Tempo di lettura stimato: 4 minuti
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Sul perché il costruttivismo è familiare ed estraneo

di

Massimo Giliberto

Direttore Responsabile

Abstract

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Il decimo numero della Rivista Italiana di Costruttivismo – al suo sesto anno di vita – si affaccia sul web, sugli schermi illuminati dei computer dei suoi lettori e, per chi vuole tenere fra le dita qualcosa di concreto e lentamente riassaporabile, sulla cara, vecchia carta. Chi la legge ne gode ed è in buona compagnia: la Rivista è fra le più lette nel mondo costruttivista e, per quanto possa sembrare strano, non solo in Italia. Chi la legge vi trova trattati argomenti che attraversano vari campi disciplinari e applicativi: una chiara dimostrazione di come la potenza euristica del costruttivismo si dimostri versatile e conservi, anche in tempi di restaurazione scientista, il suo fascino[1]. Un fascino strano. Se da una parte, infatti, nel costruttivismo troviamo convincenti narrazioni delle nostre esperienze, dall’altra, l’impianto teorico ed epistemologico di queste narrazioni non solo è complesso, ma talvolta persino inquietante. Perché?

 

La parola-chiave cui riferirsi, io credo, è “esperienza”. Abbandonata l’idea di una realtà oggettiva data in modo definitivo, astorica e che prescinda da chi la conosce, il costruttivismo mette al centro della sua indagine proprio l’esperienza, e più precisamente l’esperienza del conoscere. La nostra vita è esperienza, non prescinde da essa, anzi vi si identifica. Scrivere questo editoriale è un’esperienza. Nell’esperienza viviamo, anzi, più radicalmente, noi siamo la nostra esperienza. Siamo immersi in questo costante flusso di azioni che diventano costitutive delle nostre esistenze, come l’aria che respiriamo, la lingua che parliamo, il genere sessuale che incarniamo, la nostra stessa identità. E come l’aria, l’esperienza, così vicina e familiare, diventa scontata e i suoi stessi processi invisibili, o quasi.

 

Mettere il naso, da studiosi, nell’esperienza non è facile: è fare esperienza dell’esperienza o, considerando l’esperienza assimilabile al conoscere, conoscere la conoscenza. Come Humberto Maturana e Francisco Varela hanno scritto, è la rottura di un vecchio tabù: l’occhio che guarda se stesso. Qui il fragile equilibrio delle nostre certezze si rompe ed è comprensibile un umano senso di rifiuto. Un filo narrativo, ancorato a piccole e grandi verità, si spezza. La paura è quella del caos, del disordine. Tuttavia, è proprio qui, dove il filo si spezza, dove il tessuto che tiene insieme le nostre esistenze si strappa, che emerge – o può emergere – qualcosa di nuovo. Qui trova spazio la visione nuova e innovativa del costruttivismo.

 

Lungi dal precipitare o dal perdersi nel caos e nel solipsismo, il costruttivismo s’immerge nelle radici stesse dell’esperienza del conoscere e recupera, riconoscendolo, il pieno valore di chi conosce. Non v’è esperienza

 

senza qualcuno che esperisce, ed esperendo conosce. Il mondo e noi che ne facciamo parte emergiamo come risultato e forma delle nostre esperienze. Persino le idee più astratte, secondo questa visione, emergono dal modo in cui ci muoviamo concretamente, fisicamente nel mondo e, circolarmente, a loro volta, orientano la nostra appartenenza fisica a quel mondo. Un mondo con cui siamo in una relazione non ontologica, ma esperienziale ed epistemica. Questo mondo, in altre parole, non è, in alcun istante, indipendente dal modo in cui possiamo farne esperienza, così come noi non prescindiamo dall’esperienza che fa di noi il mondo e, in esso, gli altri. Non v’è, perciò, esperienza (conoscenza) senza relazione; né tutte le esperienze conducono a qualcosa di percorribile e utile. La stessa radice della parola “esperire” contiene l’idea di “prova”[2]. È dunque, quello cui ci riferiamo, un conoscere per prove. Non è un caso se la metafora che George Kelly suggerisce per inquadrare la sua nozione di persona sia quella dello scienziato. Come gli scienziati, guidati dalle nostre ipotesi, continuamente sperimentiamo quanto quelle ipotesi ci aiutino a vivere. Ipotesi e teorie, a loro volta, muteranno secondo i risultati delle nostre prove, dei nostri esperimenti quotidiani, costruendo un mondo che costruisce noi. L’esperire, dunque, è così vicino, familiare e costitutivo delle nostre esistenze che smettiamo di vederlo. Sicché, quando proviamo a dargli un senso, esso ci appare al contempo familiare ed estraneo. Un paradosso. Gli articoli di questo numero sono nel solco di questo paradosso tutto costruttivista: essi descrivono, in modo vitale e riconoscibile, esperienze in vari ambiti, ma navigano, al contempo, mari profondi, cercando rotte percorribili (e rivedibili), confrontandosi con l’invisibilità del conoscere. E non è questo un bellissimo, affascinate viaggio?

 

Buona lettura!

 

Note

  1. Lo scientismo è inteso qui come la degenerazione del metodo scientifico; atteggiamento che, nelle scienze umane, tende a comprimere la vita concreta nella metodologia delle scienze fisiche e sperimentali piuttosto che adattare la ricerca alla vita concreta.
  2. Dal greco pêira.