Il gruppo prende avvio nella primavera del 2016 da un focus group[1] sul tema disabilità ed epistemologia costruttivista e su come la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) sia utile nella pratica quotidiana a livello clinico e non. A tale appuntamento hanno avuto modo di conoscersi tra loro 11 persone (psicoterapeuti o specializzandi) con una buona conoscenza della teoria dei costrutti personali di Kelly e con esperienze professionali specifiche nell’ambito della disabilità.
Il focus group è stato condotto da due moderatrici, psicoterapeute ad indirizzo costruttivista.
Di seguito vengono riportate le fasi intercorse durante il focus group, le domande che ci hanno guidato e il personale lavoro di co-costruzione che ha avuto luogo. È un lavoro corale per cui ringraziamo tutti i partecipanti che qui non compaiono come autori.
1 .Cosa vi viene in mente quando pensate alla disabilità?
Poiché ciascuno di noi plasma le proprie modalità di vedere il mondo in base alle proprie esperienze, le chiavi di lettura per rappresentare la propria realtà sono molteplici.
Pensando alla complessità che lo stesso termine “disabilità” racchiude, molte sono le sfaccettature che vi si collegano, anche a seconda della situazione e del contesto in cui ci si trova a considerarla.
Partendo da una iniziale riflessione condivisa su come questo gruppo costruisce la “disabilità” e cosa tendiamo ad associare a tale termine abbiamo cercato di comprendere, a livello astratto, i significati condivisi: sono emersi elementi che fanno maggiormente riferimento ai limiti portati dalla disabilità, piuttosto che alle possibilità possedute dalla persona.
Questa visione porta a vedere nell’immediato nella disabilità: un senso di fatica, dei genitori in difficoltà, il giudizio sociale, la mancanza di scelta e la necessità di un continuo supporto.
La PCP, invece, ci permette di mettere in primo piano la costruzione di “persona” eventualmente portatrice di disabilità facendo emergere ulteriori elementi che rimandano più ad un concetto di possibilità non viste, quali: sfida, integrazione sociale, rapporti genuini, divertimento, spontaneità, autodeterminazione e curiosità come possibilità di comprendere e di scoprire strade alternative per entrare in relazione con l’altro.
2. In opposizione a tutto questo, cosa ci viene in mente?
Nel tentativo di aumentare la nostra comprensione sul tema e la nostra socialità reciproca, abbiamo esplorato maggiormente più elementi possibili. Nel fare questo abbiamo avuto l’impressione di aver trovato nel termine “disabilità” un costrutto senza polo opposto sommerso.
Per facilitare la nostra ricerca del polo opposto ci siamo focalizzati sui singoli elementi sopra elicitati e ci siamo chiesti: “Mancanza di scelta secondo chi, o per chi? Responsabilità per chi? Sfida per chi? E l’autodeterminazione per chi?”.
Se ad esempio guardiamo alla disabilità in termini di possibile patologia, l’espressione “cronicità” cambia di significato in base a chi la riferiamo. Interessante sarebbe anche comprendere la cronicità secondo la visione della persona con disabilità, che potrebbe essere percepita ancora diversamente.
Così anche per il termine frustrazione, successivamente proposto, è utile chiederci “in chi la vediamo?” e “dove la vediamo?”.
La Psicologia dei Costrutti Personali ci permette di approcciarci a queste tematiche considerando che ci sono sempre diverse costruzioni alternative disponibili fra cui scegliere per interpretare il mondo.
3. Che risposte avrebbero dato chi non lavora in quest’ambito?
Trovando difficile la nostra ricerca degli “opposti” abbiamo esplorato ulteriormente il campo tentando di allontanarci dalla nostra posizione e ponendoci nel punto di vista di chi non lavora con persone con disabilità: “Loro cosa penserebbero?”.
Secondo l’opinione comune la disabilità potrebbe essere pensata in termini di normale e autonomo opposto a dis-abile, sano contrapposto a malato.
Presto ci siamo resi conto di come stavamo ponendo attenzione ancora una volta alle dimensioni deficitarie della disabilità, perdendo di vista il concetto stesso di persona. Come se la persona con disabilità diventasse la sua disabilità.
La disabilità diventa, anche da questo punto di osservazione, sinonimo di menomazione, uno scostamento più o meno significativo dalla media della normalità, una abilità non posseduta, una perdita di una funzione. Posizionando lungo un continuum tali limitazioni avremo: disabile-abile, perdita di una funzione (disabilità)-funzionalità, non normale-normale. In tutte queste declinazioni, vi è la necessità di descrivere un fenomeno oggettivo e visibile, che determina mancanze e deficit, costruzione di cui riconosciamo l’esistenza nel nostro tessuto sociale.
Nel dire che una determinata persona è affetta da “Sindrome di Down, o Sindrome dell’X fragile…”, facciamo riferimento a sintomi ed espressioni riconoscibili nei termini del “contenuto” dell’esperienza. Tratti comuni possono essere ritrovati nella maggioranza dei casi, ma se guardiamo solo questo aspetto non stiamo descrivendo quella persona, stiamo solo usando solo un’etichetta.
È come se nella disabilità emergesse solo una parte organica, fisica e genetica, senza considerare i significati della persona, che rimangono spesso sommersi.
Nella nostra ricerca del polo opposto ci è parso che ogni proposta mettesse una “pezza sopra una toppa”, con termini seppur accettati perché politicamente corretti, anche se poco rispettosi dell’esperienza individuale.
Abbiamo perciò concluso che la disabilità non è una caratteristica od un tratto della persona, ma una condizione: chi lo è, chi non lo è, chi può esserlo per un determinato periodo di tempo e chi può diventarlo. Da una parte abbiamo l’idea che vi sia una “disabilità”, intesa come tutta una serie di problematiche che possono influire più o meno pesantemente sulla condizione di vita di una persona, dall’altra abbiamo di fronte a noi un individuo, il suo modo di fare esperienza, la sua soggettività con tutte le caratteristiche di una “persona”.
Partire da una visione della “disabilità” centrata sulle costruzioni di significato, alla riscoperta della individualità, chiarisce la necessità di “trascendere l’ovvio” e di sostituire a questo il senso della comprensione e delle possibilità non viste.
4. Cosa incarniamo della PCP nel lavoro con la disabilità e quali aspetti della teoria ci aiutano quotidianamente nel nostro lavoro?
Innanzitutto, data l’ampia portata euristica della teoria, è stato possibile vedere come la Psicologia dei Costrutti Personali sia spendibile con diversi tipi di disabilità. Essendo una teoria che cerca di ridefinire la psicologia come psicologia delle persone, la PCP possiede un campo di pertinenza molto ampio. Spetterà poi a chi la utilizza fornire un contenuto per cui possa avere un senso (Bannister & Fransella, 1986). In questi termini sottolineiamo l’importanza di poterci appellare ad una teoria vuota, una cornice di riferimento che sia possibile “riempire” con le nostre esperienze personali. Non abbiamo pertanto una “teoria costruttivista specifica per la disabilità” ma, nella misura in cui possiamo declinare la teoria arricchendola con i significati di persone diverse, riteniamo che lo stesso presupposto sia valido quando ci relazioniamo con persone con disabilità.
Crediamo che la PCP risponda ad un bisogno condiviso di andare oltre l’etichetta diagnostica, che troppo spesso diventa un biglietto da visita fuorviante. Ci chiediamo infatti “cos’altro c’è da conoscere di questa persona?” oltre a sapere “quanto è grave la sua disabilità e se accompagnata o meno da ritardo mentale”. Nuove domande ci aiutano a formulare narrazioni alternative a quella dominante che ci paralizza nella costruzione normalità vs disabilità, relegando l’altro in una posizione di inferiorità nella relazione con educatori, operatori o terapeuti.
Al contrario, l’alternativismo costruttivo legittima il nostro interesse per un punto di vista diverso dal proprio, facendoci interrogare sui processi di costruzione dell’altro (corollario della socialità). Uscendo dalla dicotomia giusto vs sbagliato si tratta quindi di capire perché per la persona con disabilità, in quel momento, risulti elaborativa una determinata scelta. Giocando con l’altro una relazione di ruolo, l’interesse è rivolto ai suoi significati, in uno “scambio alla pari”, dove si creano maggiori possibilità di movimento. Questo diviene possibile nella misura in cui l’attenzione verso l’altro rispecchi un interesse genuino nei suoi confronti, riconoscendogli la legittimità delle proprie scelte senza necessariamente interpretarle come esito di una patologia.
L’approccio credulo che incarniamo nella psicoterapia diventa dunque altrettanto importante nel lavoro con persone con la disabilità laddove, riconoscendo loro la possibilità di autodeterminarsi, gli si restituisce una dignità come “persone”. In una relazione simile ci accorgiamo di imparare molto anche noi: spesso vi è l’esigenza di creare un linguaggio condiviso che presuppone un’attenzione particolare rivolta ad aspetti molto pratici e fisici. Questo vocabolario comune ci permette di vedere l’altro in modo ancor più proposizionale, alla luce di tutte le sue “risorse” e al di là delle “mancanze”.
“Avete mai partecipato ad una cena per ciechi? È un’esperienza fortissima che richiede una nuova bussola per orientarsi. Mettersi nella condizione dell’altro, diversa da tutto ciò a cui siamo quotidianamente abituati, permette di vedere tutta una serie di cose a cui non siamo soliti prestare attenzione.”[2].
Lavorare in questo settore implica pertanto anche un importante esercizio di autoriflessività. Ci richiede inoltre una disponibilità a procedere per continui allentamenti e restringimenti al fine di prendere parte al mondo dell’altro e, viceversa, renderlo partecipe della nostra realtà attraverso ripetuti scambi creativi.
5. Come usate la PCP per lavorare con le strutture o con la rete?
Il primo grande insegnamento che la PCP può dare riguarda la lettura e la comprensione (Mair, 1998) in termini di “scelte” (Kelly, 1994/1955) di tutti gli attori coinvolti nell’entrare in relazione con una persona con una qualche disabilità. Diverse sono, infatti, le figure che sia nella vita quotidiana che nella realizzazione di progetti specifici entrano in relazione tra loro e con la persona con disabilità. Genitori, altri familiari, medici, psicologi, insegnanti, educatori e altre figure professionali operano costantemente delle scelte nell’instaurare una relazione. Cercare di comprendere il ruolo che essi hanno deciso di giocare, sulla base del quale orientano le proprie scelte, cercando di comprendere ogni singolo punto di vista, sembra essere il modo più utile e rispettoso per lavorare con la persona con disabilità e con il contesto che la circonda, di cui noi stessi facciamo parte.
In quest’ottica assume una rilevanza fondamentale l’esplicitazione e la comprensione delle anticipazioni delle figure coinvolte ed in particolare dei genitori (Davis & Cunningham, 1985), soprattutto nel caso in cui si lavori con i minori. È utile agire socialità (Kelly, 1994/1955) nei confronti delle anticipazioni che guidano la costruzione della disabilità di una persona da parte del contesto. Questo appare dunque un modo utile non solo nella pianificazione del lavoro con la persona con disabilità ma anche per quello con il contesto stesso in quanto permette di mantenere un approccio invitativo e restituisce agentività e responsabilità a tutti gli attori coinvolti.
Tutto ciò, inoltre, risulta utile nella misura in cui può favorire una loro costruzione del disabile come persona che agisce sulla base di anticipazioni. Diversamente, comportamenti che, ad esempio, agli occhi dell’operatore vanno nella direzione opposta a quella auspicata rischiano di essere interpretati alla luce di spiegazioni, quali: “lo fanno apposta”. Una simile lettura finisce solamente per alimentare la frustrazione dell’operatore unitamente agli ostili tentativi di raggiungere uno specifico obiettivo.
Approcciarsi a questo tipo di lavoro, in un’ottica PCP, ha permesso a molti di noi di prendere le distanze da quelle modalità di lavoro (presenti nelle narrazioni di molti dei partecipanti al focus group) per cui il contesto attorno alla persona con disabilità può o affidarsi alla professionalità altrui (come nel caso dei genitori o di altri familiari) o “eseguire” la soluzione considerata vincente (come nel caso dei professionisti a vario titolo) in modo impersonale e deresponsabilizzato. In questo lavoro noi per primi dobbiamo essere disposti a mettere in primo piano la relazione che non ammette metodi standardizzati ma, al contrario, cresce e si modifica costantemente dentro la conoscenza della persona, proprio grazie alla sua “diversità”.
Infine, considerare il contesto come validatore/invalidatore degli esperimenti che la persona può mettere in campo, ci ha portato anche a considerare come possa essere particolarmente utile “trascendere l’ovvio” e mantenere uno sguardo costantemente sovraordinato sulla persona e sull’ambiente entro il quale si muove. Questo mette in luce i possibili movimenti congiunti e le possibili aree di sperimentazione per la persona nei confronti del contesto e, viceversa, per il contesto nei confronti della persona.
6. Cosa è importante per lavorare “bene” nei nostri termini?
Ci sono molti punti cardine della PCP di Kelly che noi, operatori a contatto con le persone con disabilità, riteniamo importanti per poter “sentire” di lavorare in modo utile.
Alcuni di questi punti, sono discussi nei passi precedenti e, quindi, ora ci limiteremo ad esporre quanto emerso durante il focus group circa l’autoriflessività e la relazione nei termini costruttivisti.
Un aspetto che sicuramente riteniamo fondamentale è l’interrogarsi, con autoriflessività e ricorsività, sul perché abbiamo scelto di lavorare in questo settore, su quali aspetti di noi siano coinvolti maggiormente e in che termini.
Questa attività di posizionamento consapevole può rivelarsi utile per esplicitare sia i presupposti teorici della PCP sia quelli sottesi ai significati personali. Grazie a questi ultimi scegliamo di pensare alla persona in un modo piuttosto che in un altro, ipotizziamo strade alternative da percorrere e, quindi, agiamo di conseguenza.
Inoltre, riteniamo che sia utile pensarsi non come detentori di verità assolute e nemmeno particolari ma come ricercatori attivi nel formulare delle ipotesi verificabili nel qui ed ora di quella relazione interattiva che stiamo vivendo insieme alla persona con disabilità (Bannister & Fransella, 1986).
Per tutti questi motivi, la relazione, nei termini costruttivisti, non intende svolgere una funzione impositiva, seppur accogliente, ma piuttosto si identifica in una funzione esplorativa ed indicativa: essa costituisce un luogo in divenire ove entrambi i partecipanti agiscono e cambiano, attraverso l’esperienza di nuove possibilità e di ruoli diversi.
Nel domandarci cosa sia importante per lavorare bene in questo ambito, sono emerse espressioni quali:
“La creatività, l’immediatezza con cui ci si avvicina e anche il divertimento …”
“Non dare niente per scontato e quindi imparare noi stessi come persone …”
“Potersi mettere comunque in un’idea di scoperta, nei panni dell’altro …”
“Essere consapevoli di vivere una relazione caratterizzata da alcuni momenti in cui puoi fare dei movimenti in una certa direzione e da altri momenti in cui i movimenti li fai in un’altra direzione: relazione che però ti fa sentire perennemente sul pezzo e in un rapporto costruttivo …”
“Cercare di capire quali altre cose (le persone con disabilità) hanno oltre alla mancanza, cos’altro c’è …”
“Una relazione che fa la differenza, che apre alla possibilità che la persona cominci a pensarsi diversamente – Non sono la ragazzina con il ritardo mentale, la persona che ho davanti non mi guarda con quello sguardo lì, non parte da quel presupposto nel relazionarsi con me – …”.
La relazione, così come la intendiamo, richiama le argomentazioni di Maturana e Varela sull’accoppiamento strutturale, indicanti “l’originaria e continua interazione con il mondo dell’esperienza in cui incontriamo immediatamente l’altro come validatore, (…) l’alterità è il banco di prova delle nostre idee sul mondo” (Armezzani, 2004, p. 30).
Questi presupposti implicano che il nostro lavoro insieme alla persona con disabilità venga verificato attraverso dimensioni come quella del rispetto, dell’ascolto, della conoscenza, della consensualità e dell’utilità per la persona e che, al contrario, non sia necessario valutarlo attraverso criteri, più o meno standardizzati, di validità e/o efficacia vs inefficacia.
Si intuisce che tale percorso non sia facile e nemmeno scorrevole. Questo perché esso coinvolge l’operatore in tutta la sua formazione, passata presente e futura, e nel suo interfacciarsi con la rete, ove i linguaggi e i significati sono molteplici e per lo più diversi.
Per tale ragione, abbiamo tutti concordato sul riconoscerci “sognatori ostili”, intendendo con tale espressione sia che abbiamo ben presente quanto il nostro essere aggressivi nel nostro ruolo da professionisti possa produrre un cambiamento anche a fronte delle tante difficoltà, sia, anche, che il rischio che corriamo è quello di cadere in alcune forme di concretismo che potrebbero portarci a ricercare, ostilmente, il cambiamento ad ogni costo, senza considerare null’altro.
7. Cosa ci manca al momento attuale per lavorare “bene” nei nostri termini?
Le osservazioni su cosa manca per lavorare bene nei nostri termini si sono concentrate prevalentemente sulla necessità di favorire comunanza e socialità non solo con la persona con cui lavoriamo ma anche con la rete, rappresentata dai colleghi, dalle strutture e dalle famiglie.
Riteniamo che ciò sia importante, innanzitutto, per “restituire responsabilità ai diversi attori coinvolti…”[3] e, in secondo luogo per evitare quelle situazioni, purtroppo non rare, in cui i diversi linguaggi rappresentano barriere e gli obiettivi rischiano di rimanere talvolta poco chiari o non condivisi.
La difficoltà di lavorare in rete, comune a molti di noi partecipanti al focus group viene spesso collegata ad un’esperienza di “frustrazione” ma, allo stesso tempo, sembra costituire una sfida a cui dedicarsi, con la convinzione che essa possa costituire una preziosa opportunità di conoscenza.
La PCP, come già detto, è una teoria completa ed articolata ma vuota perché descrive e spiega i processi attraverso cui la persona fa esperienza del mondo mentre i contenuti, volutamente, sono tralasciati perché ognuno li costruisce in modo personale.
Relativamente a questo aspetto, alla fine del focus group, è emersa una significativa riflessione circa i processi e i contenuti; infatti, pur riconoscendo l’importanza fondamentale di conoscere e lavorare per processi, molti di noi sentono la necessità di costruire più contenuti e prassi condivise:
“Il fatto di porre l’accento sui processi ci porta a vedere i processi e i contenuti come due poli di un costrutto e quindi se mi occupo dei processi i contenuti li lascio da parte. E forse, invece, l’attenzione che potremmo porre in questo tipo di condivisioni è proprio quello di ragionare in termini di – e i processi e i contenuti – perché i contenuti sono quelle cose attraverso cui mettiamo in atto dei processi e possiamo anche pensarli come dei contenuti in evoluzione. Perché penso che molte cose non siano state scritte proprio perché scriverle in termini di contenuti specifici sembra di venire meno ai presupposti.”[4].
8. Quali sono i rischi/limiti dell’applicazione della PCP alla lettura della disabilità?
Tutti siamo d’accordo nel ritenere che non si possa parlare di “rischi” nel senso letterale della parola ma, piuttosto, di un uso non consapevole e superficiale della teoria stessa. E allora, durante il focus group, si parla anche delle insidie in cui, a nostro avviso, è facile cadere.
Possiamo pensare, allora, all’approccio credulo e al “rischio” di praticare un approccio credulone.
Per approccio credulo intendiamo il tentativo di assumere temporaneamente la prospettiva dell’altro e di vedere il mondo con gli occhi dell’altro, cercando così di comprendere il suo sistema di costrutti, liberi da qualsiasi dimensione valoriale e di giudizio.
Si potrebbe obiettare che, facendo queste scelte teoriche e metodologiche, si corra il rischio di cadere nel relativismo estremo. E ciò, effettivamente, potrebbe succedere nel caso si utilizzasse un approccio che noi chiamiamo “credulone”: esso consiste nell’attribuire un’eccessiva importanza ai contenuti immediati portati dalla persona, omettendo quell’importante attività di sovra-ordinazione necessaria per comprendere il sistema di costrutti più ampio della persona e i processi attraverso cui essa fa esperienza e conosce il suo mondo.
Infine pensiamo che anche l’ostilità possa rivelarsi un’altra nostra nemica insidiosa.
L’ostilità consiste nella non disponibilità a riconoscere l’invalidazione delle nostre azioni: lavorando con le persone con disabilità, ad esempio, può succedere di non mettere in discussione le nostre ipotesi iniziali nel momento in cui ci accorgiamo che gli obiettivi perseguiti non sono utili alla persona, sono di una portata eccessiva per la stessa o, anche, rischiano di non essere compresi e sostenuti dal suo contesto di vita. Tenere sempre alta l’attenzione su questo aspetto ci permette di concentrarci sul “lavoro con una persona”, senza rischiare di finire per “lavorare su una persona”, anche partendo da presupposti diversi.
9. Quali potrebbero essere le costruzioni sovraordinate della nostra visione?
A conclusione dei lavori abbiamo individuato quali dimensioni possono rappresentare le nostre costruzioni sovraordinate, che ci permettono di orientare le nostre anticipazioni e di capire come in alcune condizioni la nostra esperienza può essere incongrua e/o conflittuale, ma sopratutto che rappresentano delle possibili “coordinate” per il nostro lavoro.
Nella disabilità riteniamo che la relazione e l’importanza della co-costruzione siano fondamentali per il rispetto della persona, intesa nel suo insieme come sistema complesso, dotato di una natura processuale.
In generale ogni essere umano esercita la peculiare capacità di predire e controllare gli eventi, attribuendo ad essi un significato, attraverso la costruzione di un sistema organizzato di costrutti personali “che costituiscono la modalità soggettiva, unica e irripetibile attraverso la quale ciascuno elabora la propria esperienza” (Armezzani, Grimaldi & Pezzullo, 2003).
Rispetto a questi elementi, possiamo affermare che la teoria della personalità PCP non ha bisogno in sé di una declinazione particolare, in quanto essa richiama principalmente al concetto di persona e individuo.
Nel nostro modo di costruire gli eventi, si inseriscono una varietà di modi unici: comprendere questa unicità di costruzione significa cercare effettivamente di valutare come la persona ha vissuto le sue esperienze, il che sarà sempre del tutto peculiare e singolare.
In tal senso ritorna nelle nostre riflessioni l’importanza di considerare i processi e i contenuti in modo proposizionale e non come poli opposti, sia nel lavoro con la persone che con la rete.
L’interazione tra due persone è possibile se vi è una comprensione reciproca. In merito a quest’ultimo aspetto, ritorniamo alla centralità che nella teoria dei costrutti personali assume il corollario della socialità. Questo non significa che se due persone sono completamente diverse non possano comprendere il modo in cui ciascuna costruisce gli eventi. Perché si possa entrare in relazione con un’altra persona non è strettamente necessario che questa sia simile a noi. Occorre, invece, assumere il suo punto di vista, “mettersi nei suoi panni”, seppur molto diversi dai nostri, guardare il mondo attraverso i suoi “occhi”.
Allo stesso tempo, ciò implica anche l’assunzione di una relazione di ruolo, e un senso di responsabilità di ciò che facciamo. Quello che ci si aspetta da uno operatore è la capacità di comprendere i problemi e le difficoltà di persone in situazioni di disagio e cogliere come interpretino la realtà. Prima di attivare un qualsiasi intervento, bisogna sapere cosa proporre e questo è possibile solo capendo come “l’altro” costruisce la sua realtà. Diversamente, le nostre proposte potrebbero risultare incomprensibili per la persona a cui le proponiamo.
Nella prospettiva di Kelly, una persona è diversa dall’altra non solo perché ha vissuto esperienze o ha affrontato eventi diversi ma, soprattutto, perché attribuisce un diverso significato alle stesse esperienze e agli stessi eventi. Da qui l’importanza di una maggiore integrazione e un lavoro di rete, cosa non semplice data la difficoltà del rapporto professionale tra operatori di vari servizi nel concordare sulle strategie d’intervento, nell’usare un linguaggio comune, nel perseguire gli stessi obiettivi.
Comprendere i costrutti di un’altra persona e quale sia il significato sottostante dà la possibilità di capirsi ed aiutarsi.
Spesso però l’interpretazione della propria esperienza come “fatto reale” preclude l’apertura verso le proposte altrui. Questo è uno dei motivi per cui agire con autoriflessività nel proprio lavoro è necessario e indispensabile.
La permeabilità dei costrutti è una risorsa importante soprattutto a fronte di situazioni nuove: se disponiamo di costrutti permeabili, possiamo usarli per attribuire un senso a esperienze che ci appaiono non familiari e per questo, a volte, difficilmente comprensibili; se, invece, ci muoviamo sugli assi di costrutti impermeabili, la scelta potrebbe essere quella di evitare situazioni nuove o di doverle costringere entro il nostro rigido sistema di riferimento.
Abbiamo concluso che per non cadere nell’ovvio e nel senso comune, è necessario porsi continue domande, che potrebbero aiutarci a tracciare le nostre coordinate, consapevoli del fatto che il posizionarci in un certo modo, canalizza il nostro lavoro. Avere chiari quali siano i nostri punti di partenza o le definizioni che noi scegliamo di voler o non voler accettare, ci aiuta a capire quale sia per noi la strada percorribile.
Dopo questa esperienza del focus group i presenti hanno deciso di organizzare altri incontri per elaborare ulteriormente e con varie metodologie le costruzioni emerse. Abbiamo individuato quattro assi di approfondimento: la formazione ad operatori sociali e sanitari; la supervisione a progetti e casi clinici; la ricerca nell’ambito della disabilità; la divulgazione della teoria costruttivista declinata in tale ambito e le buone prassi.
Attualmente il gruppo conta circa 20 partecipanti ed è in via di costruzione e ridefinizione continua nelle modalità di funzionamento; ognuno partecipa agli incontri organizzati secondo il proprio interesse e tutti sono liberi di pensare e di organizzare proposte per il gruppo.
Bibliografia
Kelly, G. A. (2004). La psicologia dei costrutti personali. Teoria e personalità. Milano: Raffaello Cortina Editore. (Pubblicazione originale 1955).
Mair, M. (1998). La psicologia della comprensione di George Kelly: mettere in discussione la nostra comprensione, comprendere il nostro dubitare. In Chiari, G., & Nuzzo, M. L. (Eds.), Con gli occhi dell’altro. Il ruolo della comprensione empatica in psicologia e in psicoterapia costruttivista (p. 15-38). Padova: Unipress.
Armezzani, M. (2004). La prospettiva scientifica del costruttivismo. In M. Armezzani (Ed.), In prima persona. La prospettiva costruttivista nella ricerca psicologica (pp. 17-35). Milano: Il Saggiatore.
Armezzani, M., Grimaldi, F., & Pezzullo, L. (2003). Tecniche costruttiviste per la diagnosi psicologica. Milano: McGraw-Hill.
Bannister, D., & Fransella, F. (1986). L’uomo ricercatore. Introduzione alla psicologia dei costrutti personali. Firenze: Martinelli.
Corrao, S. (2005). Il Focus Group. Milano: Franco Angeli
Note sugli autori
Federica Sandi
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa e psicoterapeuta ad orientamento costruttivista, Codidatta presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova e segretario del consiglio direttivo della Società Costruttivista Italiana. Da più di 15 anni si occupa di disabilità nei servizi residenziali e semi-residenziali del privato sociale, con percorsi di formazione e/o sostegno per operatori, famiglie e persone con disabilità. Collabora inoltre con l’Unione Italiana Ciechi ed Ipovedenti (UICI) in un progetto per il sostegno psicologico alle famiglie. Svolge attività di libero professionista con adulti.
Martina Bardin
Institute of Constructivist Psychology
Laureata in Psicologia Clinico-dinamica e Specializzanda presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Attualmente lavora in un Centro di Salute Mentale in qualità di infermiera. Ha precedentemente lavorato in reparti di medicina, geriatria, distretto socio-sanitari e casa di riposo. Interessata ai gruppi di psicoterapia, lavoro di equipe e alla disabilità fisica e mentale in genere.
Michela Bragaglia
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa sociale, consegue un dottorato di ricerca in Psicologia Sociale e della Personalità; durante il percorso universitario si interessa all’esperienza empatica e ai significati implicati.
Attualmente è una psicoterapeuta in formazione presso l’ICP (Institute of Constructivist Psychology), in Padova, e il suo interesse si è ampliato all’ambito della disabilità. Ha lavorato, e attualmente svolge un tirocinio formativo, presso alcune Cooperative Sociali rivolte all’inclusione sociale di persone adulte con disabilità e/o con disagio psicofisico.
Silvia Poiesi
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa e psicoterapeuta ad orientamento costruttivista, diplomata presso l’Institute of Constructivist Psychology. Durante il percorso formativo ha rivolto crescente attenzione agli ambiti età evolutiva e famiglia, con un’esperienza maturata soprattutto nel lavoro con bambini diagnosticati tra i Disturbi dello Spettro Autistico. A partire dal 2012 persegue una formazione specifica in quest’ambito e inizia a lavorare nel Servizio per l’Autismo della Cooperativa Sociale Azalea (Verona). Privatamente conduce percorsi di supporto psicologico rivolti ai famigliari di persone con la suddetta diagnosi.
Luisa Maria Padorno
Institute of Constructivist Psychology
Psicologa, perfezionata in Psicopatologia dell’Apprendimento (Master di secondo livello in “Psicopatologia dell’Apprendimento”, presso la facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Padova). Da diversi anni si occupa di età evolutiva e nello specifico di difficoltà scolastiche e Disturbi Specifici dell’Apprendimento, Disturbi dello Spettro Autistico e Disabilità. Attualmente prosegue anche il suo percorso di formazione in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova.
Vito Stoppa
Institute of Constructivist Psychology
È psicologo e specializzando presso l’Institute of Constructivist Psychology. Si è occupato di affettività e sessualità, lavorando con bambini con disabilità.
Note
- “Il focus group è una tecnica di rilevazione per la ricerca sociale basata sulla discussione tra un piccolo gruppo di persone, alla presenza di uno o più moderatori, focalizzata su un argomento che si vuole indagare in profondità” (Carrao, 2005, p. 25). ↑
- Trascrizione del contributo di uno dei partecipanti. ↑
- Trascrizione del contributo di uno dei partecipanti. ↑
- Trascrizione del contributo di uno dei partecipanti. ↑
Related posts:
- Using Research in Counselling and Psychotherapy
- Un vivido ritratto della Pcp. Intervista a Mary Frances
- Alpine Tales: un’esperienza di costruttivismo vissuto
- Quel luogo o tempo che sta di mezzo fra due termini
- RicercaINazione – Creare Reti
- La lunga marcia verso una teoria della personalità
- In principio era il ritmo
- Il primo risveglio
- Due inediti, tra accostamenti biblici, problemi tecnici e nuove prospettive applicative: una introduzione
- Freud oggi: considerazioni di indole metodologica