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Costruttivismi in ricerca e psicoterapia: intervista a Guillem Feixas

Constructivisms in research and psychotherapy: interview with Guillem Feixas

a cura di

Chiara Centomo

Institute of Constructivist Psychology

 

Traduzione a cura di

Caterina Bertelli ed Elisa Petteni

Abstract

Keywords:
Ricerca in psicoterapia, metodologia di ricerca, dilemma implicativo, psicoterapia breve | psychotherapy research, research methodology, implicative dilemma, brief psychotherapy

Guillem Feixas, attualmente Professore presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Barcellona, ha completato il suo dottorato nella medesima struttura e ha ricoperto la posizione di assegnista di ricerca presso l’Università di Memphis, negli Stati Uniti. È direttore del Master in Terapia Cognitiva Sociale e di altri corsi post lauream. Ha pubblicato più di 90 articoli in riviste prestigiose e 10 libri, conducendo numerosi progetti di ricerca. Le sue ricerche sono focalizzate sulla costruzione interpersonale e sul suo ruolo nella salute (sia fisica che mentale) e nel processo della psicoterapia.

 

Guillem Feixas, now Professor at the Faculty of Psychology of the University of Barcelona, completed his PhD at this center and hold a postdoc position at the University of Memphis, USA. He is the director of the Master in Cognitive Social Therapy and other postgraduate courses. He has published more than 90 papers in reputed journals and 10 books and led several research projects. His investigations have been focused in interpersonal construing and its role in health (both mental and physical), and in the process of psychotherapy.

 

Professor Feixas, la ringrazio molto per questa intervista.

Grazie a lei.

 

Cos’è la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) per lei?

Una fonte di ispirazione, una teoria sul funzionamento umano e… un bel gruppo di amici.

 

Cosa l’ha affascinata della figura di George Kelly e della PCP all’inizio del suo percorso, e cosa la affascina ora?

All’inizio mi affascinava la combinazione di questo approccio fenomenologico, che metteva al centro la persona, con una metodologia sistematica che permetteva sia la ricerca e la sperimentazione che la pratica clinica. Non si tratta di una cosa così comune: non lo è prima di tutto l’approccio fenomenologico, in secondo luogo la combinazione di ricerca e clinica. Era questo quello che mi attirava, e ultimamente ho apprezzato molto la persona di George Kelly per come ne ho letto nella sua biografia, soprattutto la sua coerenza nell’essere riflessivo: applicava la sua teoria alla sua stessa vita. Ed è davvero notevole per me che fosse consapevole che la sua teoria era solo una teoria, solo un modello; non era la verità, quindi avrebbe avuto bisogno di essere cambiata.

 

Ha conosciuto questa teoria all’inizio della sua vita accademica o più tardi?

Più tardi. Ho iniziato a interessarmi alle teorie della personalità, che erano più di tipo umanistico. Poi, insieme a Manuel Villegas, stavamo cercando il modo di fare un certo tipo di ricerca all’interno di un progetto più ampio: ho imparato da lui l’approccio esistenzialista alla psicoterapia, ma anche la difficoltà di fare ricerca sulla base di tale approccio. Poiché Kelly metteva enfasi sulla scelta e sulla libertà, in qualche modo ci è sembrata la strada più adatta per portare avanti la nostra ricerca e così ho iniziato. Nessuno mi aveva parlato di PCP, quindi ho dovuto imparare, andare alle conferenze e invitare persone da fuori: non sono stato così fortunato da avere un buon insegnante perché nessuno in Spagna ne sapeva molto.

 

È stato il primo teorico PCP in Spagna?

Non per le griglie di repertorio, perché erano già arrivate e c’erano persone che se ne occupavano nella sezione metodologia, ma nessuno le utilizzava nell’area clinica o nello studio della personalità.

 

Nella comunità costruttivista il suo lavoro nell’ambito della ricerca clinica è molto apprezzato. Personalmente penso che sia importante fare ricerca in questo settore, anche per diffondere il nostro modello in psicologia clinica e in psicoterapia: in Italia ci sono alcune difficoltà nel farlo proprio perché la ricerca è scarsa.

Credo che il lavoro di ricerca sia importante per migliorare la nostra pratica e quella di tutti gli psicoterapeuti, non solo costruttivisti. Se si tenta di trasmettere delle idee senza alcuna prova a sostegno di quelle idee, allora si potrebbe incorrere in problemi in Italia e ovunque nel mondo. Per come conosco la comunità italiana, sarebbe molto ricettiva alla ricerca.

Per me il costruttivismo deve aiutare le persone, non è qualcosa da sviluppare per il bene dello sviluppo del costruttivismo in sé! Il costruttivismo non è il costrutto sovraordinato, ci sono altre cose che lo sono di più, ad esempio aiutare le persone, aumentare la conoscenza… Quindi se il costruttivismo non si diffonde molto, ma le sue idee raggiungono la comunità, la trasformano e la rendono migliore, allora posso ritenermi soddisfatto.

 

Per esempio? Cosa intende con “idee”?

Per esempio le idee di conflitto o di dilemma implicativo. La questione non è far sì che le persone riconoscano che il costruttivismo è importante o lo validino, ma che accettino queste idee basandosi sull’evidenza che esse migliorano la loro attività pratica, indipendentemente da come le chiamano. Per me è utile che abbiano riconosciuto il costruttivismo ma non è essenziale. Non so se sono chiaro…

 

Lo è. So che nel suo lavoro coniuga PCP e altri approcci. Quali sono e come possono comunicare con la PCP e il costruttivismo in generale?

Penso che la metafora della PCP come un corpo o come un’entità non sia molto buona: se parliamo di come la PCP sia in grado di comunicare con altri approcci stiamo applicando una metafora, come se una persona fosse la PCP e l’altra persona sia quest’altro approccio e dovessero comunicare tra loro. Come ho detto la PCP è una fonte di ispirazione, ma l’idea è di ricavare da diverse teorie quello che migliora la nostra pratica. Il punto non è la comunicazione tra teorie. Credo che sia una questione troppo teorica. Ho trovato ovunque idee interessanti, per esempio nel mondo sistemico. Penso che Bateson e Kelly fossero a capo del loro tempo e che abbiano avuto idee interessanti che oggigiorno, ormai, sono diffuse abbastanza ampiamente: la cibernetica è ovunque. Ci sono molte cose che mi interessano, tutto ciò che è nuovo e che serve ad aiutare le persone come la mindfulness, la terapia narrativa o quella della coerenza. Sono tutte stimolanti non per il fatto di essere costruttiviste o meno – l’essere costruttivista è qualcosa che va oltre una reificazione – ma piuttosto se aiutano a far avanzare le conoscenze e a migliorare l’esperienza pratica delle persone.

 

Come riesce a conservare gli assunti di base del costruttivismo nel contatto con altri approcci che hanno differenti presupposti? In alcuni casi l’essere umano viene concepito in modi molto diversi.

Penso che sia molto difficile combinare gli approcci se non condividono un terreno epistemologico comune, ma oggi il terreno epistemologico della maggior parte degli approcci è costruttivista, che lo sia esplicitamente o meno. Penso che sia una bella novità… Non intendo che la novità sia il costruttivismo, ma il fatto che sia ovunque: quando parli di costruttivismo alle persone queste dicono “ha senso, questo è quello che effettivamente penso anch’io”. Ci sono alcuni approcci, per esempio certi esponenti della CBT[3], che fanno cose che non sono d’ispirazione, non sono compatibili con il costruttivismo in alcun modo; ma progressivamente stanno cominciando a farlo. Posso raccontarle un aneddoto?

 

Certo.

Per diversi anni ho invitato a Barcellona Philippa Garety, lei utilizza la CBT con psicotici con allucinazioni e deliri. Il modo in cui lavora con il paziente è, per me, come vorrei lavorare io. Lavora in modo collaborativo, non entra in conflitto; mentre si parla di allucinazioni e voci cerca di capire come è stato costruito il significato delle voci, le esperienze biografiche anomale e così via. È affascinante, molto interessante. Io ho lavorato con pochissimi pazienti psicotici, ma ho potuto vedere da me cosa significa, perciò le ho chiesto: “Perché chiami il tuo approccio CBT? Per me è costruttivista, costruttivismo applicato”. Lei ha risposto: “Non so molto di epistemologia, filosofia e costruttivismo. Io lavoro in questo modo perché questo è il modo che aiuta le persone”. “Ma di solito la CBT contesta le credenze della persona e prova a dimostrare che si sbaglia” ho ribattuto. E lei: “Questo non serve a nulla, non dovresti farlo con un paziente psicotico”.

Dal mio punto di vista lei era costruttivista, quello che faceva era utile nella pratica, ma lei chiama quello che fa CBT. Le idee della CBT per la psicosi sono un quantitativo enorme e sono buone. Forse a volte è questione di enfasi o di stile. Lo stesso vale per altri disturbi, mentre per altri è molto diverso. Ma quando si parla di CBT ci sono molte sfaccettature al suo interno, è più complesso di così.

 

Grazie. A suo parere in cosa la PCP è all’avanguardia e in cosa è rimasta indietro, se confrontata con altri approcci?

Penso che le correnti principali della psicologia non amino molto i modelli nel senso più ampio della parola, come la psicoanalisi o la PCP. Apprezzano teorie più specifiche per risolvere problemi specifici. Quindi non credo di poter rispondere bene alla domanda, perché in PCP ci sono concetti che non fanno ancora parte delle tendenze dominanti in psicologia; per esempio l’idea di bipolarità non è ben conosciuta, non abbastanza almeno, mentre in altre discipline lo è (ad esempio in filosofia, in linguistica…).

Penso che in questo senso la PCP sia una fonte di ispirazione per svolgere la nostra pratica in un modo che riconosca tutto questo. Ma ci sono molti concetti in psicologia che non sono stati facili da rendere in termini PCP, ad esempio la mindfulness, la resilienza, o tutta la parte in cui la sofferenza umana viene concettualizzata sotto l’etichetta della psicopatologia. David Winter ha fatto un’analisi di come è stata trattata la psicopatologia nella teoria di Kelly e lui stesso, che è piuttosto appassionato di Teoria dei Costrutti Personali, ha fatto riferimento al fatto che questa parte non è stata ben elaborata. A Kelly il mondo della psicopatologia non piaceva, ma ora noi viviamo in un mondo in cui ci sono queste categorie e dobbiamo allo stesso tempo essere critici ma anche vivere al suo interno.

 

Dobbiamo renderci comprensibili…

Sì, e dobbiamo essere in grado di contribuire a quello che fanno gli altri. Non credo che dobbiamo chiedere a loro il nostro mandato, non pensiamo di dire “Hey, devi accettare che il costruttivismo è meglio”. Io penso che dobbiamo fare un buon lavoro, secondo le linee impostate dalla comunità. In spagnolo diciamo “codo con codo“, lavorare…

 

Gomito a gomito.

…gomito a gomito con gli altri e, grazie al pensiero ispiratore della PCP, forse possiamo dare un miglior contributo.

 

Potremmo dire che lei adotta un approccio pragmatico nella ricerca psicologica. Spesso in quest’ambito, soprattutto all’interno dell’università, vi è una netta separazione tra ricerca e pratica clinica, mentre lei nel suo lavoro cerca di coniugarle.

Si, ci provo… Lei intende per esempio la mia ricerca sui dilemmi implicativi? È un concetto che ha senso nella pratica clinica, è l’idea – posta in termini di griglia – che ci siano dei costrutti incompatibili, cose che voglio cambiare a partire da chi sono io per raggiungere il mio sé ideale. Per esempio qualcuno può sentirsi depresso e desidera uscire da questa situazione: è qui che c’è bisogno di movimento, perché desidera cambiare in una certa direzione ma ci sono altre cose che non vuole cambiare, per esempio l’essere una persona sensibile o che si prende cura degli altri. Poniamo che il polo opposto di questo sia essere egoista, o semplicemente guardare ai propri interessi: può accadere che nei suoi termini, all’interno dei suoi significati (o del suo sistema di costrutti) diventare felice abbia a che fare con il non porre attenzione verso gli altri, con l’essere egoista. Quando succede una cosa di questo genere il movimento necessario per cambiare è difficile, bloccato. Penso che questa idea sia relativamente nuova per la maggior parte della comunità psicologica e che possa essere studiata usando le griglie di repertorio e altri metodi.

 

Se non sbaglio lei fa ricerca anche sulla terapia breve.

Si. Dopo la ricerca sui dilemmi abbiamo sviluppato un metodo per lavorarci, una specie di modulo che si può aggiungere a un altro trattamento terapeutico. Non è una nuova terapia ma un intervento nel quale vengono utilizzati metodi quali il laddering, l’ABC, il dialogo delle due sedie e una varietà di altre tecniche (molte delle quali ispirate alla Psicologia dei Costrutti Personali) per provare a risolvere i dilemmi.

 

Non è una psicoterapia ad ampio raggio, ma un intervento focalizzato sul problema che è un dilemma.

Esatto.

 

È interessante perché oggigiorno spesso le persone non possono pagare a lungo una psicoterapia: penso che in PCP questo approccio sia interessante, da sviluppare nel futuro.

Si. Penso che qui ci siano due differenti questioni: una è la terapia breve e l’altra è l’intervento con i dilemmi. Esse si combinano bene, ma sono appunto diverse. Per esempio il nostro master a Barcellona – un programma di addestramento di tre anni in psicoterapia – si chiama “Terapia Cognitiva Sociale”: usiamo un termine più ampio di PCP che include l’approccio sistemico, narrativo, e così via. Abbiamo un format breve di 16 sedute. Nella maggior parte dei casi quando riconosciamo i dilemmi ci lavoriamo con questo modulo di intervento, altrimenti utilizziamo altri tipi di tecniche di lavoro ispirate alla PCP, alla sistemica, alla narrativa e ad altre teorie, come la teoria dello sviluppo morale di Manuel Villegas. Quindi in alcuni casi si lavora molto sul dilemma, in altri casi vengono fatti altri tipi di lavoro. I nostri studenti – abbiamo alcuni studenti italiani tra l’altro – lavorano nei servizi di cure primarie; i medici di medicina generale, i medici di base, inviano i loro utenti e loro li vedono per 16 sedute in studi vicini con la mia supervisione, quella di Manuel Villegas o di altri supervisori esperti.

 

Questa è la psicoterapia breve?

Esattamente. Noi la stiamo facendo da 15 anni e pensiamo che con un massimo di 16 sedute possiamo fare molto. Abbiamo adattato il lavoro per questo contesto ma ovviamente nell’ambito della pratica privata talvolta si ha più tempo, i problemi possono risolversi meglio; in ogni caso talvolta si può lavorare anche con meno… può darsi che in certi casi 10 sedute possano essere abbastanza.

 

È diverso il lavoro nel servizio pubblico o collaborando con il servizio pubblico rispetto all’intervento privato.

Si è diverso. Ma noi dedichiamo un’ora intera, una seduta di un’intera ora, talvolta anche di più perché uno studente desidera stare un po’ di più, e credo che non sia un lavoro di bassa qualità anche se viene fatto nella pratica privata. È una buona terapia ma dura solo per 16 sedute, perché in questo modo gli studenti avranno l’opportunità di vedere diversi clienti e allora, fino a quando avremo una tale lista d’attesa, altre persone potranno beneficiarne. È una specie di filosofia pubblica: se il cliente ha veramente bisogno di più poi, dopo che insieme al terapeuta avranno compreso che la psicoterapia è necessaria, dovrebbero provare a trovare un modo per fare una psicoterapia, ad esempio pagando in privato o qualcosa di simile. Abbiamo provato a escludere dal programma problematiche di salute mentale severe, ma talvolta abbiamo scoperto che i pazienti avevano un disturbo di personalità nella quinta seduta. Proviamo a dirlo ai medici di riferimento ma loro non parlano di questo.

 

Questo è un servizio che risponde a una utilità sociale della psicoterapia.

Esattamente.

 

Penso sia molto umano e importante, grazie per averne parlato. Cambiando argomento: quali critiche potrebbe fare alla PCP?

Allora, io penso che di base, come qualsiasi teoria, sia incompleta. Dobbiamo quindi essere molto consapevoli che possediamo alcuni contributi geniali, monumentali, ma che è ancora limitata in molti, molti modi. Ad esempio tutta la parte sullo sviluppo non viene affrontata: come si cresce, cosa succede quando il bambino è nel grembo della madre… Oppure tutti i collegamenti con le neuroscienze, che non potevano essere fatti quando Kelly scrisse la sua teoria. Come possiamo mantenere intatte le idee del 1955 quando il nostro contesto è cambiato così tanto? Là fuori ci sono tante cose interessanti che non sono PCT[4].

Qual è la mia critica? Era un’ottima teoria negli anni ’50, anche se era solo una mezza verità, era incompleta, e Kelly ne era molto consapevole: era esplicito nel dirlo. Era fantastica, geniale e favolosa, ma la realtà è così complessa: cresce e cambia, quindi abbiamo bisogno di cambiare le nostre teorie costantemente. Non possiamo attaccarci a qualcosa e dire “qui, io ho la Verità”.

 

Questo è un dibattito aperto in PCT. D’altra parte essa è una teoria “vuota” che può essere utile per avvicinarsi a molti problemi diversi.

Cosa intende per “una teoria vuota”?

 

Un modello, una teoria senza contenuti.

Si, un processo. Questo aspetto della PCP mi interessava molto.

 

Possiamo utilizzarla nell’attività lavorativa, nella pratica clinica, ma abbiamo bisogno di sviluppare la ricerca e la pratica in tutti questi ambiti.

Si, ma se guarda a ciò che è stato fatto in psicologia delle organizzazioni ci sono alcune cose utili e congruenti con la PCT, non occorre inventarle nuovamente usando il gergo PCT: sarebbe un terribile errore, una perdita di tempo. Basta guardare quelle teorie e cosa stanno facendo le persone che ci lavorano; se la PCT può aggiungere qualcosa, allora si può chiamarla PCT se si vuole, ma questo non vale per le altre teorie perché, appunto, non sono PCT. Sarebbe questo il mio consiglio. Ci sono molte cose interessanti là fuori nel mondo… Kelly era una persona molto brillante e intelligente, ma dopo Kelly ci sono state molte altre persone brillanti e intelligenti: alcune di loro sono tutt’ora viventi e stanno facendo costruzioni davvero interessanti rispetto alle problematiche che stanno affrontando.

Il presente è stimolante: quello che abbiamo in psicologia è meraviglioso, ci sono molte molte cose buone. Ci sono alcune prassi che non mi piacciono, ma ogni giorno ci sono più e più realtà utili alle persone che stanno crescendo e si stanno sviluppando. Forse se prestiamo troppa attenzione alla PCT non riusciamo vedere quali sono queste altre cose importanti che ci sono nel mondo. Come dicevo il mio nucleo di costruzione sovraordinato è aiutare le persone, cercare di risolvere i problemi della nostra professione. Tutto ciò che aiuta ad andare in questa direzione è benvenuto. E se è nella PCP ancora meglio ma…

 

… Anche il resto.

Anche il resto.

 

Qual è il suo sogno riguardo a questa vocazione di essere d’aiuto per le persone?

Mi piacerebbe che la comunità psicoterapeutica e la psicologia clinica riconoscessero l’importanza del conflitto interiore e di come influenzi la sofferenza e la difficoltà di cambiare: quello che di solito viene chiamato resistenza o ambivalenza. Mi piacerebbe che avesse un atteggiamento diverso nei confronti del conflitto: qualcosa di umano, naturale, in cui dobbiamo lavorare con entrambi i versanti, non solo promuovendo il cambiamento. Promuovere il cambiamento è solo una parte della storia, e io penso che l’ambiente stia iniziando a riconoscerlo: ci sono dei segnali, e io voglio contribuire a questo riconoscimento.

 

Come si è avvicinato all’idea del conflitto?

Penso che la storia di questa idea sia partita dal corollario della frammentazione arrivando a David Hinkle[5], ma io ci sono arrivato attraverso il lavoro di David Winter, soprattutto quello riguardo le implicazioni negative del cambiamento. Ricordo una presentazione che fece alla conferenza dell’SPR, la Società per la Ricerca in Psicoterapia, nella quale studiava il sistema di costrutti di pazienti resistenti che non avevano avuto un buon esito nell’allenamento delle abilità sociali. Per loro essere sociali era collegato ad essere egoisti e aggressivi, quindi non aveva senso diventare socialmente esperti. Quello è stato il mio primo “incontro” con il dilemma. Poi ho trovato un modo per misurarlo con le griglie e ho iniziato un progetto di ricerca su questo, coinvolgendo molti pazienti diversi e molte istituzioni, ora in Sud America, a Madrid, a Siviglia… Stiamo lavorando sull’importanza del dilemma per la salute mentale, per il benessere e per i metodi di terapia che si focalizzano sulla risoluzione di dilemmi.

 

Che tipo di metodi usa per “misurare”?

Le griglie di repertorio. Le nostre ricerche sono pubblicate e disponibili. La maggior parte è in inglese e spagnolo.

 

C’è un grande progetto in corso…

Penso che si possano identificare i dilemmi in diversi modi, ma per la ricerca è meglio avere un metodo che sia sistematico, come le griglie di repertorio. Non intendo oggettivo, ma sistematico. Invece per la pratica clinica insegno ai miei studenti a individuare i dilemmi dalla prima chiamata del paziente. L’osservazione clinica fornisce molte indicazioni sul dilemma sul quale c’è bisogno di lavorare.

 

Si può risolvere questo dilemma trovando una “terza via”, oppure…?

Dipende. L’idea di base è che se la persona riesce a percepire che lui o lei ha un dilemma può trovare la soluzione. Io come terapeuta non so quale sia la soluzione migliore del dilemma, perciò metto il paziente nelle condizioni di trovare la soluzione migliore per lui o lei. Ed è diverso per ognuno. Talvolta le persone non cambiano molto, ma risolvono il loro dilemma.

 

Il che ci riporta al corollario della scelta[6].

Si, esattamente.

 

Professor Feixas, grazie del suo tempo.

Grazie a lei.

 

Note

  1. L’intervista è stata svolta il 16 Luglio 2015 durante il XXI International Congress on Personal Construct Psychology ad Hatfield (UK).
  2. The interview was conducted during the XXI International Congress on Personal Construct Psychology (16th July 2015, Hatfield, UK).
  3. Cognitive Behavioral Therapy, in italiano Terapia Congitivo Comportamentale.
  4. Teoria dei Costrutti Personali. (n.d.r.)
  5. Cfr. Hinkle, D. (2015). Il cambiamento dei costrutti personali dal punto di vista di una teoria delle implicazioni di costrutto. Dissertazione presentata a parziale completamento dei requisiti per il dottorato in filosofia nella Graduate School della Ohio State University. Rivista Italiana di Costruttivismo, 3(1), pp. 93-128. (n.d.r.)
  6. “Una persona sceglie per sé quell’alternativa di un costrutto dicotomizzato per mezzo della quale anticipa la maggiore possibilità di elaborazione del suo sistema” (Kelly, 1991a, p.64). (n.d.r.)