Inside organizations. Exploring organizational experiences è stato pubblicato per la prima volta nel 2016. David Coghlan, l’autore di questo testo nonché professore emerito di economia presso il Trinity College di Dublino, è specializzato in particolare nel campo dello sviluppo organizzativo e della ricerca-azione (tematica, quest’ultima, che verrà ripresa più volte all’interno del libro). Nei suoi lavori è stato maggiormente influenzato da Ed Schein ed Erving Goffman, autori che citerà spesso anche all’interno del testo oggetto di questa recensione.
Rispetto ai presupposti teorici ed epistemologici di Coghlan, all’interno del testo non troviamo molto materiale sul quale formulare delle ipotesi, anche se risulta abbastanza chiaro come il campo di pertinenza principale nel quale si muove l’autore sia l’organizzazione aziendale e nello specifico lo sviluppo organizzativo. Il concetto di sviluppo, infatti, caratterizza in profondità tutto il lavoro di Coghlan e nel corso della recensione vedremo anche come.
La direzione che David Coghlan immagina per il suo lavoro è estremamente ambiziosa ed accattivante: l’autore, infatti, si propone di fornire a giovani neolaureati che debbano affrontare un percorso di stage o tirocinio gli strumenti necessari per poter effettuare un’indagine dall’interno, sollevando domande ed esplorando i processi dell’organizzazione con la quale hanno l’opportunità di confrontarsi.
Coghlan parte dalla convinzione che sperimentare un’indagine dall’interno, sul campo, possa creare le basi per il potenziale sviluppo di un approccio critico, in grado di guidare i futuri professionisti nel corso delle loro carriere.
Questa premessa risulta piuttosto familiare alla metafora utilizzata nell’approccio costruttivista dell’uomo come scienziato, costantemente impegnato in una serie di esperimenti (sul campo) che saranno poi fonte di possibili validazioni o invalidazioni rispetto a delle ipotesi generate in partenza. L’approccio critico del quale parla Coghlan, secondo la prospettiva costruttivista, costituisce uno strumento particolarmente utile nell’indagare anche quelle che sono le nostre personali costruzioni ed il modo in cui le applichiamo nel corso delle esperienze quotidiane.
Ma come è possibile nutrire questo tipo di approccio all’interno del contesto organizzativo? A questa domanda l’autore cercherà di dare una risposta lungo tutto lo sviluppo del testo.
Coghlan, senza fare specificamente riferimento al contesto organizzativo, introduce il concetto di teoria dell’azione (theory of action) e questo ci permette di identificare con un po’ più di precisione il tipo di persona che l’autore immagina muoversi nel mondo.
Una teoria dell’azione è basata sul pensiero causale ed è costituita da tra componenti: 1) in una situazione X, 2) fai A, 3) per raggiungere l’obiettivo B.
All’interno di questo scenario, poi, vengono distinte due diverse tipologie: la teoria dell’azione manifesta (espoused theory), che sostanzialmente rappresenta un processo del quale siamo del tutto consapevoli, dichiariamo cioè apertamente ciò che vogliamo raggiungere e come intendiamo farlo; e la teoria della pratica (theory-in-use), dove le strategie, o mappe mentali nei termini di Coghlan, utilizzate per fronteggiare una determinata situazione sono tacite, cioè le utilizziamo ad un basso livello di consapevolezza, riprendendo un concetto introdotto da George Kelly all’interno della sua elaborazione teorica.
Se da un lato, quindi, l’autore riconosce caratteristiche di scalarità alla consapevolezza con la quale agiamo nel mondo circostante, dall’altro emerge l’idea di una persona fondamentalmente impegnata nel raggiungere uno scop0, un obiettivo, un risultato che, a livello più o meno consapevole, è stato preceduto da una strategia.
A sostegno della distinzione tra teoria manifesta e teoria-in-uso nel campo dell’azione, Coghlan riporta la critica mossa da Schein al modello dell’iceberg, metafora secondo la quale all’interno di un’organizzazione ciò che sta al di sopra della superficie dell’acqua, quindi la punta dell’iceberg, rappresenta la vita formale dell’organizzazione stessa, mentre al di sotto, e quindi la parte anche più consistente, è costituita dalla vita informale, tutto ciò che ad un primo sguardo non è possibile identificare.
La critica di Schein, condivisa da Coghlan, parte dal presupposto che l’iceberg sia un elemento troppo freddo e statico per rappresentare in modo adeguato le dinamiche all’interno delle organizzazioni.
È così, quindi, che a prendere il posto dell’iceberg ci pensa la ninfea: qui la parte costituita da fiori e foglie visibile sopra il livello dell’acqua è la teoria manifesta, mentre sott’acqua troviamo un ecosistema vivo e dinamico, la teoria-in-uso, che permette il nutrimento di ciò che si trova al di sopra della superficie.
È così, quindi, che Coghlan invita chi si appresta ad effettuare un’indagine dall’interno ad andare alla ricerca proprio di tutto quello che sta al di sotto della superficie, della teoria-in-uso organizzativa e di come essa influenzi ciò che c’è di manifesto.
Il testo di Coghlan, quindi, presenta due aspetti di indubbio valore: il primo è quello di porre particolare attenzione su tutto il “non detto” che ribolle negli scantinati delle organizzazioni fatto di sguardi, comportamenti repressi perché inadeguati, di gossip e di rumour, di umorismo buono e umorismo indesiderato. Tutto ciò che c’è ma non si vede.
Il secondo elemento prezioso che ritroviamo nel lavoro dell’autore è l’enfasi posta sullo sviluppo di un approccio critico e la capacità di generare domande che vadano proprio in questa direzione.
È esattamente questo il senso della formula nella quale si incappa più volte nel corso della lettura, formula che Coghlan riprende direttamente da un altro autore, Revans: secondo questa equazione l’apprendimento (L = Learning) consiste nel risultato della somma tra la conoscenza canonica (P = Programmed knowledge), cioè tutto ciò che possiamo apprendere dai libri o dai sistemi di conoscenza classici, e il porre domande che possano portare a nuove intuizioni (Q = Questioning insight). Parafrasando le parole di Coghlan: “Questioning insight implica imparare a porre domande innovative, per scardinare assunti impliciti e creare nuove connessione e modelli mentali”.
A questi due importanti aspetti, però, si affianca una sensazione di fondo che si respira nel corso di tutto il testo: il modello di funzionamento organizzativo viene in qualche modo ricalcato sull’idea di persona presentata da Coghlan.
E così prende forma una tipologia di uomo che, sicuramente in modo critico e anche autoriflessivo, è costantemente alla ricerca di uno sviluppo, individuale o collettivo che sia, in una costante tensione verso
un miglioramento continuo. In questo modo le costruzioni che orienteranno la persona è molto probabile che siano del tipo migliore vs peggiore, successo vs insuccesso, realizzazione vs fallimento.
Ma come potremmo immaginare un sistema governato da queste dimensioni? Che spazio occupano all’interno delle organizzazioni le persone che sperimentano degli insuccessi? In che relazione stanno la dimensione individuale di realizzazione (o fallimento) e la dimensione organizzativa?
Forse sarebbe utile ed opportuno fare una distinzione tra il modello di funzionamento organizzativo e il modello di funzionamento della persona all’interno di un’organizzazione, aspetto che Coghlan sembra in qualche modo pericolosamente trascurare.
In questo scenario, inoltre, l’autore utilizza l’impostazione di personalità proposta dall’analisi transazionale, trasponendo gli stati dell’ego (ego states) concettualizzati da questo approccio direttamente nel campo di pertinenza organizzativo. Secondo la letteratura propria dell’analisi transazionale i tre ego states, Parent, Adult e Child, non fanno capo ad aspetti biologici o fasce d’età particolari ma sono delle “realtà psicologiche” che “fanno riferimento a modelli di ragionamento, di emozioni e di comportamento che la persona ha introiettato dalla propria infanzia”.
Così i comportamenti che una persona agisce vengono ricondotti ad uno di questi tre modelli in presenza di specifiche caratteristiche: ad esempio, se una persona si dimostra di aiuto in una determinata situazione, questo comportamento rientrerà nel modello del Nurturing Parent; quando invece ci rivolgiamo a qualcuno utilizzando termini come “dovresti fare”, “non devi”, “non avresti dovuto” o più in generale manifestiamo disapprovazione, questo tipo di comportamenti rientra nel modello del Critical Parent.
Questi sono solo due esempi utili per dare un’idea dell’impostazione propria di questo modello. L’epilogo di questo approccio vedrà la persona utilizzare modelli di comportamento specifici a seconda della relazione, o per meglio dire della transazione, nella quale si trova inserito. Questo è anche l’aspetto che trova maggiormente spazio all’interno del contesto organizzativo. Decifrare quale possa essere il modello di comportamento più efficace da utilizzare in una determinata situazione può rappresentare un vero e proprio vantaggio competitivo.
L’approccio costruttivista preferisce immaginare una persona che all’interno della relazione porta dei significati del tutto individuali e rispetto ai quali sarà impossibile fare delle generalizzazioni cercando di incasellarli in categorie predefinite o modelli ricorsivi di comportamento.
Potremmo quindi ipotizzare un vero e proprio ribaltamento di prospettiva rispetto al modo di stare in relazione: lo sforzo andrà nella direzione della comprensione dei significati che emergono all’interno della relazione, dove l’altro diventa il massimo esperto del proprio sentire.
Immaginiamo, all’interno di un ufficio, quali potrebbero essere le ricadute di un responsabile che di fronte ad un impiegato aggressivo e poco collaborativo (il Compliant Child dell’analisi transazionale), invece che impegnarsi nel ricercare la modalità più utile per fronteggiarlo, si sforzi di comprenderne i significati, assumendone in qualche misura il punto di vista. È probabile che l’impiegato si sentirà capito, compreso e che tornerà ad essere collaborativo non perché è stato convinto o influenzato dalla leadership del suo responsabile, ma perché deciderà di esserlo.
Trovo che il lavoro proposto da David Coghlan abbia un po’ il sapore dell’opera incompiuta, dell’opportunità non sfruttata a pieno. L’autore, infatti, pone le basi e i presupposti per una modalità di indagine e di ricerca sul campo sicuramente innovativa.
Immaginare che siano proprio dei tirocinanti ad avere la possibilità di cogliere sfumature ed aspetti taciti o inesplorati all’interno di un’organizzazione è davvero affascinante. Quella dello stagista, infatti, per certi aspetti risulta effettivamente essere una posizione privilegiata: la freschezza di chi entra in azienda privo di costruzioni pregresse e anticipazioni strette può essere davvero uno strumento utile per l’idea di indagine immaginata da Coghlan.
Quello che convince meno e che rende a mio giudizio poco fertile questo lavoro è l’applicazione di alcuni processi specifici del mondo organizzativo alla persona impegnata in questa indagine. Concetti come sviluppo, strategia, vantaggio e successo appartengono ad un campo di pertinenza che poco ha da offrire a livello personale e relazionale.
Se l’invito all’approccio critico si traduce nello sviluppo della capacità di individuare errori e malfunzionamenti all’interno di un’organizzazione nell’ottica di non ripeterli in futuro, rischia di portare il processo a ripiegarsi su se stesso. Affrontare un’indagine in modo critico significa mettere costantemente in discussione gli assunti impliciti e avere la capacità di rileggere i propri processi. Significa interrogarsi sulla natura e sul significato dell’errore piuttosto che sulla volontà di non ripeterlo in futuro.
Potrebbe essere un’ipotesi alternativa quella di utilizzare questa modalità di indagine per poi poter lavorare sulle relazioni che prendono forma all’interno di un’organizzazione e sui significati che ciascuno porta all’interno di questo sistema estremamente complesso. Esplorare un’organizzazione dall’interno e da una posizione in qualche modo privilegiata potrebbe ad esempio aiutarci a rispondere a domande come: ”che significato ha per quella persona essere un responsabile?” oppure “che implicazioni ha essere un sottoposto? Dover dipendere dalle decisioni di qualcun altro?”.
Un interessante insight potrebbe quindi essere quello di lavorare sulla costruzione di significati in ambito organizzativo e studiare le ricadute che questo processo può avere in situazioni particolarmente critiche (conflitti tra colleghi, conflitti tra responsabile e sottoposti, mancato raggiungimento di un risultato, richiami disciplinari, ecc…).
Bibliografia
Coghlan, D. (2016). Inside Organizations. Exploring Organizational Experiences. London: Sage.
Kelly, G. A. (1955). The Psychology of Personal Constructs, New York: Norton (2nd ed. 1991 London: Routledge).
Note sull’autore
Antonio De Vita
Institute of Constructivist Psychology
Ha conseguito la laurea magistrale in Psicologia del Lavoro nel 2012. Ha lavorato per circa quattro anni all’interno di aziende di prodotto e di servizi nel campo delle risorse umane (selezione e formazione). Attualmente, dall’aprile del 2016, lavora come operatore presso una comunità educativa riabilitativa per minori con disturbi della condotta e del comportamento che vengono inseriti nella struttura sia in regime residenziale che semiresidenziale. Specializzando in psicoterapia presso l’ICP di Padova, collabora con la scuola seguendo diversi progetti.
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