Quando, molti anni fa, mi iscrissi alla facoltà di psicologia venivo da studi classici, amavo la filosofia come massima espressione del pensiero e, credevo, della cultura. Pensavo che la psicologia fosse non solo lo studio della mente, ma la filosofia calata nel concreto, nel quotidiano. Mi sbagliavo. O meglio, non fu questa la psicologia che incontrai. Incappai in una psicologia frammentata, disorientante, imprigionata fra sperimentalismo sterile e dogmi clinici, snobisticamente lontana dalle persone. Allora, come adesso, questo ‘conoscere’ autoreferenziale di certa psicologia mi sembrava privo di coraggio: il coraggio di riconoscere la persona come soggetto conoscente e interlocutore autorevole, di fare i conti con il significato, con l’esperienza concreta di ognuno di noi. La persona come ‘produttrice’ di senso, semplicemente, era stata esiliata dal mainstream della psicologia (Armezzani, 2002). Ovviamente, non tutta la psicologia, ai miei occhi, era così deludente, ma non c’era nulla che mi convincesse davvero. Mi laureai senza entusiasmo verso una disciplina che, pensavo, non sarebbe mai diventata il mio futuro professionale. Poi accadde qualcosa: mi capitò fra le mani un libro, Inquiring Man di Don Bannister e Fay Fransella (1980). Lo divorai e fu amore a prima vista. Nella Psicologia dei Costrutti Personali (Kelly, 1955) trovavo essenzialmente due cose: la persona intesa come costruttrice di significati e me stesso. L’esilio della persona dalla psicologia era terminato, e in un modo che sentivo convincente ed eticamente fondato. Era una teoria che descriveva in modo vivo, innanzitutto, le mie esperienze e mi aiutava a comprendere quelle degli altri senza sovrascriverle. Era una teoria del concreto e della prassi, rigorosa e flessibile allo stesso tempo. Mi riappassionai alla psicologia. Mi convinsi che la psicoterapia era un mestiere fattibile anche per me e scoprii, potendolo approfondire, il vasto e variegato universo del costruttivismo (Riegler, 2005). Si chiudeva un cerchio iniziato con i miei studi classici e umanistici: la filosofia diventava epistemologia e questa diveniva teoria del concreto, dell’esperienza quotidiana. Era ciò che cercavo.
Parlavo di coraggio, e del coraggio di conoscere. Se nell’agire conoscenza ci vuole sempre una certa dose di audacia, perché è comunque un andare oltre – e andare oltre, sfidando l’ovvio, è sempre un rischio – affacciarsi al balcone del costruttivismo rappresenta una sfida ulteriore. Vuol dire considerare il modo in cui guardiamo il mondo come parte del fenomeno che stiamo studiando. Vuol dire rinunciare alla tentazione della certezza senza abdicare alla necessità della verifica. Vuol dire immergersi in un multiverso cangiante, tuffandosi in punti di vista altri. Vuol dire, infine, assumersi la responsabilità del nostro conoscere senza attribuirne il valore a qualcosa che ci prescinde. E il coraggio sembra, ancora più esplicitamente, come mi ha suggerito la caporedattrice Lila Vatteroni, il filo rosso di questo numero della Rivista Italiana di Costruttivismo.
Non solo il tema del coraggio è espressamente trattato nel bell’articolo di Valeria Ugazio e Ferdinando Salamino, ma ne percorre tutte le pagine, articolandosi, a volte più evidente a volte più sotterraneo, in vari modi. È il coraggio di mettersi in gioco in prima persona di Mary Frances che ne parla a proposito di Helen Jones. È il coraggio di Peter Cummins e Helen Jones nel comprendere l’esperienza, le incertezze, le vicissitudini e costruire il punto di vista delle persone coinvolte in un rapporto di coppia, “la più complessa interazione tra ruoli” (Kelly, 1955, p. 96). È il coraggio di essere creativi in terapia di Laura Scartezzini. È il coraggio di viaggiare, andare lontano, rimanere una splendida visionaria e impegnarsi politicamente di Elisabetta Petitbon. Il coraggio serve. Serve quando il cambiamento chiama, sfida e fa paura sia nella stanza della terapia, tanto per il paziente quanto per il terapeuta, sia nella vita. Una vita che, al di là del nostro significativo quotidiano, ci pone oggi molteplici sfide globali: cambiamenti profondi come gli epocali flussi migratori e le implicazioni dei cambiamenti climatici, rispetto ai quali possiamo chiuderci, raggomitolarci in una presunta neutralità scientifica. Oppure avere la forza di accettarli, affrontarli e prendere una posizione.
La cultura, la conoscenza e, magari, una rivista di costruttivismo come questa, in fondo, non possono avere che questo fine: avere il coraggio di fare delle scelte.
Buona lettura.
Bibliografia
Armezzani, M. (2002). Esperienza e significato nelle scienze psicologiche. Bari: Laterza.
Bannister, D. & Fransella, F. (1980). Inquiring man: the psychology of personal constructs. UK: Penguin Books (prima pubblicazione 1971).
Kelly, G. A. (1955). The psychology of personal constructs (vol. 1-2). New York: Krueger .
Riegler, A. (2005). Editorial. Constructivism challenge. Constructivist Foundations, 1(1), 1-8.
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