1. Introduzione
1.1. La mia esperienza
Durante il tirocinio professionalizzante in psicologia, svolto presso un ospedale di riabilitazione neurologica, ho avuto l’opportunità di partecipare ad un gruppo di sostegno per familiari di pazienti ricoverati in struttura. Tale gruppo era condotto da una psicoterapeuta di formazione gruppoanalitica e io vi partecipavo nel ruolo di osservatrice.
Prima di questa esperienza, all’Università, mi ero appassionata alla neuropsicologia e alle neuroscienze e, grazie a un tirocinio, avevo avuto modo di lavorare con i pazienti neurologici, perlopiù persone con iniziale decadimento cognitivo o lesioni cerebrali conseguenti a ictus, con cui lavoro tutt’oggi.
Ma quella che vi voglio raccontare non è la storia dei pazienti, ma la storia delle loro famiglie.
In un mondo che gira attorno alle persone ricoverate, grazie a questa esperienza mi sono accorta che c’erano anche loro, che erano parte fondamentale di quel mondo, con le loro storie tanto complicate quanto affascinanti.
Attraverso questo articolo vorrei dare uno spazio e una rilevanza alle narrazioni di persone che non sono solo “il familiare di”, ma che in primis stanno vivendo uno sconvolgimento della propria vita e, nonostante questo, si trovano a prendersi cura di qualcuno che sta male.
Inoltre, durante questa esperienza ricordo di aver sperimentato quella che sentivo essere la potenza del gruppo, ovvero la velocità con cui, a mio parere, il gruppo riusciva a favorire perturbazioni e cambiamenti.
Così, a distanza di un paio d’anni, grazie all’incontro con la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP), ho deciso di rileggere quell’esperienza attraverso una lente differente, una lente che mi permettesse di cogliere e spiegarmi in un modo nuovo e coerente i movimenti che avevo osservato e a cui avevo partecipato.
1.2. Il gruppo
Le persone che giungevano al servizio di supporto erano spesso segnalate dal personale sanitario (quale medici, infermieri, neuropsicologi) in quanto, a un occhio esterno, apparivano particolarmente in difficoltà o provate per la situazione che si trovavano ad affrontare.
Dopo un primo colloquio individuale, la persona veniva invitata a partecipare a incontri di gruppo con altri familiari, con lo scopo di trovare uno spazio di supporto nell’affrontare le eventuali difficoltà e implicazioni emotive della situazione che stavano vivendo con il proprio caro.
Il gruppo si riuniva ogni due settimane per la durata di un’ora e mezza.
Era un gruppo a tempo indeterminato, ovvero in cui non erano stati definiti limiti temporali a priori rispetto al numero di sedute. Gli incontri si sono svolti da gennaio a maggio 2017, sono stati in totale sette e sono stata presente a tutti tranne a uno, il quinto. Dopo questi incontri, in occasione della pausa estiva e per esigenze della struttura, il gruppo si è concluso.
Il gruppo era formato interamente da donne, tutte mogli dei pazienti ricoverati a eccezione di una figlia. Solo un marito ha partecipato al gruppo, nell’incontro in cui io non ero presente.
Il gruppo era di tipo semiaperto, ovvero la composizione poteva variare, anche da un incontro all’altro, in quanto i familiari partecipavano a seconda della degenza del paziente. Il numero delle partecipanti, escluse la terapeuta e l’osservatrice, è variato da un minimo di due a un massimo di sette.
Da un lato, ho trovato interessante questa struttura perché mi ha permesso di osservare le dinamiche nell’accogliere i nuovi ingressi e nel salutare coloro che se ne andavano, creando ogni volta un rimodellamento del gruppo stesso. Dall’altro lato, la struttura semiaperta del gruppo ha fatto sì che alcune persone rimanessero costanti attraverso i diversi incontri, e credo che questo abbia permesso al gruppo non solo di formarsi, ma anche di mantenere nel tempo una propria narrativa.
2. Il tema narrativo
Premetto che per questo lavoro ho analizzato i miei appunti presi durante gli incontri di gruppo, in quanto non sono state effettuate né registrazioni né trascritti letterali. Gli appunti presi riportano talvolta citazioni letterali delle persone, ma anche riassunti di ciò che la persona esprimeva e le mie considerazioni personali rispetto a ciò che osservavo delle partecipanti e delle mie sensazioni.
Di seguito propongo una rilettura, attraverso il tema narrativo (Bregant et al., 2011), del percorso di questo gruppo e dei suoi movimenti.
Il metodo del tema narrativo parte dall’idea che ci sia un tema narrativo di fondo nella vita di una persona, che possiamo ipotizzare a partire da delle domande: quali sono le sue anticipazioni circa la sua vita? Quali sono gli assunti su cui costruisce il mondo? Qual è l’assunto sovraordinato che sussume queste anticipazioni?
Su questo sfondo, la persona si costruisce un proprio ruolo di vita, che le permette di costruire le proprie aspettative e quelle degli altri rispetto a se stessa.
Da qui, la persona si muove nel mondo con delle domande o ipotesi socialmente rilevanti che cerca di verificare nelle relazioni, spesso a un livello implicito. Queste domande ci aiutano a comprendere cos’è fondamentalmente impegnata a fare questa persona, ovvero il suo filo rosso e, di conseguenza, quali saranno le scelte più elaborative per lei.
A partire da questo sistema, è possibile comprendere un eventuale problema, nel momento in cui il sistema perde la sua prevedibilità e, naturalmente, le alternative di fronte a cui questo problema pone la persona.
Ho scelto lo strumento del tema narrativo perché mi ha aiutato ad avere una visione più sovraordinata del percorso del gruppo, anziché di quello delle singole persone. Mi ha permesso di raccogliere e integrare più livelli di informazione (non solo i costrutti portati dalle partecipanti, ma anche il lavoro della terapeuta e le mie osservazioni), arrivando a delle ipotesi più articolate rispetto a ciò che avevo sperimentato e alla direzione che il gruppo stava prendendo o avrebbe potuto prendere.
Fig. 1: Rappresentazione grafica del tema narrativo
2.1. Il tema narrativo di fondo: dal frullatore al labirinto
Vorrei riassumere il tema narrativo nella fase iniziale del gruppo attraverso una metafora portata dalle stesse partecipanti durante uno dei primi incontri: “il mondo è come un frullatore”.
La metafora del frullatore porta con sé l’idea di “confusione” in cui si trovavano in quel momento, che in termini PCP possiamo rileggere come transizione di ansia (Kelly, 1955, p. 495). Il mondo era diventato un posto imprevedibile, poco anticipabile, o per dirla con parole loro: “ti manca il navigatore per certe malattie. Io uso la metafora delle montagne russe, quando pensi di prendere un po’ di respiro… giù”[1].
Ampliando la metafora del frullatore, attraverso i loro racconti ipotizzo che in questa confusione il mondo fosse diventato per loro un posto che non le capiva: gli amici non comprendevano la loro situazione, la società rifiutava il contatto con la malattia e la morte, e tutti si aspettavano da loro che fossero forti e che si facessero carico di tutto.
Durante gli incontri si è parlato della società e tutte concordavano nel pensare che, per stare nella società, bisognava essere al top per non rischiare di dare fastidio. Immagino che il costrutto di “dover essere al top” portasse con sé l’anticipazione che mostrare alle persone la propria sofferenza, la malattia e la morte, voleva dire rischiare di non essere accettate ed essere abbandonate.
Ipotizzo che la partecipazione al gruppo di supporto, assieme ad altre persone che stavano vivendo esperienze simili alle loro, fosse un primo importante esperimento per capire se ci fosse qualcun altro nel frullatore assieme a loro, qualcuno che potesse comprendere la loro situazione, accettarle e, forse, aiutarle. Dal mio punto di vista, alcuni aspetti di comunanza tra le partecipanti e il clima di accettazione promosso dalla terapeuta, hanno permesso di validare questo primo esperimento.
Successivamente, accanto agli aspetti di comunanza hanno iniziato a emergere anche aspetti di individualità che, uniti al lavoro terapeutico volto a favorire esperimenti di socialità, credo siano stati utili fonti di invalidazione di alcune costruzioni e di permeabilizzazione del sistema. Per fare un esempio, la presenza di una figlia caregiver all’interno del gruppo ha permesso ad alcune madri di pensare che forse non fosse necessario cercare di proteggere i propri figli da tutto come stavano facendo finora e, anzi, forse avrebbero potuto essere per loro un aiuto. In altre occasioni, invece, vedere una forte costrizione sul sé da parte di alcune partecipanti che convivevano con la situazione da anni, ha permesso ad altre di interrogarsi su ciò a cui loro stesse stavano rinunciando, anticipare come la loro stessa costrizione avrebbe potuto trasformarsi nel tempo e pensare a cosa avrebbero potuto fare di diverso. Altre costruzioni e i cambiamenti nelle scelte verranno meglio descritti nei paragrafi successivi.
Nel tempo il tema narrativo si è modificato, si è cercato di capire come passare dal frullatore al labirinto[2] che, per quanto complicato, ha una sua organizzazione e una possibilità di uscita e di movimento. Le difficoltà permangono ma, nel labirinto, si può scegliere, non è necessario attendere e farsi portare dagli eventi.
Penso che il lavoro terapeutico attraverso l’uso della metafora abbia permesso alle partecipanti di sovraordinare rispetto a costrutti per loro difficilmente verbalizzabili e probabilmente poco anticipabili, quale la perdita di controllo per il proprio futuro e il senso di impotenza, da cui derivavano transizioni di rabbia e paura che non sapevano come esprimere e che le portavano, a loro volta, a sperimentare la transizione di ansia rappresentata dal frullatore.
La caratteristica di lassità della metafora può essere stata utile per permettere di ridurre la minaccia che talvolta la modifica o l’emergenza di nuovi costrutti può far sperimentare. Partendo dalle metafore stesse del gruppo, la terapeuta ha potuto usarle per passare idealmente dal frullatore al labirinto e, dal labirinto, è stato possibile stringere rispetto ad alcuni elementi subordinati, rendendoli così più anticipabili (es. nel labirinto si può agire: si può trasformare la rabbia dovuta al senso di impotenza in aggressività).
2.2. Il ruolo: da “nient’altro che curanti” a “curanti e…”
In un mondo che non si controlla, in cui non si può decidere quando fermarsi, in una società che non capisce e che ti vuole al top anche quando non puoi esserlo, immagino che, nel tentativo di far fronte all’imprevedibilità e partendo dall’unica certezza che sentivano di avere, ovvero che un loro caro stava male e aveva bisogno di aiuto, ognuna di loro si fosse costruita un ruolo nucleare e prelativo di curante. Questo ruolo permetteva di anticipare altri costrutti subordinati quali essere una donna forte, una guerriera e una protettrice. Durante gli incontri, per esempio, è emerso spesso il costrutto dell’essere forti, tanto da riuscire ad appianare loro stesse le montagne russe. Ipotizzo che per alcune di loro il polo di contrasto di questo costrutto potesse essere quello di essere persone arrendevoli di fronte alle difficoltà; per altre, penso potesse essere quello di persone che abbandonano l’altro, forse menefreghiste o egoiste.
Essere forti, dunque, implicava essere lottatrici e protettrici, facendosi carico il più possibile delle difficoltà, tanto pratiche quanto emotive. Questo era rivolto non solo verso il proprio caro malato ma anche, come spesso accade in queste situazioni[3], verso gli altri familiari, soprattutto i figli. Anche all’interno del gruppo, ho notato fin da subito un atteggiamento volto a prendersi cura le une delle altre, a consolarsi e farsi forza a vicenda.
Se da un lato il ruolo prelativo di curanti consentiva loro di sopravvivere nel frullatore, dall’altro non consentiva loro di vivere appieno la propria vita e questo le faceva soffrire.
Attraverso il gruppo, si è cercato di capire come potersi vivere dei piccoli spazi personali senza rischiare di non essere delle buone curanti, come trovare quella luce in fondo al labirinto, per passare da sopravviventi a viventi.
In termini PCP, direi che il tentativo fosse quello di rendere più permeabile e proposizionale il loro ruolo, permettendo di essere non solo “la curante di”, ma anche qualcos’altro, come per esempio una donna, una persona con le proprie esigenze o una persona che può aver bisogno di aiuto.
2.3. Le domande: come posso essere una buona curante?
Inizialmente, ognuna di loro è arrivata al gruppo con delle anticipazioni personali, che canalizzavano esperimenti differenti[4]. Alcune domande implicite che ho ipotizzato attraverso i loro esperimenti nell’incontro con il gruppo sono: sono una buona curante? Cercherete di convincermi a fare o a essere diversamente da come sono? Mi ascolterete e mi comprenderete? Qui posso dire “non ce la faccio”? Con voi posso sfogarmi? Gli esperti mi diranno che sbaglio? Mi diranno cosa devo fare?
Tutte queste domande credo si possano riassumere in domande sovraordinate di comprensione e accettazione.
Tali domande mi sono apparse più evidenti a ogni nuovo ingresso, in cui ho potuto apprezzare una differenza tra coloro che si confrontavano con il gruppo per la prima volta e coloro che avevano già iniziato a dare risposta alle loro domande. In questo, trovo che il gruppo sia stato molto di supporto e abbia permesso un accorciamento delle nuove fasi di formazione (Tuckman, 1965), che si presentavano ogniqualvolta l’entrata di un nuovo membro perturbava l’equilibrio del gruppo stesso.
Una volta compreso che non sarebbero state giudicate e che nessuno avrebbe detto loro come comportarsi nella situazione che stavano vivendo, le domande del gruppo hanno iniziato a cambiare: come posso convivere con questa situazione, restare una buona curante e non rinunciare alla mia vita?
2.4. Il filo rosso: dal voler dimostrare di saper prendersi cura dell’altro al provare a prendersi cura anche di sé
Ipotizzo che il gruppo, nelle primissime fasi, fosse fondamentalmente impegnato nel riconoscere e legittimare a ognuna il personale ruolo di curante. Questo ha permesso di creare uno spazio in cui sentirsi comprese, potersi sfogare e poter tentare di mettere ordine al frullatore, tanto dal punto di vista pratico quanto emotivo.
Successivamente, attraverso il gruppo, si è cercato di capire come poter essere curanti pur tenendo in considerazione se stesse, i propri bisogni e la propria vita.
2.5. Le scelte: dipendenza, spazi personali, socialità
Inizialmente, le scelte delle partecipanti riflettevano necessariamente, a mio avviso, le scelte che compivano al di fuori del gruppo, nella vita di tutti i giorni. In questo, trovo che la figura della terapeuta le abbia aiutate a lavorare sui loro esperimenti proprio a partire dal gruppo.
Descriverò di seguito alcune scelte comuni che ho potuto riconoscere nelle partecipanti e come penso si stessero modificando grazie al lavoro di gruppo.
2.5.1. Disperdere la dipendenza sul sé vs chiedere aiuto
Una delle scelte comuni che ho ritrovato nelle partecipanti era quella di distribuire molta dipendenza sul sé piuttosto che chiedere aiuto. Nel ruolo di donne forti, le vedevo impegnate nel tentativo di controllare e gestire più cose possibili da sole, senza sentire di potersi appoggiare ad alcun familiare o amico. D’altronde, in un mondo che non capisce, in una società che rifiuta la malattia e la sofferenza, a chi si può chiedere aiuto?
Nel gruppo si è parlato spesso della solitudine che provavano nell’occuparsi tanto degli aspetti pratici quanto di quelli emotivi, sia propri sia del malato e, a volte, anche di altri familiari. Avrebbero voluto esprimere rabbia, urlare, piangere, ma non si sentivano di poter fare nulla di tutto ciò, e così cercavano di trattenere le emozioni o, in alcuni casi, le esprimevano solo tra sé e sé.
Ipotizzo che la scelta di partecipare al gruppo sia stata un primo passo nella direzione di disperdere almeno un po’ di dipendenza, probabilmente inizialmente sulla terapeuta e successivamente sulle altre componenti del gruppo e/o sul gruppo stesso. Gradualmente, il gruppo è diventato uno spazio in cui potersi sfogare, potersi arrabbiare e poter piangere senza essere giudicate. Dai racconti delle partecipanti, è emersa l’idea che in questo gruppo non si sentivano sole, che potevano condividere le proprie difficoltà ed esperienze, e aiutarsi.
La terapeuta ha favorito questa dispersione rimandando alle partecipanti l’idea di essere loro le esperte, chiedendo a chi ci fosse già passata di raccontare la propria esperienza, o chiedendo al gruppo come poter aiutare qualcuna delle partecipanti che si trovava in una specifica situazione di difficoltà.
2.5.2. Dedizione totale vs prendersi spazio per sé
Nel ruolo di buone curanti, è emerso spesso il tema di non avere più uno spazio per se stesse. Hanno scelto di dedicarsi completamente al malato e alla famiglia, si è parlato di come anche una semplice passeggiata in solitudine fosse diventata un miraggio. Questa dedizione completa all’altro diventa comprensibile se pensiamo che per loro, prendersi del tempo per sé voleva dire togliere qualcosa all’altro che sta già soffrendo o, in certi casi, equivaleva ad abbandonarlo.
All’interno del gruppo, credo che il confronto tra le partecipanti abbia permesso di riconoscere nelle storie e nelle scelte delle altre, e successivamente in se stesse, una condizione di sofferenza che, se protratta nel tempo, avrebbe rischiato di portarle alla malattia. Inizialmente, alcune di loro riconoscevano questa possibilità ma preferivano costringere rispetto al sé e rischiare di ammalarsi, scelta per loro più percorribile rispetto all’alternativa della colpa per non essersi prese adeguatamente cura dell’altro.
Nel tempo, alcuni interventi terapeutici sono andati nella direzione di rendere più impermeabili alcune parti del sistema, iniziando a pensare ai limiti di ciò che potevano fare e alle richieste di cui potevano farsi carico. In questo senso, è stato secondo me importante lavorare sull’allentamento del costrutto stretto e regnante di controllo, che inizialmente veniva costruito come “o controllo qualsiasi cosa o non controllo niente”, in cui il polo del “non controllo niente” portava invariabilmente all’anticipazione di una catastrofe. Il lavoro della terapeuta e le riflessioni di alcune partecipanti hanno permesso di ragionare rispetto alle implicazioni di queste anticipazioni e di iniziare ad allentare il costrutto di controllo pensando che forse ci sono cose che non possono controllare, che non portano necessariamente a una catastrofe e che forse anche a questo è bene porre un limite per la loro salute.
Allo stesso tempo si è cercato di rendere più proposizionale il loro ruolo nucleare di curanti, in quanto non sono solo persone forti che devono “appianare le montagne russe”, ma anche persone umane e persone che hanno il diritto di stare male e di esprimerlo, tanto quanto i loro cari. In questo senso, si è cercato di aiutarle in un processo di dilatazione rispetto al sé. Un po’ alla volta si è iniziato a poter pensare e parlare di cosa sarebbe piaciuto loro fare per se stesse e ciò a cui stavano rinunciando. Ipotizzo che la stessa partecipazione al gruppo rappresentasse per loro un primo esperimento in questa direzione, in quanto era di fatto un’ora e mezza dedicata al loro benessere psichico senza che questo le facesse sentire egoiste. Quando il gruppo ha costruito lo spazio di incontro come momento per sé, è stato possibile fare una revisione rispetto a cosa significasse dedicarsi quel tempo per stare bene e come questo avrebbe aiutato anche i loro familiari.
Man mano, il gruppo ha iniziato a considerare che se fossero state male non avrebbero più potuto aiutare il loro caro e forse l’onere sarebbe ricaduto su altre persone quali i figli. Da qui si è iniziato a pensare che prendersi del tempo per sé fosse un atto altruistico, per stare in salute e per poter continuare a prendersi cura della propria famiglia.
Credo che a partire dall’esperimento nel gruppo come momento dedicato alla loro salute, sia stato possibile per alcune di loro provare a fare qualche piccolo ma grande esperimento al di fuori del gruppo, per esempio dedicandosi delle passeggiate o prendendosi del tempo per fare delle attività piacevoli.
2.5.3. Strutturare vs ri-conoscere
Durante i primi incontri, ho notato che le partecipanti facevano riferimento ai propri mariti con termini quali “sono come bambini piccoli”, “è egoista”, “è bugiardo”. Questi termini sono stati spesso usati per far comprendere la propria rabbia, che interpreto come ostilità[5] verso il cambiamento di una persona per loro importante, e quindi anche il cambiamento di aspetti nucleari di sé. Si è parlato poco di ciò che potevano pensare i mariti, forse in certi casi era diventato difficile comprenderli, non solo per le possibili difficoltà linguistiche dovute al danno cerebrale, ma anche per la difficoltà di mettersi nei panni di una persona che si conosceva così bene e che stava vivendo un cambiamento così importante[6]. In questa situazione, ipotizzo fosse più elaborativo strutturare e trattare i mariti come bambini, piuttosto che ricominciare a ri-conoscerli. Cosa vorrebbe dire scoprire di non riconoscere un proprio caro dopo tanti anni[7]? Ipotizzo che questa consapevolezza possa portare la persona a sperimentare una transizione di colpa, dovuta alla perdita del proprio ruolo nucleare di moglie o figlia per come l’avevano finora costruito e, allo stesso tempo, alla transizione di ansia, dal momento che i costrutti finora utilizzati per costruire l’altro perdono la loro capacità anticipatoria. Nel gruppo sono emerse queste tematiche; si è parlato del non riconoscere l’altra persona, non riconoscerne neanche lo sguardo. Credo che il fatto di poterne parlare all’interno del gruppo abbia aperto alla possibilità di iniziare a ricostruire il proprio ruolo.
Dopo qualche incontro, una partecipante si è trovata nella situazione di dover comunicare la diagnosi al marito. Parlando di questo evento, e grazie al lavoro della terapeuta che ha favorito esperimenti di socialità, il gruppo ha iniziato a interrogarsi su cosa potesse pensare il marito ma anche, più in generale, su che cosa significasse comunicare con loro. Costruire i processi di costruzione del marito ha permesso a queste donne di guardarsi con gli occhi del proprio coniuge e di riflettere sul loro modo di stare in relazione con lui, e forse anche su cosa significasse per i mariti stessi essere malati. Dare dignità nella malattia è stata una delle anticipazioni esplorate che ha permesso di intravedere nuove modalità di stare in relazione, oltre all’iperprotezione, scelta finora percorsa.
2.6. Il problema: non poter uscire dal frullatore senza essere arrendevoli o egoiste
Come accennavo prima, le persone spesso arrivavano al servizio su segnalazione del personale ospedaliero, quindi non necessariamente venivano a colloquio lamentando un problema.
Alcune erano contente di poter avere uno spazio dedicato a loro e venivano di buon grado sia al colloquio individuale sia, successivamente, agli incontri di gruppo. Altre erano un po’ restie a venire al gruppo, non capivano per quale motivo fosse stato loro indicato di incontrare uno psicologo, oppure talvolta pensavano che si trattasse dell’ennesimo esperto che aveva qualcosa da comunicare rispetto al proprio caro. Qualcun’altra ancora non si presentava affatto.
E allora, perché alcune persone scelgono di partecipare al gruppo di sostegno e altre no?
Certo, i motivi possono essere molti. Uno che io ipotizzo, e che potrebbe accomunare le partecipanti di questo gruppo, è che tutte loro, in un modo o nell’altro, avvertivano la difficoltà di non poter continuare a vivere nel frullatore, di faticare a sopravvivere ma, allo stesso tempo, non potevano evitare di essere delle curanti, per come loro avevano costruito quel ruolo.
Spesso, durante gli incontri, si è parlato della loro stanchezza nell’affrontare da sole la situazione, della loro rabbia che cresceva ogni giorno e che o non si permettevano di esprimere o faceva sentire loro in colpa quando lo facevano. Si è parlato del non riuscire ad andare avanti, di come stessero rinunciando alla propria vita, del rischio di ammalarsi anche loro. Ma quando sei una curante forte, quando sei il pilastro della famiglia o della relazione, come puoi permetterti di stare male?
2.7. Le alternative: colpa e minaccia vs costrizione e ostilità
A questo punto, non è difficile immaginare che le scelte fatte da loro sino a questo punto andassero principalmente nella direzione di evitare di sperimentare una transizione di colpa[8], cui sarebbero andate incontro se si fossero scoperte curanti arrendevoli, menefreghiste o egoiste.
Ipotizzo che l’alternativa più elaborativa per molte di loro potesse essere stata quella di costringere[9] rispetto al problema, ovvero rispetto all’incompatibilità tra essere curanti forti e non riuscire più a sostenere la situazione da sole: c’era chi leggeva tanto per non pensare e non vedere gente, chi andava a letto sperando di non svegliarsi e ricominciare tutto daccapo, chi si disinteressava della propria vita se il marito non c’era, chi aveva fatto un guscio e lasciava entrare poche cose, c’era chi semplicemente aspettava da sola, e c’era chi raccontava di essere stata un tempo una donna dinamica e ora non faceva più nulla.
Oltre a questo, durante gli incontri, si è parlato della difficoltà nell’accettare la situazione e il cambiamento; per qualcuno accettare significava arrendersi.
E allora ci si arrabbiava con il marito perché era come un bambino, con i medici che non avevano fatto abbastanza, con la società che non capiva, e anche con un Dio che non era buono per niente. Tutta questa rabbia, traducibile nella transizione di ostilità, credo fosse stata per loro la scelta migliore per il mantenimento del sistema, perché l’alternativa sarebbe stata quella di rendersi conto di aver perso una parte importante di sé[10].
Fig. 2: Rappresentazione grafica del tema narrativo iniziale del gruppo
3. Il mio ruolo di osservatrice
Dopo la rilettura della storia delle partecipanti di questo gruppo, ho scelto di risignificare anche il mio vissuto rispetto al ruolo di osservatrice, attraverso il ciclo dell’esperienza[11] che descriverò di seguito.
Anticipazioni.
Era il primo gruppo di supporto cui partecipavo come osservatrice, eppure, in parte, quello dell’osservatrice era un ruolo che sentivo calzante nei gruppi di tutti i giorni, in cui spesso osservavo silenziosamente le persone interagire tra loro.
Rispetto al mio ruolo in questo gruppo di supporto anticipavo due cose. La prima era che la mia presenza non sarebbe passata inosservata, soprattutto inizialmente. Immaginavo che forse il mio prendere appunti silenzioso avrebbe potuto frenarle nell’esprimersi. Anticipavo, altresì, che il mio ruolo avrebbe potuto mettere dei limiti alla relazione, dal momento che non avrei dovuto né potuto parlare direttamente con loro. Come se, fra di noi, loro avrebbero potuto solo parlare e io avrei potuto solo ascoltare.
Investimento.
Ero molto curiosa di capire come lavorava la terapeuta e anche di vedere come si sarebbe mosso un gruppo di supporto. Il mio investimento è stato principalmente in termini di tempo ed energie, ho cercato di prepararmi al ruolo di osservatrice come meglio potevo: ho parlato con la terapeuta del gruppo, le ho fatto domande, ho partecipato ai colloqui individuali con i familiari, ho cercato letteratura sui gruppi e partecipato a un seminario focalizzato sulla figura dell’osservatore.
Incontro.
Sono andata all’incontro con il gruppo, la conduttrice mi ha presentata e ha spiegato il mio ruolo. Ho iniziato ad ascoltare e a prendere nota.
Ben presto, mi sono resa conto che il mio ruolo veniva percepito dalle partecipanti in maniera un po’ diversa da come lo immaginavo io.
Se da un lato è vero che si sono interrogate sul mio ruolo lì all’inizio del gruppo e hanno ipotizzato che alla fine avrei dato loro un voto, è anche vero che durante gli incontri mi hanno guardato in momenti ben precisi, per esempio dopo aver parlato dei figli o dopo aver espresso qualcosa di molto doloroso, qualcun’altra mi si è seduta accanto e mi ha accarezzato la mano.
In quei momenti mi sono resa conto che stavano facendo diversi esperimenti con me e ora, dopo la rilettura della loro storia, posso ipotizzarne i motivi.
Pensando ai costrutti emersi, di donne, madri e mogli forti, penso che qualcuna di loro potesse vedermi quasi come una figlia; ero giovane e, forse, proprio come una figlia pensavano di dovermi proteggere o prendersi cura di me. Eppure, indossavo un camice, affiancavo la terapeuta che conduceva il gruppo, ero in mezzo a loro e ascoltavo le loro storie. Ipotizzo che tutto ciò non abbia permesso loro di costruirmi pienamente come una figlia, favorendo degli esperimenti per capire cos’altro potessi essere e per capire che, nonostante la mia giovane età, forse non era necessario proteggere anche me nascondendo la sofferenza che vivevano.
In qualche altro caso forse mi stavano chiedendo se fossi lì e se potessi sostenere quello che stavano portando, o se avessi una risposta per il loro dolore.
E ancora, qualcun’altra, poteva domandarsi che cosa stessi scrivendo, se nel mio silenzio le stavo giudicando o se anche io, come il resto del gruppo, le comprendevo e le accettavo.
Verifica.
In quei momenti ho capito che il mio ruolo non mi separava dalla relazione, anzi, si possono dire molte cose anche stando in silenzio.
La mia anticipazione rispetto alla relazione con le partecipanti è stata quindi invalidata, nel gruppo ero in gioco anch’io e potevamo fare degli esperimenti reciproci.
Revisione costruttiva.
Dopo questa esperienza, è cambiato il modo di vedere il mio ruolo di osservatrice all’interno del gruppo. Ho deciso, in certi momenti, di essere semplicemente presente. Anche senza parlare, cercavo di dare delle risposte alle loro domande, o almeno a quelle che immaginavo essere le loro domande. Lo potevo fare attraverso il corpo, attraverso lo sguardo, potevo dire che stavo accettando di essere lì insieme a loro e stavo condividendo le loro storie.
4. Conclusioni
La Psicologia dei Costrutti Personali offre una visione della persona come processo in continuo movimento, costantemente impegnata nel condurre esperimenti personali nel mondo. Ci invita ad abbandonare un’ottica deterministica della persona e la considerazione delle sue caratteristiche come stabili e immutabili. A mio avviso, questo punto di vista apre un’ampia gamma di possibilità per la persona e, dunque, anche per il gruppo.
Coerentemente con questa teoria, lo strumento del tema narrativo permette di andare oltre la fotografia della diagnosi, per raccontare una storia in continua trasformazione.
Nel rivedere la mia esperienza, mi ha permesso di seguire il flusso del gruppo e immaginare possibili direzioni di movimento dello stesso.
Grazie a questo approccio ho potuto non solo rileggere la storia delle persone e del gruppo, ma anche comprendere e dare un nuovo significato ai loro e ai miei esperimenti.
Bibliografia
Belloni, E. (2019). Alzheimer, badanti, caregiver e altre creature leggendarie. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore.
Bregant, I., Orlando, P., Sandri, G., & Giliberto, M. (2011). The “Narrative theme” method: Between telling observer and observing teller. Paper presented at the XIX International Congress on Personal Construct Psychology, Boston, Massachusetts, USA: July 19-23, 2011.
Coppock, C., Winter, D., Ferguson, S., & Green, A. (2017). Using the perceiver element grid (PEG) to elicit intrafamily construal following parental acquired brain injury. Personal Construct Theory & Practice, 14, 25-39. Consultato da: http://www.pcp-net.org/journal/pctp17/coppock17.pdf
Frances, M. (2008). Stages of group development – a PCP approach. Personal Construct Theory & Practice, 5, 10-18. Consultato da: http://www.pcpnet.org/journal/pctp08/frances08.pdf
Kelly, G. A. (1955). The psychology of personal constructs (vol. 1-2). New York, NY: Norton.
Kelly, G. A. (1966). A brief introduction to personal construct theory. In D. Bannister (Ed.), Perspectives in Personal Construct Theory. London and New York: Academic Press 1970, 1-29.
Tuckman, B. (1965). Developmental sequence in small groups. Psychological Bulletin, 63, 384-399. doi: 10.1037/h0022100
Note sull’autore
Roberta Toffano
Institute of Constructivist Psychology, Padova.
Psicologa e specializzanda presso l’Institute of Constructivist Psychology. Si è occupata di ricerca nell’ambito delle neuroscienze e di riabilitazione e stimolazione neuropsicologica per persone con esiti di danni cerebrali e iniziale decadimento cognitivo.
Note
- Citazione di una partecipante. ↑
- Anche quella del labirinto è una metafora delle partecipanti. ↑
- Per un approfondimento: Coppock et al., 2017. ↑
- Fase di anticipazione individuale del gruppo: è la fase iniziale, i membri del gruppo sono probabilmente occupati con le loro domande personali (Cosa succederà? Chi sono queste persone? Come sarà?) e cercheranno, più o meno consapevolmente, di darsi alcune risposte provvisorie (Frances, 2008). ↑
- Ostilità = “sforzo continuo di estorcere prove validazionali a favore di un tipo di previsione sociale che è già stata riconosciuta come un insuccesso”(Kelly, 1955, p. 510). ↑
- Kelly definisce nel corollario della socialità che “nella misura in cui una persona costruisce i processi di costruzione di un’altra, può giocare un ruolo in un processo sociale che coinvolge l’altra persona” (Kelly, 1955, p. 95). ↑
- Per un approfondimento: Belloni, 2019. ↑
- La transizione di colpa viene descritta da Kelly come “la consapevolezza della rimozione del sé dalla struttura nucleare di ruolo” (Kelly, 1955, p. 502). ↑
- “La costrizione si verifica quando una persona restringe il suo campo percettivo allo scopo di minimizzare delle incompatibilità evidenti” (Kelly, 1955, p. 532). ↑
- In termini costruttivisti si parla di transizione di minaccia, ovvero “la consapevolezza di un imminente e ampio cambiamento nelle strutture nucleari” (Kelly, 1955, p. 489). ↑
- Il ciclo dell’esperienza, definito da George Kelly per spiegare il modo in cui l’uomo scienziato fa esperienza e conosce il mondo, è suddiviso in cinque fasi: anticipazione, investimento, l’incontro o impatto, validazione/invalidazione, revisione. (Kelly, 1966). ↑
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- In principio era il ritmo
- Il primo risveglio