomo che sono” e con il “come sono la donna che sono”. Si tratta di un’autopercezione, una consapevolezza, un sapersi che entra in dialogo e si costruisce biograficamente e continuamente con lo sguardo altrui, con i valori della società che abito e con il posizionamento che assumo rispetto alle “imposizioni di genere”.
È in questo dialogo che si costruisce il modo peculiare e puntuale di ciascuno di essere uomo o donna. In questo senso, l’identità sessuale non può mai dirsi stabile e si configura come qualcosa di plastico nel corso di tutta la vita della persona.
Dal vostro sito si evince che si può conoscere con certezza l’identità sessuale di una persona all’età di due anni. Cosa si intende con il termine “certezza” e perché proprio i due anni?
In quella formulazione della pagina web si sta facendo una semplificazione. Spesso nella divulgazione si ricorre a delle semplificazioni.
In alcune teorie si stabilisce che l’identità sessuale non è stabile fino ai sette anni di età e lo è invece dai sette anni in poi.
Questa idea ovviamente non si sposa con i nostri presupposti, ma quando sul sito parliamo dei due anni di età come “certezza” stiamo commettendo lo stesso errore. L’età di due anni per noi ha più a che fare con la capacità di qualcuno/a di poter iniziare a dire ad altri/e “Io sono…”.
Per il nostro approccio biografico l’unico modo di accedere alla “realtà” dell’identità sessuale di qualcuno è attraverso il racconto di sé e della propria soggettività, non da intendersi solo in termini verbali ma, in senso ampio, come capacità di esprimere se stesso/a.
Nelle nostre società solitamente guardiamo ai genitali per dire se una persona è maschio o femmina. In questo senso stiamo facendo un’ipotesi sull’identità sessuale di qualcuno che in molti casi, quasi sempre, funziona. In questi termini possiamo dirci però che, su 10.000 casi totali, a fronte di 9.999 volte in cui questa ipotesi funziona, può succedere che per un solo caso non si possa dire altrettanto.
Se teniamo in considerazione l’atteggiamento ipotetico, possiamo allora comprendere come il processo di “sessuazione” passi in sordina nel momento in cui un bambino con il pene dichiara di essere un “bambino”. Questo però è diverso dal dire che questo processo non sia in corso costantemente o che un bambino sia tale per via dei suoi genitali.
Nei casi di transessualità, invece, questo processo diventa evidente e invalida la nostra ipotesi basata sulla definizione dell’identità sessuale a partire dai genitali.
Da qui, dunque, si aprono diversi possibili percorsi biografici, a seconda che si dia ascolto o meno a quanto la persona sta esprimendo di sé e a seconda di come questa si ponga di fronte al modo altrui di stare dinanzi a ciò che sta cercando di esprimere.
Ci sono contesti familiari in cui si fa finta di nulla, altri in cui queste espressioni vengono punite, ecc. Le biografie ci dicono poi che si può arrivare da adulti a dire: “Non ne posso più del personaggio con cui ho vissuto. Io non sono un uomo, sono una donna, e fino ad ora non sono stata capace di esprimerlo o non sono stata capace di fare questo passo”.
Che somiglianze e differenze ci sono nel vissuto di una persona trans di due anni e quello di una di venticinque?
Ciò che stiamo osservando è che nei vissuti delle persone transessuali c’è una fenomenologia molto diversa in base alla variabile “età”.
La grande differenza è tra le nuove generazioni e le generazioni adulte, che spesso hanno vissuto una parte della propria vita con la propria identità sessuale negata o nascosta. Molti hanno fatto la transizione in età avanzata con varie difficoltà. Spesso hanno anche vissuto situazioni di esclusione, marginalizzazione, aggressione, violenza, sono stati cacciati di casa e non hanno avuto accesso all’istruzione. La marginalizzazione può aver comportato anche precarietà. I loro vissuti spesso riportano molta sofferenza, molte difficoltà e molto poco spazio sociale.
Possiamo però fare una distinzione tra chi fa la transizione durante l’infanzia e chi la fa durante l’adolescenza.
Con l’Università dei Paesi Baschi stiamo portando avanti uno studio che mette in relazione le differenze tra pre e post transizione tenendo conto di circa 70 indicatori diversi, tra cui figurano i livelli di ansia, depressione, sostegno percepito, supporto familiare, ecc.
Ciò che stiamo osservando con chiarezza è che, quando si fa il processo di transizione, si passa dallo “stare male” allo “stare bene”, oppure dallo “stare male” allo “stare meno male”, oppure ancora dal “non stare bene” allo “stare meglio”.
Quello che sta emergendo è che il benessere aumenta quanto prima avviene il processo di transizione e quanto più si verifica l’accompagnamento da parte della famiglia.
È inoltre importante distinguere i percorsi di transizione che avvengono nell’infanzia e quelli che avvengono nell’adolescenza, prima di tutto per l’aspetto legato ai cambiamenti della pubertà.
In questo “miglioramento” pre/post transizione che si evidenzia a qualsiasi età, ciò che osserviamo è che nell’infanzia tale miglioramento presenta uno scarto molto più grande che nell’adolescenza.
Abbiamo osservato inoltre che, quando si fa la transizione durante l’infanzia, c’è una parte molto grande di bambini e bambine che dopo continua a vivere la vita come il resto dei pari.
Speriamo di poter presto divulgare attraverso articoli i risultati di queste ricerche.
Forse stiamo dando per scontato cosa si intenda per “transizione”. Potresti definire meglio questa parola?
Grazie per questa domanda. In effetti il termine “transizione” merita una riformulazione e una riflessione più precisa e più ampia. Spesso con questo termine, riferito soprattutto a una persona adulta, si intende l’insieme delle pratiche ormonali o talvolta chirurgiche che permettono a quella persona di vivere il proprio corpo in corrispondenza del proprio vissuto. Quando invece parliamo di “transizione” durante l’infanzia è curioso notare che di fatto i bambini e le bambine non si muovono nella direzione di cambiamenti “medicalmente” evidenti. Certo, magari iniziano a voler esprimere se stessi attraverso un certo abbigliamento oppure attraverso un certo taglio di capelli, ma a ben vedere il processo di transizione comunemente inteso in quel caso riguarda forse più gli adulti di riferimento e il loro sguardo verso questi bambini. Sono loro a fare una “transizione” nello sguardo riuscendo nel tempo a vedere un bambino dove prima vedevano una bambina.
Nell’infanzia quello che si osserva è che l’espressione di certi cambiamenti avviene perché c’è qualcuno che la rende percorribile. Durante la pubertà l’utilizzo o l’accesso ai farmaci che bloccano lo sviluppo puberale è una possibilità, ma lo è a fronte di un processo di transizione (e cambiamento) che comunque avverrebbe in quella fase di vita. In altri termini, tutti siamo andati incontro alla “transizione” durante la nostra pubertà.
In sintesi quindi “transizione” è una parola che riguarda tutti noi sia rispetto a noi stessi e al nostro processo di “sessuazione” che rispetto al nostro modo di vedere e di stare dinanzi all’identità sessuale espressa da qualcuno che non siamo noi. Spesso in questa seconda accezione il processo di cambiamento che l’altro ci propone rispetto al nostro sguardo richiede tanto tempo.
Che cosa ne pensi delle persone che si definiscono “non binary” o di tutte quelle persone che rifiutano la dicotomia uomo/donna o il concetto di genere o che si definiscono “gender fluid”?
Per quanto mi interessino molto queste nuove definizioni dell’esperienza identitaria sessuale delle persone, non ho trovato ancora una conoscenza ben organizzata in tal senso. Pertanto, questo si presenta come un campo di ricerca interessante e utile per far chiarezza. Detto ciò, posso provare a rispondere con umiltà alla tua domanda a partire dalla mia conoscenza in ambito sessuologico.
Dal punto di vista delle mie conoscenze mi verrebbe da dire che nessuno di noi potrebbe definirsi strettamente in senso binario.
Quando dico questo mi sto rifacendo al concetto di “intersessualità” che citavo prima, secondo cui ciascuno di noi nella molteplicità delle sue caratteristiche riconosce a queste un’appartenenza più maschile o femminile all’interno di un continuum binario. In questo modo mi viene da dire che nessuno di noi è strettamente binario, perché tutti saremmo definibili come “intersessuali”.
Secondo questo assunto il processo di “sessuazione” non è binario.
Il fatto che nelle nostre società questo continuum venga considerato più per i suoi estremi opposti o venga considerato in modo “discreto” non toglie nulla al fatto che la realtà di una persona dal punto di vista della sua sessualità sia di fatto un’esperienza “continua”. Il fatto che l’esperienza continua di una persona si definisca per via delle categorie in modo discreto ha più a che fare con la nostra utilità di “categorizzare” e semplificare attraverso le categorie. Ma questo è un altro tema ben più ampio che riguarda il modo attraverso cui conosciamo la realtà operando delle categorizzazioni. Stessa cosa succede ad esempio con la nostra conoscenza dei colori. Il rosso, il verde e il blu non esistono in quanto tali, eppure a volte vediamo qualcosa e possiamo dirci che “è rosso”. C’è qualcosa che si esprime attraverso un continuum, che però noi leggiamo in modo discreto. Tornando al punto: se il processo di “sessuazione” è intersessuale, quando categorizziamo sessualmente – quindi quando “sessuiamo” gli altri o ci “sessuiamo” – usiamo delle etichette, delle categorie perché per conoscere funzioniamo così.
Qualcuno potrebbe dire che non è giusto, che non dovrebbe funzionare così.
La mia osservazione, quando ho potuto avvicinarmi ai vissuti di chi si definisce “non binary”, è che queste persone sono soggetti che nel loro “processo di sessuazione” decidono di gestire in modo particolare alcune loro caratteristiche. Così come uomini e donne gestiscono alcune caratteristiche definendole al maschile o al femminile queste persone scelgono di muoversi al di fuori di questa categorizzazione.
Qual è la ragione di tutto ciò? Non ne ho idea.
Mi viene in mente che definirsi “non binario” non risponda propriamente alla domanda “come ti definisci sessualmente?” ma che sia una risposta che in qualche modo esprime un posizionamento politico rispetto al modo di categorizzare della società in ambito sessuale.
Attraverso il “non binarismo” si potrebbe voler esprimere un rifiuto rispetto a tutto ciò che ha a che fare con le imposizioni di genere e con ciò che ci si aspetta da una donna o da un uomo.
Questa ipotesi mi ricorda un po’ il movimento del “lesbismo politico” all’interno dei movimenti femministi, secondo cui per alcune donne il lesbismo si configura come una scelta politica e ideologica per contrastare la sottomissione derivante dal dominio patriarcale ed eterosessista. Ma questa scelta non dice nulla dell’identità sessuale di queste persone. Queste donne potevano provare attrazione verso gli uomini ma scegliere di non incontrarsi sessualmente con loro per motivi politici. Non c’è nulla di illegittimo in questo: è un posizionamento politico che ha certamente implicazioni nella vita sessuale di queste persone, ma che non ha nulla a che vedere con l’identità sessuale così come l’ho definita precedentemente.
Molte etichette a me personalmente non aiutano nella conoscenza e comprensione del tema dell’identità sessuale e anzi me la complicano, ma posso comprendere che possano avere un ruolo da altri punti di vista e per altre finalità. Al di là di questo, penso che qualsiasi definizione sessuale debba avere legittimità di esistere e che per questo vada rispettata.
Grazie molto per il tempo che ci hai dedicato e per le tue condivisioni.
Grazie a voi.
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