Tempo di lettura stimato: 7 minuti
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Editoriale

di

Chiara Centomo

Caporedattrice

Abstract

DOI:

10.69995/GQZS1531

Fin dai primi numeri della Rivista Italiana di Costruttivismo ci siamo chiesti che cosa voglia dire comunicare all’interno di una rivista scientifica e, in particolare, cosa significhi farlo in ottica costruttivista. Anno dopo anno, articolo dopo articolo, abbiamo cercato di dare forma al nostro progetto editoriale[1], senza rinunciare a confrontarci con il resto del panorama locale e internazionale.

Spegnendo le candeline del nostro quinto anno di vita – cinque anni in cui come rivista, come redazione e come persone siamo cresciuti e ci siamo trasformati più volte – è proprio la parola comunicazione che mi ronza in testa. Il motivo va probabilmente ricondotto al fatto che in questo arco di tempo molti dei nostri sforzi sono stati tesi a ripulirla da un fraintendimento di fondo da cui, peraltro, non ci sentiamo del tutto immuni neanche noi. Allo stesso tempo, però, non riguarda solo “noi della RIC” o “noi costruttivisti”.

In tutte le discipline scientifiche quello della comunicazione rappresenta un territorio assai vasto e variegato, in continua evoluzione. Non si tratta, come pensano in tanti, di qualcosa di accessorio, di un “di più” che viene fatto al termine di uno studio, tra colleghi e/o pensando al grande pubblico. Parlare di scienza, nei suoi vari ambiti di pertinenza, entra a far parte del processo generativo della disciplina stessa, e non solo perché rendere pubblici ipotesi, risultati ed esperimenti permette ai settori di volta in volta coinvolti di arricchirsi e progredire, senza dover rifare ogni volta tutto daccapo o tutto da soli, rischiando di perdersi in un’autoreferenzialità sterile e cieca.

Non c’è scienza senza un’opera di divulgazione che, mentre ne parla, crei i presupposti e le direzioni per la sua prosecuzione. Utilizzo il termine “divulgazione” nel senso più ampio, consapevole che nel linguaggio quotidiano è spesso riferito all’intenzione di educare, istruire e/o arricchire il bagaglio di conoscenze delle persone che non hanno una preparazione specifica in una certa disciplina. Spesso questo viene fatto traducendo il linguaggio specialistico (talvolta effettivamente accessibile solo dai colleghi) in una narrazione comprensibile e accattivante, non di rado ironica o avventurosa. Se per molto tempo l’articolo scientifico è stato, insieme ai convegni di settore, la modalità principale di comunicazione delle idee, in particolare negli ultimi anni c’è stata una vera e propria esplosione di contributi in quest’altro filone, dovuta anche a una nuova consapevolezza da parte della comunità scientifica che la compliance di un ampio pubblico di non addetti ai lavori non solo è necessaria perché le scoperte e i progressi possano avere un’effettiva ricaduta positiva sulla salute, sul benessere e sulla qualità della vita delle persone, ma anche per la prosecuzione dei progetti di ricerca stessi e la scelta di quelli futuri.

Tradizionalmente esiste una divisione netta tra questo tipo di divulgazione e il format più classico dell’articolo scientifico, onore e onere di tutti i ricercatori e studiosi del mondo e sicuramente diverso nella forma e nell’intenzione comunicativa. Le abilità da mettere in campo nell’uno e nell’altro caso sono estremamente differenti e non è detto che un bravo scienziato sia altrettanto capace nell’opera di

divulgazione, o viceversa. Nella comunità scientifica pare una mosca bianca J. D. Watson, famoso insieme a F. Crick per la scoperta della struttura del DNA: egli scelse di pubblicare sia articoli in prestigiose riviste scientifiche, sia un libro avventuroso e divertente – La doppia elica – in cui precorrendo i tempi della divulgazione scientifica “di massa” raccontò la storia delle sue ricerche (Carrada, 2005). Che la completa paternità della scoperta fosse poi messa in discussione dai rumors dei laboratori britannici – fondati o meno che fossero – pare validare l’idea che tra la rigorosità delle forme di condivisione della scienza e la narrazione destinata al pubblico non esperto ci debba essere una cesura educata ma netta.

Viene da chiedersi se sia proprio così, se l’evidenza del dato, l’uso di una retorica non ambigua e un linguaggio specialistico tipici di un certo tipo di pubblicazioni non abbiano proprio niente a che fare con la forza narrativa di altri tipi di testi, che pure di scienza parlano. Dal punto di vista costruttivista, in particolare, questa dicotomia sembra avere poco senso: che in un caso si lascino parlare i meri fatti e nell’altro le persone, con i loro dilemmi, i loro limiti e l’impossibilità di tener sotto controllo tutte le variabili della vita, non appare più così categorico se ricordiamo, alla Maturana e Varela (1987, p. 27), che “ogni cosa detta è detta da qualcuno”. In altre parole, sia nel caso della pubblicazione scientifica che in quella divulgativa abbiamo a che fare con una narrazione. Semmai quello che cambia, e che rende un tipo di narrazione più adatta a un contesto piuttosto che a un altro, è il suo destinatario, reale o immaginato che sia. Giocando con le parole, potremmo dire anche che “ogni cosa detta è detta per qualcuno”.

Il lettore costruttivista saprà bene che narrazione, all’interno di questa matrice epistemologica, non ha niente a che fare con le storie, le favole o le invenzioni. Si riferisce al modo in cui gli esseri umani pensano, formulano ipotesi e, nella scienza come nella vita, cercano di testare la loro validità. Sono affascinanti i racconti di come gli studiosi sono arrivati a certe scoperte scientifiche, perché ci fanno toccare con mano che quasi mai esse sono il risultato di idee asettiche, autogeneratesi nella mente del ricercatore e poi semplicemente testate in laboratorio. Tali scoperte c’entrano molto di più, invece, con le relazioni tra le persone (collaborative, conflittuali o competitive che siano), gli incontri più o meno casuali, gli eventi fortuiti, le deviazioni da quanto programmato. Per dirla con le parole di Von Glasersfeld (Von Foerster & Von Glasersfeld, 2001, p. 72), “sulla scena viene praticata la scienza, e quando gli attori si incontrano, dopo lo spettacolo, esce fuori il mondo retrostante, gli uomini dietro lo spettacolo”. I parametri tradizionali di scientificità, la peer review e gli altri criteri del processo editoriale sono e restano una garanzia condivisa adottata a livello internazionale, ma è in questo backstage che il ricercatore passa la maggior parte del suo tempo dando corpo alla sua passione e al suo lavoro che poi, in un processo sempre in divenire, confluisce in quel calderone fumante e dinamico che chiamiamo scienza.

Ricucire i vari aspetti della comunicazione scientifica non è importante soltanto dal punto di vista epistemologico. Se un tempo allo scienziato si credeva sulla parola, oggi al pubblico consenso è sempre più legata anche la possibilità che un progetto veda la luce o continui a vivere, mantenendo i propri finanziamenti. In un mondo in cui l’appoggio sociale diventa sempre più spesso presupposto di quello politico, appare essenziale trovare modi efficaci di rendere visibili i propri progetti e le proprie idee, anche quando si pensa che non ce ne sarebbe bisogno. Moltissimi sviluppi della medicina, che oggi diamo per scontati e che sono alla base di impensabili miglioramenti nelle aspettative e nella qualità della vita di un numero incalcolabile di persone, sono stati supportati e resi possibili da intensive e pazienti campagne comunicative. Possiamo trovare moltissimi esempi, sia a livello locale che nazionale, anche nelle scienze umane e sociali: quando un tema diventa significativo per l’opinione pubblica, spesso anche perché rimbalzato e rinforzato dai media, cominciano a fiorire approfondimenti, ricerche, progetti, disegni di legge, piani di intervento. Resta magari sullo sfondo qualcos’altro di altrettanto rilevante e utile, ma frutto di una storia diversa di coinvolgimento dei vari soggetti sociali che costantemente sono impegnati a rinegoziare e ridefinire la narrazione emergente.

A questo punto gli scenari possibili sono almeno un paio: o si gioca a chi grida più forte, in una specie di “selezione culturale” della ricerca a stampo darwiniano, o ci si ritira nel proprio laboratorio/studio, alzando bandiera bianca, sopravvivendo finché si può. C’è anche un’altra possibilità: partecipare attivamente al processo di costruzione e di contrattazione del sapere scientifico continuando a fare ricerca e a diffondere “buona scienza”. Soprattutto nell’ambito delle discipline umane, dove è più frequente la popolazione che lavora al di fuori dei canali istituzionali pubblici e privati, questa responsabilità vale tanto per il ricercatore quanto per il singolo professionista che, a fronte di quanto detto, non può dirsi esente dal processo di generazione e di co-costruzione delle progettualità scientifiche e sociali. Si tratta di un vero e proprio

impegno etico, profondamente interconnesso con la propria identità personale e professionale: lo stesso impegno di cui, pur all’interno di un discorso di più ampio respiro, ci parla anche l’articolo di Massimo Giliberto con cui apriamo questo numero.

Non si è mai veramente fuori dal “gioco” della scienza: in questo primo quinquennio della rivista anche noi speriamo di aver trasmesso il nostro impegno e la nostra passione nel prendervi parte attraverso una proposta di valore e un contributo concreto.

 

Bibliografia

Carrada, G. (2005). Comunicare la scienza. Kit di sopravvivenza per ricercatori. Disponibile su https://www.mestierediscrivere.com/uploads/files/comunicarelascienza.pdf

Maturana, H. R., & Varela, F. J. (1987).The tree of knowledge. The biological roots of human understanding. Shambhala: Boston & London.

Von Foerster, H., & Von Glasersfeld, E. (2001). Come ci si inventa. Storie, buone ragioni ed entusiasmi di due responsabili dell’eresia costruttivista. Odradek: Roma.

  1. Si veda l’Editoriale del Vol 2, n. 1 (2014) e il sito web della rivista: https://www.rivistacostruttivismo.it/chi-siamo/902-2/ ↑