Tempo di lettura stimato: 43 minuti
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Non siamo tutti coraggiosi allo stesso modo

Shades of courage. Emotional dimensions of courage in the family semantic polarities model

di

Valeria Ugazio
Università di Bergamo

 

e Ferdinando Salamino
Università di Northampton

Abstract

L’articolo avanza l’ipotesi che il coraggio vari profondamente in rapporto ai significati che dominano la costruzione del mondo delle persone. Basandosi sul modello delle polarità semantiche familiari di Ugazio (1998; 2012/13), gli Autori identificano differenti forme di coraggio entro le semantiche della libertà, bontà, potere e appartenenza e le illustrano e discutono fornendo esempi tratti dalla propria pratica clinica e dalla letteratura. Gli obiettivi che le persone perseguono quando agiscono coraggiosamente, le minacce che sentono, gli ostacoli che si frappongono sono diversi nelle quattro forme di coraggio discusse. La minaccia nella semantica della libertà è rappresentata dai pericoli di cui il mondo è intriso, nei confronti dei quali l’individuo è costruito come vulnerabile; l’autonomia è lo scopo, dal momento che perdere l’autonomia significa perdere valore di fronte a se stessi e alla famiglia. La paura: è qui l’ostacolo. Affrontare il mondo da soli è la massima espressione di coraggio entro questa semantica. Rompere l’assedio della colpa è invece la principale espressione di coraggio entro la semantica della bontà. Essere coraggiosi entro questa semantica spesso significa oltrepassare i limiti stabiliti da un codice morale percepito come oppressivo. Conseguentemente, diventare corrotti è la minaccia, l’ostacolo è la colpa, mentre lo scopo è sentirsi vivi. Vincere da soli è la massima espressione di coraggio entro la semantica del potere. Esserne capaci richiede superare il bisogno di approvazione (ostacolo) e fronteggiare l’invidia degli altri per ottenere la supremazia (scopo). Essere coraggiosi significa invece, entro la semantica dell’appartenenza, accettare il destino di cane randagio per poter conservare la dignità. Esclusione e solitudine sono le minacce, mentre la speranza di essere amato e incluso è l’ostacolo, perché può portare alla perdita della dignità.

This article puts forward the hypothesis that courage varies accordingly with the dominant meanings through which people construct their own world. Delving into the model of family semantic polarities (Ugazio, 1998; 2012/13), the Authors identify different shades of courage within the semantics of freedom, goodness, power and belonging and illustrate and discuss them providing example from their clinical practice and from literature. The goals people aim at when acting courageously, the threats they feel and obstacles that entangle them are different in the four shades of courage discussed. The threat within the semantic of freedom is represented by the dangers the world is fraught with, in front of which the individual is constructed as vulnerable. Autonomy is the purpose, since losing autonomy means to lose value in front of oneself and the family. Fear is thereby the obstacle. Facing the world alone is the paramount shade of courage within this semantic. Breaking the siege of guilt is the principal shade of courage within the semantic of goodness. Being brave within this semantic means to trespass the boundaries established by a moral code perceived as oppressive. Consequently, the threat is to become corrupt and the obstacle is guilt, whereas the aim is to feel alive. Winning alone is the prevalent shade of courage within the semantic of power. It requires overcoming the need of approval (obstacle) and facing others’ envy in order to gain one-upmanship (aim). Within the semantic of belonging, being courageous means accepting the fate of a stray dog in order to retain the dignity. Exclusion and loneliness are the threat whereas the hope to be love and included is the obstacle, since it may led to the loss of dignity.

Keywords:
Disturbi alimentari, disturbi fobici, disturbo ossessivo-compulsivo, depressione, polarità semantiche familiari | Eating disorders, Phobic disorders, Obsessive-compulsive disorder, Depression, Family semantic polarities
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1. Introduzione

Il coraggio, a differenza del suo opposto, la paura, non sembra suscitare interesse nel mondo della psicologia clinica, a parte alcune importanti eccezioni come Seligman (2005), il quale considera il coraggio non soltanto un fattore protettivo del benessere psicologico, ma ne fa un vero e proprio obiettivo della terapia.

Una ragione di tale scarsa attenzione risiede probabilmente nella natura paradossale del coraggio, che sfugge a una chiara definizione, poiché, come sostiene Chesterton (1908/2013), “il coraggio è quasi una contraddizione in termini: implica un forte desiderio di vivere che prende la forma di una disponibilità a morire”[2]. Se a ciò si aggiunge la tradizionale tendenza della psicologia clinica a centrarsi sul danno piuttosto che sulle risorse, tale penuria di interesse risulta sempre meno sorprendente.

Tuttavia, il coraggio alberga nella conversazione clinica, nascosto nei desideri dei nostri pazienti, o nei loro rimpianti. E sono molti a chiedere al terapeuta di aiutarli a trovare il coraggio, oppure a lamentarsi di averlo perso.

Una delle definizioni operative più convincenti identifica il coraggio con la “disposizione ad agire volontariamente, anche in condizioni di paura e in circostanze pericolose, laddove i rischi siano stati ragionevolmente valutati, nel tentativo di ottenere o preservare un bene percepito come importante per se stessi o per gli altri, pur consapevoli che tale esito positivo potrebbe non verificarsi”[3] (Shelp, 1984, p. 354).

Secondo tale definizione, la paura, benché spesso presente, non è una componente essenziale. Anche altri autori hanno messo in discussione la centralità della paura nella definizione di coraggio. Ad esempio, Rachman (1990) ha rilevato che pazienti fobici, che sperimentano alti livelli di ansia e paura, sono al contempo capaci di straordinari atti di coraggio. Woodard (2004) ha riscontrato che le persone definiscono il coraggio in relazione alla “paura che scaturisce dalla percezione di una minaccia che supera le risorse a disposizione per affrontarla” (p. 174). Inoltre – da quanto emerso dalla ricerca di Woodard – una persona coraggiosa sarebbe quella che affronta un’impresa pericolosa, a dispetto della propria vulnerabilità, quando un obiettivo ha un valore socialmente riconosciuto. Il coraggio sembra di conseguenza rivelare una natura mutevole, dipendente dalla capacità individuale di affrontare la propria fragilità, unitamente a fattori contestuali, tra cui l’appartenenza di gruppo.

L’importanza di tale dimensione sociale è sottolineata ancor di più da Maddi (2004), il quale osserva che il significato della condotta coraggiosa non può essere compreso semplicemente valutando l’entità della minaccia (sfida). Sono altrettanto necessari un senso di connessione con gli altri (impegno) e la volontà di influenzare attivamente gli eventi (controllo).

Woodard e Pury (2007) ci offrono una definizione di coraggio definitivamente svincolata dalla paura: “il coraggio è la consapevole volontà di agire, in presenza o assenza di vari livelli di paura, in risposta a una minaccia, allo scopo di raggiungere un importante obiettivo o risultato, talora di natura morale”[4] (p. 136).

Condividiamo in linea di principio questa definizione, e siamo d’accordo che il contraltare del coraggio non sia necessariamente la paura. Tuttavia, riteniamo che il coraggio possa essere meglio compreso in riferimento a un’emozione antagonista, che si ponga come ostacolo da superare affinché l’azione coraggiosa possa avere luogo. Altre emozioni, non meno violente della paura, possono paralizzare e limitare il soggetto che vorrebbe compiere un atto coraggioso. Similmente, anche minacce e obiettivi possono essere differenti.

Questo articolo presenta l’ipotesi che minaccia, scopo e ostacolo dell’azione coraggiosa varino in connessione con i significati prevalenti attraverso i quali le persone costruiscono il proprio mondo. Non siamo tutti coraggiosi allo stesso modo, e la parola coraggio può essere declinata in modi diversi. Tale ipotesi è supportata da Pury, Kowalski e Spearman (2007), i quali riconoscono l’esistenza di un coraggio personale, strettamente connesso ad aspirazioni, valori e timori dell’individuo. A nostro parere, esistono diversi tipi di coraggio personale, che coesistono entro il nostro contesto culturale.

 

2. L’anatomia del coraggio

Secondo Guidano (1987, 1991) e Ugazio (2013), le persone costruiscono il proprio mondo attraverso alcuni significati cruciali, connessi a specifiche emozioni. Tali significati, e le emozioni che li alimentano, costituiscono il cuore del processo organizzativo attraverso il quale il Sé costruisce la continuità e la coerenza della propria esperienza interiore, e sottendono i valori dell’individuo, così come le sue modalità abituali di relazionarsi con gli altri. Ugazio (2013) identifica quattro configurazioni di significato, definite “semantiche familiari”, ampiamente diffuse nella cultura occidentale: libertà, bontà, potere e appartenenza. Queste semantiche sono apprese all’interno della famiglia e degli altri contesti emotivamente rilevanti nei quali il soggetto è inserito, di qui la denominazione di semantiche familiari. Diverse ricerche hanno evidenziato (Castiglioni, Veronese, Pepe, & Villegas, 2014; Faccio, Belloni, & Castelnuovo, 2012; Ugazio & Fellin, 2016; Ugazio, Negri, & Fellin, 2015; Veronese, Procaccia, Romaioli, & Barola, 2013) che queste semantiche caratterizzano la conversazione e la definizione di sé e degli altri pazienti fobici (semantica della libertà), ossessivo-compulsivi (semantica della bontà), con disturbi alimentari (potere) e dell’umore (appartenenza). Secondo Ugazio (2013) queste semantiche possono caratterizzare la conversazione anche di individui non sintomatici e di famiglie in cui nessun membro abbia mai sperimentato sofferenza psicologica. L’ipotesi che presentiamo in questo articolo è che le semantiche sopra citate diano forma agli obiettivi che gli individui perseguono quando agiscono coraggiosamente, ma anche alle minacce e alle emozioni che li ostacolano, rendendo l’atto coraggioso di difficile realizzazione. Di conseguenza, all’interno di queste quattro semantiche emergono differenti espressioni emblematiche del coraggio, ciascuna con caratteristiche idiosincratiche, come mostrato nella Tabella 1.

 

SEMANTICA MINACCIA SCOPO OSTACOLO EMBLEMA DEL CORAGGIO
LIBERTÀ Rischiare la vita,

la salute…

Autonomia Paura “Avventurarsi nel mondo da soli”
Essere intrappolati,

diventare dipendenti

Sicurezza “Affidarsi a

qualcuno”

BONTÀ Corrompersi

Diventare malvagi

Sentirsi vivi Colpa,

Angoscia e paura

“Rompere l’assedio della colpa”
Sentirsi privi di vita Purezza Desiderio “Sopportare

la rinuncia”

POTERE Affrontare la malevolenza altrui Supremazia,

Essere ammirati

Bisogno di approvazione “Vincere soli”
Perdere status Assertività

Autenticità

Vergogna “Abbracciare

la sconfitta”

APPARTENENZA Essere esclusi

Rimanere soli

Dignità Speranza “Accettare il destino di cane randagio”
Perdere il rispetto

di sé

Inclusione Rabbia “Sopportare l’onta”

Tabella 1. Forme di coraggio semantiche

 

Il coraggio è predominante entro la semantica della libertà. Le due polarità principali che contraddistinguono questa dimensione di significato – libertà/dipendenza e esplorazione/attaccamento – sono fondate sulla dialettica tra paura e coraggio. La paura è entro questa semantica una componente essenziale del coraggio. È l’ostacolo che si frappone tra il soggetto e la sua principale meta esistenziale, ovvero l’autonomia, concepita come l’abilità di affrontare il mondo da soli, senza guida o protezione. A causa di eventi drammatici verificatisi nel corso della storia familiare, o a volte per ragioni meno eclatanti, il mondo esterno è costruito come pericoloso, minaccioso. È necessario essere coraggiosi, dunque, per avventurarsi nel mondo ed esplorare ciò che si trova all’esterno di un “dentro” percepito come caldo e protettivo: la famiglia, gli amici di lungo corso, un matrimonio solido, un ambiente lavorativo ben conosciuto e in qualche modo familiare. La paura del mondo esterno àncora sovente le persone dominate da questa semantica a legami protettivi, in grado di rassicurarle.

Come esito di questi processi conversazionali, i membri di queste famiglie si sentiranno, e verranno definiti, timorosi, cauti o, al contrario, coraggiosi o addirittura temerari. Troveranno persone disposte a proteggerli o s’imbatteranno in persone incapaci di cavarsela da sole, bisognose del sostegno dell’altro. Si sposeranno con persone fragili, dipendenti, ma anche con individui liberi, talvolta insofferenti dei vincoli; soffriranno per la loro dipendenza, cercheranno in ogni modo di conquistare l’autonomia. In altri casi saranno orgogliosi della loro indipendenza e libertà che difenderanno più di ogni altra cosa. L’ammirazione, il disprezzo, i conflitti, le alleanze, l’amore, l’odio si giocheranno su temi di libertà/dipendenza (Ugazio, 2012, p. 116).

Più questa semantica domina la conversazione, più probabile sarà assistere a una polarizzazione delle identità tra i membri della famiglia:

avremo quindi nello stesso nucleo globe trotter e persone così stanziali da non essersi mai trasferite dal quartiere dove sono nate. E ci sarà chi – come il paziente agorafobico – è così dipendente e bisognoso di protezione da avere bisogno di qualcuno che l’accompagni anche per affrontare le situazioni più consuete della vita quotidiana e chi, all’opposto, sarà così autonomo da sembrare autosufficiente (ibidem, p. 116).

Il coraggio non è soltanto un elemento cruciale di questa semantica, è anche l’incontestabile virtù alla quale tutti aspirano. Nelle famiglie dominate dalla semantica della libertà, tutti condividono

un ordine morale in cui libertà, indipendenza ed esplorazione sono costruiti come valori, mentre i legami di attaccamento, la compagnia dell’altro, sono sentiti come espressione del bisogno di protezione da un mondo «pericoloso», e di conseguenza sono associate a un certo grado di avvilente dipendenza (ibidem, p. 119).

In sintesi, la minaccia entro la semantica della libertà è rappresentata dai pericoli che infestano il mondo, di fronte ai quali il soggetto si considera vulnerabile. Il coraggio è qui al servizio dell’autonomia, poiché perdere autonomia significa perdere valore nei confronti di se stessi e della famiglia. La paura è l’ostacolo, che può talora essere così potente da manifestarsi sotto forma di attacchi di panico. Affrontare il mondo da soli è la rappresentazione emblematica del coraggio entro questa semantica, sebbene altre possibili declinazioni, significativamente differenti, siano presenti. Nelle altre semantiche che descriveremo sinteticamente fra breve, il coraggio ha un ruolo differente e spesso meno cruciale, poiché le emozioni centrali che alimentano le polarità dominanti sono diverse.

Comprendere le famiglie o i gruppi nelle quali domina la semantica della bontà è come avventurarsi tra le pagine di Dostoevskij, ove la lotta tra bene e male è alimentata dalla polarità emotiva colpa/innocenza. Quando prevale questa semantica, la conversazione ruota attorno a:

Episodi che mettono in gioco la deliberata volontà di fare il male, egoismo, avidità, godimento colpevole dei sensi, ma anche bontà, purezza e innocenza, ascesi, così come sacrificio e abnegazione. I membri di queste famiglie si sentiranno di conseguenza, e saranno considerati, buoni, puri, responsabili o, al contrario, cattivi, egoisti, immorali. Incontreranno persone che li salveranno, li eleveranno o, al contrario, che li inizieranno al vizio, li indurranno a comportamenti di cui potranno poi sentirsi colpevoli. Sposeranno persone capaci di abnegazione, innocenti, pure o, invece, crudeli, egoiste che approfitteranno di loro. I loro figli saranno buoni, puri, casti o, al contrario, sfrenati nell’espressione dei loro desideri, violenti nell’affermazione di se stessi e della propria sessualità. Alcuni di loro soffriranno per l’egoismo, e a volte per la malvagità degli altri o per l’intrinseca cattiveria dei propri impulsi. Altri saranno orgogliosi della propria purezza e superiorità morale. E alcuni si sentiranno appagati dalla soddisfazione dei propri impulsi. E ci sarà chi, specialmente nelle famiglie dove questa polarità domina la conversazione da diverse generazioni, ha dato prova di particolare abnegazione tanto da sembrare un asceta e chi ha espresso i propri impulsi in modo così egoista da essere considerato malvagio (ibidem, p. 163).

Un’altra polarità, vivo/morto, introduce un pathos drammatico entro la dialettica tra bene e male, caratteristica di questa semantica, poiché la vita sta dalla parte del male. Sentirsi vivi entro questa semantica significa essere malvagi ed egoisti, soddisfare i propri istinti e bisogni attraverso condotte disdicevoli. Di converso, essere buoni ha qui poco a che fare con la generosità. Non significa agire per il bene comune o l’altrui felicità. Significa primariamente astenersi. La bontà entro questa semantica è una questione di sacrificio, mortificazione, e implica la disponibilità a fare un passo indietro di fronte alla vita. “Le istanze vitali – sessualità, affermazione di sé, investimenti su persone e cose – sono il luogo in cui si esplica il male, mentre sacrificio, rinuncia e ascesi vengono identificati con il bene” (Ugazio, 2012, p. 165).

Quando nella conversazione familiare predomina la semantica del potere, prevalgono due polarità: “vincente/perdente” e “volitivo/arrendevole”, alimentate dalla polarità emotiva vergogna/vanto. La seconda emozione è presente in coloro che occupano la posizione vincente, specialmente quando la loro superiorità è riconosciuta dai partner conversazionali, mentre vergogna e imbarazzo prevalgono in coloro che occupano la posizione perdente. La polarità volitivo/arrendevole è subordinata a vincente/perdente, essendo la volontà il mezzo per conseguire la posizione di superiorità.

Si è vincenti perché si è volitivi, determinati, efficienti, mentre si è perdenti perché si è passivi, arrendevoli, in balia delle sopraffazioni degli altri. La bonarietà, l’accondiscendenza, l’accettazione della definizione che l’altro dà della relazione sono costruite entro queste famiglie come passività imbelle, inettitudine (ibidem, p. 219).

La polarità vincente/perdente “ha una peculiarità che la distingue dalle altre polarità: il suo contenuto è puramente relazionale. È possibile considerarsi vincenti o perdenti soltanto rispetto agli altri” (ibidem, p. 219). Di conseguenza, “la lotta per la definizione della relazione è argomento costante della conversazione in queste famiglie. L’oggetto del contendere, i “contenuti” del conflitto sono di regola irrilevanti, mentre chi abbia la supremazia (one upmanship) è ciò che conta” (ibidem, p. 222).

Gioia/allegria e disperazione/rabbia permeano l’esperienza emotiva dei membri della famiglia, quando la semantica dell’appartenenza prevale. Gioia/allegria è sperimentata da coloro che sono accettati e onorati nel gruppo, mentre rabbia/disperazione affligge coloro che sono esclusi, abbandonati, ostracizzati. In questa semantica, sentirsi incluso nel gruppo o, al contrario, espulso ed esiliato da esso, è cruciale e intimamente connesso alla polarità onorevole/indegno. Alcune persone sono benvenute, onorate, degne di essere ricordate laddove altre sono escluse, marginalizzate, defraudate e dimenticate. Le persone all’interno di questa semantica bramano l’appartenenza a una famiglia, a una comunità e a una relazione di coppia totalizzante. Tutti loro agognano essere al centro del mondo emotivo del proprio partner, ma alcuni finiscono per sentirsi reietti, soli, incompresi, abbandonati, come chi è incline alla depressione.

L’espulsione dal gruppo, la mancanza di un’appartenenza familiare sono vissute dai membri di questi nuclei come un’onta irreparabile, mentre il bene più grande è essere radicati e onorati dentro i propri gruppi di appartenenza, dalla famiglia alla comunità. Tuttavia è spesso in nome della dignità che avvengono fratture definitive. L’onore è quindi in queste famiglie un valore altrettanto fondamentale quanto l’appartenenza.

Le rotture con i propri genitori, con la parentela, con la comunità sono frequenti in questi nuclei. A volte sono definitive, altre volte vengono ricomposte, sono comunque tali da segnare il destino di alcuni membri della famiglia (ibidem, pp. 268-269).

Quando nella famiglia la semantica dell’appartenenza ha una storia antica in cui sono coinvolte più generazioni, pecore nere, rinnegati, defraudati e dimenticati si «con-pongono» con individui onorati, degni di essere ricordati per le loro azioni, o semplicemente perché il capriccio divino li ha inclusi fra gli eletti. Nascite illegittime, diserzioni, abbandoni si accompagnano a eventi fortunati come eredità, matrimoni da favola, riconoscimenti professionali, carriere folgoranti. Con qualcuno la vita sembra essersi accanita, mentre con altri è stata particolarmente generosa. Qualche membro della famiglia è adorato, ammirato, mentre altri sono ignorati o oggetto di aggressività e violenza. Altre volte, soprattutto quando la semantica dell’appartenenza ha acquistato da poco centralità nella famiglia, le vicende sono meno tipiche ma generano rabbia/disperazione o, al contrario, gioia/allegria e vengono lette in termini di esclusione/inclusione (ibidem, pp. 272-273).

Vedremo nelle prossime pagine come i significati generati da queste semantiche diano vita a differenti espressioni emblematiche del coraggio. Le illustreremo e discuteremo offrendo esempi tratti dalla nostra pratica clinica e dalla letteratura.

 

3. Sentirsi senza paura entro la semantica della libertà

“Io ammiro mio fratello! È incredibilmente coraggioso! Non ha mai avuto paura, sin da bambino. Io non potrei mai essere come lui”, afferma Enrico, un paziente agorafobico di 30 anni. Suo fratello Marco, di un paio d’anni più giovane, ha di recente intrapreso la carriera di chef professionista. Cosa lo rende così ammirevole, agli occhi di Enrico? Subito dopo il conseguimento del diploma professionale, Marco ha ottenuto un lavoro come chef di bordo su una nave da crociera, e sta per lasciare la famiglia e la fidanzata per almeno un anno. La facilità con cui si predispone a lasciarsi tutto alle spalle e ad affrontare il mondo per proprio conto è fonte di stupore per Enrico e il resto della famiglia.

In famiglie nelle quali predomina la semantica della libertà, il coraggio è la virtù incontestabile cui tutti tendono al fine di asserire la propria autonomia. Le persone che condividono questa semantica giungono spesso in terapia quando realizzano che la paura ha preso il sopravvento, allontanandoli da obiettivi importanti. Di solito, si tratta di obiettivi che hanno a che fare con l’affermazione della propria autonomia, come nel caso di Alessandro. All’inizio della terapia, aveva appena interrotto il proprio Erasmus a Londra, e il suo intero progetto di vita sembrava scivolargli dalle mani. Diversamente da molti suoi compagni di Università, Alessandro sapeva esattamente cosa voleva fare nella vita: lavorare per una ONG e vivere oltreoceano. Viaggiare era sempre stata la sua più grande passione, ma a seguito di un episodio di abuso di hashish era caduto preda di attacchi di panico. All’inizio aveva tentato di resistere e di rimanere a Londra, anche perché si era legato sentimentalmente a una ragazza inglese, ma alla fine aveva dovuto arrendersi. Il panico era troppo forte, al punto che non poteva più recarsi da solo in Università e la ragazza doveva accompagnarlo. Con riluttanza, aveva deciso di ritornare a casa, dai genitori, dove si era subito sentito meglio, ma presto la casa si era trasformata in una trappola perché era colto dal panico e da un senso di depersonalizzazione non appena tentava di allontanarsi.

Per due anni, Alessandro aveva tentato di riguadagnare parte della propria autonomia. Aveva persino affittato una stanza in una casa in condivisione con altri studenti, ma non era riuscito a pernottarvi nemmeno una volta. Aveva fatto di tutto per non soccombere alla propria paura, mettendo in atto ripetuti tentativi di lasciare la casa dei genitori, e finendo più di una volta al pronto soccorso. Quando si era reso conto che oramai lasciare la casa era impossibile anche in compagnia dei suoi amici più fidati, aveva seriamente considerato la possibilità del suicidio. Arrendersi alla paura era inconciliabile con il mantenimento della propria autostima:

Quando i miei amici mi hanno proposto una gita al lago, ho accettato, perché in ogni caso non riuscivo a concentrarmi sullo studio, ma è stata un’esperienza terrificante. Sin dalla prima notte sentivo questo impulso a suicidarmi. Loro volevano uscire, ma io non potevo. Ricordo che c’era una sedia, nella casa, sembrava una di quelle vecchie poltrone da barbiere. La fissavo e pensavo ‘appena escono, prendo il rasoio e mi uccido su quella sedia’. Era un’idea forte, e mi aveva spaventato. Devo essere impallidito, perché uno dei miei amici si era accorto che qualcosa non andava e aveva deciso di restare a casa con me. La mattina seguente ho detto loro che dovevo rientrare a casa. Ho preso un treno, e ricordo che era affollato. Ero seduto lì, con la sensazione di camminare su una fune, sospeso tra la follia e… e cercavo di mantenermi in equilibrio. Sentivo l’impulso di alzarmi nel mezzo della carrozza e urlare, qualcosa come ‘Io sono Gesù Cristo!’ Ero completamente fuori di testa.

Alessandro non poteva accettare il potere che la paura aveva oramai su di lui (Figura 1), ma le sue reazioni emotive, percepite come incontrollabili, la alimentavano ulteriormente.

 

Ostacolo

Paura

Scopo

Essere autonomo

(vivere all’estero, viaggiare per il mondo)

Minaccia

Rischiare la vita

(hashish / non accettare limitazioni)

 

Figura 1. Emblema del coraggio nella semantica della libertà: affrontare il mondo da soli

 

Alcune persone che appartengono a questa semantica chiedono la terapia non a causa di sintomi specifici come gli attacchi di panico, ma per imparare a stare da soli. È il caso di Rodolfo, un uomo di sessantacinque anni senza precedenti esperienze terapeutiche che giunse in terapia con un obiettivo specifico: essere in grado di gestire la propria vita senza una moglie.

Il suo secondo matrimonio era silenziosamente naufragato, eppure né lui, né la moglie avevano mai deciso di separarsi. Entrambi sembravano tollerare i reciproci tradimenti, come se condividessero un tacito accordo. Rodolfo non aveva mai messo in discussione il proprio matrimonio: essere sposato con una donna sostanzialmente affidabile era per lui fonte di rassicurazione, soprattutto adesso che stava entrando nella fase declinante della propria vita. Quando sua moglie gli aveva inaspettatamente chiesto di lasciare la casa coniugale, era rimasto traumatizzato: “mi spaventa invecchiare da solo. Chi si penderà cura di me? Sarò in grado di gestire una casa vuota? Non sono mai stato single un solo giorno in vita mia!” Subito dopo il disorientamento iniziale, aveva cominciato a temere di potersi sposare una terza volta soltanto per la propria incapacità di vivere da solo.

La paura della solitudine era una caratteristica ricorrente nel suo contesto familiare: era stata la ragione per la quale la madre di Rodolfo aveva accettato la bigamia del proprio marito. Costui era solito trascorrere metà della settimana con la moglie (la madre di Rodolfo) e l’altra metà con un’altra donna,

una situazione assurda che era dolorosa per tutti. E il paradosso era che mia madre non aveva davvero bisogno di mio padre: era una professionista competente che proveniva da una famiglia agiata. Mio nonno era molto ricco. Per di più lei era piena di interessi, circondata da amici, non avrebbe avuto problemi a gestire una separazione. Era semplicemente incapace di dormire da sola.

Rodolfo si riconosceva molto simile alla madre. Per lui non sposarsi una terza volta e affrontare la vecchiaia da solo significava mostrare quel coraggio che a sua madre era sempre mancato.

Non era la sua vita sentimentale ad essere in gioco, e non aveva alcuna intenzione di rinunciarvi. Per Rodolfo, come per molte altre persone posizionate entro la semantica della libertà, l’amore è una dimensione che coinvolge libertà, scoperta di sé e un certo grado di avventurosità, pertanto esiste primariamente al di fuori del matrimonio. La vita matrimoniale è spesso associata alla sicurezza, ed è avvertita come necessaria e vincolante al tempo stesso.

Anche vivere l’amore entro la semantica della libertà è un atto di coraggio, una virtù posseduta da molti dei personaggi di Thomas Hardy, spesso dimentichi delle proprie fragilità. Secondo Parks (2015), tanto i suoi romanzi, quanto la sua stessa vita sono dominate dalla semantica della libertà. Di certo era capace di dipingere mirabilmente le dinamiche dell’attrazione all’interno di questa semantica. In un passaggio di Far from the maddingcrowd (Hardy, 1874/1955), commentato magistralmente da Parks, il Sergente Troy, uomo ardito e di dubbia reputazione, seduce la bella e coraggiosa orfana Bathsheba grazie a una strabiliante dimostrazione di destrezza con la spada in cui fa guizzare la lama tutto intorno al corpo della ragazza mentre questa “stava in piedi atterrita e adorante” (Parks, 2015, p. 111), “paura e desiderio erano fusi in Bathsheba[5]” (ibidem, p. 113).

Mentre l’uomo costruisce l’incontro come un duello nel quale lui sarà il vincitore e lei la perdente, Bathsheba “non è preoccupata, come lui, di vincere o di perdere, né interpreta l’esperienza in termini morali” (ibidem). È semplicemente sopraffatta dall’eccitazione. Questa è l’unica ragione che la spinge a dimenticare gli imperativi morali della rigida società vittoriana e ad accettare quella “terrificante gioia”, sposando l’uomo sbagliato. Un momento di distrazione è sufficiente a finire nei guai!

Come questo esempio dimostra chiaramente, fidarsi di qualcuno può diventare un atto di coraggio, in un mondo costellato di pericoli. I nostri pazienti di rado mostrano il coraggio di Bathsheba. Come Hardy stesso, difficilmente trovano il coraggio di fidarsi fino in fondo di qualcuno, temendo di non avere le risorse per fronteggiare le conseguenze di una fiducia mal riposta.

È il caso di Giorgia, che aveva iniziato la terapia perché si sentiva paralizzata dalla sensazione di non avere “nessuna carta vincente”. La sua relazione con Mario, un compagno di liceo, durava oramai da diciassette anni senza essere mai diventata un matrimonio. Per tredici anni, la donna aveva avuto una relazione parallela con Antonio, un collega sposato di diversi anni più vecchio di lei.

Mario è la persona migliore che abbia mai conosciuto, ma per me è un fratello. Antonio, al contrario, è la mia metà perfetta, ma nessuno di noi due sembra in grado di compiere il passo decisivo. Siamo due codardi. Ogni volta che lui sembra aver deciso ed è pronto a lasciare la moglie, io faccio un passo indietro. Sono divisa in due. Ha diciassette anni più di me. Che genere di futuro, che vita può offrirmi un uomo di quasi sessant’anni?

Fare un figlio con Mario, d’altra parte, poteva essere una soluzione percorribile, ancora per poco – Giorgia, quando aveva iniziato la terapia, aveva quarantatre anni – ma era un’idea che la spaventava (Figura 2):

Mario è molto indipendente, è uno che vuole i suoi spazi. Ama il suo lavoro e vi si dedica anima e corpo. Per me va bene perché ho Antonio, ma cosa succederebbe se rompessi con lui? Non posso prevedere come Antonio potrebbe reagire se avessi un figlio con Mario, potrebbe lasciarmi e io mi ritroverei senza appoggi.

 

Ostacolo

Paura

Scopo

Sicurezza

Minaccia

Sentirsi in trappola

(dipendere da qualcuno che non è affidabile)

 

Figura 2. Emblema del coraggio nella semantica della libertà: affidarsi a qualcuno

 

4. L’audacia del male e la fermezza del sacrificio entro la semantica della bontà

Essere coraggiosi entro la semantica della bontà significa per lo più oltrepassare i limiti posti da un codice morale percepito come oppressivo. Le persone che si compongono nel polo negativo di questa semantica – i “cattivi” –, sebbene circondati da riprovazione morale, esercitano un fascino sinistro sugli altri membri della famiglia, proprio per la loro audace capacità di soddisfare i propri desideri. Il coraggio può essere mostrato anche dalle persone che si compongono nel polo positivo di questa semantica. In questo caso si tratta di una forma astinente di coraggio: la fermezza di rinunciare ai piaceri bramati. Il primo tipo di coraggio richiede che la persona fronteggi la minaccia esterna della disapprovazione morale e eventuali rotture della relazione con altri significativi che ne disapprovano il comportamento. Il secondo implica una minaccia interna: sentirsi morto, devitalizzato a causa della rinuncia. La colpa è l’ostacolo per quelli che trasgrediscono, mentre il desiderio per l’oggetto bramato è l’ostacolo da superare per quelli che rinunciano.

I pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo tendono a collocare se stessi entro la posizione mediana di questa semantica. Il senso di avvilimento che genera in loro l’abbandono dei loro desideri è così forte che non riescono a lungo a posizionarsi tra i “buoni”. Nello stesso tempo paura e angoscia rendono loro impossibile cedere completamente alle tentazioni. La loro posizione è ben esemplificata dalla sconsolata battuta di Giulio, un paziente ossessivo-compulsivo nei suoi quarant’anni: “Ci vuole una straordinaria audacia ad essere cattivi!”. Era certamente un compito impossibile per lui. Giulio bramava Lara, una “indecente, procace donna” che impersonava la sua partner erotica ideale. Sapendo della sua attrazione, lei continuava a provocarlo: “Tutti nell’ufficio sanno che lei è disponibile, per puro divertimento, a un’avventura da una notte con chiunque”, disse Giulio, “quindi la sua offerta non era semplicemente un gioco, ma come trovo il coraggio di tradire Angela? Sono fortemente tentato ma non posso, sarei un mostro”.

 

Ostacolo

Colpa

Scopo

Sentirsi vivi (piacere sessuale)

Minaccia

Diventare una cattiva persona

(tradendo un innocente)

 

Figura 3. Emblema del coraggio nella semantica della bontà: rompere l’assedio della colpa

 

Giulio non poteva superare i sensi di colpa verso Angela, la quale gli aveva dato rifugio e consolazione dopo la fine tempestosa del suo matrimonio che l’aveva prosciugato emotivamente e finanziariamente. Sebbene vivessero insieme da tre anni, Giulio non si era mai sentito in obbligo di pagare le spese per la casa ma si sentiva a disagio per essere “niente di più che un ospite”. Ben lontano dall’essere un premuroso coinquilino, Giulio era anche un amante insoddisfacente, avendo smesso ogni manifestazione sessuale verso Angela un paio di mesi dopo il suo trasferimento nella casa di lei. “Angela è una donna meravigliosa con lineamenti molto delicati – raccontava Giulio – è un vero angelo, perfetta per costruire una famiglia e invecchiare insieme, ma non mi attrae sessualmente”.

Non è difficile da comprendere come la colpa potesse essere un enorme ostacolo per lui (Figura 3), capace di paralizzarlo, a dispetto dell’accessibilità della meta e del dirompente desiderio. Tradire Angela avrebbe richiesto l’audacia di essere una persona cattiva!

Qualche volta i pazienti ossessivo-compulsivi, così disponibili alla seduzione del male ma anche così prigionieri della colpa, trovano una via d’uscita sperimentando il male indirettamente. È quanto accadde a Francesco, uno spento impiegato di banca con una vita infestata da ossessioni e compulsioni. Basti pensare che per evitare di protrarre troppo a lungo i suoi lavaggi rituali delle mani, iniziò a lavarsele nelle fontanelle pubbliche: “in questo modo posso smettere di lavarle. Non posso stare per ore alla fontana come a casa: è troppo freddo in inverno e comunque c’è sempre gente che mi guarda. L’imbarazzo mi aiuta a smettere”. Nonostante la gravità dei suoi sintomi, non era in terapia per sé ma per la moglie. Da ormai molto tempo, la signora si incontrava con uomini conosciuti su internet e non cercava neppure di nasconderlo. Al contrario, aveva messo in chiaro che non aveva nessuna intenzione di porre fine a questi incontri: “non smetto di frequentarli, mi piacciono e mi fanno star bene”. Francesco la giustificava, almeno in parte: la donna era stanca di una vita di sacrifici, oppressa dal peso di due figli disabili e di un marito con gravi limitazioni. La considerava mentalmente malata e voleva convincerla ad iniziare una terapia, ma nello stesso tempo la reputava una sgualdrina: “è come suo padre che tradiva la moglie con qualunque donna fosse disponibile. Avrei dovuto prevederlo…” Tuttavia Francesco ammirava il suo coraggio. Al di sotto delle invettive e della riprovazione morale di cui la faceva oggetto, nutriva un’ammirazione ambivalente per la sua audacia: era capace di rompere l’assedio della colpa e di soddisfare i suoi desideri!

Come può buttar via tutto quello che le hanno insegnato?! Noi ci siamo incontrati in parrocchia, lei allora insegnava catechismo ai bambini. Sua mamma era molto religiosa, una santa… Ma anche lei era religiosa. «Non ti rimorde la coscienza?» Le ho chiesto a volte e lei ha riso di me. Ha un coraggio! Vorrei anch’io andarmene e godermela, ma non sarei in grado di farlo anche se lo volessi.

Era inoltre chiaro, dalla ricchezza di dettagli con cui descriveva il comportamento della moglie, che Francesco otteneva una sorta di soddisfazione vicaria sperimentando indirettamente le avventure che non poteva vivere. Come confessò più tardi nel corso della terapia, era solito non solo leggere le e-mail che sua moglie inviava ai suoi amanti, ma le chiedeva anche di raccontargli nei dettagli i suoi incontri amorosi.

Anche l’espressione di aggressività e violenza, proibita non meno degli impulsi sessuali entro questa semantica, può essere sperimentata vicariamente. Un episodio di cui fu protagonista Schopenhauer, i cui principi filosofici sono curiosamente simili alle premesse che guidano il comportamento delle persone con disturbi ossessivo-compulsivi (Ugazio, 2012), è emblematico. Durante i disordini di Francoforte del 1948, Schopenhauer invitò i soldati ad usare il suo balcone per sparare agli insorti e, con una miscela di cortesia e perfidia, offrì loro i suoi binocoli per aiutarli a centrare meglio i bersagli (Lauxtermann, 2000).

Essere così arditi da superare i limiti che la morale impone mette l’intera identità dei pazienti ossessivo-compulsivi in pericolo, oltre a generare sentimenti di colpa devastanti. Qualche volta un’altra espressione di coraggio – la fermezza del sacrificio – è richiesta per ristabilire l’integrità dei loro sé e ottenere la redenzione. È questo il tipo di coraggio all’origine della tragedia di Giovanni, uno studente universitario che si suicidò per ristabilire la purezza del suo cuore: “Ieri non sono riuscito a trovare il coraggio per farlo (suicidarsi), ma ora so che lo farò”. Con queste parole inizia la lettera in cui Giovanni spiega la sua decisione ai genitori, dopo due tormentate settimane. Sua madre, da sempre molto vicina a lui, aveva notato che il ragazzo era cupo, angosciato e che si stava progressivamente isolando, voleva parlargli ma non aveva trovato il momento giusto per farlo. La sua attenzione era totalmente rivolta al marito che non rispondeva neppure alle sue chiamate telefoniche e appariva più elusivo e distaccato che mai. Questa volta non era la solita avventura di una notte. La donna sospettava che il marito si fosse innamorato di una collega e che avesse iniziato a vivere con lei durante i giorni feriali nella città in cui lavoravano insieme, a duecento chilometri dalla casa in cui viveva la famiglia.

 

Ostacolo

Desiderio di vivere

Scopo

Recuperare la purezza

(“riguadagnare l’onore perduto”)

Minaccia

Diventare una cattiva persona

(comportandosi come suo padre)

 

Figura 4. Emblema del coraggio nella semantica della bontà: il sacrificio ultimo

 

Nel frattempo che cosa tormentava Giovanni? Aveva appena avuto la prima esperienza sessuale con una prostituta, dopo una notte trasgressiva con i suoi amici in cui avevano ecceduto con alcoolici. Come scrisse nella lettera, aveva avuto un rapporto sessuale “protetto”, ma questo non aveva importanza. Da quella notte non aveva più trovato pace, non riuscendo a perdonarsi di essere stato così avventato. Temeva di aver contratto l’HIV e di aver di conseguenza infettato la sua famiglia. Nonostante questi dubbi, Giovanni non si sottopose a nessun esame medico per scioglierli. Ciò che era importante per lui non era tanto la supposta e inverificata punizione – l’HIV – ma la natura inaccettabile del suo comportamento: “Sono stato un idiota a perdere il mio onore in questo modo”, Giovanni scrisse. Nessun responso medico avrebbe potuto restituirgli la purezza del suo cuore che aveva perduto: “La faccenda – concluse – è irrisolvibile”. La sola soluzione fu per lui impiccarsi e punire il suo corpo colpevole.

Se Giovanni porta la fermezza del sacrificio alle sue estreme conseguenze, suo padre Calogero fornisce una non meno impressionante manifestazione dell’audacia di rompere l’assedio della colpa. Tutti nella famiglia lo consideravano responsabile della morte di Giovanni: pensavano infatti che Giovanni si fosse ucciso perché non poteva sopportare il disgusto che sentiva per essersi comportato come suo padre. Inizialmente Calogero era devastato. Anche se non aveva mai avuto un vero rapporto con questo figlio così diverso da lui, era veramente affranto dal suicidio nelle settimane successive alla tragedia. Da sempre assetato di vita, non riusciva a darsi ragione che suo figlio avesse buttato via la sua vita per un episodio così irrilevante. Ma l’assedio della colpa non lo paralizzò per molto. Due mesi dopo, cominciò ad accusare il figlio morto e la moglie. La colpa era di Giovanni che non aveva mai amato la vita e di sua moglie che, anziché curarsi di suo figlio, era ossessivamente occupata a rincorrere il marito. Inoltre Calogero accusava la moglie di avere, con la sua gelosia, distrutto la sua immagine agli occhi del figlio. Le due figlie raccontarono come a casa, in più di un’occasione, Calogero inveisse furiosamente contro il figlio morto. Avevano sentito il padre gridare frasi del tipo: “Tu sei un idiota, hai fatto bene ad ucciderti! Non hai mai amato la vita!”.Quando finalmente era andato alla tomba del figlio, aveva preso a calci la lapide. Due mesi dopo il suicidio, Calogero sembrava aver completamente superato la tragedia. Diede i vestiti del figlio a organizzazioni benefiche e trasformò la stanza del ragazzo nello studio che aveva sempre desiderato. Infine, decise di fare una settimana bianca con la famiglia, durante la quale sua moglie lo sorprese, ancora una volta, nella sauna con un’altra donna.

 

5. Apparire impavido nella semantica del potere

“Mia moglie è una donna coraggiosa”, disse un paziente durante una seduta di terapia familiare, guardando orgogliosamente la partner di fronte ad un terapeuta perplesso. L’affermazione era inaspettata e immotivata, per il terapeuta, ma non per la famiglia. Entrambi i figli condivisero lo sguardo ammirato del padre verso la madre che, compiaciuta, sorrise. Nessun dubbio, la donna era stata premiata con una medaglia al valore, ma per che cosa? L’atto di coraggio che tutti stavano celebrando era la capacità di cui la donna aveva dato prova di vivere da sola con i bambini entro il clan del marito per cinque anni, mentre l’uomo aveva accettato un lavoro prestigioso e impegnativo, a 300 km di distanza. Sebbene provata dalle pressioni di un clan giudicante, la donna aveva difeso il proprio territorio per cinque lunghi anni, senza perdere compostezza e padronanza di sé e guadagnandosi il rispetto di tutti. Questa particolare espressione di coraggio, tipica della semantica del potere, è brillantemente colta da questa affermazione di Hemingway, contenuta in una sua lettera a Francis Scott Fitzgerald del 1926: “il coraggio è grazia sotto pressione”.

Quando quello che conta in una conversazione è vincere o perdere, e l’obiettivo è elevare il proprio status (o, per lo meno, non abbassarlo), come accade entro la semantica del potere, mantenere la propria posizione resistendo al giudizio e alle aspettative può rappresentare la sfida massima. Questa donna, che per cinque anni era stata oggetto di attacchi invidiosi dai membri del clan a causa dei successi professionali di suo marito, mostra in modo chiaro l’espressione di coraggio più caratteristica di questa semantica: il coraggio di ricoprire una posizione preminente fronteggiando l’ostilità degli altri. In queste famiglie, se vinci, vinci da solo, e non puoi aspettarti riconoscimenti da parte degli altri familiari. Per persone come quelle cresciute nella semantica del potere che bramano l’approvazione dagli altri, è una vera prova del fuoco.

 

Ostacolo

Bisogno di approvazione

Minaccia

Essere disconfermati

e sminuiti

(dal clan del marito, dalla madre…)

Scopo

Supremazia

(“meglio di loro, meglio di lei…”)

 

Figura 5. Emblema del coraggio nella semantica del potere: vincere soli

 

Questo è quanto accadde a Katia quando dovette scegliere tra l’approvazione della famiglia e seguire il suo sogno. Quando la incontrammo in terapia, Katia aveva ventisei anni e il suo sogno era diventare attrice, seguendo le orme di sua madre: un’attrice di teatro che non aveva mai raggiunto il successo a cui aspirava. Dopo un inizio come critica teatrale, Katia era stata accettata da una prestigiosa accademia di recitazione. Il giorno stesso, informò sua madre che intendeva trasferirsi a Londra per seguire il programma.

Non importa quanto fossi brava, o quanto lontano potessi arrivare come critica cinematografica, nel mio cuore sapevo che dovevo diventare attrice. Non appena fui ammessa, parlai con mia madre che divenne una furia. Un attore, disse, deve padroneggiare le proprie emozioni e il proprio corpo, e io non ero questo tipo di persona. Mi disse che ero fragile, vulnerabile, non pronta ad usare il mio corpo e le emozioni come strumento di lavoro. Mi buttò in faccia la mia bulimia come prova che non ero sufficientemente forte per una sfida di questo tipo. Tentai di ignorarla ma le sue parole si erano scolpite nella mia mente. Andai a Londra per iniziare il primo semestre, ma non finii le prime due settimane. Cominciai a mangiare e vomitare tutta la notte. Mia madre non mi telefonò. Pensavo l’avrebbe fatto mio padre. Non lo fece. Persino mio fratello, che mi era stato sempre vicino, non mi chiamò. Il giorno della prima recita di un breve brano stavo a malapena in piedi. Mi accorsi immediatamente che tutti i miei compagni mi guardavano: stavano accorgendosi che qualcosa in me non andava. Cercavo di ignorarli, ma la mia ansia cresceva e persi i sensi.

Fronteggiare l’ostilità di sua madre sembrava essere un ostacolo insormontabile per Katia. Il coraggio di vincere da soli, quando prevale questa semantica, espone al rischio di perdere i legami confermanti; può quindi rappresentare una sfida troppo grande.

C’è un’altra forma di coraggio, sottile e più difficile da capire per chi non appartiene a questa semantica. Si tratta del coraggio di perdere status, di accettare la vergogna e rimanere a testa alta di fronte alla disapprovazione degli altri. Questo è il coraggio che manca a Brick, il personaggio principale del dramma di Tennessee Williams (1955/1963) La gatta sul tetto che scotta. Mentre contrastava palesemente i valori della famiglia di industriosità e di successo, Brick non poteva davvero violare la regola familiare di presentare una facciata rispettabile. Quando dovette affrontare la minaccia di ammettere la reale natura della sua amicizia con Skipper e accettare la vergogna connessa all’omosessualità, Brick fece un passo indietro e preferì portarsi nella tomba l’imbarazzante segreto, lasciando l’amico morire. Ma comportandosi così, Brick diventa uno dei tanti “bugiardi” della sua famiglia. Come suo padre gli dice in uno dei loro drammatici confronti: “il tuo disgusto per la falsità è disgusto di te stesso. Tu hai scavato la fossa al tuo migliore amico e ce l’hai spinto dentro, per non affrontare la verità insieme a lui!” (Atto II).

Il dilemma di Brick ha più di una connessione con il desiderio di Eva di diventare una “regina della periferia” per contrastare il tentativo di suo marito di metterla in scacco.

Sono stufa di lui! Devo trovare il coraggio di lasciarlo e trasferirmi in periferia. Con i soldi che deve darmi per la separazione, potrei essere una regina nel Giambellino [un quartiere periferico di Milano] molto più che nel nostro attico [nel cuore di Milano]. Io so stare con le persone, non come lui! In un attimo sarei circondata da amici! Amici veri, persone semplici, genuine, non come quei palloni gonfiati che sono obbligata a frequentare a causa sua! Potrei finalmente liberarmi di tutte queste diete mortificanti, delle umilianti visite dal ‘vulvologo’ [così chiamava il suo ginecologo], dei lubrificanti vaginali… tutto per un uomo che non voglio più nel mio letto! Se soltanto avessi il coraggio… Che stupendo boccone amaro per lui, sua moglie al Giambellino!

 

Ostacolo

Vergogna

Minaccia

Perdere di status

(diventando una “regina della periferia”)

Scopo

Assertività

(non abbassare la testa)

 

Figura 6. Emblema del coraggio nella semantica del potere: accettare la sconfitta

 

Di che tipo di coraggio stava parlando Eva? Era il coraggio di accettare una caduta sociale e di affrontare la vergogna di una perdita di status per affermare assertivamente se stessa. Eva era disposta per lo meno a considerare la possibilità di distruggere tutto quello per cui aveva vissuto pur di non abbassare la testa di fronte al marito che aveva messo in atto quello che chiamava “un ignobile capovolgimento delle posizioni di potere” entro la coppia. Per anni la sua personalità carismatica le aveva assicurato una leadership indiscussa nella famiglia, ma l’inaspettata rivelazione da parte del marito di avere una relazione extraconiugale era riuscita in quello che il denaro e la prestigiosa carriera dell’uomo avevano fallito: sovvertire i rapporti di potere nella coppia. Chi avrebbe mai previsto che suo marito, sempre così desideroso di compiacere le aspettative degli altri, avrebbe potuto comportarsi così temerariamente da esporsi, con un tradimento, a pettegolezzi e critiche? Eva si sentiva ora in scacco e impotente, a meno che fosse stata in grado di “abbracciare la sconfitta” per vincere. Accettando di perdere il suo status, poteva dargli pan per focaccia, ma la vergogna era un ostacolo insormontabile che si frapponeva fra lei e l’atto di coraggio vagheggiato.

La scelta di accettare di perdere status, anche se fortemente desiderata, è difficile da reggere e improbabile per i membri delle famiglie in cui prevale la semantica del potere. Più spesso alcuni membri che si sentono svalutati e non considerati possono trovare il coraggio di escogitare qualche vendetta contro chi li ha umiliati. Questo è esattamente quello che accade nella breve novella, Il ballo, di Nemirovsky (1930) nella quale Antoniette, un’adolescente non particolarmente perspicace, è capace di mettere in atto una raffinata e spietata vendetta contro l’odiata madre. Preoccupata che sua figlia potesse distogliere l’attenzione da lei, la madre aveva deciso di bandire Antoniette dal ballo che avrebbe dovuto segnare l’ingresso della famiglia nell’alta società parigina. Di fronte a questa cocente umiliazione, Antoniette trova il coraggio per una feroce ritorsione: getta tutti gli inviti nella Senna, lasciando sua madre ad aspettare ospiti che non compariranno mai.

 

6. Essere risoluti nella semantica dell’appartenenza

“Non potrò mai perdonarmi per essere tornata a casa. Sono stata una codarda!”. Sebbene siano passati quindici anni, Anna convive ancora con questo tremendo fardello. Sente di non meritare l’amore di nessuno, per cui si intrappola in relazioni insoddisfacenti, che sopporta aiutandosi con qualche bicchiere di troppo.

Quale atto di codardia l’ha segnata fino a tal punto? È quello che lei definisce “il mio sporco baratto”, quando ha rinunciato alla propria dignità, in cambio di un rifugio sicuro (Figura 7). Subito dopo la morte della madre a causa di un cancro, Anna aveva cominciato a sospettare che il padre avesse una relazione con la zia (la sorella minore della madre). Sia il padre che la donna avevano negato, ma alla fine, durante una vacanza estiva, Anna li aveva colti in flagrante.

 

Ostacolo

Rabbia

Minaccia

Perdere il rispetto di sé

Scopo

Inclusione

 

Figura 7. Emblema del coraggio nella semantica dell’appartenenza: “Sopportare la vergogna”

 

Inizialmente, non aveva detto nulla, e aveva cominciato a chiamare “mamma” la zia, apparentemente entusiasta di appartenere a una famiglia ricostituita. In seguito, incapace di sopportare di aver tradito la madre e terribilmente arrabbiata con il padre e la zia, era fuggita di casa. Aveva cominciato a vivere come una punk, condividendo una piccola stanza con un’amica e dieci cani, bevendo pesantemente e sperimentando diversi tipi di droghe.

Mi sentivo come quei cani randagi che avevamo adottato, senza futuro, senza aspirazioni, solo il bisogno di un tetto sulla testa e di una ciotola di cibo alla fine della giornata. Fin dal giorno in cui avevo lasciato casa, nessuno era venuto a cercarmi e a richiamarmi indietro. Voglio dire, ero scomparsa e il resto della mia famiglia era semplicemente andato avanti, senza curarsene. Mia sorella, quella leccapiedi, era così fiera di essere la bella bambolina di quei due bugiardi! Tutti sembravano avermi dimenticata. Per un po’, credetti davvero di poter vivere in quel modo, come un cane randagio, ma con dignità. A poco a poco, tuttavia, cominciai a rimpiangere le cose che avevo lasciato. La scuola, i miei amici, i miei vestiti… Ritornai con la coda tra le gambe, pronta ad accettare le bugie di mio padre, e una finta madre.

Anna sentiva davvero che quell’atto di codardia aveva lasciato un marchio sulla sua vita sentimentale. Il suo matrimonio, non meno del precedente, le garantiva una invidiabile appartenenza, ma entrambi erano stati pagati al prezzo di compromessi che avevano minato la sua autostima. Il coraggio che Anna rimpiange di non aver avuto è quello che ritroviamo in molte persone con disturbi dell’umore. È il coraggio di accettare il destino di un cane randagio, per poter preservare la propria dignità.

 

Ostacolo

Speranza

Minaccia

Esclusione

(perdere la famiglia)

Scopo

Dignità

(“rifiutare le bugie che sporcano la memoria della madre”)

 

Figura 8. Emblema del coraggio nella semantica dell’appartenenza: “Accettare il destino di cane randagio”

 

José ha mostrato questo coraggio, ma senza trarne beneficio. La storia di José inizia con un abbandono. Quando aveva due anni, i suoi genitori erano morti in un incidente d’auto. Lo zio Miguel, che era socio d’affari del padre, lo aveva preso con sé, trattandolo come un membro della propria famiglia. I cugini, che avevano all’incirca la stessa età, erano diventati i suoi veri “fratelli”. I fratelli biologici erano stati adottati da altri parenti. Appena raggiunta la maggiore età, questi avevano portato zio Miguel in tribunale con l’infamante accusa di aver sottratto una sostanziosa porzione della loro eredità. Si erano rivolti a José perché li affiancasse nella battaglia legale contro lo zio, ma, benché riconoscesse la legittimità delle loro richieste, non sentiva di potersi opporre all’uomo che oramai considerava suo padre. Il suo rifiuto aveva comportato una dolorosa frattura con i fratelli. Nello stesso tempo, José non poteva più accettare l’appartenenza alla famiglia dello zio. Rifiutò quindi la proposta di adozione legale da parte di Miguel, e lasciò il Brasile per vivere in Italia da solo. Una risoluzione coraggiosa, per un ragazzo di diciotto anni! La partenza di Miguel dal Brasile ricorda da vicino l’addio a Procida, che conclude il capolavoro di Elsa Morante (1957/1991), L’isola di Arturo.

Secondo Parks (2014/2015), i romanzi della Morante – così come quelli di Dickens – sono dominati dalla semantica dell’appartenenza. Di certo la Morante, che nel corso della propria vita ha sofferto di depressione, descrive entro questa semantica la decisione di Arturo di arruolarsi e partire per la Seconda Guerra Mondiale. Deluso dall’ignobile condotta del padre e accusato di comportamenti incestuosi dalla matrigna, Arturo rompe col proprio mondo: il padre, da lui a lungo adorato e idealizzato, la matrigna, la fidanzata e la stessa Procida, la sua isola incantata. Nel giorno del suo sedicesimo compleanno, Arturo decide di partire, per partecipare a un conflitto di cui a malapena ha sentito parlare, ma è riluttante a mettere in atto questa decisione. Inaspettatamente, non è la paura a fermarlo: “Provai una pazza tentazione di correre a precipizio giù in istrada, nella speranza di raggiungere la carrozza e di ritrovarmi accanto a lui, per un piccolo tratto almeno. Ma, pure con questa tentazione che mi lacerava il cuore, rimasi fermo, lasciando passare i minuti, finché ogni speranza diventò impossibile” (Morante, 1957, p. 349).

È l’infondata speranza di cancellare la più dolorosa rottura, quella col padre, che lo tiene chiuso nella sua stanza “per rimandare almeno di qualche ora quel passo irrimediabile e minaccioso! Intanto non avrei voluto piangere e piangevo. Avrei voluto scordarmi di W.G. [Wilhem Gerace, suo padre], come una persona insignificante che s’è incontrata appena una volta al caffè, o a un angolo di strada; e, invece, nel pianto mi sorprendevo a chiamare: – Pà – , come un ragazzino di due anni! ” (ibidem, p. 350).

Con le lacrime sopraggiunge di nuovo la speranza, una sorta di “magica certezza” che il padre, memore del suo compleanno, possa alla fine ritornare per salutarlo e magari trascorrere un po’ di tempo assieme a lui. Il padre non compare, “la speranza, tuttavia, si era annidata dentro di me come un parassita, che non lascia volentieri il suo nido” (ibidem, p. 351). Quando finalmente accetta il fatto che il padre non verrà, Arturo decide di trascorrere le sue ultime ore sull’isola, nascosto in un magazzino, “libero e solo come un randagio sciagurato” (ibidem, p. 361).

Nonostante l’incredibile coraggio dimostrato nel decidere di arruolarsi come volontario nella seconda guerra mondiale, sebbene sia poco più che un bambino, Arturo non avverte la lusinga dell’eroismo. È al massimo in grado di riconoscere la propria risolutezza nell’abbandonare tutto per preservare la propria dignità.

Allo stesso modo, José non descrive la propria partenza dal Brasile come un atto di coraggio. La percepisce piuttosto come l’unica misura possibile contro l’indegnità. Il loro coraggio è riconosciuto piuttosto da coloro che tentano di fermarli. Nonostante i loro conflitti, la matrigna di Arturo tenta di trattenerlo; anche i cugini di José, lo zio e la zia fanno il possibile per non farlo partire, a parte, ovviamente, l’unica cosa che avrebbe potuto fermarlo: restituire i beni rubati ai fratelli.

Come questi esempi mettono chiaramente in evidenza, entro questa semantica il coraggio si mostra spesso sotto le sembianze di un netto colpo di lama, un taglio che separa l’individuo dal proprio mondo. Non è pertanto sorprendente che la speranza, molto più che la paura, possa essere un’antagonista invischiante, che fa leva sul bisogno di amore e appartenenza, per impedire l’azione coraggiosa.

La speranza è quindi concepita dalle persone che si compongono entro questa semantica come un’emozione pericolosa, poiché può condurre alla perdita di dignità. È il genere di trappola nella quale cade Pip, nel romanzo di Dickens (1861/1955) Grandi Speranze. Per trovare posto nella società dei Gentiluomini, e affascinato dal mondo sofisticato di Estella e Miss Havisham, Pip volta le spalle alle proprie radici, allontanandosi dalle persone che si erano prese cura di lui nel disperato tentativo di essere accettato da quella ristretta cerchia di persone alla quale desidera così ardentemente appartenere. Non è un mero desiderio di arrampicata sociale a ispirarlo, quanto piuttosto il bisogno di una dignitosa e legittima appartenenza.

Credendo che Miss Havisham sia responsabile della sua inaspettata fortuna, egli vede quel denaro come un chiaro segno di una consolidata e rispettabile appartenenza. Quando scopre che la sua improvvisa ricchezza non giunge dalla signora che tanto ammira, ma da un disprezzato galeotto che aveva aiutato tempo addietro, è sconvolto.

Per un’ora e più fui troppo stordito per poter pensare, e fu solo quando cominciai a pensare che cominciai a rendermi conto della mia rovina, a capire come la nave sulla quale ero salpato fosse andata in pezzi. I piani di Miss Havisham nei miei riguardi, tutto un sogno; Estella non destinata a me; (…). Ma – pena più acuta e profonda di tutte – era per quel galeotto, colpevole di non sapevo quali delitti e destinato ad essere arrestato nella casa in cui sedevo meditando e impiccato alla porta dell’Old Bailey, era per lui che avevo abbandonato Joe (Dickens, 1955, pp. 326-327).

Pip sente di non poter accettare i soldi del criminale, ma al tempo stesso non può voltargli le spalle, salvando così la propria posizione e reputazione. Una scelta quest’ultima che lo priverebbe di qualunque dignità. Decide dunque di restare a fianco del galeotto fino alla fine, perdendo nel frattempo fortuna e salute. Per accettare il proprio destino e salvare la dignità, Pip deve fronteggiare, così come accadde a José e ad Arturo, l’ostacolo rappresentato dalla speranza. Soltanto quando la speranza di essere amato da Estella si frantuma definitivamente, sceglie di staccarsi da quel mondo al quale non apparterrà mai. Il coraggio di rifiutare un’appartenenza illegittima, rinunciando ad agi e comodità, unisce José, Arturo e Pip, e sembra rappresentare la più emblematica espressione di coraggio presente in questa semantica.

 

7. Conclusioni

Ci sono molte forme di coraggio strettamente connesse con il mondo dei significati del soggetto. Ne abbiamo presentate quattro, coerenti con le semantiche che Ugazio (2012) ha chiamato della libertà, della bontà, del potere e dell’appartenenza. Diffuse nella cultura occidentale, queste semantiche caratterizzano alcune delle più comuni psicopatologie (Castiglioni, 2014; Faccio, 2012; Ugazio & Fellin, 2016; Ugazio, Negri, 2015/2017; Veronese, 2013). I valori, le definizioni di sé e degli altri, i modi di relazionarsi e le emozioni tipiche di ciascuna semantica modellano anche il coraggio, modificandone l’anatomia. Lo scopo, la minaccia e l’ostacolo cambiano radicalmente in ciascuna delle forme di coraggio che abbiamo discusso.

Questa è la tesi che abbiamo avanzato e illustrato qui con esempi clinici e letterari. È una tesi congetturale, emersa dalla pratica clinica, niente più che un’ipotesi in cerca di evidenze empiriche. Le narrative dei nostri pazienti sulle proprie vite e su quelle degli altri e le loro azioni coraggiose ci hanno suggerito l’idea che il coraggio sia un costrutto multidimensionale e che quando parliamo di coraggio parliamo di emozioni diverse, coerenti con la semantica dominante in quei pazienti e nelle loro famiglie.

Non mancano le possibilità di verificare la tesi qui avanzata. Le varie versioni della Family Semantics Grid (Ugazio & Castelli, 2015; Ugazio & Guarnieri, 2017; Ugazio, Guarnieri, & Sotgiu, 2018; Ugazio, Negri, Fellin, & Di Pasquale, 2009) sono in grado di identificare le semantiche che caratterizzano la conversazione terapeutica, così come altri tipi di conversazione. Già applicata in varie ricerche (Ugazio & Fellin, 2016; Ugazio, Negri, 2015/2017; Ugazio & Guarnieri, 2018), le differenti versioni della FSG consentono ai ricercatori di cogliere i significati espressi da pazienti o da altri attori, sia nelle loro storie narrate, sia nelle loro interazioni verbali e non verbali con i terapeuti o con altri attori. Altri strumenti possono essere, e sono stati applicati, in altre ricerche (Castiglioni, Faccio, Veronese, & Bell, 2013; Castiglioni, 2014; Faccio, 2012; Procter, 2014; Procter & Procter, 2008; Veronese, 2013).

A dispetto delle limitazioni che abbiamo messo in evidenza, pensiamo che la nostra tesi approfondisca la natura del coraggio e sfidi una credenza comune: l’idea che il coraggio sia una risorsa e un fattore di resilienza nel fronteggiare esperienze negative e traumatiche (Seligman, 2005). Questo è certamente vero in un gran numero di casi, ma non in tutti. Come molti dei nostri esempi mostrano, c’è un lato della medaglia poco esplorato. Il coraggio può anche rappresentare una potente limitazione, forzando il soggetto entro un percorso che mette in pericolo il suo benessere. Ad esempio, entro la semantica dell’appartenenza il coraggio può condurre a dolorose rotture delle relazioni vitali dell’individuo. La drammatica desertificazione a cui il coraggio portò le vite di José, Arturo e Pip esemplifica bene questo rischio. Grazie alle loro azioni coraggiose, tutti e tre mantennero la loro dignità, ma ad un prezzo tremendamente alto. Per non parlare di Giovanni, per il quale la fermezza del sacrificio e la ricerca della purezza divenne una scelta di morte. Anche la grande stima in cui è tenuto il coraggio nella semantica della libertà può diventare un fattore di rischio. Quelli che si posizionano nel polo valorizzato di questa semantica finiscono spesso per rischiare la propria vita per sentirsi coraggiosi. D. H. Lawrence è un esempio calzante. Incurante della sua fragilità fisica e della sua cattiva salute, morì a quarantaquattro anni. Quelli che prendono posizione nel polo opposto, e sono al contrario prudenti, a volte paurosi, sono feriti nella loro autostima. Il coraggio, essendo per loro una meta irraggiungibile, è una costante minaccia alla loro autostima.

La nostra ipotesi suggerisce quindi ai terapeuti che non è sufficiente e non è neppure sempre utile lavorare con i pazienti per ridurre la natura atterrente della minaccia o aiutarli a mantenere il controllo su emozioni ostacolanti. A volte è l’obiettivo del coraggio che deve essere messo in questione. Sebbene difenda qualche valore e spesso protegga l’identità del soggetto, il coraggio non sempre è positivo per quelli che lo esprimono.

 

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Note sugli autori

 

Valeria Ugazio

European Institute of Systemic-relational Therapies di Milano e Università di Bergamo.

valeriaugazio@eist.it

Psicologa e psicoterapeuta. Svolge la propria attività terapeutica e formativa a Milano dove dirige l’European Institute of Systemic-relational Therapies (www.eist.it), che ha fondato nel 1999. È professore ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università degli Studi di Bergamo. Ha elaborato la teoria delle polarità semantiche familiari ed è autrice di numerose pubblicazioni internazionali, tra cui “Storie permesse e storie proibite” (Torino: Bollati Boringhieri, 1998, 2012; New York: Routledge, 2013). È nel board di diverse riviste tra cui: Journal of Constructivist Psychology, Contemporary Family therapy, Journal of Family Therapy, Human Systems, The Journal of Therapy, Consultation and Training, TPM. Testing, Psychometrics e Methodology in Applied Psychology.

 

Ferdinando Salamino

European Institute of Systemic-relational Therapies di Milano e University of Northampton.

ferdinandosalamino@eist.it

Psicologo e psicoterapeuta. Svolge la sua attività clinica e didattica prevalentemente nel Regno Unito, dove dirige il Master in Counselling with Children and Young People in qualità di Senior Lecturer. Collabora stabilmente dal 2008, in qualità di docente, con l’European Institute of Systemic-relational Therapies. Negli ultimi anni ha operato soprattutto nell’ambito dell’adozione, in stretta collaborazione con i Servizi Territoriali delle East Midlands, e ha all’attivo sull’argomento pubblicazioni internazionali su riviste quali Human Systems Journal ed European Journal of Psychotherapy and Counselling.

 

Note

  1. Articolo originale, ripubblicato con il permesso dell’Editore, TPM (http://www.tpmap.org):Ugazio, V. & Salamino, F. (2016) Shades of courage. Emotional dimensions of courage in the family semantic polarities model. TPM. Testing, Psychometrics and Methodology in Applied Psychology,23(2), 1-19. doi:10.4473/TPM23.2.6.
  2. Traduzione a cura degli autori.
  3. Traduzione a cura degli autori.
  4. Traduzione a cura degli autori.
  5. Traduzione a cura degli AA.