1. Le Indicazioni Nazionali: un’ipotesi condivisibile?
La scuola, luogo di istruzione ed educazione, ha bisogno di un disegno, un obiettivo, uno specifico progetto di uomo in sintonia con i tempi e con le necessità economico-sociali e culturali che questi esprimono.
Oggi, in Italia, questo progetto è espresso nel documento ministeriale “Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” del 2012 (da qui IN), che delinea la complessità dello sfondo in cui la scuola opera e indica le direzioni per lo sviluppo dei curricoli degli istituti secondari di secondo grado per arrivare a tratteggiare il ritratto di un bambino e poi di un adolescente nella prospettiva di quello che viene esplicitamente chiamato “nuovo umanesimo”.
Le pagine introduttive forniscono un quadro della complessità, della dinamicità e dell’accelerazione dei processi economici, sociali e culturali che hanno determinato, in un tempo molto breve, il passaggio da una situazione relativamente stabile e prevedibile ad un momento storico caratterizzato da rapidi cambiamenti e molteplici discontinuità anche nel mondo del lavoro. Sapere teorico e pratico diventano obsoleti nel volgere di pochi anni, diventa quindi fondamentale saper aggiornare e riorganizzare costantemente le proprie conoscenze e adattare la propria identità all’interno di società sempre più dinamiche, complesse, globalizzate e multiculturali.
Uno scenario che può rappresentare anche opportunità da cogliere, ma, per poterlo fare, occorre sapersi rapportare con l’incertezza che tutto ciò genera, avere strumenti cognitivi che permettano di orientarsi e dare senso alla varietà degli stimoli e delle esperienze che quotidianamente si presentano. L’obiettivo ultimo della scuola di formare cittadini in grado di partecipare consapevolmente alla costruzione di collettività più ampie e composite, a livello nazionale, europeo o mondiale, viene assunto dalle IN con la consapevolezza della difficoltà che l’interazione con culture diverse presenta in mancanza di strumenti culturali e cognitivi adeguati per comprenderle e metterle in relazione con la propria.
Le IN menzionano anche la fatica degli adulti nell’affrontare il compito dell’educazione, che si esprime anche nella difficoltà di presidiare le regole e i limiti (Damiano, 2004b; Andreoli, 2009; Pietropolli Charmet, 2010; Recalcati, 2014), necessari a chi cresce per costruire processi di identificazione e differenziazione, operazione che comporta la costruzione di un’intesa affatto scontata tra famiglie e scuola.
La costruzione dell’identità di un adolescente in formazione, da percorso lineare, assume in questo contesto forme segmentate e ondulari, rischiando la frammentazione e la rottura, quando occorrerebbe piuttosto un atteggiamento flessibile, capace di una costante evoluzione, in grado di trasformare questa complessità in capitale sociale, inteso come l’insieme di risorse economiche, umane e culturali attivabili da un individuo per raggiungere i propri obiettivi (Bourdieu, 1980).
L’organizzazione dei saperi che tradizionalmente viene insegnata a scuola mostra la sua inadeguatezza di fronte alla “irriducibile complessità degli oggetti di studio dei saperi stessi” (Bocchi & Ceruti, 2004, p.3); complessità che richiede inevitabilmente la rottura dei confini disciplinari per entrare in terreni meno definiti e certi, dove l’ibridamento diventa condizione essenziale per definire e risolvere nuovi problemi. Un approccio di questo tipo si scontra con l’idea diffusa “che le conoscenze non siano altro che un enorme insieme incoerente, utilmente suddivise in una miriade di microsettori, e che sia sufficiente una pattuglia di specialisti per ciascuno di essi per assicurare il progresso dell’umanità, in assenza di una cultura condivisa che vada al di là di una rudimentale alfabetizzazione” (Russo, 2008, p. 4).
Questa tendenza potrebbe portare, secondo l’autore, ad una scuola di massa fortemente dequalificata, da un lato, e dall’altro a percorsi formativi sempre più dilatati e settoriali per la riproduzione sociale dei vari gruppi di specialisti. Un processo di iperspecializzazione che andrebbe a scapito della capacità del singolo individuo di risolvere problemi, a fronte anche di un aumento quantitativo dei saperi e di una loro sempre più veloce obsolescenza.
Una sfida per la scuola il cui obiettivo non può essere dunque, e lo si sente dire da tempo, solo quello dell’istruzione, tantomeno realizzata attraverso un illusorio inseguimento dello sviluppo dei saperi generando una sorta di gigantismo dei curricoli; piuttosto, è quello della formazione di un atteggiamento cognitivo e un habitus culturale adatto alla situazione: “Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate” (IN, 2012, p. 8). Non basta solo il sapere, l’istruzione ha acquisito nuove dimensioni che sono inerenti all’uso che l’individuo fa del proprio sapere e che si esprimono nella padronanza delle situazioni, nelle competenze relazionali, nella capacità di accedere alle informazioni, nella progettualità.
Un “nuovo umanesimo” richiede il pieno dominio del senso epistemologico dei singoli ambiti disciplinari e, contemporaneamente, l’elaborazione delle loro molteplici connessioni: una nuova alleanza fra scienza, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia. I curricoli andrebbero quindi ridefiniti in modo da attraversare i grandi oggetti della conoscenza (l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia) in una prospettiva complessa, volta a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme, indispensabili per cogliere gli aspetti essenziali dei problemi e per comprendere le implicazioni degli inediti sviluppi delle scienze e delle tecnologie e valutarne limiti e possibilità (IN, 2012, p. 11-12).
In qualche misura le IN sembrano assumere il pensiero di Banathy (1988), secondo il quale ci troviamo in una fase di rischioso squilibrio evolutivo, nel quale la coscienza collettiva è in forte ritardo rispetto ai ritmi di cambiamento scientifico e tecnologico – e alla luce dei recenti avvenimenti possiamo aggiungere sociale, economico, politico. A ciò si aggiunge il fatto che le pratiche educative tradizionali sono centrate sull’apprendimento alla conservazione, finalizzato sostanzialmente ad affrontare e trasmettere problemi e soluzioni già noti e ricorrenti e a consolidare sistemi di concettualizzazione, di azione e di relazione già esistenti. In situazioni storiche come questa, sostiene l’autore, l’uso delle vecchie immagini procura più problemi che soluzioni. Di fronte alla pressione del cambiamento, questo tipo di apprendimento da solo non è più sufficiente, esso va accompagnato, reso complementare e non certo sostituito da un altro tipo di apprendimento che Banathy definisce evolutivo. L’obiettivo deve essere quello di affrontare il cambiamento e la complessità trasformando e modificando le modalità di azione attraverso la modifica dei punti di vista e l’aumento delle possibilità di scelta. Fornasa e Vadalà (2010) definivano questa capacità di stare nel cambiamento con capacità proattiva come competenza co-evolutiva.
Il presupposto teorico/epistemologico da cui partire è quindi che la conoscenza è “un’avventura incerta, che comporta in se stessa e permanentemente il rischio di illusione e errore. Ora, è nelle certezze dogmatiche, dottrinali e intolleranti che si annidano le peggiori illusioni; al contrario, la coscienza del carattere incerto dell’atto cognitivo costituisce una opportunità di giungere a una conoscenza pertinente la quale richiede esami, verifiche e convergenze di indizi” (Morin, 2001, p. 87).
Ciò significa attivare percorsi di apprendimento in cui le deviazioni vengono sostenute e amplificate e la curiosità sollecitata, in cui si lavora sul nuovo, l’inatteso, la provvisorietà e si chiede di anticipare, di prefigurare scenari possibili di azione incentivando il lavoro di rete, avendo sempre ben chiaro che l’insieme delle trasformazioni che scandiscono la progressiva maturazione di capacità cognitive, operative e relazionali, costituiscono un’area di apprendimento, ben più ampia della semplice accezione cognitiva (OPPIdocumenti, 1979).
2. Problemi aperti
Le IN tracciano dunque un quadro innovativo, sfidante ed impegnativo sia dal punto di vista della riorganizzazione dei saperi, sia da quello organizzativo e normativo.
Ci sembra però lecito porre un problema: la scuola, espressione della società, dei suoi rapporti economico-sociali, delle sue contraddizioni e dei suoi ritardi, è in grado di rispondere a queste aspettative? L’istituzione scolastica, da quando esiste, ha una doppia funzione: da un lato trasmettere alle nuove generazioni l’istruzione, le conoscenze scientifiche e tecniche storicamente acquisite, dall’altro diffondere le ideologie funzionali al controllo e al mantenimento dell’equilibrio sociale. In alcuni casi in modo assai poco evidente: secondo Bowles e Gintis (2002) l’organizzazione scolastica non serve tanto a trasmettere conoscenze, quanto piuttosto a fornire, con l’inconsapevole aiuto della famiglia, tutti quegli attributi non cognitivi (tratti caratteriali, identità personale, ecc.) che permettono poi agli adulti di svolgere i ruoli e le mansioni loro assegnati perpetuando la divisione gerarchica del lavoro. In altri casi in modo decisamente più esplicito, come nella costruzione e nel mantenimento dell’identità nazionale e della sottomissione all’autorità centrale. Obiettivo oggi superato, almeno in Europa, dalle nuove strutture sovranazionali che rendono di fatto obsoleto e contraddittorio questo retaggio ideologico spostandolo ad una dimensione continentale.
Alcuni segnali aprono seri interrogativi sulla capacità – o forse possibilità? – della scuola di favorire lo sviluppo di nuove generazioni con quella forma mentis che la complessità e la imprevedibilità del futuro sembrerebbe richiedere: autonomia di pensiero, consapevolezza, senso critico, capacità di produrre storia, discorso, comunicazione, di usare le conoscenze per interpretare la realtà, prevedere e prendere decisioni.
Nel documento ministeriale che stiamo analizzando, il successivo sviluppo, più operativo, delle affermazioni contenute nelle premesse dà l’impressione, in alcuni passaggi, di non essere pienamente coerente o addirittura di entrare in contraddizione con quanto prima enunciato, come se non si sia voluto o potuto andare fino in fondo in modo conseguente.
Ad esempio, proprio a proposito di educazione alla convivenza ed alla mondialità, si dice: “La nostra scuola, inoltre, deve formare cittadini italiani che siano nello stesso tempo cittadini dell’Europa e del mondo” (IN, 2012, p. 11). Obiettivo condivisibile, ma ci permettiamo di avere delle perplessità sull’affermazione che “per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale un tempo, una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali” (IN, 2012, p. 11). Senza entrare nel merito della “trasmissibilità” di una conoscenza, pensiamo sia necessario approfondire almeno il tema della “tradizione”. Il concetto di tradizione si collega infatti strettamente a quello di cultura che, in antropologia, è l’insieme dei significati che le persone co-costruiscono mediante processi di negoziazione e comunicazione nelle interazioni della vita quotidiana. La cultura, quindi, come flusso di significati in un processo di ri-creazione continua della realtà sociale attraverso ibridazioni, cambiamenti, invenzioni e aggiustamenti, in cui l’incontro e la contaminazione tra culture porta a una rilettura e a un rimescolamento costante del corredo di valori fino a quel momento condivisi. Di conseguenza, nessuna comunità è fuori dalla storia (Marshall & Elman, 1960) in quanto “l’identità ha origine da processi di selezione e rimozione della storia” (Fabietti & Matera, 2000, p. 17).
Inoltre, i profondi processi di globalizzazione e di multiculturalizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi decenni hanno portato alla definitiva rottura della falsa metafora del mosaico di culture, separate da confini netti e identificabili: la prossimità spaziale non garantisce affatto una stessa identità culturale e fenomeni di despazializzazione, anche tecnologica, consentono appartenenze plurime e inedite. Questa fluidità ed evanescenza dei confini culturali, invece di innescare processi di apertura, accettazione e comprensione, spesso sviluppa fenomeni di revival etnico e di localismo, nel tentativo di compensare incertezza e paura ancorando una presunta identità perduta a presunte radici e tradizioni (Carletti & Varani, 2009). Anche le tradizioni, quindi, sono oggetto di mutazioni, cambiamenti, forme di rielaborazione attivate dalla mutabilità dei contesti storici, sociali ed economici.
Riconoscere la contingenza e convenzionalità dei valori, delle norme, dei riti e dei simboli a cui si aderisce non è però operazione mentale facile, in quanto controintuitiva. Inoltre, il loro carattere costruito viene nascosto dalle società che, per salvaguardare le basi della loro esistenza e l’identità dei loro membri, attribuiscono ai valori e ai simboli culturali un carattere naturale o addirittura sacro, per elevarli al di sopra degli altri. La nozione di tradizione diventa così strumento politico per rivendicazioni identitarie locali e questo periodo ce ne offre numerosi ed emblematici esempi.
Formare menti aperte e flessibili richiederebbe allora di lavorare proprio su questi concetti e non sulla trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali. In questo senso sarebbe opportuno anche riconsiderare il senso della presenza dell’insegnamento di religione cattolica che, a nostro parere, potrebbe utilmente trasformarsi in storia comparata dei miti e delle religioni, all’interno di un quadro di storia globale dell’umanità.
Un altro problema aperto riguarda la valutazione. Le modalità e i criteri valutativi messi in atto dal docente assumono la funzione di filo conduttore che indirizza e condiziona tutti gli altri momenti dell’attività didattica, in quanto la valutazione “costituisce il centro dell’esperienza scolastica di bambini e ragazzi di vari ordini e scuole e allo stesso tempo, una delle maggiori fonti dei loro disagi: per alcuni diventa l’unico motivo per cui si studia, rendendo spesso lo studio mnemonico e poco duraturo; per altri costituisce l’origine di blocchi di apprendimento, che rendono vano lo studio stesso e conducono alla demotivazione e/o insuccesso scolastico” (Nigris, 2003, p. 1 B.7).
Il primo passo è allora quello di arginare la spasmodica ricerca di una inarrivabile “oggettività” della valutazione, che è un atto eminentemente interpretativo, assumendo invece l’obiettivo realistico della sua “plausibilità” (Castoldi, 2012) e contenendo quegli “aspetti di sacralità e di potere che la valutazione esprime” (Rezzara, 2000, p. 14) per enfatizzare invece la sua funzione pedagogica. Va privilegiata quindi la valutazione formativa, non tanto dell’apprendimento, quanto per l’apprendimento, il cui scopo prioritario è quello di raccogliere informazioni per migliorare l’insegnamento e l’apprendimento.
Nelle pagine dedicate dalle IN a questo complesso tema, non si scioglie il nodo determinato dalle due forme di valutazione previste: la valutazione degli apprendimenti in decimi e la certificazione delle competenze. Una doppia modalità che crea ambiguità nella funzione stessa della valutazione. Come sottolinea Cerini, nelle IN “il riferimento alle competenze viene espresso attraverso i verbi descrive e attesta: sono due modalità diverse che richiamano da un lato una dimensione qualitativa (rappresentare, descrivere, argomentare, interpretare, ecc.) e dall’altro una dimensione quantitativa (misurare, confrontare, classificare, ecc.)” (Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici, 2015).
Questa dimensione certificativa apre un conflitto con la funzione formativa della valutazione, come correttamente indicato dalle IN: “La valutazione precede, accompagna e segue i percorsi curricolari. Attiva le azioni da intraprendere, regola quelle avviate, promuove il bilancio critico su quelle condotte a termine. Assume una preminente funzione formativa, di accompagnamento dei processi di apprendimento e di stimolo al miglioramento continuo” (2012, p. 13).
Rimane peraltro totalmente non affrontato il tema del valore legale del titolo di studio che per ora resta affidato agli esami conclusivi dei cicli di istruzione in modo scollegato dalla certificazione delle competenze. Sarebbe quindi opportuna una totale revisione del Regolamento sulla valutazione[1] per costruire un quadro organico e coerente con le IN di tutte le tematiche giuridiche, ma anche formative, connesse alla valutazione.
Per andare nella direzione tracciata dalle premesse delle IN pensiamo occorra partire dal presupposto della sostanziale inadeguatezza che le attuali modalità valutative esprimono, mostrandosi come sbiadite rappresentazioni di una realtà individuale molto più articolata e ricca. La valutazione andrebbe invece concepita come una sistematica e continua raccolta di informazioni, svolta sia dal docente che dallo studente, un monitoraggio del processo di apprendimento in atto finalizzato al costante riaggiustamento e adeguamento del processo stesso (Dodge, Jablon & Bickart, 1994). In questo modo, verifica e valutazione perdono il carattere di controllo e validazione degli esiti finali e acquistano quello di riflessione sui singoli risultati e sull’andamento complessivo del percorso. Una valutazione intesa quindi come un continuum che, pur prevedendo momenti di misurazione vera e propria, si pone soprattutto il problema delle possibili interpretazioni dei dati raccolti mediante ipotesi, progetti e soluzioni di miglioramento e sviluppo delle prestazioni dell’allievo, coinvolgendolo e consegnandogli la responsabilità del proprio percorso di crescita.
3. Dall’epistemologia alla didattica
Partiamo dal presupposto che c’è sempre un ambiente educativo: gli altri io, con cui si stabiliscono relazioni; il mondo sociale e il mondo fisico; le occasioni che consentono a chi viene educato di apprendere, esercitandole, le funzioni che poi diventeranno sue e gli consentiranno di strutturarsi come soggetto capace di conoscere e operare e perciò di dare un significato al mondo che lo circonda. La scuola è da sempre un campo di trasformazioni: stando insieme per ore e ore, per giorni, mesi, anni, i ragazzi si formano una loro opinione sui rapporti tra le persone, scelgono tra gli insegnanti o tra i compagni modelli da imitare o a cui contrapporsi, perfezionano strategie di affermazione o sottomissione sociale, si costruiscono un’esperienza dei modi con i quali le idee vengono affermate o anche imposte, si sentono capaci o incapaci di affrontare situazioni nuove e, a volte, difficili (OPPIdocumenti, 1979). Oggi abbiamo la consapevolezza che queste trasformazioni non sono del tutto predeterminabili e pienamente controllabili, spetta comunque al docente costruire ambienti di apprendimento che offrano opportunità di sperimentazione, di scelta e di progressiva assunzione di responsabilità.
Siamo convinti che l’epistemologia costruttivista continui ad offrire un prezioso quadro teorico di riferimento per progettare e gestire ambienti di questo tipo, un quadro a nostro avviso ancora non superato, che offre “all’insegnante, una struttura teorica dalla quale ricavare alcune importanti indicazioni sul significato dell’apprendere, sul cosa insegnare e come farlo e, di non secondaria importanza, su cosa è opportuno evitare” (Carletti & Varani, 2005, p. 44).
Il costruttivismo delinea una teoria dell’apprendimento alla quale non corrisponde un “metodo didattico” preciso e definito, cosa che peraltro entrerebbe in contraddizione con gli assunti di base che la teoria propone. “Infatti, se la conoscenza è legata al contesto e all’attività dell’individuo, non c’è mai un solo modo “giusto” di insegnare qualcosa, non esistono quindi procedure di insegnamento prefissate, meccaniche e standardizzate” (ibidem). La teoria costruttivista e socio-costruttivista non solo introduce nuove prospettive didattiche, ma, soprattutto, si pone come elemento aggregatore e integratore di metodologie e approcci preesistenti, ricollocandoli e riqualificandoli all’interno di una visione epistemica che ne valorizza ulteriormente l’uso e ne costituisce la legittimazione e il fondamento.
Sintetizzando i contributi di diversi autori (Black & Mc Clintock, 1996; Lebow, 1993; Dunlap & Grabinger, 1996), possiamo dire che un ambiente di apprendimento costruttivista deve essere caratterizzato dai seguenti aspetti:
- costruzione e non riproduzione di saperi: agli allievi viene chiesto di costruire nuova conoscenza, quindi di apprendere, attraverso percorsi che richiedano loro di operare in modo attivo, non semplicemente esercitativo e applicativo, per trovare soluzioni a problemi per loro aperti e inediti;
- situazioni di apprendimento basate su casi realistici: spesso le attività svolte a scuola hanno senso solo al suo interno[2]; le conoscenze e le abilità sollecitate dalle proposte di lavoro costruttiviste dovrebbero tendere invece a far emergere il loro rapporto con la soluzione di problemi reali o la produzione di prodotti o servizi in qualche modo “esportabili” fuori dall’aula scolastica; diventa un ambiente reale, quindi, ciò che connette l’apprendimento e la comprensione che avviene a scuola, con quanto necessario ad affrontare le sfide che la realtà pone. Brown e Campione (1994, pp. 229-270) sollecitano un apprendimento contestualizzato e situato in cui le attività siano sempre finalizzate a uno scopo dichiarato e condiviso, in cui teoria e pratica sono sempre viste in azione;
- rappresentazioni multiple e complesse della realtà: “l’approccio riduzionista” sostiene Morin (2000) “più che la soluzione è il problema stesso”. Solo presentando agli allievi situazioni adeguatamente complesse, in relazione alla loro età e capacità cognitiva, possiamo far emergere l’inadeguatezza dei loro spontanei schemi rappresentativi, delle loro “teorie ingenue” e cominciare a costruirne di nuovi;
- molteplicità delle piste percorribili per consentire un processo ricorsivo: all’interno di questa complessità, il compito/problema/prodotto assegnato deve essere aperto, non deve prevedere un unico risultato predefinito, deve invece consentire la ricerca, l’esplorazione e la possibilità di ritornare su quanto fatto per modificarlo, per ottenere un risultato espressione della creatività e dell’intelligenza degli studenti;
- apprendimento collaborativo: affrontare compiti complessi impedisce a un unico soggetto di avere tutte le risorse necessarie, come avviene normalmente nella realtà; si vengono così a costituire delle piccole comunità di pratica in cui l’interdipendenza positiva che si genera (Johnson, Johnson, & Holubec, 1996) promuove, attraverso la negoziazione, la condivisione e la collaborazione, una responsabilità individuale e collettiva portando i membri del gruppo a fare affidamento gli uni sugli altri per raggiungere lo scopo e in qualche misura a sentirsi responsabili del loro personale apprendimento e dell’apprendimento degli altri membri del gruppo;
- pratiche riflessive e metacognitive: se, come abbiamo visto, ogni individuo/alunno sviluppa un suo personale percorso di costruzione della conoscenza, indagare personali processi mentali, schemi cognitivi e modalità di approccio a un problema diventa un fattore di sviluppo dei processi di apprendimento, producendo consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza e sviluppando empowerment;
- autodeterminazione del percorso (e degli obiettivi di apprendimento) da parte del discente: dopo quanto detto, è evidente che la scelta e la decisione di come affrontare il problema, con quali criteri, approcci e direzioni, e quindi la relativa pianificazione e organizzazione del percorso, deve essere lasciata allo studente o alla decisione negoziata nel gruppo; sono proprio queste azioni che responsabilizzano e coinvolgono in prima persona il bambino nel suo processo di apprendimento. Può essere difficile, per un docente, accettare il secondo concetto, ma se pensiamo anche a nostre personali esperienze formative, è inevitabile che di fronte a una situazione di apprendimento, di qualsiasi tipo e proposta con qualsiasi modalità, ogni individuo, quindi anche un bambino, “decida” più o meno consapevolmente quanto impegnarsi emotivamente e cognitivamente in quella situazione, quanto investire in termini di aspettative, quanta energia spendervi, in sostanza se tradurre in apprendimento quell’esperienza e quanto e cosa imparare. Wenger sintetizza così: “l’insegnamento non produce l’apprendimento. Crea un contesto nel quale avviene l’apprendimento” (2006, p. 297). In altre parole, non c’è un rapporto di causa-effetto tra ciò che facciamo in classe e quanto apprendono i nostri allievi. Il docente non determina meccanicamente l’apprendimento; l’insegnante e i materiali d’istruzione diventano risorse all’interno di un processo in cui l’apprendimento avviene in molti modi complessi.
All’insegnante è richiesta una costante attenzione al processo in atto e, soprattutto, la capacità di accettare l’idea di non avere su di esso un totale controllo, ma di saperlo gestire e valorizzare nel suo evolversi ponendosi di fronte agli eventi con un atteggiamento di apertura mentale tale da poter recepire quello che accade senza preconcezioni e aspettative già stabilite a priori che impediscono di vedere le potenzialità di ciò che sta accadendo. Wilfred Bion, in ambito psicoanalitico, la definiva capacità negativa, cioè “la capacità […] di rimanere in una condizione di mancanza di certezze, evitando così di saturare e bloccare ciò che sta evolvendo con l’attribuzione troppo precoce di significato” (1973, p. 169).
4. Oltre il metodo: gli oggetti culturali
Negli ultimi anni la scuola ha visto estendersi la consapevolezza della necessità di un cambiamento metodologico, si sono diffuse pratiche di apprendimento cooperativo, di peer tutoring, fino ad arrivare alle recenti suggestioni della flipped classroom o della didattica enattiva.
Ci sembra però sia ancora poco diffusa la consapevolezza della complessità sistemica di tutti gli elementi in gioco (contesto storico/economico/sociale, finalità attribuite alla scuola, organizzazione dei saperi, metodologie e valutazione): la sola adozione di una nuova e aggiornata metodologia non basta. Con una buona metodologia forse gli alunni apprendono, ma questo nulla garantisce rispetto alla utilità ed alla generatività dei saperi e dei concetti appresi.
Dunque non è solo questione di metodo: è fondamentale porsi la domanda del cosa insegnare, per motivi teorici (la limitatezza delle discipline pensate come aree ben definite di sapere) e pratici (un tempo/spazio scolastico contratto e conteso tra mille necessità e progetti di tutti i tipi). Le tante “educazioni” a cui la scuola dovrebbe far fronte (cittadinanza, salute, sessualità, alimentare, affettività, educazione stradale…), infatti, sembrano voler togliere il valore formativo alle discipline, lasciando loro solo una mera dimensione descrittiva e contenutistica.
Per ridisegnare i curricoli coerentemente con le IN occorre scoprire le relazioni tra lo sviluppo dei processi mentali, i tempi di maturazione della personalità e il processo di costruzione della conoscenza. Ciò significa identificare le operazioni attraverso cui un individuo diventa soggetto: la definizione dei confini del proprio io, la costruzione della realtà esterna, il suo controllo mediante rappresentazioni simboliche. Queste operazioni vanno inserite in un sistema di opportunità, garantendo le condizioni cognitive e relazionali che permettono lo sviluppo di questo processo: l’io dell’alunno deve essere un tu per qualcuno, l’insegnante e i compagni sono testimoni della sua storia e sono capaci di restituirgliela, l’alunno è costante oggetto di attenzione – intesa etimologicamente come tensione verso i suoi bisogni e rilevazione dei cambiamenti – e non di aspettativa – intesa come proiezione vincolante, che richiede adeguamento e che grava sul soggetto diminuendone la libertà (OPPIdocumenti, 1979).
Per questi motivi la disciplina deve essere sottoposta ad un processo di trasposizione didattica allo scopo di creare un ponte tra lo studente e il sapere. Ciò significa predisporre un campo pedagogico (situazioni di apprendimento attraverso la scelta di contenuti, di attività, di metodologie e strategie, di materiali, di compiti e di consegne, di criteri di valutazione) con il quale il soggetto in apprendimento entra in contatto al fine di ri-costruire l’oggetto culturale (Damiano, 1999).
La trasposizione didattica richiede in primo luogo di ricordare che materia e disciplina non sono propriamente sinonimi. Con disciplina si intende un ambito definito del sapere, uno specifico campo di ricerca, con procedure proprie e paradigmi condivisi; mentre con materia intendiamo un’area di insegnamento risultante dal raggruppamento di un insieme di concetti, argomenti, principi, operazioni, metodi e strumenti selezionati in campi disciplinari contigui e interdipendenti ma distinti, oltre che di un imprescindibile piano psicopedagogico e metodologico-didattico, il tutto piegato a finalità educative e formative disciplinari e trasversali.
Ma la questione è ancora più complessa, infatti l’organizzazione delle discipline si è costituita tra il XVIII e il XIX secolo all’interno delle università e mostra ormai il limite di una settorializzazione e di una proliferazione che è stata profondamente messa in crisi dalle nuove epistemologie, dalle contaminazioni che nascono nelle applicazioni pratiche, dalla difficoltà di definire ambiti e oggetti precisi di studio, dando a volte l’impressione di essere funzionale solo a interessi accademici; è tuttavia ancora molto resistente e crea una dicotomia difficilmente riducibile tra specialisti e crisi delle distinzioni disciplinari.
Ci sembra quindi necessario rivedere i pochi tentativi di analisi disciplinare, risalenti agli anni ’90 (Lakatos, 1986; Liber & Sesenna, 1998; OPPIdocumenti, 1995) attraverso una riflessione epistemologica che assuma le teorie della complessità e del costruttivismo per spingersi oltre la mappa dei cosiddetti saperi essenziali, descrittivi, divisi e parcellizzati, per ricercare invece i nuclei fondanti, quei concetti ricorrenti che “tessono” le discipline, che hanno valore strutturante e generativo di conoscenze, che ci permettono di riconoscere il già incontrato e prefigurare il senso di un nuovo contesto/contenuto. I nuclei fondanti sono l’insieme di quegli elementi, di tipo concettuale e procedurale, che portano in sé strutture di conoscenza abbastanza precise e tuttavia flessibili e per questo applicabili in diversi ambiti, luoghi e tempi, così, ad esempio, il concetto di società, il concetto di tempo in fisica e di numero nelle matematiche.
Le discipline sono infatti modelli interpretativi della realtà costruiti da un particolare punto di vista e attraverso il confronto delle osservazioni di una molteplicità di soggetti che hanno storicamente raggiunto un certo grado di condivisione: una mappa di saperi relativi ad un oggetto, una mappa che colloca ai primi livelli quei concetti maggiormente condivisi e formalizzati e conseguentemente economici e trasmissibili, e dispone nei livelli periferici i concetti che si incrociano con altre discipline, le aree in espansione e le interpretazioni diverse e conflittuali. Questi saperi sono strettamente connessi al problema epistemologico, alla domanda di senso primaria che costituisce la nascita stessa di una disciplina, cioè al modo in cui essa costruisce un’interpretazione del mondo.
Per individuare contenuti significativi, da graduare in un curricolo che coniughi l’acquisizione di nuove conoscenze con lo sviluppo di competenze, sono necessari criteri di scelta che l’epistemologia costruttivista può aiutare a sviluppare sulla scorta di alcune indicazioni fondamentali:
- il “raccontarsi” della disciplina attraverso il linguaggio, che permette e condiziona il nostro modo di vedere il mondo;
- la “storicità” del sapere contestualizzato all’interno di un preciso orizzonte economico/culturale a partire da una domanda epistemica originaria;
- la relatività e dinamicità dei suoi assunti.
Il percorrere la disciplina tenendo sempre presente la domanda epistemica, o domanda di senso originaria, permette di re-incontrare la ragione profonda del fondamento di un’area di indagine, di mettere in luce la direzione di sviluppo ed il valore della disciplina come costrutto storico che testimonia l’evoluzione del rapporto dell’uomo con il mondo, negli intrecci delle ipotesi e interpretazioni di diverse correnti di pensiero (Carletti &Varani, 2007).
Seguire, quando si presenta l’occasione, la strada della diacronia o della sincronia, permette di cogliere lo sviluppo di un corpus di conoscenze a partire dalle esigenze da cui sono nate, in un preciso contesto economico, culturale e storico-politico, per seguirne l’evoluzione ed il cambiamento, ovvero di osservare divergenze, scostamenti e ipotesi alternative all’interno di un periodo. La prospettiva storica permette anche di considerare gli sviluppi possibili di un ambito del sapere e di generare domande alla luce delle emergenze di oggi. L’impostazione storico-critica dei curricola può mettere in luce il susseguirsi di modelli interpretativi e la variazione di significato dei concetti chiave delle discipline, in relazione ai contesti geografici, storici e culturali. Soffermarsi anche sulle aree di contraddizione e di ricerca fornisce una legittimazione profonda della diversità tra le culture, assieme alla possibilità di evolvere i propri punti di vista.
Su questa via risultano evidenti la relatività e la dinamicità degli assunti disciplinari. Ma, senza abbracciare il relativismo, si tratta di farsi carico del fatto che non esistono “dati” indipendenti dal pensiero e assumibili come criteri oggettivi. Secondo Feyerabend (1993) qualsiasi “fatto” dipende dalle teorie da cui è spiegato, dalla cultura entro la quale i relativi enunciati sono giudicati sensati. Se conoscere non è arrivare a una verità assolutamente certa, ma dialogare con l’incertezza e con l’errore, “la scuola dovrebbe far emergere come ogni percezione sia una traduzione ricostruttiva, operata dal cervello a partire dai terminali sensoriali, e che nessuna conoscenza può fare a meno dell’interpretazione” (Morin, 2000, p. 50).
L’approccio storico sembra essere favorevole anche dal punto di vista dell’apprendimento: se la mente è reticolare e un’informazione risulta significativa quanto più è interconnessa ed accessibile da diversi punti di vista, come scrive Damiano è necessario partire da quei processi di categorizzazione che fanno da matrice generativa dei livelli più avanzati e che solitamente restano impliciti e si danno per scontati. Qui la psicologia deve coniugarsi con la storia delle scienze, cioè con “quegli itinerari che hanno portato gli studiosi dei diversi ambiti a generare i concetti costitutivi dei diversi saperi, nell’ordine genetico e nella disposizione gerarchica rovesciata: dai più originari e radicali, su su fino a quelli più specialistici” (Damiano, 2004a, p. 21).
Come afferma Goodman (1978), l’ordine culturale deve essere ricostruito assieme, ed in continuo scambio, con la costruzione dell’ordine interno del soggetto che apprende. Ciò significa che la costituzione dell’io va di pari passo con la costituzione del mondo fisico (dell’oggetto, dello spazio, delle relazioni nello spazio), del mondo umano (dei tu, del tempo, delle relazioni nel tempo, diacroniche e sincroniche), del mondo delle teorie (le forme, i concetti, le categorie, i modelli delle relazioni e le teorie su tutto ciò) (OPPIdocumenti, 1979).
È in questo scambio, che avviene anche attraverso il linguaggio, che agisce la mente costruttiva ed interpretativa, dove ogni interpretazione implica un aspetto costruttivo (Brockmeier, 1996). Un dialogo ermeneutico in cui si gioca l’emozione e la sensazione di padronanza che nasce dall’essere coinvolti in un processo di comprensione profonda e che meglio di qualsiasi attività mirata motiva alla lettura ed allo studio.
In questa veste lo svolgimento dei curricoli non rappresenta “solo uno dei momenti in cui l’epistemologia consolidata si può ritrovare, applicandosi, bensì (se non soprattutto) una delle sedi in cui la riflessione epistemologica si può esercitare attivamente, producendosi. Difatti, l’occasione per interrogarsi sui fondamenti e sulla struttura propri di un campo di conoscenze, più che nei momenti di scoperta, è quella dettata da esigenze di organizzazione e di sistemazione” (Damiano, 2004a, p. 16), come appunto avviene nella progettazione didattica e nell’azione in classe.
5. Una formazione necessaria
Perché le istanze espresse dal piano istituzionale abbiano la speranza di penetrare fino alle pratiche quotidiane occorre un lungo e approfondito processo che ci auguriamo si attui, a partire dallo scioglimento delle ambiguità che qui abbiamo sottolineato.
Un’azione che può passare solo attraverso una seria formazione dei docenti (e dirigenti), iniziale e in itinere. Occorrono insegnanti in grado di attuare una profonda rivisitazione dell’insegnamento, che non può che corrispondere ad un profondo cambiamento del modo di pensare la conoscenza, la funzione della scuola e il proprio ruolo professionale.
Molti insegnanti avvertono difficoltà nel gestire una professione che, da un lato, sempre più richiede competenze diverse da quelle per cui sono stati preparati e, dall’altro, ha perso la sua tradizionale connotazione identitaria senza riuscire ancora ad averne una nuova.
Agli insegnanti è richiesta la capacità di adeguare costantemente le loro conoscenze ed il loro agire professionale al mutamento in atto, trovandosi ad operare in situazioni complesse, imprevedibili, inedite e dovendo trovare soluzioni in tempo reale. Soluzioni che non si possono trovare solo nelle teorie e nei libri, ma che devono attingere da una conoscenza tacita (Polanyi, 1979) che supera il concetto di pratica come semplice applicazione della teoria. Si tratta di far entrare in relazione la conoscenza teorica prodotta dalla ricerca con quella “conoscenza pratica”, expertise, intuizione o “abilità artistica” (Schön, 2006) che i professionisti sanno agire nelle situazioni di incertezza, unicità e conflitti di valore. Un’abilità che si manifesta in “questa continua anticipazione e adattamento, questo continuo riconoscimento e correzione dell’errore che ci conduce, in prima istanza, a definire un’azione come «intelligente»” (Schön, 2006, p. 56). Sviluppare e potenziare il naturale habitus riflessivo del docente diventa condizione indispensabile per una costante “manutenzione” e sviluppo professionale (Varani, 2008).
Si tratta, allora, di passare da una riflessione in azione e sull’azione (riflessività di I grado) che permette di sviluppare un pensiero sull’esperienza, ad una riflessività metacognitiva (riflessività di II grado), che consente di sviluppare un pensiero sul nostro modo di conoscere, interpretare e agire la realtà, di interrogarsi sui nostri schemi di riferimento, presupposizioni e assunzioni tacite che fanno da sfondo ai criteri impliciti che utilizziamo nell’attribuzione di significato degli eventi. In ultima istanza, ci consente di essere flessibili e di co-evolvere nel mutamento.
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Fonti elettroniche
Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici (2015, Marzo 9). Il dilemma della certificazione: accertamento di standard o valutazione formativa. Consultato da http://www.andisblog.it/?p=269
Note sugli autori
Anna Maria Carletti
OPPI (Organizzazione per la Preparazione Professionale degli Insegnanti)
Insegnante di lettere, fa parte del Comitato Scientifico di OPPI e si occupa di formazione dei docenti sui temi dell’analisi disciplinare, della gestione dei gruppi, della riflessione professionale, dell’uso dei modelli concettuali (mappe, frames e script) e delle tecnologie nella didattica all’interno di una visione epistemologica costruttivista. Dal 2007 è docente in diversi Corsi nell’ambito della formazione iniziale dei docenti (PAS e TFA) per l’Università Cattolica del Sacro Cuore, l’Università Statale di Milano e l’Università Bicocca. Autrice di ricerche, articoli e testi sulla didattica.
Andrea Varani
OPPI (Organizzazione per la Preparazione Professionale degli Insegnanti)
Già insegnante di scienze sociali, è Docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università Milano-Bicocca. Autore di ricerche-azione in ambito pedagogico-didattico presentate in diversi convegni e di numerosi articoli e testi in ambito, è formatore OPPI (Organizzazione per la Preparazione Professionale degli Insegnanti), di cui è membro del Comitato Scientifico e attualmente Direttore.
Note
- DPR 122/2009. ↑
- Emblematica in questo senso è la permanenza del tema in classe, una forma di scrittura ibrida che esiste solo all’interno della scuola, a scapito di altre (relazione, verbale, articolo, esposizione, racconto…) che sono più strutturate e aiutano quindi nella costruzione di testi coerenti e coesi. ↑
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