Dušan Stojnov è professore di ruolo presso il Dipartimento di Psicologia della Facoltà di Filosofia dell’Università di Belgrado. Ha partecipato, in qualità di ricercatore, a numerosi progetti promossi dall’Istituto di Criminologia, l’Istituto di Psicologia e l’Istituto per la Ricerca in ambito educativo. Tra i suoi interessi si annovera la lettura della psicologia dei costrutti personali (d’ora in poi PCP) alla luce del costruzionismo sociale e lo stabilire connessioni tra la PCP e gli insegnamenti di Foucault e Goffman. A livello lavorativo, oltre alla terapia si occupa anche di coaching, dove cerca di applicare i principi dell’appreciative inquiry (N.d.T. metodologia di lavoro innovativa con un focus sulle risorse esistenti e positive, utile per facilitare il cambiamento organizzativo) insieme alle prassi del Personal Construct Coaching e della performative practice.
Dušan Stojnov is a tenured Professor at the Psychology Department of the Faculty of Psychology, University of Belgrade. As a researcher he has participated in various projects with the Institute of Criminology, Institute of Psychology and Institute for Educational Research. His interest lies in reading Personal Construct Psychology in a social constructionist key, and establishing the links between PCP and the teachings of Foucault and Goffman. In his practical work, in addition to therapy, he is also involved with coaching, where he attempts to apply the principles of appreciative inquiry with the practice of Personal Construct Coaching and performative practice.
Ciao Dušan, intanto grazie per avermi concesso la possibilità di intervistarti su tematiche come quelle dell’etica, politica, immigrazione e la Psicologia dei Costrutti Personali.
Intanto mi interessa sapere ai fini di questa intervista: come pensi che queste tematiche siano correlate con la psicologia?
Ci sarebbe moltissimo da dire, vediamo da dove iniziare. Ok, direi che dal mio punto di vista professionale come psicoterapeuta, l’etica ha a che fare primariamente con come costruisco le altre persone come tali, e secondo quali criteri lo faccio.
L’etica è una disciplina normativa che cerca di rispondere alla domanda del cosa dovrebbe essere e non del cosa è. Rispondere alla domanda del cosa è riguarda infatti l’epistemologia, quando cerchiamo di costruire l’altro stiamo osservando la questione dal punto di vista epistemologico. Kelly non ha fatto una netta distinzione tra epistemologia ed etica. Tuttavia non è abbastanza dire che l’etica abbia a che fare con come costruiamo l’altro. Quando cerchiamo di valutare questa tipologia di costruzioni, quando ammettiamo di non essere d’accordo con quanto accade, o che comunque le cose dovrebbero andare diversamente, allora parliamo di criteri, che dovrebbero aiutarci a decidere cosa è bene e cosa è male e cosa dovrebbe essere fatto e cosa evitato.
In che modo quindi la psicologia ha a che fare con questi temi?
In genere noi aiutiamo le persone su un piano individuale ad attraversare ed elaborare gli accadimenti della loro vita, la nostra scienza ha a che fare con questo.
Come costruttivista sono interessata a sapere cosa possiamo dire sull’etica e come possiamo cercare di comprendere il processo psicologico attraverso cui le persone scelgono ciò che è giusto o sbagliato, se possiamo considerare l’etica come delle norme stabilite o altro.
Non puoi pensare all’etica nell’altro modo, non può esserci un’etica non normativa, ci sono molti processi diversi nell’etica, c’è la meta-etica, l’etica della cura, l’etica della deontologia, l’etica dei doveri. Possiamo parlare di cosa Kelly può offrire su questo tema o, come ho già detto, possiamo guardare al processo attraverso cui le persone operano scelte. Sono molto riluttante però a entrare nella storia politica, sociale, etica in quanto è una questione complicata. In questo senso a molte delle domande che hai preparato risponderei “non so”.
In questo momento storico in Italia viviamo una situazione problematica rispetto all’immigrazione, non abbiamo una cultura in grado di integrare. Cosa possiamo dire dei processi di costruzione dell’altro migrante, come diverso da noi, e come mai ci spaventa? La mia opinione è che spesso la costruzione di diversità si accompagna a paura, vorrei comprendere come da una definizione di diversità si possa arrivare all’odio, dall’odio alla violenza e in alcuni casi anche al genocidio.
Come mai siamo spaventati dagli altri?
Io credo che l’altro metta in discussione le nostre costruzioni del mondo e di noi stessi.
Incontrare un altro diverso da noi, mette in discussione il nostro senso di identità, rischiamo di perdere il nostro senso di esistenza, le nostre norme, le nostre usanze, e non sempre vogliamo acconsentire a questo.
Sì, forse dipende anche dal fatto che non abbiamo narrative alternative disponibili a questo.
È uno scontro tra loro che vogliono entrare e chi invece vuole difendere i propri confini. Tuttavia, non possiamo negoziare il flusso di immigrazione perché qualche altra persona per esempio una forza politica a qualche alto livello l’ha autorizzato, e questo crea inevitabilmente conflitto. In qualche modo mi stai chiedendo: cosa possiamo fare? Beh, il conflitto è di per sé già una tentata soluzione, una risoluzione come anche lo stabilire confini e dire “no”. Kelly parlava di come capire le persone non solo nel qui e ora ma anche nei secoli; hai detto che la Storia dimostra… Se vogliamo comprendere questi accadimenti dobbiamo quindi guardare alla Storia nei suoi vari contesti, e dire che inizialmente non esisteva una nazione ma esistevano tribù, regni. Le nazioni sono state introdotte nel Medioevo e da quel momento la storia dell’Europa è una storia cruenta e sanguinaria di guerre, per cui è normale quello che accade oggi con i rifugiati‚ la Storia ci mostra infatti che si muore per la propria nazione e che non si vuole essere schiavi.
L’Europa ai tempi moderni è stata messa in sicurezza, ma è stata comunque teatro di guerre ideologiche, poi è arrivato il colonialismo. Insomma, c’è un paradosso grande nella storia dell’Europa, che professa valori di democrazia, di rispetto e protezione della vita umana, di libertà, che impone diritti e doveri, lotte per il welfare, ma tutti questi progetti sono realizzati sulla base di una cruenta oppressione, che ha portato storicamente a fatti orribili. Il colonialismo si è solo trasformato in neo-colonialismo, e le guerre vengono fatte ma giustificandole differentemente, quindi non con l’obiettivo dichiarato di uccidere, schiavizzare ma per “vendere” un modo di vedere le cose, delle idee, dei beni, programmi televisivi, musica, moda, e cercare di guadagnarci molto denaro per acquisire potere. Per qualche ragione politica siamo sottoposti all’ingresso di immigrati, e questo ha a che vedere con il processo di assimilazione. Con il termine «assimilazione» mi riferisco alla teoria di Piaget, ovvero a come i migranti si adatteranno alle norme, ai valori, alle usanze del paese ospitante. Ma l’assimilazione di fronte a questo flusso ingente non è l’unica domanda rilevante, bensì è importante chiedersi anche come avverrà l’accomodamento. A questo punto la responsabilità si sposta dai rifugiati al paese che li ospita, in quanto loro vorranno esprimere le loro usanze nella tua nazione e tu vorrai difendere le tue, ma non puoi fermarli, e non puoi neppure reprimerli brutalmente come facevi durante il colonialismo, e questo è relativo al fatto che ad oggi vorresti dimostrare di avere dei valori più civili. Quindi se accetti di ospitarli devi accettare l’accomodamento, che nei termini di Kelly è una transizione, la nazione ospitante deve per esempio accettare che le donne iraniane portino il burqa in spiaggia. Tuttavia, ci tengo a dire che non c’è reciprocità rispetto a questo, infatti per esempio in Iran non accetteranno mai che le donne europee vadano in spiaggia senza burqa, in questo senso alcune cose non sono negoziabili. Noi vogliamo difenderci e loro vogliono sopravvivere e non puoi biasimarli, quindi cosa possiamo fare al nostro livello, quando le persone che sono responsabili di questi equilibri geo-politici non sono trasparenti abbastanza, e con loro non possiamo dialogare? Come psicologi e psicoterapeuti non possiamo lavorare ad un livello così sovraordinato, ma intervenire ad un livello periferico e tentare di aiutare quelle persone che stanno attraversando i più comuni problemi della condizione di rifugiato. E per fare questo dico che Kelly offre un processo di decentramento attraverso la sua idea di relazioni di ruolo: trattare gli altri come persone implica tentare di immaginare come gli altri ti costruiscono e tentare di creare un dialogo sulla base appunto di una relazione di ruolo. Ma allo stesso tempo credo che questo favorisca una grossa quota di colpa. Infatti, in qualche modo, se modifichi la tua cultura, le tue tradizioni, non stai facendo quello che gli altri si aspetterebbero. Quindi io parlerei di relazioni di ruolo piuttosto che di etica, e credo che nonostante Kelly non abbia parlato molto di etica, lui la fondasse appunto sul concetto di relazione di ruolo. Mi concentrerei piuttosto su questo processo di decentramento e sulle transizioni a cui siamo sottoposti quando accettiamo di ospitare i rifugiati. Cosa possiamo fare? Non molto, ma neppure nulla. Intanto capire da chi saremo pagati, chi investirà denaro in questo. In più, c’è un altro problema legato alla difficoltà di parlare di questioni nucleari in gruppi di persone culturalmente differenti; parlare di costruzioni nucleari inerenti la validazione, l’identità, i bisogni primari, problematiche collegate con il benessere e la qualità della vita, lavorare con il gruppo – benché io abbia un approccio multiculturale – è così difficile… Come lo gestisci in gruppo? Le relazioni umane sono così fragili, che quello che sto tentando di dire è che se non abbiamo delle regole comuni, protette da tutti e rispettate, è molto difficile. E la mia paura è che non puoi raggiungere principi comuni, rispettati con obbligo da tutti, senza l’oppressione da parte di una società totalitarista che promuova questi valori.
Quindi in un certo modo mi stai dicendo che l’etica va sospesa a questo livello?
L’etica è sempre correlata ma è così complicata la sua interconnessione con i livelli politici.
La tua nazione ha attraversato una lunga guerra, immagino ti sia capitato di lavorare con persone che avevano la necessità di ricostruire la loro identità, la loro biografia, che avevano subito gravi perdite, grosse sofferenze, e forse sì, a questo livello non parli con loro di etica.
Beh sì, è impossibile parlarne a questo livello, c’è troppa manipolazione, e poi nella mia nazione la questione è: c’è stata la guerra, oppure no? E in un certo senso contemporaneamente l’abbiamo avuta ma anche no. Abbiamo ospitato 300.000 rifugiati del Kosovo, e quando sono arrivati in Serbia, gli albanesi hanno annesso una parte di Kosovo che si è separata dalla Serbia. Alla fine, è sempre un accordo tra parti politiche, per esempio in Kosovo ci sono basi americane e posso intuire che abbia a che fare con le tensioni nei confronti della Russia, ma non è mai trasparente e quindi anche qui poco collegato con l’etica, in quanto quando parli di etica devi essere molto trasparente. La penisola balcanica è sempre stata un luogo di scontro tra diverse etnie, interessi bizantini, ungheresi, inglesi; i confini non sono mai stati stabiliti dagli abitanti dei Balcani, questa terra non è mai appartenuta alla sua popolazione, se guardi alla Storia tutto è sempre stato deciso dalle grandi forze politiche, durante gli storici accordi (Berlino, Versailles, il congresso dopo la prima Guerra mondiale). Questa è la mia pessimistica conclusione: non possiamo guardare alla dimensione superordinata perché lì non troveremo risposte, possiamo solo provare ad aiutare le persone. Ma se decidiamo di aiutarle abbiamo a che fare con un grande dilemma implicativo: non puoi trattare le altre persone come animali, ma se le accogli, provocherai il disappunto di molte altre persone, che ti accuseranno di non proteggere sufficientemente la tua nazione. Ecco perché è difficile parlare di ricostruzione, e non resta che aiutarli ad un livello molto personale, periferico, nel risolvere problemi personali, e avere a che fare con le loro transizioni, ma non puoi lavorare ad un livello di gruppo, comune, poiché anche questo cambia in continuazione. Per esempio abbiamo molti rifugiati al nord della Serbia, che vorrebbero entrare in Ungheria, ma c’è un muro e molte tensioni e scontri, ma cosa possiamo fare? Nessuno chiederà a degli psicologi cosa fare, magari ci inviteranno in qualche programma per dire che dobbiamo aiutarli, rispettarli e tante altre belle cose, ma non saprai mai le reali intenzioni che ci stanno dietro, troppa manipolazione. I processi di assimilazione e accomodamento sono decisi a questo livello superordinato, ma noi possiamo aiutare le persone delle nazioni ospitanti in questo processo di assimilazione, aiutarli a vivere in un contesto culturale che cambia. Per esempio la questione dell’infibulazione, che per me non è accettabile, ma per i musulmani lo è perfettamente, credo sia una problematica che esce dal campo di pertinenza della psicoterapia. In Svizzera anche hanno un grosso problema in quanto ci sono molte richieste di ginecologhe di sesso femminile, per le visite delle donne di origine araba, ma non tutte le strutture sono organizzate per soddisfare questa richiesta. È difficile, se cerchi di aiutare le persone nell’accomodamento relativo all’arrivo di nuove persone potrebbero dirti che sei eccessivamente dalla parte dei migranti, ma se difendi troppo la tua cultura stai impedendo ai migranti di assimilare.
Credo che a questo punto sia anche lecito domandarsi quale sia il limite, fino a che punto accettare questi processi di accomodamento e assimilazione.
Certo, è come per le tasse, se sono troppo elevate nessuno le pagherà, molti tenteranno di evadere e non avrai abbastanza soldi, ma se sono troppo basse, tutti le pagheranno ma l’ammontare dei soldi nella Banca di Stato sarà comunque troppo basso, allora si tratta di scegliere quale sia il punto preciso, accettabile in cui non è né eccessivo né troppo poco.
Che ruolo possiamo quindi avere noi in questi processi di assimilazione e accomodamento?
I politici non ci coinvolgeranno mai nello stabilire quale sia questo limite, dobbiamo stabilirlo autonomamente, anticipare ciò che si aspettano da noi, e qual è il nostro obiettivo, che è molto difficile e complicato, ci vorrebbe maggiore trasparenza e sapere chi pagherà per questo. Una volta la psicoterapia era riservata a chi poteva pagarsela, adesso è possibile intraprenderla anche in ospedale o comunque non solo in regime privato, ma mettendo a disposizione 6/8 sedute, che è poco, quindi cosa si aspettano da noi? Non sappiamo con che obiettivi vogliono che lavoriamo con i rifugiati e magari anche in 3/4 sedute.
Quando lavori con culture differenti, la tua etica personale potrebbe essere in difficoltà nell’accettare alcune usanze?
Non esiste un’etica personale, solo convinzioni personali, costruzioni nucleari, ma l’etica è universale, se hai un’etica comune applicata alle diverse culture allora potrebbe essere una strada.
Potrebbe essere una ipotetica soluzione quella di avere un’etica comune?
Beh in un certo modo è stato fatto, ci sono già dei principi di reciproca accettazione, quello che dobbiamo fare per promuovere questi comuni obiettivi è difficilissimo. In Cina, per esempio, per le donne l’obiettivo non è come per le europee quello di essere felici e raggiungere una qualità di vita accettabile. In un certo modo credo che l’unica via sia imporre principi universali attraverso una sorta di oppressione totalitarista, non ne sono contento ma non vedo grandi alternative. Molti principi della cultura europea sono fondati su un concetto pro-vita ma adesso ce n’è così tanta che forse anche questo principio non regge più. Sono molto spaventato e minacciato dagli eventi, magari sono vecchio, magari sono pessimista ma non vedo una via di uscita facile. Come fai a rendere felice un tedesco? Rendendo miserabili gli immigrati turchi. E viceversa, come puoi rendere felice un turco? Rendendo miserabili i tedeschi. Quindi forse trovando un’identità comune, un’identità internazionale che è confortevole per le diverse culture che ci devono vivere, si potrebbe raggiungere una pacifica convivenza. C’è una grande ostilità e credo che stiano tentando di metterci in testa delle “idee bomba”.
Secondo questa tua visione quello che ci resta da fare è lavorare con le persone che ci chiedono aiuto, tentando di supportarle nelle loro transizioni, e partecipare alla creazione di questa identità comune internazionale, favorendo processi di assimilazione e accomodamento?
Sì. Lo psicologo Erikson ha traslato il concetto di identità dalla filosofia alla psicologia, e l’ha ancorato ad un aspetto relazionale: tu ti vedi come la stessa persona differente dagli altri, nonostante nel tempo cambi. Probabilmente nel mio corpo ad oggi restano poche cellule di quelle che avevo 62 anni fa, quando sono nato, ma nonostante ciò mi riconosco ancora come la stessa persona. Allo stesso tempo tuttavia devi essere riconosciuto come la stessa persona dagli altri, la costruzione che fanno gli altri del tuo sé è costitutiva della tua identità. L’individualità è possibile solo nella misura in cui c’è la collettività. Erikson ha poi scritto in un testo, credo del ’68, che ci sono due tipi di identità nella cultura europea, una è del tipo “uccidi-sopravvivi” e l’altra è “muori-divieni”. “Uccidi e sopravvivi” implica che uccideremo fino a che ci sarà una cultura, la nostra, che sopravvive. L’unica identità alternativa che lui concepiva era “morire-divenire”, ma non appartiene a questo mondo, è una dimensione cristiana: io cercherò di accettare questi etici, cristiani principi anche se mi costeranno la vita, e se muoio difendendo questi valori diverrò in un’altra dimensione, raggiungerò la beatitudine eterna nel paradiso. E se mi chiedi qual è la via di uscita io ti dico: ricostruire queste identità, e al posto di “uccidere-sopravvivere”, “morire-divenire” ci possono essere altre due forme di identità ovvero “sopravvivere-divenire” e “uccidere-morire”, ma non chiedermi come arrivarci, trascende le mie abilità.
In che modo credi che queste due identità possano essere una soluzione?
Perché attraverso un’identità come “sopravvivere e divenire” si tenta di risolvere i problemi collaborando con gli altri e non uccidendoli, cercando di trovare una comune confortevole posizione. Tuttavia, avere questo ideale dialogo implicherebbe sedersi attorno ad una tavola rotonda, essere molto ricettivi l’uno verso l’altro, giocare relazioni di ruolo, non arrivare mai ad una soluzione finale, e permettere che chiunque in qualsiasi momento possa mettere in discussione la posizione raggiunta. Questo tipo di collaborazione è difficilmente raggiungibile, ma se questo è l’obiettivo del nostro futuro possiamo provarci, non solo gli psicologi, ma soprattutto i politici e chi decide le sorti del mondo. Sono stato ottimista per molti anni, ma sai cosa dice Kelly? Niente cambia tornando ad essere lo stesso, deve sempre cambiare verso l’opposto.
Dopo questa fase di pessimismo possiamo aspettarci una nuova fase di ottimismo?
Sì, forse quando morirò. Sai, ho un centro di accoglienza per rifugiati siriani a 500 metri da casa mia, e le persone che ci passano vicino hanno difficoltà a parlare con loro, perché sono differenti, la loro pelle è più scura, e io posso sentire quanta ostilità stanno ricevendo, ma al contempo quanta ne possono esprimere a loro volta… È questo che sto tentando di dire: a livello personale puoi lavorare sui tuoi stereotipi, ma a livello di gruppo è così maledettamente difficile. Allora, ho detto in questa intervista qualcosa di significativo?
Beh all’inizio pensavo che sarebbe andata in maniera differente, ma sono emersi punti di vista nuovi e molto interessanti. Forse non abbiamo risposto alle domande che avevo preparato, ma abbiamo comunque discusso di etica, politica, immigrazione, psicologia e questo era il mio obiettivo, mi hai parlato della tua personale esperienza e di ciò che ritieni utile e possibile fare. Dal tuo punto di vista l’etica deve avere a che fare con qualcosa di universale, comune, ma per raggiungere l’accettazione di questi principi comuni ci vuole il coinvolgimento delle forze politiche. Ma credo anche tu abbia messo in risalto come e dove possiamo lavorare noi come psicologi, e che ci sono molti livelli implicati di cui dobbiamo essere consapevoli. E magari questi principi potrebbero essere dei piccoli semi e incentivare noi giovani psicologi ad avere un ruolo più consapevole in questi processi di accomodamento e assimilazione, che tuttavia devono avere un limite accettabile, e a tenere a mente che un cambiamento eccessivo può essere troppo minaccioso per le parti coinvolte.
La prossima volta mi devi promettere che parleremo di tematiche più piacevoli, come per esempio dell’amore.
Va bene.
Ciao ciao.
Ciao e grazie.
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