Tempo di lettura stimato: 26 minuti
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Buio in sala

La percezione del sé incarnato in azione[1]

Darkness in the Theatre

The perception of the embodied self in action

di
David M. Mills

The Performance Center, Seattle

 

Traduzione a cura di

Elisa Gabbi, Marianna Riello e Laura Pomicino

Abstract

Traendo spunto dalla fenomenologia di Merleau-Ponty, e ispirandosi in particolare alla sua concezione di spazio corporeo, l’autore istituisce un parallelo tra l’attore sul palco, che interpreta molti personaggi, e la persona nel mondo, che si muove orientandosi tra sistemi di significato, alternativi l’uno all’altro. Accostando il modello geometrico dei costrutti personali di Kelly alla visione teatrale dello spazio corporeo di Merleau-Ponty, in cui ciascuno ritrova se stesso, l’articolo esplora la dimensionalità di tale spazio vissuto, da cui traiamo le nostre idee di spazio geometrico.

 

Sebbene i due punti di vista possano sembrare apparentemente in contrasto – con Kelly che rende accessibile il nostro modo di costruire significati attribuendo a esso una struttura geometrica e Merleau-Ponty che enfatizza la fondamentale inaccessibilità al mistero di come il senso emerga dall’esperienza corporea – prese insieme queste due posizioni spingono a una più profonda comprensione di ciò che Kelly avrebbe potuto intendere asserendo che la persona “vive nell’anticipazione”.

 

Considerare l’attore come persona, e viceversa, porta a una visione teatrale dell’esperienza corporea in cui la persona è vista occupare molteplici spazi di significato, muovendosi fra essi al pari di un attore che passa da un personaggio all’altro, abbandonandone uno per interpretare il successivo. Evidenziando quanto il movimento nello spazio e le azioni cariche di significato siano strettamente interconnesse, l’articolo arriva a concludere che il senso cinestesico della persona è molto più che un semplice senso del movimento, ma di fatto rappresenta la percezione del significato del sé incarnato che agisce.

Drawing on the phenomenology of Merleau-Ponty, especially his concept of bodily space, the author elaborates the parallel between the actor on stage, inhabiting many characters, and the person in the world, acting in within alternative sets of meanings. By juxtaposing Kelly’s geometric model of personal meaning with Merleau-Ponty’s basically theatrical view of the bodily situational space in which we each find ourselves, the paper explores the dimensionality of that lived space from which our ideas of geometric space are abstracted. While the two views may seem at odds—with Kelly making our meaning construction accessible by giving our attentiveness to it a geometric structure, and Merleau-Ponty emphasizing the fundamental inaccessibility of the mystery of how meaning derives from bodily experience—taken together they point us toward a deeper understanding of what Kelly might have meant by saying that a person “lives in anticipation”. This consideration of the actor as person and vice versa leads to a theatrical view of bodily experience in which the person is seen to inhabit multiple spaces of meaning, navigating among them as an actor would set aside a character and take up or ‘become’ another. By showing how spatial movement and meaningful action are intricately intertwined, the paper points toward a consideration of a person’s kinaesthetic sense as much more than a sense of movement—in fact as the perception of the meaning of their own embodiment in action.

Keywords:
Costrutti personali, incarnare, recitazione, fenomenologia | personal constructs, embodiment, acting, phenomenology

Individuando come proprietà essenziale di tutta l’esperienza umana il fatto di essere caratterizzata da dimensioni, la Psicologia dei Costrutti Personali definisce una concezione del significato come essenzialmente spaziale o geometrica. Ma questa “geometria di senso” non è statica. All’interno di questa cornice ogni cambiamento può essere visto come una sorta di movimento. Infatti, come ha affermato George Kelly , “la nostra attenzione, semmai, è soprattutto rivolta alla natura cinetica della sostanza di cui ci stiamo occupando. Per quanto ci riguarda, la persona non è un oggetto che è temporaneamente in uno stato di movimento, ma è egli stesso una forma di movimento” (Kelly, 1963, p. 48). Successivamente egli ha affermato che “un modo di pensare al costrutto è di considerarlo come il segno di un movimento” (ibidem, p. 128). Il mio personale lavoro pratico nasce dalla sintesi della PCP con il lavoro di F. M. Alexander, che egli ha definito “ri-educazione psicofisica”. Quello che ho intenzione di fare in questo testo è muovere dalla fenomenologia di Merleau-Ponty per esplorare le basi del mio lavoro, e anche per definire alcuni punti fondamentali circa il particolare significato del senso cinestetico come senso del nostro sé in azione.

 

1. Lo spazio come modo per relazionarsi agli oggetti

Una premessa centrale della fenomenologia di Merleau-Ponty è il primato della percezione, l’affermazione che l’esperienza originaria è primaria rispetto a qualsiasi astrazione ne possa derivare. È dall’esperienza individuale nel suo complesso che derivano tutte le altre conoscenze. Ogni nostro costrutto teorico, qualsiasi modello della realtà, tutti i principi che noi possiamo usare per interpretare gli eventi di cui facciamo esperienza – tutto ciò deriva da questa esperienza personale originaria ed è di conseguenza secondario a essa. Sia nel caso della mia percezione del mondo che della mia percezione di me stesso, il tutto è precedente alle parti poiché rappresenta il contesto in cui esse sono tali. L’insistenza di Merleau-Ponty sul primato della percezione ha molto in comune con la filosofia e la psicologia di John Dewey, le cui opinioni secondo Kelly “possono essere lette fra le righe della psicologia dei costrutti personali” (ibidem, p. 154).

In una serie di articoli, Trevor Butt ha discusso vari aspetti secondo cui il lavoro di Merleau-Ponty può contribuire in modo rilevante alla psicologia dei costrutti personali – in particolare nel sottolineare le dimensioni corporee della costruzione di significati. In questo articolo voglio dedicare particolare attenzione all’idea di spazialità corporea che Merleau-Ponty ritiene sia alla base della percezione. L’esplorazione di questa spazialità può guidarci verso la comprensione del processo di costruzione di significato propria di ogni individuo – significato che è costruito e anche incarnato.

La concezione di spazialità di Merleau-Ponty deriva direttamente dalla sua idea di primato della percezione per il soggetto personificato. La qualità spaziale della collocazione di un individuo è connessa sia alle radici preverbali della sua percezione sia al suo incarnare un soggetto in grado di recepire stimoli. Come soggetto cosciente, io definisco lo spazio intorno a me, localizzando gli oggetti presenti in esso. Questo spazio trae origine da quell’irriducibile ‘qui’ del soggetto incarnato e, con le parole di Merleau-Ponty, “non è una spazialità di posizione, ma una spazialità di situazione” (Merleau-Ponty, 1962, p. 100). “Lo spazio non è l’ambiente in cui le cose sono disposte, ma il mezzo attraverso cui posizionare oggetti diventa possibile… dobbiamo pensare a esso come al potere universale che permette agli oggetti di essere collegati” (ibidem, p. 243). Quindi, fondamentalmente, la spazialità non è una proprietà che specifica come sono collocati gli oggetti, ma piuttosto una qualità della mia relazione con essi; anzi è il potere del soggetto che percepisce ed è capace di cogliere gli oggetti come connessi. Ma nell’esperienza comune le cose possono essere “collegate” in molti modi; la connessione data dalla distanza geometrica e dalla direzione è solo una delle diverse modalità possibili. Lo spazio ordinario della geometria – lo spazio della posizione – può essere visto come un sottoinsieme del più generale spazio della situazione. È considerato lo spazio prototipico proprio perché è la forma più astratta dell’intera esperienza. Ma ogni percezione ha una struttura “simil-spaziale”. Se consideriamo una comune esperienza visiva come, per esempio, quella di guardare una lampada su un tavolo, o qualcosa di più generale come definire la forma e la posizione della lampada in termini fisici, estetici, culturali o politici, ci scopriamo a discutere della “prospettiva” da cui la stiamo osservando.

Tuttavia, la spazialità da cui traiamo queste prospettive è qualcosa di più di una struttura passiva per la percezione, più di uno spazio vuoto in cui gli eventi che possono essere percepiti semplicemente accadono. Sia lo spazio geometrico ordinario sia lo spazio più generale di significato sono basati su quello che Merleau-Ponty chiama “spazio corporeo”, e perciò sono caratterizzati da una “natura cinetica”. La spazialità è strettamente connessa all’idea di movimento. È proprio a causa del fatto che io posso muovermi nello spazio che in quello stesso spazio posso anche fare un’esperienza di percezione. Quando vedo un oggetto da un determinato punto di vista, io non percepisco soltanto un’immagine legata a quella prospettiva. Percepisco un oggetto intero, e parte di ciò che rende possibile che io lo percepisca come tale è la mia capacità di muovermi in relazione ad esso. L’aspetto che assume un oggetto in certe condizioni, vedere la lampada da un angolo particolare in condizioni di luce specifiche, per esempio, non può essere separato dal contesto degli altri modi in cui apparirebbe se si trovasse in altre condizioni. Potrei spostarmi in una parte diversa della stanza per vedere la lampada da una differente angolazione, o potrei cambiare l’illuminazione. Potrei effettivamente farlo oppure no, ma secondo la visione di Merleau-Ponty è la possibilità di muovermi in relazione alla lampada che mi rende possibile percepirla come una lampada, con questa o quella forma, colore, ecc. Potrei andare anche oltre. Potrei visualizzare la lampada, o interagire con essa in qualche modo, da una “prospettiva” politica piuttosto che fisica. Non solo quali caratteristiche, ma anche quali tipi di caratteristiche io rilevo sono influenzati dalla prospettiva che assumo, e di nuovo è dalla possibilità di assumere diversi punti di vista che deriva la mia capacità di percepire la lampada in quanto tale e di includerla in un’esperienza significativa. Così, mentre la percezione detiene un primato su tutte le astrazioni che possono derivarne, essa stessa è possibile solo in un contesto di azione. Da un punto di vista fisico, estetico o diplomatico, io percepisco la lampada come cilindrica o con una piacevole struttura oppure in una posizione inopportuna. Questi attributi della lampada sono significativi dal mio punto di vista e nel contesto delle altre prospettive che avrei potuto considerare. Per percepirla come cilindrica devo conoscere la forma al di là del rettangolo che vedo di lato e del cerchio che vedrei dall’alto. Per percepirla come attraente dovrei anticipare di protendermi per poterne toccare la superficie. Per essere infastidito dalla sua posizione dovrei capire cosa significherebbe essere seduto dall’altra parte del tavolo. In ogni caso “l’assunzione di una nuova prospettiva” è una sorta di movimento in uno spazio di significato ed è fondamentalmente un movimento corporeo. Come vedremo in seguito, il senso cinestesico, cioè il senso dei propri movimenti corporei, ha uno status speciale e limitazioni particolari, in relazione con tutti i sensi con cui percepiamo il mondo al di fuori di noi stessi.

 

2. Dallo spazio degli oggetti allo spazio del significato

In che modo passiamo, quindi, da uno spazio in cui afferriamo oggetti a uno in cui cogliamo significati? E una volta lì, come è possibile che io arrivi ad abitare un mondo che assume per me un senso e in cui i miei movimenti sono capaci di trasmettere un significato? Io credo che la risposta stia nell’interazione reciproca tra la dimensionalità della mia esperienza e la sua continuità. La spazialità del mio corpo e quella dell’universo intorno a me – le dimensioni di significato interne ed esterne – si intrecciano nella continuità dell’esperienza corporea in corso. È questa continuità, questa unità dell’azione corporea in atto, che le rende non semplicemente le dimensioni di uno spazio in cui osservo ma quelle di un mondo in cui io agisco. Ed è proprio la loro reciproca interazione all’interno di questo continuum che attribuisce alla vita un carattere di teatralità. Sia Merleau-Ponty che Dewey pongono in evidenza questo aspetto nell’esperienza personale. Se, come sostiene George Kelly, le persone possono essere raffigurate come degli scienziati occupati a prevedere e interpretare gli eventi, allora possono essere descritte anche come degli attori impegnati nella rappresentazione teatrale degli eventi che vivono. Possiamo chiarire questo concetto di spazialità corporea utilizzando l’attore sul palcoscenico come un esempio specifico di una persona impegnata in un preciso ruolo.

La nostra intera esistenza ha luogo in un contesto. Io esisto come soggetto nella misura in cui mantengo il mio sé distinto dagli oggetti del mio mondo. E gli oggetti possono esistere in questo mondo proprio perché io, come soggetto, posso dire “Io sono qui” in relazione a essi. Ogni possibile insieme di connessioni fra oggetti significativi da parte di un soggetto con un corpo situato nello spazio diviene un potenziale mondo all’interno di cui quella stessa persona può muoversi e in riferimento al quale può definire se stessa e le sue azioni. Secondo Merleau-Ponty, “l’essenza della consapevolezza consiste nel dare vita per sé a uno o più mondi, nel rendere concreti i propri pensieri come se fossero oggetti (Merleau-Ponty, 1962, p. 130)… e il possesso di un corpo implica la capacità di cambiare livello e ‘comprendere’ lo spazio” (ibidem, p. 251). In questo modo l’esistenza incarnata del soggetto consiste nel costituirsi in ogni dato momento come parte di uno specifico mondo o combinazione di mondi, e la prosecuzione di quell’esistenza dipende dall’abilità di spostarsi da un mondo all’altro. Le questioni riguardanti il significato hanno sempre a che vedere con il rapporto tra chi conosce e ciò che viene conosciuto. “Io sono” è una semplice affermazione; mentre ciò che sono può essere definito solo tramite la costruzione di una relazione. Ma se lo spazio è “il potere universale che consente [alle cose] di essere collegate”, allora il significato non è in relazione a ciò che gli oggetti sono, ma piuttosto al modo in cui avrebbero potuto essere diversamente. Come sostiene Kelly,

Qualsiasi affermazione facciamo può quindi essere considerata come la risposta a una domanda che ci poniamo – un quesito già orientato – ed emerge come l’opzione preferita fra alternative che ci siamo precedentemente posti. È necessario inoltre tener conto del fatto che ogni azione, o esperienza, è caratterizzata da queste dimensioni… Qualsiasi atto, o sensazione, o affermazione si fonda sulla sua specifica antitesi senza cui non assumerebbe alcun significato per la persona coinvolta. (Kelly, 1979, p. 116)

Quello che credo Kelly volesse ricordarci con queste parole è che nessuno dei costrutti che possono essere espressi a livello cognitivo e verbale può essere considerato primario. Anzi è quasi il contrario; tali costrutti derivano da più ampie “proprietà dimensionali” dell’esperienza. Ancora più importante di questo, il significato è sempre in relazione all’intenzione. A mio parere non si tratta solo della relazione tra me e un ambiente che io “conosco”, ma è un rapporto inevitabilmente legato alle mie azioni e alle motivazioni che mi muovono all’interno del mio contesto. Tali attributi come la “pendenza” di una montagna assumono il significato che hanno per me in relazione, per esempio, alla mia intenzione di scalarla. Ogni dato livello contestuale, ogni dato livello di spazio di significato può essere astratto, ma l’intero si verifica solo in relazione all’intenzionalità incarnata (la “soggettività incarnata” per Merleau-Ponty) della persona in una data situazione. Attraverso lo studio di casi in cui al paziente mancava proprio questa capacità di passare agevolmente da una “situazione” ad un’altra, e grazie ad esperimenti di alterazione del campo percettivo, Merleau-Ponty ha rilevato che “ciò che conta per l’orientamento dello spettacolo non è il corpo oggettivo ma un corpo virtuale con la sua “collocazione” fenomenica definita dal compito da svolgere e dalla specifica situazione” (Merleau-Ponty, 1962, p. 249). Successivamente lo stesso autore ha concluso che “il nostro corpo e la nostra percezione ci suggeriscono sempre di considerare come centro del mondo l’ambiente con cui si propongono a noi. Ma questo non è necessariamente quello della nostra vita” (ibidem, p. 285).

 

3. Cosa la recitazione rivela dell’azione

A questo punto possiamo tracciare il parallelismo tra una qualsiasi persona e l’attore sul palco. L’abilità di comportarsi e di funzionare come ben integrato “corpo-soggetto” dipende dalla libertà di scegliere il livello di collocazione spaziale in cui ci troviamo ad agire, definire il nostro compito e selezionare un insieme di significati tra quelli possibili per gli oggetti intorno a noi. Utilizzando l’attore sul palco come modello per una qualsiasi persona che vive la sua vita, Merleau-Ponty afferma che “recitare è porre se stessi per un momento in una situazione immaginaria, è trovare soddisfazione nel cambiare il proprio ‘scenario'” (ibidem, p. 135). “L’uomo comune e l’attore non confondono le situazioni immaginarie con la realtà, ma liberano i propri corpi reali dalla situazione di vita per farli respirare, parlare e, se necessario, piangere in un regno di fantasia” (ibidem, p. 105). In questo senso agire sul palco, come nella vita, costituisce un atto di ricostruzione di significato. Non si tratta di rappresentare il mondo ma di creare un nuovo mondo che possiamo abitare per un certo tempo. Si tratta di “assumere” dimensioni di senso tramite cui si vada oltre il tentativo di riprodurre quello che già sappiamo verso la creazione di una nuova esperienza che è simile per certi versi a quella che conosciamo. Secondo Kelly, noi siamo liberi non solo nelle dimensioni della nostra costruzione di significato ma anche nel livello della sua dimensionalità. Infatti, ci sembra di sentirci liberi nei livelli di costruzione posti al di sotto di dove risiede la nostra consapevolezza, che allo stesso tempo è determinata in relazione ai livelli superiori. Quindi, la vera libertà include la possibilità di muoversi tra i livelli stessi. Questo concetto è molto vicino a ciò che Merleau-Ponty chiama “l’abilità di muoversi fra i livelli e di comprendere lo spazio”. Tuttavia, è importante notare che poiché lo spazio corporeo è il terreno da cui tutti gli altri spazi originano, la “liberazione” dal proprio corpo reale non può mai essere completa.

È inoltre importante sottolineare che una persona può occupare liberamente qualunque dei possibili livelli di collocamento spaziale perché non può mai essere pienamente oggetto di se stessa. In questo senso Merleau-Ponty descrive la spazialità del corpo come “l’oscurità necessaria a teatro per creare la performance” (ibidem, p.100).

Il compito costante della consapevolezza è quello di stabilire e mantenere i confini e i contorni di un dato mondo, di plasmare le forze da cui se ne originano i significati, di mantenere la collocazione globale sempre esplicitamente comprensibile dal soggetto in modo che possa continuare a dare un senso al sé in relazione a quel mondo. In realtà, si potrebbe affermare che la consapevolezza costituisce la realizzazione di questo compito. Analogamente, questo è il compito del teatro e in particolare dell’attore in scena. Un’importante questione estetica e ontologica a lungo discussa è stata: “Cosa viene prodotto sul palco? Cosa fanno gli attori?” In questa cornice potremmo dire che ciò che gli attori fanno è precisamente assumere un corpo virtuale, diverso da quello abituale (sebbene da questo derivato), e che ciò che si può osservare è che la rappresentazione teatrale consiste nel dare vita a un mondo in cui può abitare questo popolo virtuale. Un mondo teatrale non è quindi una rappresentazione della realtà bensì una realtà in sé e per sé. Ma è un mondo destinato ad avere un’esistenza oggettiva per un pubblico. Questo aspetto può essere chiarito considerando il reale “buio a teatro” e come questo possa spiegare ciò che la metafora utilizzata da Merleau-Ponty intendeva esprimere. A teatro tutto il mondo della messa in scena è sul palco; è un mondo che inizia con la rapida transizione verso quella zona di indeterminatezza che è il buio. Il mondo sul palcoscenico può essere un mondo solo se è racchiuso nel buio del teatro. Così accade anche nell’ambito della percezione; dirigere il nostro sguardo verso un certo punto ci preclude sempre dal vedere cosa c’è in un’altra direzione. Costruire il nostro mondo secondo un dato insieme di dimensioni rende altre non accessibili in quel dato momento. Seguire un particolare “percorso di movimento” rende altri itinerari non percorribili.

 

4. Cos’è la performance?

Se generalmente definiamo la performance come l’impegnarsi in un’attività come se la qualità dell’attività avesse a che fare con noi in qualche modo, a prescindere dal fatto che qualcuno vi assista o meno, la performance, a livello teatrale, è un’attività la cui caratteristica distintiva è proprio il fatto che qualcuno stia guardando. Si tratta di una performance “per” quel qualcuno. Il pubblico “è in veste di” soggetto che percepisce; il palcoscenico è un mondo per gli spettatori e loro, nel buio, non sono oggetti di per se stessi. Tradizionalmente, un ulteriore aspetto del buio a teatro è che nasconde lo spettatore ai personaggi; li rende spettatori invisibili – sicuri rispetto allo sguardo dell’altro – soggetti, ma non oggetti. Essi sono percettivamente “sul palco”, cioè sono nel mondo del teatro – ma non sono presenti per l’altro nel mondo dei personaggi. Loro possono vedere e sentire quel mondo, ma non possono “agire” su di esso. Ogni membro del pubblico è un essere disincarnato, una presenza che non ha corpo. Durante l’ultimo mezzo secolo sono stati realizzati diversi esperimenti teatrali orientati alla violazione di quel buio protettivo – ad esempio, illuminando gli spettatori da dietro rendendoli potenzialmente oggetto-per-i-personaggi. Normalmente il buio viene violato in un particolare modo limitato, cioè quando si va a teatro “con qualcuno”. La transizione verso l’oscurità è rapida, ma non è né immediata né totale.

Dopo aver definito lo spazio della messa in scena come la zona del palcoscenico, proseguiamo con il costruire un ambiente in quello spazio e personaggi che comincino ad abitarlo. Questo rivela un’altra distinzione essenziale tra i due tipi di spazio. Lo spazio di posizione è di per sé uno spazio vuoto; gli oggetti si trovano semplicemente collocati in esso ed è quindi indipendente da loro. Ma lo spazio di situazione, sia-per-il-pubblico sia-per-il-personaggio è interamente avvolto dagli oggetti che sono presenti in esso – set, materiale scenico, luci, costumi, ecc. – e dai movimenti dei personaggi che lo abitano, e la reale struttura della sua spazialità è determinata da entrambi questi fattori. Lo spazio proiettato sul palcoscenico da un corpo-soggetto (per esempio, il regista) è da un lato un’area vuota da riempire e dall’altro un’infinita possibilità di essere modellato e formato nel mondo della messa in scena.

 

5. “Tutto il mondo è un palcoscenico…”

Precisamente quindi quale posizione assume l’attore all’interno di questo mondo, sia come attore sia come personaggio? L’attore indossa il corpo fenomenico del personaggio e lo colloca nel mondo della scena teatrale proprio come nella “vita reale” una persona in quanto corpo-soggetto assume un particolare compito o fa proprio un dato contesto di significato. Così come potremmo dire che un musicista diventa un tutt’uno con il proprio strumento facendolo divenire parte della propria fisicità, letteralmente “incorporandolo” per esprimere la sua finalità musicale, così l’attore, attraverso diversi livelli, scivola con il suo corpo fisico in quello fenomenico del personaggio e lo anima come se fosse uno strumento che è parte di sé. Questa è la radice della grande preoccupazione da parte degli attori per la flessibilità del loro “strumento”, poiché se un attore ha un modo consueto di muoversi sarà incapace di riprodurre in modo esaustivo ogni personaggio le cui attitudini siano incompatibili con quelle che possiede già strutturate. Il caso classico è la star del cinema che ruolo dopo ruolo interpreta fondamentalmente se stesso. Se questo suo personaggio piacerà a un pubblico sufficientemente ampio potrà arricchirsi, ma si potrà dire che starà “recitando” solo in misura molto limitata. La questione spesso trascurata, che, per inciso, spiega l’interesse costante nel lavoro di Alexander tra gli attori, è che non è sufficiente coltivare un repertorio abituale sempre maggiore. Si deve essere in grado di mettere da parte gli aspetti del proprio sé abituale. Non è sufficiente essere in grado di interpretare personaggi che hanno abitudini che io non ho; io voglio anche interpretare qualcuno al quale mancano le consuetudini che mi appartengono. Ma quest’ultimo compito è molto più difficile e questa difficoltà è il prototipo di ciò che tutti noi affrontiamo quando non siamo in grado di rispondere a una certa situazione come vorremmo. Ci troviamo letteralmente incapaci di incarnare il significato che vorremmo trasmettere quando il modello di quella personificazione è in contrasto con i nostri consueti schemi generali di azione. È come se ci scoprissimo liberi, dal punto di vista corporeo, di muoverci in una data direzione tra i diversi livelli di costruzione ma non in un’altra.

Sul palco questo è il nocciolo dei problemi tecnici relativi a motivazione e apparenza. Quando gli attori parlano di “motivazione” del loro personaggio o delle loro azioni come “motivate”, si riferiscono ai percorsi con cui tali azioni – o piuttosto il modo in cui tali azioni vengono espresse – sono correlate agli obiettivi dei propri personaggi. Ovvero, quanto più chiare sono le intenzioni dei personaggi, tanto meglio le azioni che le esprimono e la situazione in cui essi si muovono si adatteranno reciprocamente. Nei termini di Kelly, se i personaggi “vivono nell’anticipazione” allora così sarà anche per il pubblico. Il mondo del palcoscenico è una replica, e non una duplicazione del mondo di tutti i giorni. Il compito del teatro non è di essere realistico, ma convincente, non di essere completo, ma di essere globale. Quindi, per esempio, quella che normalmente sarebbe una scala potrebbe diventare un albero, non una rappresentazione di un albero ma un “albero” nel mondo della scena. Per i personaggi si tratta di un oggetto-albero e loro reagiranno a esso di conseguenza. Il pubblico deve subito essere in grado di riconoscere la scala oggettivamente come una scala e vederla attraverso gli occhi del personaggio come un albero.

Nella vita ci troviamo ad affrontare un’esigenza simile, cioè quella di riconoscere che un oggetto può avere significati molto diversi simultaneamente in diversi contesti. Proprio come l’attore deve avere la flessibilità necessaria per vivere in più di una realtà alla volta, così noi abbiamo bisogno della flessibilità per vivere con un’apertura a molteplici interpretazioni della realtà. Dewey ha ripetutamente sottolineato che più impariamo, più grande diventa il nostro bisogno di flessibilità, ma che purtroppo nella prassi abituale spesso accade che più conosciamo e più aumenta la tendenza alla routine e alla rigidità.

Tutto ciò che viene rappresentato sul palco, incluse le azioni dei personaggi, deve avere un sufficiente e adeguato background – deve essere motivato nello spazio “situazionale”. L’attore-come-personaggio recita all’interno della situazione del suo mondo e allo stesso tempo l’attore-come-attore è consapevole di se stesso come oggetto per il pubblico e per gli altri attori. Mantenere l’equilibrio tra la sincerità della motivazione del personaggio e il muoversi in modo tale da essere visto come il personaggio è l’abilità del grande attore. Questo si ottiene collocando il personaggio più saldamente possibile nel suo ambiente. Un metodo tipico è quello di inventare un’autobiografia di un personaggio che ha almeno tanti dettagli della sua vita passata quanti sono necessari per motivare la sua azione come indicato nel copione. Più dettagliato sarà questo lavoro, più completa sarà la “storia” del personaggio, più dimensioni di significato saranno evidenti nel mondo che il personaggio abita e quindi più reale sarà la loro dimensione situazionale. Ogni parola che il personaggio dice, ogni gesto che fa, impersona significati che provengono dal mondo del personaggio. Per questo in un certo senso la storia è il flusso dell’esperienza del soggetto. Una volta che hanno fatto proprio il passato dei personaggi, gli attori si possono ritrovare pienamente all’interno della situazione presente dei loro personaggi e la finzione quindi avrà lo stesso peso della realtà.

 

6. “…e un uomo nella sua vita recita molte parti”

Nella “vita reale”, ovviamente, ognuno di noi ha già la propria storia completamente sviluppata e quindi ogni parola e ogni gesto già incarna un significato personale. Il punto di questa discussione è che tutti noi siamo attori nei mondi delle nostre esperienze e che abitiamo il mondo che consideriamo essere la nostra realtà solamente in quel dato modo. Vivere è relativo all’indossare mondi virtuali che noi incarniamo (per esempio impegnando i nostri corpi abituali). “Tutto il mondo è un palcoscenico…” è diventato il luogo comune oggi noto perché ci rendiamo conto che, proprio come la scienza è un rifinire la qualità anticipatoria dell’esperienza in un contesto strutturato, così il mondo del palcoscenico è la distillazione della qualità drammatica della vita ordinaria. L’atto di ricostruire, di scegliere altre dimensioni attraverso cui dare un senso alle cose è anche un atto compiuto da una persona nella sua interezza. Significa anche fare proprio e abitare un nuovo mondo definito solo da queste caratteristiche di teatralità. Celata sotto l’inclinazione verso certi schemi di azione che noi chiamiamo abitudini si trova la dimensionalità dello spazio abituale di significato a partire da cui noi costruiamo il mondo in cui agiamo. Per noi, come per il personaggio ben interpretato, c’è una continuità tra le indiscusse dimensioni di senso che non riusciamo a vedere come la cornice della nostra interpretazione degli eventi e quelle dimensioni di azione che sono la struttura delle nostre reazioni di routine abituali. Proprio come un buon attore è libero di “recitare” una vasta gamma di possibili ruoli, di vivere diversi mondi sullo stesso palcoscenico, allo stesso modo ogni individuo può fare un passo oltre la sua costruzione abituale per interpretare e per vivere costruzioni alternative, non solo per visualizzarle. Nella vita ogni evento che potrebbe essere definito come uno stimolo è una perturbazione dell’equilibrio nell’organizzazione di tutta la rete dei significati incarnati di una persona. Tale perturbazione produce un momento di “dramma” in cui l’intero sistema delle abitudini della persona deve riorganizzarsi per la produzione di una “reazione” della persona, che è la sua risposta. Se la persona è troppo malata, troppo stanca, troppo affrettata o troppo legata alla routine, allora una delle sue abitudini potrebbe dominare, come nel tentativo di mantenere l’equilibrio, e il momento si interrompe prima che possa verificarsi una sostanziale riorganizzazione. Ciò che ne segue è una conseguenza diretta dello stimolo e dell’abitudine dominante, una “reazione” meccanica piuttosto che una “risposta”. Sarebbe come se un attore alle prime armi cercasse di “recitare” la parte di un vecchio incurvandosi e trascinandosi a stento. Quello che il pubblico vedrebbe sarebbero queste scelte specifiche filtrate attraverso i consueti sforzi e le tensioni del giovane attore. Tuttavia, se la rete di abitudini e di significati è complessa e abbastanza flessibile da consentire alla rappresentazione di continuare per un certo tempo, ciò che ne consegue è una risposta rilevante dell’intera persona. Questo assomiglia maggiormente a ciò che accade quando l’attore, attento al compito di non interferire con il suo naturale funzionamento, esce con flessibilità dai propri schemi abituali in modo tale da essere visto dal pubblico come una persona completa. In tal caso allora il solo pensiero dell’età lo fa apparire più vecchio al pubblico, senza il bisogno di “fare” qualcosa in particolare. Dewey sostiene che il significato dell’esperienza, e il suo valore estetico, risiedono non tanto nel mantenimento di un equilibrio quanto nelle qualità incarnate nel modo in cui l’equilibrio viene ripetutamente perso e ripristinato. Da ciò deriva il suo sostegno al lavoro di Alexander, che vedeva come un canale per insistere su quel piccolo spazio drammatico in cui è possibile raggiungere una più ricca ricostruzione e un più completo responso.

C’è un altro punto apparentemente tecnico che sembrerebbe avere un importante significato pratico. Possiamo pensare allo spazio come a una sorta di vuoto pre-esistente in cui gli oggetti vengono posizionati, proprio come si può pensare a un palcoscenico come ad uno spazio vuoto antecedente e indipendente dai vari spettacoli che vi verranno realizzati. Ma il palcoscenico è un palcoscenico solo in relazione agli spettacoli che qui vengono realizzati. Prima è presente solo in retrospettiva – è vuoto solo in previsione del loro verificarsi. Esattamente allo stesso modo lo spazio di senso, le dimensioni dell’esperienza, possono sembrare uno spazio vuoto che attende di essere riempito con gli avvenimenti della vita. E in effetti, le dimensioni che ho reso esplicite, o quelle che uso abitualmente, costituiscono delle strutture antecedenti le successive percezioni e azioni. Esse diventano le coordinate di uno spazio che abito e che mi predispone a vedere e fare le cose in modi familiari. Questo spazio non è precedente alla mia esperienza; le sue dimensioni sono tratte da essa. È vuoto solo in previsione di eventi futuri e anche gli eventi futuri rimarranno aperti a nuove interpretazioni. Nella geometria tradizionale, determinati rapporti si ottengono all’interno di un insieme di coordinate ortogonali xyz. Tuttavia queste dimensioni non vengono prima dello spazio in cui traccio le mie figure. Sono libero di impostare la mia origine dove preferisco, e scegliere da che parte deve andare l’asse x, o addirittura di usare coordinate cilindriche. È solo se facessi regolarmente la stessa scelta che arriverebbe ad assumere la priorità. Avviene lo stesso con il significato in generale, e specialmente con “i significati percepiti” del mio costruire cinestetico. Ciò che caratterizza l’esperienza non sono le sue dimensioni ma la sua disponibilità a essere percepita come dimensionale. Così come la presenza degli attori – il loro movimento sul palcoscenico – crea lo spazio in cui si svolge lo spettacolo, in modo simile, si potrebbe dire che le azioni creano lo spazio in cui si verificano. Ma proprio come l’attore di uno spettacolo replicato troppo a lungo può arrivare a fare sempre gli stessi movimenti in modo routinario, così la persona le cui azioni sono divenute abituali le mette in atto in un modo che le appare “normale”.

 

7. Il movimento come teatro del significato incarnato

In una delle sue ultime opere, Il Visibile e l’Invisibile, Merleau-Ponty ritorna di nuovo sull’argomento, stabilendo una connessione tra il sapere e ciò che egli definisce io posso. In questo processo lui elabora un ben chiaro contesto di cinestetica. Ciò che vale per il rapporto tra il mio senso della vista e il visibile è vero anche per il mio senso del tatto, forse in un modo ancora più profondo. Posso a un certo livello sentire la materialità, la ruvidezza, la morbidezza, ecc. A un altro livello ciò che tocco non sono apparenze, sono oggetti. Ma io non li tocco semplicemente in astratto, né lancio loro una sorta di “sguardo” tattile. Per toccare una cosa la devo raggiungere. Per sentire la sua forma e la sua consistenza devo muovere la mia mano sulla sua superficie. E questo non è il movimento potenziale, l’atto previsto che potrei fare. Per toccare una cosa bisogna impegnarsi in un movimento reale in relazione ad essa. Quella che può essere una base implicita per la spazialità della percezione visiva o uditiva è sempre esplicita nel contatto. Devo muovermi per toccare quell’oggetto. Se giro la testa per guardare o allungo la mano per toccare, come mi muovo per percepire un oggetto, trovo la conoscenza di esso già nel contesto dell’azione. Ma c’è di più. C’è qualcosa di particolare, persino paradossale, nel raggiungere e toccare un oggetto. Quando uso la mia mano destra per toccare qualcosa, posso sentire la mia mano-nel tocco, come se provenisse dall’interno; posso anche vedere la mia mano muoversi verso e sopra la cosa toccata. Posso addirittura toccare la mano destra con la mia mano sinistra. Sono una parte del visibile anche se sono colui che guarda. Io sono sia colui che tocca e sono aperto al mio stesso tocco – sia dall’interno che dall’esterno. La mia mano sinistra tocca la mia mano destra come se stesse toccando qualsiasi altro oggetto, eccetto che per il fatto che naturalmente la mia mano destra restituisce il tocco. E inoltre, nel momento in cui la mia mano destra si muove, io posso “percepirne” il movimento. In un certo senso la mia mano destra tocca se stessa in movimento. La conseguenza pratica di questa distinzione fra un per-se-stesso e un in-se-stesso è che sebbene io sia aperto al mio proprio tocco, sebbene io sia almeno in parte visibile a me stesso, sebbene io possa sentire la mia stessa voce, io non mi sento o mi vedo o mi ascolto nello stesso modo in cui percepisco il resto del mio mondo. La differenza ha a che fare con la cinestetica. Potrei fare una registrazione audio o video di me stesso mentre faccio qualcosa e poi guardare o ascoltare e avere un’esperienza simile a quella di altre persone che mi osservano in azione. Potrei persino fare uso di queste osservazioni per imparare a migliorare la qualità della mia performance. Ma guardare me stesso su uno schermo mentre eseguo una certa azione è un’esperienza molto diversa dal guardare quella stessa prestazione più tardi su una videocassetta. Si racconta di come all’autore Arthur Koestler, dopo aver vissuto negli Stati Uniti per una quarantina d’anni, capitò di ascoltare una registrazione della propria voce e di quanto fu sorpreso di sentire che ancora parlava con un accento particolare. Per anni aveva “sentito” la propria voce come se fosse simile alle voci americane intorno a lui. Koestler suppose che per tutto quel tempo aveva avuto un’anticipazione di com’era la sua voce che aveva confrontato percettivamente con essa. Naturalmente l’aspettativa si accorda sempre con se stessa e quindi egli non si accorse mai che in realtà la sua voce aveva un suono diverso. Fu solo quando gli capitò di risentire il suono della sua voce mentre non la stava nel frattempo producendo che fu in grado di fare un confronto “oggettivo” e sentire il suo accento. Non abbiamo modo, però, di registrare le immagini cinestesiche per poi poterle “risentire” successivamente separate dall’azione stessa. Come sostiene Merleau-Ponty, “così come necessariamente è ‘qui’, il corpo necessariamente esiste ‘ora’” (Merleau-Ponty, 1962, p. 140). Così può risultare difficile verificare l’ipotesi che tutta la nostra esperienza interiore di sentirci in azione presenti questo tipo di distorsione caratteristica. È in questo ambito cinestesico di percezione del sé che diventa più concreta la relazione della persona nella vita quotidiana con l’attore sul palco. È nelle dimensioni cinestesiche di significato che il problema della persona incapace di incarnare la ricostruzione di se stessa trova il suo paradigma nell’attore i cui movimenti abituali restringono la gamma di personaggi che è in grado di ritrarre fedelmente. Come sottolinea Butt in relazione all’enactment,

Il coinvolgimento corporeo nell’impersonare un ruolo, insieme alle interazioni che questo implica, conduce a una conoscenza di quel ruolo che può essere o meno esplicitata attraverso il linguaggio. Forse ruoli fissi potrebbero essere scritti in modo da mettere maggiormente l’accento sulla postura, il movimento e il comportamento. Quando riusciamo a vedere i processi psicologici non solo come riflessioni cognitive, ma come processi incarnati, si aprono nuovi modi di muoversi e di sperimentare nuovi ruoli. (Butt, 1998, p. 112)

Quello che sto dicendo qui è semplicemente che se è importante riconoscere i processi psicologici come incarnati, può essere utile anche andare oltre attribuendo alla postura, al movimento, ecc. adeguata rilevanza. Per ciascuno di noi nella propria vita, come per l’attore sul palco, i nostri corpi sono gli “strumenti” delle nostre azioni, e ciò che ognuno di noi può esprimere con questi strumenti dipende da come li usa.

Questo ci riporta a F. M. Alexander, che ho citato all’inizio. Il suo lavoro è stato sostanzialmente lo sviluppo di un metodo educativo per esplorare, in pratica, ciò che Dewey chiamava “continuità della mente e del corpo in azione”. Il dilemma profondo di tutto quello che ho discusso fino a ora riguarda l’abitudine. Poiché la percezione cinestesica è la percezione dei miei movimenti, allora Alexander sostiene “l’atto e la sensazione particolare a esso associata diventano tutt’uno nel nostro atto di riconoscimento” (Alexander, p. 131). Quello che Alexander ha scoperto è che spesso quando agiamo abitualmente, usando quella che lui chiama “direzione inconscia” di noi stessi, compiamo quell’atto in un modo che interferisce con la coordinazione naturale di noi stessi come organismi in movimento. Questo modo di agire diventa, però, per noi, una sensazione “normale”. Dal punto di vista kelliano potremmo dire che il nostro corpo agisce ciò che noi incarniamo nel compito attraverso un costrutto cinestesico stabile e a portata di mano. Questo, naturalmente, rende problematico il cambiamento. Più cerco di essere nel giusto, più mi sento spinto dalla costruzione che è stata inefficace in prima istanza. E proprio perché il mio costruire è “sentito” piuttosto che “pensato”, non mi viene in mente che una ricostruzione sia possibile. Ciò a cui è finalizzata la tecnica di Alexander è la creazione di un canale per tenere aperto abbastanza a lungo quel piccolo “spazio drammatico” di cui ho parlato prima proprio per permettere tale ricostruzione incarnata del significato cinestesico. Mentre Alexander ha sviluppato il suo metodo per ri-educare noi stessi alla continuità dell’azione corporea – e la nostra percezione di noi stessi in azione – ciò che non ha fatto è apprezzare pienamente la dimensionalità di significato, motivo per cui io ho lavorato per riunire il suo pensiero con quello di Kelly. Questo intreccio della continuità di percezione e di azione con la dimensionalità di significato personale incarnato nell‘azione è ciò che ho chiamato conducibilità o talvolta ragionamento conducibile. Per citare Merleau-Ponty un’ultima volta,

l’uomo nel suo essere concreto non è una psiche unita a un organismo, ma il movimento da e verso l’esistenza che in un momento gli permette di assumere una forma corporea e in altri spinge verso azioni personali. (Merleau-Ponty, 1962, p. 88)

Se mi considero come una “forma corporea” all’interno di un comune movimento fisico, o come una “forma di movimento” in senso kelliano, impegnato in azioni che hanno un significato personale, il senso cinestesico è il mio mezzo per percepire me stesso in movimento. E di conseguenza è un fattore centrale, ancora in gran parte inesplorato, per tutto ciò che concerne il senso degli esseri umani.

 

Bibliografia

Alexander, F. M. (1923). Constructive conscious control of the individual. New York: Dutton (Reprinted by Centerline, Long Beach, 1985).

Alexander, F. M. (1932). The use of the self. New York: Dutton (Reprinted by Centerline, Long Beach, 1984).

Butt, T. W. (1997). The existentialism of George Kelly. Journal for the Society for Existential Analysis, 8, 20-32.

Butt, T. W. (1998). Sociality role and embodiment. Journal of Constructivist Psychology, 11, 105-116.

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Dewey, J. (1927). Body and Mind. Read at 81st Anniversary Meeting, NY Academy of Medicine, Reprinted in Philosophy and Civilization. New York: Minton, Balch and Co., 1931.

Kelly, G. A. (1963). A theory of personality: The psychology of personal constructs. New York: Norton.

Kelly, G. A. (1979). Clinical psychology and personality: Selected papers of George Kelly. B. Maher (ed.), Huntington, NY: Krieger Pub.

Merleau-Ponty, M. (1962). Phenomenology of perception. London: Routledge & Kegan Paul.

Merleau-Ponty, M. (1968). The Visible and the Invisible. Northwest University Press, Evanston, IL.

Mills, D. (1996). Dimensions of embodiment: Towards a conversational science of human action. Doctoral dissertation, Brunel University, Uxbridge, UK.

 

Note sull’autore

 

David M. Mills

The Performance Center, Seattle (USA)

David M. Mills, Ph.D., è membro fondatore della Scuola di performance a Seattle, Washington. Egli si è dedicato allo studio di come i costrutti personali vengono incarnati in termini di prestazioni, nella teoria e nella pratica teatrale con artisti per più di 25 anni.

 

  1. Articolo originariamente comparso in Personal Construct Theory & Practice, 2, 2005, 1 – 9. Si ringraziano la rivista e gli editori per aver concesso la licenza per la traduzione. L’originale è disponibile al link: http://www.pcp-net.org/journal/pctp05/mills05.pdf