Grazie di essere qui all’Institute of Constructivist Psychology. Siamo molto contenti di intervistarla!
Grazie!
Cos’è la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) per lei?
La PCP è stata estremamente importante per me: l’ho incontrata mentre mi stavo laureando in psicologia. Allora ero interessato agli approcci cognitivi – mi riferisco ad autori come Ulric Neisser e agli altri protagonisti di quella prima ondata – ma sono venuto in contatto con la Teoria dei Costrutti Personali attraverso il lavoro di Don Bannister. C’era uno psicologo clinico locale, Alan Hayward, che lavorava a Bristol e stava usando il Grid Test for Schizophrenic Thought Disorder di Bannister. Alan lavorava nell’ospedale psichiatrico del posto e ha tenuto una lezione sul lavoro di Bannister. È così che mi ci sono avvicinato. Poi ho letto il suo articolo “A New Theory of Personality” (Bannister, 1966) e mi è sembrato di trovare una cornice più ampia e comprensiva rispetto alle teorie cognitive, che comunque mi sembravano piuttosto strette e frammentate, specialmente quando si arriva al modello di Persona sotteso alla teoria. La PCP era un modello molto più ampio, ricco, e prevedeva un approccio migliore all’emozione e alle dimensioni ad essa collegate. E davvero non ho più guardato indietro! È stata una cornice incredibilmente utile sia a livello teoretico che metodologico: aiuta a lavorare bene e in modo rispettoso con le persone, assumendo la prospettiva dalla quale loro vedono il mondo, i loro problemi e le loro relazioni, e pone tutto ciò in una posizione di centrale importanza.
Cosa l’ha affascinata della figura di George Kelly e della PCP?
Come dicevo, Kelly ha presentato un modello comprensivo del funzionamento umano. Ora parliamo di diversi “Costruttivismi”, ma penso ancora che la Psicologia dei Costrutti Personali occupi una posizione equilibrata nella più ampia serie di Costruttivismi – non troppo individuale e biologica da una parte, e non troppo sociale a spese dell’individuo dall’altra. Dal mio punto di vista, dà la possibilità di abbracciare una dimensione che permette di guardare a fondo allo stesso tempo sia l’individuo che la cultura e la società. Recentemente ho scritto un lavoro (Procter, 2016) sulla Psicologia dei Costrutti Personali vedendola quasi come una forma di sociologia oltreché di psicologia. Perciò possiamo dire che i costrutti, nell’accezione di Kelly, appartengono agli individui – come dice lui, sono costrutti personali – ma possiamo anche dire, in senso kelliano, che appartengono a gruppi, istituzioni, culture e società. Questo mi dà molta soddisfazione perché quando siamo impegnati a comprendere le persone e le loro difficoltà è molto importante porle in un contesto culturale, ma senza ignorare che ogni persona sviluppa il suo proprio modo di guardare al mondo attraverso la sua storia unica, la sua esperienza unica. Così per un individuo ogni costrutto, di cui tutti possiamo pensare di conoscere il significato, in pratica ha implicazioni molto personali, memorie personali e connotazioni associate a quel particolare modo di costruire. Nel nostro lavoro clinico, quando lavoriamo in campo educativo o aiutiamo qualcuno in qualità di mentori o coach in ambito organizzativo, abbiamo bisogno di conoscere quegli specifici significati, per aiutare davvero la persona a lavorare il meglio possibile nella sua situazione. Così una singola entità teoretica, il costrutto bipolare di Kelly, può diventare un’unità di analisi da un livello completamente micro-sociologico a uno macro. Questo soddisfa il principio del “rasoio di Occam” o legge della parsimonia.
Chi è stato il mentore più importante che ha incontrato nell’ambito della PCP e quale insegnamento è stato di maggior interesse per la sua professione?
È davvero una domanda ampia. Ho menzionato Don Bannister. Mentre facevo la mia tesi di dottorato all’Università di Bristol un certo numero di noi si sono interessati alla Teoria Costruttivista e siamo stati accolti al Bexley Hospital, nel Kent, dove all’epoca lavorava Bannister; egli è stato enormemente gentile e utile. È stato il mio relatore esterno mentre svolgevo la mia ricerca nell’ambito delle famiglie, e ha continuato ad essermi d’aiuto fino alla sua morte sfortunatamente prematura. Egli è stato una persona di spicco nel promuovere le idee di Kelly in Gran Bretagna e in Europa, in particolare qui in Italia. Abbastanza presto ho continuato la mia formazione con Fay Fransella, e sono state importanti altre figure come Phillida Salmon e Miller Mair. Quei primi Teorici inglesi dei Costrutti sono stati coloro che mi hanno probabilmente influenzato di più nell’ambito della PCP. Ho anche imparato moltissimo da ricercatori e terapeuti della famiglia come Haley, Bateson, Minuchin, Watzlawick, Selvini, Boscolo e Cecchin, e anche dall’ipnoterapeuta Milton H. Erickson. John Shotter, che ho incontrato durante la mia formazione in Psicologia Clinica a Nottingham, ha avuto una forte influenza sul mio desiderio di elaborare quella che più tardi sarebbe stata definita una critica socio-costruzionista della PCP.
Più recentemente molti dei suoi lavori si sono focalizzati sulla relazione tra Kelly e la PCP e alcuni filosofi come Peirce e Wittgenstein. Quale tipo di relazione c’è tra loro e come si sono influenzati reciprocamente?
Sì. Kelly stesso era molto istruito in filosofia. Se ne ha evidenza in uno dei suoi primi lavori intitolato “Understanding Psychology” (Kelly, 1932) che dimostra che egli aveva studiato filosofia, oltre che psicologia e sociologia. Credo che uno dei punti di forza del modello di Kelly, rispetto a molti modelli psicologici, sia che egli si muove con rispetto e competenza su una base filosofica. Perciò egli chiarisce molto bene, all’inizio e in tutto il suo lavoro, quali sono i suoi presupposti filosofici, ma dice anche che “Se finissimo di portare rispetto a tutti i pensieri che hanno preceduto e influenzato quello che dobbiamo dire, non lo diremmo mai” (Kelly, 1955, p. 42). Tuttavia sin dall’inizio io ero interessato ad esplorare le connessioni con la filosofia: il primo capitolo della mia tesi di dottorato (Procter, 1978) è sul contesto filosofico della PCP.
Da allora ho continuato a interessarmene e recentemente ho iniziato a guardare al Pragmatismo come matrice fondamentale di Kelly, il suo contesto principale se vogliamo. Egli riconosce John Dewey come riferimento e afferma che la sua opera “si può leggere tra le righe della Psicologia dei Costrutti Personali”; a dire il vero l’ho scoperto parlando con una collega qui a Padova, Carmen Dell’Aversano, che mi ha parlato di Charles Peirce (si pronuncia “pars” come la parola inglese purse). È stata lei a parlarmi di Peirce, l’autore che ha fondato il pragmatismo, e della sua semiotica. Così ho iniziato a dare un’occhiata ai lavori di Peirce e ho scoperto di avere a che fare con un filosofo enormemente ricco, incredibilmente acculturato, che aveva toccato ogni area della filosofia. Si scopre che egli ha avuto una grande influenza su William James e John Dewey, di gran lunga superiore a quella che avevo pensato inizialmente. La questione viene ora riconosciuta. Quando ho iniziato a leggerlo ho scoperto che lo si può trovare nelle assunzioni filosofiche di Kelly, elencate all’inizio del Volume 1 della Psicologia dei Costrutti Personali, e che è possibile stabilire una corrispondenza tra le affermazioni di Kelly e quello che aveva detto Peirce (Procter, 2014a).
Qual è lo scopo di questa operazione? Arricchisce la nostra comprensione, così che quando diamo un’occhiata a uno dei presupposti di Kelly e a quello che dice Peirce ci risulta possibile fare collegamenti, connessioni con altri filosofi della storia e anche con la filosofia del Ventesimo e Ventunesimo secolo. Lei ha menzionato Wittgenstein… Peirce è riuscito ad anticipare molte tendenze del Ventesimo secolo in filosofia, incluso Wittgenstein. Wittgenstein fece un grande cambiamento durante gli anni Venti: egli conobbe Frank Ramsey, un brillante filosofo di Cambridge, che sfortunatamente morì quando aveva solo 27 anni. Ramsey aveva letto e studiato il lavoro di Peirce e persuase Wittgenstein che il suo primo lavoro, il Tractatus, aveva bisogno di inglobare una componente più pragmatica. E, se si guarda al Wittgenstein più tardo, egli afferma che qualcosa ha significato in relazione al suo uso in un particolare contesto, quello che il filosofo chiama gioco linguistico. Questo, per me, ha a che fare molto strettamente con l’idea di costruire che viene usata in situazioni locali e gruppi di persone: possiamo parlare di come il significato è davvero basato sul tipo di uso pratico che se ne fa, su quali implicazioni ha nella pratica. Peirce ha detto che il significato di qualcosa è dato dalle conseguenze pratiche di prendere seriamente quella particolare idea. Anche questo si adatta molto bene all’idea di Kelly secondo cui siamo un po’ come scienziati, siamo coinvolti in un processo di ricerca e di inferenza. L’anticipazione del futuro è un tema centrare in entrambi i loro lavori.
Per lei in che modo può essere utile la conoscenza e la comprensione di questi autori per la psicoterapia o la psicologia in genere?
Quando facciamo psicoterapia aiutiamo le persone a dare senso alle situazioni incomprensibili che incontrano, all’interno delle quali devono trovare una via d’uscita. Sia il cliente che il terapeuta sono impegnati nello stesso tipo di impresa – una ricerca. È questa l’autoriflessività della PCP. Quando ero a Nottingham avevo un supervisore che soleva dirmi: “Harry, non stiamo davvero facendo psicologia, facciamo filosofia!” Mi piaceva! Quando ci sediamo con qualcuno e lavoriamo sul significato degli eventi e dei dilemmi in cui è immerso, emergono tutte le domande filosofiche. Penso che la Psicologia dei Costrutti Personali lo sia davvero – è una metodologia, prevede propri modi di lavorare con le persone nei termini di come fanno le cose, ha sviluppato domande e altre strategie, le griglie e cose di questo genere. Ma effettivamente, cosa più importante, è una filosofia che penso sia incredibilmente d’aiuto per il terapeuta. E vorrei suggerire alle persone di non spaventarsi ad addentrarsi nella filosofia! Molto spesso quando si studia psicologia la si trova molto più focalizzata sui metodi sperimentali e cose di questo tipo, ma la questione importante è che ogni cosa che viene detta è detta all’interno di una cornice di presupposti. Questi presupposti sono di natura filosofica, sono quelli che nell’ambito del costruzionismo sociale potremmo chiamare discorsi, pregiudizi e credenze, l’insieme delle discriminazioni che fanno le persone. Essi hanno effetti molto importanti sul modo in cui le persone funzionano nella loro vita e sul tipo di problemi che devono fronteggiare. Le difficoltà tendono ad essere perpetuate dall’approccio che utilizzano le persone nell’affrontarle, e questo viene canalizzato dai presupposti di fondo, o da ciò che potremmo definire il loro modo di costruire le situazioni. Il compito del terapeuta, quindi, è di entrare nei mondi del cliente in maniera accettante, e lavorarci collaborando con lui per trovare un modo migliore di proseguire. Spesso è solo facendo chiarezza sui presupposti e mettendoli, rispettosamente, “sul tavolo” insieme che si inizia a intravvedere nuovi modi di procedere. Questo può accadere abbastanza automaticamente più che deliberatamente con il cambiamento che allora si verifica in modi inaspettati e sorprendenti.
Secondo lei, quali sono le sfide presenti e future per la PCP?
Veramente è abbastanza paradossale, perché probabilmente in psicoterapia e in psicologia la PCP non è conosciuta come dovrebbe… ma d’altra parte è anche conosciuta molto ampiamente. Quando organizziamo i nostri convegni – abbiamo avuto una serie di convegni molto riusciti, il prossimo a Londra (Luglio 2015) in Hertfordshire sarà il XXI Congresso Internazionale, ma altrettanto vale per i convegni europei, americani e australiani – a quei convegni partecipa una vasta gamma di persone che lavora in contesti educativi, organizzativi e aziendali, in ambito filosofico e artistico oltre a quello psicologico. C’è, in molti modi, un punto di forza duraturo all’interno della PCP trasversalmente ad un ampio raggio di discipline.
Ma forse le sfide nel campo clinico, dove sono ancora molto influenti gli approcci cognitivo-comportamentali, quelli psicodinamici e gli altri paradigmi, consistono nel dimostrare che la PCP ha molto da offrire a tutti questi modelli e, anzi, ha assorbito diversi strumenti utili da questi approcci. Sento che la nostra sfida sta nel dare alla Psicologia dei Costrutti Personali il riconoscimento che merita come tendenza importante e originale, emersa nella metà del Ventesimo secolo ma ancora viva e vegeta e in via di sviluppo. I miei sforzi personali nel provare a connettere la PCP guardando più a tematiche sociali e relazionali sono parte integrante di questo tentativo di farla riconoscere come quell’utile matrice che è.
I suoi sforzi di elaborare la PCP per applicarla ai gruppi, alle famiglie e alle organizzazioni sono ben noti. Da dove vengono i suoi interessi?
Da dove vengono i miei interessi? Sono sempre stato interessato alle famiglie. Per quanto riguarda la mia famiglia di origine, mio padre e mia madre si sono incontrati prima della seconda guerra mondiale. Lei veniva dal sud della Germania per imparare l’inglese: voleva aiutare suo padre nella sua attività di costruttore di interruttori temporizzati[2]. E sfortunatamente per suo padre, ma fortunatamente per me (!), ha incontrato e si è fidanzata con mio padre. Ha continuato a lavorare con suo padre giusto fino a due settimane prima che la guerra scoppiasse, e se n’è andata in tempo. E così lei e mio padre si sono sposati: io sono vissuto nel contesto di una famiglia dalle due nazionalità. Questo mi intrigava: che cosa del vivere in una famiglia dalle doppie tradizioni – con due culture nel suo retroterra – permette di unire due diverse strutture, due modi di guardare al mondo. Ovviamente questo si applica a tutte le famiglie, perché per quanto si nasca in un’unica cultura gli individui sono unici, le famiglie sono uniche – quello che avrebbe detto Kelly è che siamo tutti unici: e così le famiglie di origine, da ambo le parti, sono sempre diverse, anche se vivono all’interno della stessa cultura. Ma se si proviene da lingua e cultura differenti, allora l’unione di due diversi modi di guardare alle cose si fa più arricchente e interessante.
Il famoso antropologo Gregory Bateson la definirebbe visione binoculare, avere due occhi; una metafora per guardare alle cose simultaneamente da due posizioni e punti di vista offre profondità, dà ricchezza e profondità. Induce a interrogarsi e divenire più consapevoli del tipo di assunti di cui parlavo poco fa. E rende consapevoli che non si devono guardare le cose in un modo solo. Si possono adottare diverse prospettive e questo è alla base della filosofia kelliana dell’Alternativismo Costruttivo: c’è sempre un modo alternativo di guardare le cose, e se quello che ci accade è difficile lo si può affrontare da un diverso punto di vista.
È questo che mi affascinava quando mi sono imbattuto e interessato al tema, in particolare alla ricerca su famiglia e schizofrenia che stava nascendo negli anni Cinquanta e Sessanta; essa analizzava in dettaglio il tipo di modelli di interazione in famiglia. Il mio dottorato di ricerca, perciò, è consistito nell’iniziare a guardare questi temi attraverso le lenti della Psicologia dei Costrutti Personali e dei suoi metodi. Ho dato le griglie di repertorio ai membri delle famiglie; da lì tra l’altro è venuta l’idea delle Griglie Qualitative (Procter, 2014b), che possono essere usate in modo più immediato e molto flessibile durante le interviste. Ad esempio si può analizzare quali sono le costruzioni delle persone importanti in famiglia, come queste costruzioni cambiano nel tempo o in diverse situazioni. Usando letteralmente i cosiddetti “dati grezzi” di ciò che le persone dicono effettivamente, più che ricorrendo a qualche questionario standardizzato o metodo di questo tipo, è davvero possibile usare le parole delle persone. Vi si può includere la comunicazione non verbale, anche completando queste griglie con disegni e vignette del comportamento non verbale. Tutto ciò cattura la dinamica, la politica di quello che sta succedendo nella situazione, e consente una migliore comprensione dei particolari problemi e dei dilemmi con cui le persone stanno lottando.
Il suo Corollario della Relazione fornisce una comprensione più approfondita delle situazioni di gruppo, ma questo implica una concezione di diversi livelli di costruzione interpersonale. Può spiegare questa idea?
Sì. In realtà l’origine dell’idea deriva dal terapeuta della famiglia Jay Haley, che ha parlato di come possiamo guardare a qualunque situazione, diciamo per esempio una famiglia con una persona con disturbi alimentari o simili. Haley ha usato la metafora della lente dell’obiettivo: ha detto che possiamo guardare semplicemente all’individuo, al suo comportamento, ai suoi atteggiamenti e così via; e poi è possibile ingrandire la messa a fuoco per includere due persone. È comune ad esempio guardare alla relazione con la madre o il padre: ci si può focalizzare sulla relazione tra due persone, l’individuo e un genitore. Questo è quello che potremmo chiamare situazione diadica, o interazione e relazione diadica. Molta ricerca in psicopatologia e in psicologia clinica si focalizza sulle situazioni tra due persone – ad esempio il lavoro sull’attaccamento. Ma Haley ha detto che è molto importante andare ancora oltre e guardare a tre persone, e ovviamente anche di più… Ma i terapeuti della famiglia, come Murray Bowen, Haley stesso, Zuk, Minuchin, anche Freud se andiamo indietro nel tempo, che era interessato alla “situazione edipica” che ovviamente coinvolge tre persone – hanno evidenziato tutte le rivalità, le coalizioni, le esclusioni che possono intercorrere tra tre persone. Perciò Haley parlava di una lente per mettere a fuoco tre persone, un trio o una situazione triadica. Nel lavoro sistemico è comune vedere la famiglia. Il punto importante era la costruzione momento dopo momento, effimera, che governava questi modelli di interazioni, e come è tutto connesso insieme.
Possiamo osservare e dare senso a questi modelli, ma sono le persone stesse nelle situazioni a dover dare un senso all’essere di fronte a un’altra persona… due persone… tre persone… e poi pensare a se stessi in una situazione con due o tre persone, o guardare altre tre persone e avere a che fare con questa esperienza. Se la persona è come uno scienziato, essa deve dare senso, formulare ipotesi e anticipazioni su come si stanno svolgendo le dinamiche in queste situazioni relazionali multiple. Noi facciamo tutto ciò normalmente e molto abilmente, usando un sapere e dei costrutti di cui siamo difficilmente consapevoli. La maggior parte del linguaggio che le persone usano nella nostra società – questo di nuovo ci riporta a Jay Haley (1963, p. 3) – la maggior parte del linguaggio che usiamo parlando di problemi umani è un discorso riguardante una sola persona; cosicché le emozioni, i punti di forza e i limiti, le disabilità, le categorie psichiatriche sono in larga misura descrizioni di comportamenti individuali. Abbiamo bisogno di ampliare il linguaggio della nostra costruzione professionale per includere le situazioni diadiche e triadiche, cosa che coloro che hanno a che fare con i sistemi familiari e, in una certa misura, la psicologia sociale in generale ha fatto molto bene negli anni. Ma forse la costruzione che le persone stesse fanno in una situazione a due, a tre, a quattro persone non è articolata così bene in un linguaggio. Per descrivere una situazione triadica, ad esempio, possiamo usare una singola parola come “gelosia”, ma effettivamente per rendere giustizia al processo costruttivo essa necessita di essere inserita in una piccola storia su come funzionano le cose, anche se in realtà questo accade naturalmente e rapidamente, in un continuo evolversi e fluire. E questa storia può essere connessa con la costruzione, ovvero l’ipotesi che qualcuno fa, “A e B sono determinati a escludere C dalla loro attività”: il che sarebbe un esempio di costruzione triadica che si verifica in un certo momento.
Passiamo a parlare di età evolutiva. La Redazione della nostra rivista sta creando un numero su questo argomento. Una delle premesse del costruttivismo è la visione della persona come sistema di significati in continuo sviluppo e cambiamento. Da questa prospettiva non ha più senso la tradizionale divisione della psicologia in infanzia, adolescenza, età adulta e così via. Mi piacerebbe sapere cosa significa età evolutiva per lei. Cosa sono l’infanzia e l’adolescenza dal suo punto di vista?
Domanda molto interessante. Prima di tutto è utile dire che all’interno della PCP si è sviluppata una critica, mossa in particolare da parte di Phillida Salmon (1970), rispetto all’idea di guardare allo sviluppo in termini di stadi evolutivi. I resoconti più noti sono quelli di Freud, Erik Erickson e Piaget: nel loro lavoro l’idea è che esistano stadi particolari. Non credo che dovremmo escludere del tutto quest’idea, penso che sia piuttosto utile per “sintonizzarci”, per così dire, sulle caratteristiche di un’età particolare. Ovviamente i bambini negoziano cose diverse nei diversi stadi – potrebbe esserne un esempio il periodo che precede e segue la scuola[3], quando una persona si trova improvvisamente a confrontarsi con contesti molto diversi. Ma certamente la PCP affermerebbe che esiste una continuità personale attraverso questi stadi e che il sistema di costrutti elabora e cambia gradualmente maneggiando i più ampi e disparati compiti che i bambini si trovano a negoziare nel diventare più grandi. Prima ho menzionato i livelli di costruzione interpersonale, monadico, diadico e triadico. Si è ritenuto per molti anni che la comprensione del diadico e del triadico si verificasse molto più tardi nello sviluppo del bambino.
Il modello piagetiano di sviluppo cognitivo prevede che sin dall’inizio il bambino interagisca moltissimo con il mondo fisico, più marginalmente con quello sociale e relazionale. Il resoconto di Freud riguarda soprattutto l’imparare a maneggiare e controllare le sensazioni e le funzioni corporee. Ma diverso è per la ricerca sullo sviluppo più recente – sto pensando al brillante lavoro di due ricercatrici svedesi, Elisabeth Fivaz-Depeursinge e Antoinette Corboz-Warnery (1999) che hanno scritto “The Primary Triangle”. Queste autrici hanno considerato il bambino ancora nel suo primo anno, molto presto, fino al nono mese. Anche a tre mesi il bambino è chiaramente consapevole di essere in relazione con più di una persona alla volta. La ricerca precedente, per esempio, nell’ambito della teoria dell’attaccamento, guardava moltissimo al singolo caregiver e all’interazione del bambino con lui, cioè l’intersoggettività con il caregiver primario. Ricercatori come Colwyn Trevarthen hanno considerato invece un’intersoggettività secondaria. In quella primaria c’è una relazione diadica primaria, poi gradualmente la madre, il padre o l’adulto di riferimento introducono il bambino nel mondo: avviene così, con il dare il nome a un oggetto – dandoci un’idea dell’apprendimento del linguaggio – attraverso i nomi degli oggetti e delle cose.
Ma quello che il lavoro svedese ha messo in luce è un’evidenza notevole di quella che io chiamerei costruzione triadica tra il triangolo primario – bambino, madre e padre (o fratello e sorella e altre figure importanti). Possiamo cioè vedere che quelle che chiamerei costruzioni diadiche e triadiche si verificano persino nel primo mese di vita. Ovviamente il linguaggio non è ancora veramente sviluppato – abbiamo dei pattern musicali di balbettii da cui si svilupperanno pattern linguistici sempre più differenziati. Ma ciò significa che il costruire è effettivamente, direbbe Kelly, preverbale: costrutti che governano l’attenzione condivisa, lo spostamento dell’interesse nel seguire i turni di parola nelle conversazioni tra le persone – capacità altamente elaborate che coinvolgono già la possibilità di operare distinzioni tra cose per cui non abbiamo ancora a disposizione etichette verbali. Questo apre la porta e forma le basi di una visione molto più vygotskyana di sviluppo in cui il bambino sta imparando da, e imparando a, maneggiare il proprio contributo alle gestalt interpersonali di conversazione e interazione. La cornice di questi livelli di costruzione interpersonale fornisce uno strumento per descrivere e comprendere questi processi, che è utile come metodologia. Qui sono stato influenzato dal lavoro di Valeria Ugazio e della sua scuola a Milano e Bergamo: i nostri modelli si sono sviluppati in parallelo, in modo simile ma anche complementare. Vorrei quindi riconoscere a Valeria anche l’arricchimento della mia comprensione di questi processi (vedi Procter e Ugazio, 2016).
Dal suo punto di vista, in che modo l’introduzione del linguaggio influenza il processo evolutivo?
È un tema ampio. Il linguaggio è incredibilmente importante, nonostante molte di queste costruzioni avvengano prima che il linguaggio faccia la sua comparsa: Kelly ne parla in termini di simboli che si connettono a poli di un costrutto. E questo si connette bene con gli studi di semiotica di Peirce e di autori più tardi: se consideriamo Kelly possiamo notare che esattamente al centro della sua idea di costrutto c’è un’idea semiotica. Nonostante stiamo facendo una discriminazione, nonostante anche un animale possa capire un costrutto fisico come dentro e fuori, o qui e là: l’animale sa come dirigersi e cercare il suo cibo “laggiù” piuttosto che “qui”, ogni animale ha una sorta di costrutto di spazio; l’animale può mostrare a un altro dov’è il cibo, cosa fare per: comunicazione attraverso l’azione. Tuttavia noi possiamo comunicare di più apponendovi delle parole, parole come “qui”, “là”, “vicino a” e così via, a significare costrutti molto precoci, tra i primi ad essere connessi con simboli verbali. Kelly parla di come un simbolo, una parola (non necessariamente una parola, può essere un gesto o un oggetto fisico come un vestito o una tessera), si lega a uno dei poli del costrutto: è così che, attraverso il linguaggio e i segni, noi iniziamo a comunicare il modo in cui costruiamo il mondo. Poi, ovviamente, anche il linguaggio comincia a formare la nostra costruzione. Così, quando prima abbiamo parlato di come una famiglia o una cultura darà struttura e forma alla nostra costruzione, stavamo dicendo che iniziamo a essere influenzati dai suoi presupposti e dai suoi discorsi: questo è vitale per la comprensione di come il sistema di costrutti continua a svilupparsi.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa della teoria dell’attaccamento.
Penso che ci siano molti sviluppi nella teoria dell’attaccamento, certamente dal punto di vista di un’enfasi familiare sistemica sulle triadi, sui triangoli. Si potrebbe criticare il primo lavoro considerando troppo diadica l’idea di una particolare figura di attaccamento, ma io penso che le cose stiano iniziando a cambiare. I miei colleghi in Inghilterra, come Rudi Dallos e Arlene Vetere, stanno considerando la teoria dell’attaccamento in un contesto familiare sistemico. Come il lavoro svedese che ho menzionato prima, penso che questo sia il segnale di un iniziale riconoscimento, come affermano nell’introduzione del loro libro, che abbiamo bisogno di sviluppare la teoria dell’attaccamento per dare il giusto rilievo a processi più ampi di quelli diadici. Un attaccamento alla madre e al padre, che si spera si sviluppino bene in una famiglia, possono essere tipi completamente diversi di relazione. Guardandoli in modo diadico possiamo parlare di diadi multiple e parallele che le persone, i bambini, sviluppano; tuttavia, come accennato prima rispetto ai processi diadici e triadici, abbiamo bisogno di riconoscere come il bambino inizia a integrare la conoscenza e l’esperienza che sviluppa in ognuno di questi attaccamenti, che è portata come un tutto unico in un sistema di costrutti multi-relazionale e in un sistema di interazioni. Il lavoro di Judy Dunn (1993) nel suo libro “Young children’s close relationships: beyond attachment” è rilevante nel guardare alle varietà di forme differenti che possono prendere per il bambino relazioni importanti. La teoria dell’attaccamento tende a soffermarsi esclusivamente sui temi della sicurezza, dell’evitamento, ecc., per quanto anche questi siano importanti.
Grazie. Nella sua esperienza, quali aspetti della PCP sono più utili nel lavorare con i bambini e gli adolescenti?
Il background filosofico e la psicologia che sta dietro l’idea di costrutto preverbale è molto importante. Quando siamo in relazione anche al più piccolo dei bambini, ci auguriamo – come diciamo – di diventare abili nel giocare la socialità, cioè avere l’abilità di “costruire i processi di costruzione del bambino”, nei termini di questi costrutti molto precoci. Così letteralmente avviene, nel modo in cui giochiamo con il bambino e nel modo in cui con lui entriamo in una relazione appropriata all’età e produttiva in termini di gioco, sia l’interazione che la comprensione di come il bambino sta già iniziando a costruirci, a costruire la relazione con noi e le emozioni che vi sono collegate. In PCP c’è una produzione ampia e ricca sui bambini. Sto pensando in modo particolare al lavoro di Don Bannister sullo sviluppo del “sé” (Bannister e Agnew, 1977; Jackson & Bannister, 1985), e al notevole lavoro di Tom Ravenette, uno psicologo dell’educazione, che lavorava brillantemente con i bambini. I suoi scritti (Ravenette, 1999) su tutti gli aspetti del suo lavoro con i bambini sono un’enorme risorsa. C’è un’ampia letteratura sul tema, ad esempio Heather Moran, Simon Burnham, Richard Butler e Dave Green (2007). Sono sicuro che ci siano altri scritti a cui non posso rendere giustizia qui. Una lista di questa bibliografia può essere trovata in Fransella e Procter (2015).
Il capitolo con cui ho contribuito alla seconda edizione del volume di Butler e Green riassume le linee guida principali e gli approcci che ho sviluppato per lavorare con i bambini, individualmente o nel contesto del colloquio con la famiglia. Questo comprende intervistare i bambini e i ragazzi nel giusto ambiente in cui siano disponibili giochi e materiale di interesse. Ho messo per iscritto una serie di domande che sono formulate in modo particolare per coinvolgere le persone giovani con un’enfasi sulla scoperta dei loro interessi e paure, su come vorrebbero fosse la vita, e per stimolare in loro nuovi modi di vedere le cose (vedi Procter, 2015[4]). È molto importante coinvolgere il bambino con entusiasmo e giocosità. In questo ho imparato moltissimo da Ravenette: egli conduceva le sue interviste come se fossero un’avventura affascinante ed eccitante e aveva un’intera serie di tecniche per aiutare il bambino ad articolare le sue esperienze e a riflettere su di esse. A me di solito piace giocare con le parole e mi diverto un sacco. Quando il bambino comincia a vederti come genuinamente interessato a lui, ti racconterà parecchio di cosa sta succedendo nella sua vita. Essere davvero focalizzati, ricordare accuratamente il modo in cui mette le cose in parole, proteggere il suo spazio da interruzioni di altre persone presenti e “destreggiarsi” tra i vari temi che solleva, rivisitandoli per aggiungere dettagli, sono tutte tecniche di colloquio molto utili. Usare disegni e giochi per focalizzarsi sulle storie e illustrarle è ovviamente fondamentale. Quando il bambino condivide un costrutto, va considerato una “gemma”, qualcosa da salvare ed esplorare con entusiasmo e meraviglia: è suo! Giocare con l’idea dei poli di contrasto è molto utile. Tom Ravenette (1999, capitolo 18) ha elaborato questa idea con una brillante tecnica chiamata “un disegno e il suo opposto”. Quando il bambino ha fatto un disegno, si può sempre dire “non so cosa significa, ma tu sì. Puoi pensare al significato opposto e farmi un altro disegno per mostrarmi l’opposto!”. Questo mantiene il focus e allunga il tempo in cui il bambino pensa a cosa sta esprimendo. Si può poi chiedergli di parlare delle similitudini e delle differenze tra i due disegni. Questo funziona molto bene. Non c’è situazione migliore per validare l’utilità dell’idea di polo di contrasto come intrinseca al significato di quella che ne coglie la risonanza e l’attrattiva per una giovane persona che si sforza di dar senso ai propri eventi. Si dovrebbe sempre essere cauti nel fornire costrutti anziché elicitarli. Quando lo facciamo, dovremmo controllare ed essere doppiamente sicuri che le nostre parole esprimano il significato del bambino.
Ha qualche suggerimento per uno psicologo che sceglie di lavorare con bambini o adolescenti?
Sarà utile conoscere bene la letteratura che ho appena menzionato, perché oltre a essere molto buona stimola nel lettore ulteriori idee e sviluppi. Per chi entra in questo campo, ci sono molte opportunità di avviare nuovi argomenti e aree per la ricerca e lo sviluppo della pratica clinica entro una cornice PCP. Molti dei metodi che io stesso ho sviluppato in termini di Griglie Qualitative, così come tutte le altre metodologie PCP, sono preziose per la ricerca in molte aree di sviluppo e di tipi di difficoltà infantili non ancora esplorate, non solo in campo clinico, ma anche per quanto riguarda le trasgressioni giovanili, lo sviluppo della sessualità, la protezione dei bambini, o per i bambini che affrontano disabilità, malattie fisiche e terminali, migrazioni, discriminazioni – la lista è lunga. La PCP potrebbe trarre beneficio dall’uso della ricerca video in cui l’interazione con la famiglia, con i pari e con gli insegnanti viene studiata al dettaglio quasi microscopico, consentendoci di far chiarezza sui modelli di cui abbiamo discusso e di cui abbiamo ancora una comprensione molto frammentata. Questi aspetti necessitano di sviluppo ulteriore, producendo trascrizioni per studiare il livello verbale, ma anche per approfondire l’interazione non verbale, i gesti e le espressioni emotive e l’uso del corpo, il posizionamento fisico in relazione alla costruzione che le persone stanno utilizzando, connettendo il senso che danno alle interazioni in corso e ai comportamenti concreti. Penso che questa analisi ci renderebbe capaci di imparare di più su come avviene lo sviluppo.
Ma forse la ragione principale per scegliere di lavorare con i bambini e i ragazzi è che sono freschi, vivi e spontanei. Anche i bambini che stanno soffrendo molto tendono spesso a mantenere un atteggiamento positivo e vitale che è d’ispirazione. Io ho vissuto il cambiamento nel bel mezzo della mia carriera, passando dal lavoro nell’ambito della salute mentale degli adulti a quello della salute mentale e delle difficoltà di apprendimento con bambini e adolescenti. Non mi sono mai pentito di aver fatto questo cambiamento: ha aperto la porta a un intero nuovo mondo, in cui per noi è vitale essere inseriti, data l’eccezionale differenza che possiamo fare per queste giovani vite. Chi lavora solo con gli adulti, inoltre, tende a sottostimare le difficoltà dei propri clienti che affrontano come genitori la crescita dei figli. Lavorare con i genitori è una parte vitale, affascinante e sfidante di questa specializzazione.
Penso che una delle sfide attuali della PCP sia descrivere il sistema di costrutti in una prospettiva epigenetica, mettendo in luce come i costrutti cambiano nel tempo. Ho trovato questa idea nei suoi lavori sul concetto di costrutto, in cui descrive come un sistema di costrutti nasce e cresce, a partire da una discriminazione sensoriale. Può spiegare per i lettori cos’è un costrutto e come avviene il processo di sviluppo?
Fondamentalmente un costrutto è un modo di identificare una differenza tra le cose. Se pensiamo al flusso di realtà in cui tutti esistiamo, potremmo dire che c’è una continuità, un fluire senza discontinuità, e la mente umana procede, con lo scopo di sopravvivere in questa situazione e di darvi senso, dobbiamo creare distinzioni. Kelly afferma fondamentalmente che noi usiamo queste distinzioni, che chiama costrutti bipolari, che in realtà coinvolgono tre cose. Quando costruiamo qualcosa, quando usiamo un costrutto – lui dice, in uno stesso atto psicologico – mettiamo insieme alcune cose e le identifichiamo, vedendole come simili e allo stesso tempo diverse da qualcos’altro. Secondo me questa è davvero un’idea dialettica, e la possiamo rintracciare nella filosofia dialettica di Hegel, in cui egli sostiene che il significato di qualcosa non esiste veramente finché non vi troviamo una sorta di contrasto, in modo che si crei una dialettica. Ad esempio diciamo che la parola sicuro significa qualcosa solo in relazione a qualcosa come insicuro o pauroso. Ma non è necessariamente così: ogni persona trova un costrutto che Kelly definirebbe “pertinente” ad anticipare e dare senso agli eventi. È anche molto situazionale: una persona può usare un costrutto con diversi poli di contrasto o distinzioni in diversi contesti. Dobbiamo scoprire in cosa il costrutto è coinvolto ogni volta che viene usato. Questo è quello che succede nello sviluppo di un costrutto: esso è un’entità dinamica, ricreata ogni volta in cui viene usata. Dal momento che un costrutto viene ridefinito ed elaborato, permette alla persona di produrre sempre più conoscenza; non voglio dire che è più accurato, perché non penso che vogliamo rendere l’idea che un costrutto assomigli a uno schema o una rappresentazione della realtà. Forse è qualcosa di più simile a uno strumento per prendere decisioni su come relazionarsi e agire sul mondo. Quando lo facciamo, il mondo ci torna indietro! In tal senso Kelly parla di validazione e invalidazione di un’anticipazione: se prendiamo una decisione… anzi se ci dimentichiamo uno scalino di una scala, anticipiamo che lo scalino sarà “là” e sbagliamo, inciampiamo; e dobbiamo velocemente imparare a revisionare la valutazione o cambiare il costrutto o renderlo più sofisticato per avere a che fare con le situazioni sempre più complesse e sottili che incontriamo. Questa è una bella metafora anche per tutti gli eventi sociali: ci anticipiamo l’un l’altro, pensiamo che qualcuno abbia un certo sentimento o atteggiamento verso qualcosa, ma spesso sbagliamo e gradualmente impariamo a costruire meglio i processi di costruzione di un’altra persona e ad arricchire questa comprensione reciproca.
Nella sua esperienza, cosa significa la parola “cambiamento” parlando di età evolutiva?
Kelly parla di noi come “forme di movimento”, che è piuttosto una buona idea, anzi penso che sia centrale. Noi diciamo di essere “vivi e vegeti”; Kelly, per criticare l’idea che ci sia una specie di pulsione o di bisogno (le chiama teorie push and pull come quella del rinforzo o delle pulsioni), afferma che la persona è già viva, il bambino è già vivo. Anche un bambino piccolo o appena nato è assolutamente spontaneo e sta già cambiando continuamente; la direzione in cui avviene questo cambiamento, dice Kelly, è strutturata dal sistema di costrutti di quella persona e – aggiungerei – dal sistema di costrutti del gruppo di adulti significativi nelle varie situazioni in cui il bambino vive. Questo sistema di costrutti gradualmente diventa sempre più complesso ed elabora – si tratta di una parola davvero centrale nel lavoro di Kelly – così un costrutto riferito a una sola cosa comincia a suddividersi e a diventare più elaborato, come se prendesse la forma di un albero in cui c’è una gerarchia di costrutti; quelli più in alto governano un sottosistema di costrutti. Questo è sempre un sistema vivente. Da un minuto all’altro, letteralmente, i costrutti vengono rivisitati mentre conversiamo, attraverso una costruzione reciproca; anche quando ci posizioniamo l’uno con l’altro e comprendiamo il gioco o la conversazione che stiamo facendo, continuiamo sempre a far crescere i nostri significati. I costrutti sono continuamente ri-creati nella nostra interazione. Quando anticipo la tua posizione nei confronti di qualcosa, mi posiziono naturalmente, non con particolare consapevolezza, in modo da comunicare al meglio con te e tu fai lo stesso con me, e così i costrutti continuano sempre a svilupparsi nel nostro processo e flusso dialogico. Anche quando siamo con noi stessi, o anche quando dormiamo, questo non si ferma mai perché anche i nostri processi interni sono per natura dialogici, come enfatizzano Peirce e Vygotsky. Per Peirce il pensiero è quello che una persona “dice a se stessa” dicendolo “all’altro sé che è appena venuto alla luce nel flusso del tempo”. Questo è ciò che chiamiamo un processo dialogico. È un processo di problem solving creativo, come sappiamo quando ci viene una nuova idea o ci chiariamo una prospettiva su qualcosa.
La cosa importante in questo ottimistico modello di cambiamento è che quando le persone sono “bloccate” nell’affrontare i problemi della vita non si tratta in effetti di una questione di “blocco” ma piuttosto del fatto che i loro tentativi di far fronte alle situazioni sono diventati ripetitivi. Non c’è una perdita di “energia”, anche se ovviamente ci sono situazioni in cui le persone hanno “rinunciato”, si sono scoraggiate e disperate. Ma di solito il problema è una ripetizione di pattern interpersonali. Questo viene catturato nella definizione di Kelly di ostilità e nei pattern che ho descritto come “bow-tie” (Procter, 1985). In queste situazioni è facile criticare dicendo che le persone “non stanno facendo nulla di nuovo”; ma di solito stanno difendendo un valore o una posizione nucleare che sembra minacciata dalla politica della famiglia o del gruppo, forse per fedeltà a un mentore o a una figura nella storia familiare. Oppure potrebbe essere che non siano ancora capaci di pensare a modi diversi di affrontare la situazione e così ripetono la soluzione che per loro ha senso.
Per lei il lavoro con i bambini o gli adolescenti coinvolge sempre il sistema familiare? Perché?
Chi il terapeuta vede in terapia è una cosa, dov’è “il problema” è una questione totalmente diversa. Il pericolo di confonderli sta nel vedere il problema come appartenente in qualche modo all’individuo, così come viene rinforzato dalla diagnosi psichiatrica. Tutte le esperienze, le emozioni e le difficoltà esistono in un contesto sociale, relazionale. Lavorare con qualcuno coinvolge sempre il sistema familiare: anche lavorare individualmente con una persona è un intervento indiretto nel sistema familiare, attraverso i cambiamenti che l’individuo mette in atto e attraverso la conoscenza che il resto della famiglia ha del coinvolgimento del terapeuta. Io considero sempre la possibilità di invitare la famiglia all’inizio del contatto con il cliente perché, se si dovesse rendere necessario in seguito, è più difficile passare da colloqui individuali a familiari piuttosto che il contrario. Quando si vede una famiglia occorre essere flessibili su chi vedere e in quale combinazione: possiamo ritrovarci a vedere un membro della famiglia dopo un colloquio iniziale insieme, ma con l’accordo di tutte le persone coinvolte. I membri di una famiglia si conoscono reciprocamente estremamente bene; ovviamente la loro visione di ogni altro è altamente posizionata, ma noi possiamo comunque usare la vasta quantità di dettagli che ci forniscono. Essi sono una grande risorsa che rimane non sfruttata in un intervento individuale: osservare e intervenire nelle loro interazioni ci fornisce un vero e proprio strato addizionale di informazioni e insight.
Spesso suddivido un colloquio e vedo i genitori e i bambini in momenti diversi, ma è meglio farlo negoziandolo con l’intero gruppo. Ogni parte del colloqui è confidenziale rispetto gli altri: io dico “non voglio agire come un ponte tra voi spiegandovi come vi sentite gli uni gli altri, ma userò tutte le informazioni che mi darete e le metterò insieme per potervi aiutare nel modo migliore che conosco”. Tutto questo dipende ovviamente da quello che sta accadendo: se ci sono alti livelli di violenza, abuso, ostilità o rifiuto potrebbe essere controproducente provare a coinvolgere la famiglia. Talvolta c’è una domanda di terapia che non è però l’esigenza principale, ma lo è piuttosto l’intervento di servizi legali come la tutela minori o la polizia.
Ma diciamo che un terapeuta sta lavorando con una persona giovane, un adolescente, che non vuole coinvolgere i suoi genitori o altre persone: vuole solo sedersi a tu per tu e va bene, se è quello che preferisce e sembra il modo più appropriato di procedere. Talvolta si può sentire che sarebbe una buona idea cambiare questo format e negoziare un lavoro con un gruppo più ampio, persuadendolo a includere qualcun altro, ma va bene lavorare a tu per tu con una persona. Tuttavia anche quando si sta lavorando così, la sua famiglia e le sue relazioni sono di centrale importanza, nel senso che le altre persone sono ancora “nella stanza” e prendono vita “nella testa” sia del cliente che del terapeuta, sono presenti nella conversazione terapeutica. Il ragazzo possiede le “voci” delle persone coinvolte nelle situazioni in cui stanno male. Diciamo ad esempio che sta parlando del suo gruppo di pari, gli amici a scuola, e che qui ci siano alcune situazioni difficili da affrontare. In adolescenza iniziamo a svilupparci: l’inizio dell’interesse sessuale diventa molto più importante, così come temi riguardanti fidanzati e fidanzate, sentimenti di abbandono da parte di qualcuno, delusioni, rivalità e conflitti. Questo potrebbe essere del materiale da prendere in considerazione con una persona giovane, e allo stesso modo possiamo usare le tecniche, guardando alla costruzione delle relazioni, al senso che le persone stanno costruendo rispetto a un amico o a una relazione nel gruppo di amici. Questo lo aiuta a capire meglio la propria costruzione, aiutando anche il terapeuta a comprenderla meglio, in modo da riuscire ad aiutarlo ad allenare modi diversi di approcciarsi a qualcosa. Ma chiaramente la famiglia è sempre importante e di solito è il focus centrale del lavoro: l’adolescenza comporta un cambiamento radicale nelle relazioni di ruolo, cambiamento che è sfidante e disturbante per tutti. L’idea che la persona sia parte di un sistema di relazioni è sempre presente anche quando lavoriamo individualmente con qualcuno: poiché stiamo intervenendo in un sistema familiare e l’individuo non è isolato, un’entità disconnessa, è meglio esserne consapevoli e comprendere tutte le posizioni dei membri della famiglia con l’approccio credulo che Kelly ci ha consigliato, nella misura in cui siamo capaci di avere accesso alla costruzione dei membri assenti.
Quali difficoltà ha incontrato nel suo lavoro con le famiglie?
Difficoltà nel lavoro o nel contesto istituzionale?
Dove lavora o lavora di solito…
Ho capito. Ora sono in pensione ma ho lavorato per molto tempo presso il Servizio Sanitario Nazionale in Gran Bretagna in un servizio di salute mentale per adulti e, successivamente, per bambini; ho poi sviluppato un piccolo team per lavorare con le difficoltà di apprendimento dei bambini e i disturbi dello spettro autistico. Sono stato molto fortunato a riuscire ad avere questa ampiezza di esperienza negli anni. Nel contesto adulto spesso c’è una grande enfasi sul lavoro con gli individui, come se tutti i problemi avvenissero all’interno del singolo. Sono stato fondamentale nell’introdurre un servizio più sistemico e orientato alle famiglie presso la Southwood House, il gruppo che si occupa di salute mentale di comunità a Bridgwater, Somerset. È stato il primo servizio familiare nella salute mentale adulta ad essersi formato in Gran Bretagna. Questo ci ha condotti alla formazione di molti gruppi di terapia familiare nella regione sud occidentale dell’Inghilterra.
Quando si tratta di PCP, vogliamo davvero enfatizzare che ogni situazione è unica, così ogni caso – anche di una difficoltà comune come l’agorafobia – è unico. La sintomatologia esiste in una situazione unica, in un sistema di costrutti unico. Questo significa che è abbastanza limitativo usare approcci standardizzati e manualizzati con prescrizioni basate sulla ricerca di gruppo organizzata attorno a categorie diagnostiche che dicono che un certo tipo di sintomatologia va trattata con un certo tipo di strategia terapeutica. Questa è una battaglia che nei prossimi anni deve essere affrontata, riguardo all’ideologia dell’evidence based practice nella gestione e nell’elaborazione delle politiche nei servizi. Penso sia stato utile arrivare a dare un’enfasi maggiore all’evidenza empirica, ma questo non deve limitare la nostra prassi. Come terapeuti noi sviluppiamo un’expertise nel lavorare con tipi diversi di difficoltà, ma non si tratta solo di lavorare con la difficoltà, si tratta di usare noi stessi e le nostre proprie comprensioni, e la relazione terapeutica che costruiamo nel nostro lavoro con quella persona. Noi terapeuti, insieme ai clienti, siamo gli esperti che lavorano in collaborazione sul modo migliore di aiutare al meglio una situazione. Ovviamente abbiamo bisogno dell’aiuto di supervisioni cliniche e di discussioni di gruppo, aggiornamenti, ecc., ma qualcuno che è al di fuori della situazione come un superiore non può davvero dire che cosa è meglio fare. Egli può provare a dirti cosa fare, e se tu pensi “sì, ha senso per me, lo proverò” è ok. Ma se qualcuno ti sta dicendo “devi fare questo” e non c’è il feeling giusto in quella particolare relazione terapeutica, allora diventa una situazione molto problematica all’interno di terapie psicologiche. È una buona idea cambiare l’ordine delle parole della frase e parlare di practice based evidence, come David Green e Gary Latchford (2012) hanno recentemente proposto. Il lavoro di un superiore in un servizio di psicoterapia deve essere supportare i terapeuti nel loro difficile lavoro e ovviamente garantire la qualità dell’operato rimanendo nel suo ruolo e assicurandosi che ogni pratica inappropriata sia vietata.
Un’ultima domanda. Stiamo chiedendo ai nostri amici sparsi per il mondo: “per lei cos’è l’Institute of Constructivist Psychology (ICP)?”
Per me l’ICP è un gruppo di amici molto accogliente! Sono venuto qui probabilmente quattro o cinque volte, tenendo workshop per due giorni. Non vedo l’ora di venire al convegno il prossimo anno (2016), l’European Personal Construct Conference che terrete qui a Padova, nei Colli Euganei. Penso che l’ICP costituisca un’evoluzione importante ed entusiasmante. Sono colpito dal programma, dagli insegnanti e dagli studenti. È uno dei centri importanti che promuovono la visione di Kelly; ce ne sono altri in Italia, a Barcellona, a Belgrado oltre ai nostri in Gran Bretagna e ovviamente in America e in Australia: l’ICP è uno dei luoghi importanti in cui la PCP viene promossa e sviluppata. Specialmente ora con il lancio della rivista, la RIC, sarà emozionante nei prossimi anni vedere le persone consolidare una conoscenza di base più ampia in questo settore.
Grazie mille.
Grazie a lei.
Bibliografia
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Bannister, D., & Agnew, J. (1977). The child’s construing of self. In A. W. Landfield & J. K. Cole (Eds.), Nebraska Symposium on Motivation 1976: Personal Construct Psychology (pp. 99-125). Lincoln: University of Nebraska Press.
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Risorse elettroniche
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Sitografia
http://herts.academia.edu/HarryProcter
Thank you for being here at the Institute for Constructivist Psychology. We are very pleased to interview you!
Thank you!
What is PCP for you?
PCP was enormously important for me when I came across it while doing my first degree in psychology. I’d become interested in cognitive approaches, people like Ulric Neisser and those early cognitive approaches but then I came across Personal Construct Theory through Don Bannister’s work. We had a local clinical psychologist, Alan Hayward, working in Bristol, who was using Bannister’s Grid Test for Schizophrenic Thought Disorder. Alan was working in the local psychiatric hospital and he gave a lecture to us on Bannister’s work. That’s how I got hold of Bannister. Then I read his paper “A New Theory of Personality” (Bannister, 1966) and it seemed to me that there was a broader and more comprehensive framework there than the cognitive theories, which still seemed to me to be rather narrow and fragmented, especially when it comes to what kind of model we have of a Person. PCP was a much broader, richer model, including a better treatment of emotion and relating. And I never looked back really! It’s been an incredibly useful framework both at a theoretical level and a methodological level – it helps you to work well with people in a respectful way, taking the way they see the world, see their problems, see their relationships and so on and puts those in a central position of importance.
What fascinated you about the figure of George Kelly and about PCP?
As I was saying, he presented a comprehensive model of human functioning. Now we talk about different “Constructivisms”, but I still think that Personal Construct Psychology occupies a position within the broader set of Constructivisms that is balanced – not too individual and biological, on the one hand, and not too social at the expense of the individual on the other. You can embrace a dimension from a proper look at the individual through to a proper look at culture and society, in my opinion. Recently, I’ve written a paper (Procter, 2016) on personal construct psychology almost as a sociology as well as a psychology. So, we can say that constructs, in Kelly’s sense, are something that belong to individuals, as Kelly says: personal constructs, but we can also talk about these constructs, in Kelly’s sense, belonging to groups, institutions, cultures and societies. To me that’s very satisfactory because when we are understanding people and understanding difficulties, it’s very important to put it in a cultural context, but not to ignore that each person develops their own way of looking at the world, through their unique biography, their unique experiences. So, for an individual, any construct, who’s meaning we might all think we know, in practice has very personal implications, personal memories and connotations attached to that way of construing. When we’re working clinically, or when we’re working in education or helping somebody mentoring and coaching in organisational work, we need to know what those specific meanings are, to really help the person to work as well as possible in their situation. So a single theoretical entity, Kelly’s bipolar construct, can become a unit of analysis from the sociological micro through to the macro. This is satisfactory from the point of view of “Occam’s razor” or the law of parsimony.
Who was the most important mentor you met in your PCP location and what is the most important thing you have learned that is of interest for your profession?
That’s a very big question. I mentioned Don Bannister. When I was doing my doctoral research dissertation at Bristol University, a number of us in Bristol became interested in Construct Theory and we went over to Bexley Hospital in Kent, where Bannister was working at the time, and he was enormously kind and helpful. So when I was doing my research on families, he was my external examiner and he continued to be helpful before his unfortunate early death. He was an important person in Britain and Europe for promoting Kelly’s ideas, particularly over here in Italy. I went to training with Fay Fransella quite early on, and other figures like Phillida Salmon and Miller Mair were important. So those early British Construct Theorists were probably my most important influences within PCP. I also learned a huge amount from the family researchers and therapists such as Haley, Bateson, Minuchin, Watzlawick, Selvini, Boscolo and Cecchin and also the hypnotherapist Milton H. Erickson. John Shotter, who I met whilst training in Clinical Psychology at Nottingham, was a strong influence on my wish to elaborate what later would be called a social constructionist critique of PCP.
In recent years, many of your papers have focused on the relationship between Kelly and PCP and some philosophers like Peirce and Wittgenstein. What kind of relationship is there between them and how have they influenced each other?
Yes. Kelly himself was well read in philosophy. There is evidence from an early manuscript called “Understanding Psychology” (Kelly, 1932) which shows that he had surveyed philosophy as well as psychology and sociology. One of the strengths of Kelly’s model, I think, compared to many models within psychology is that he is respectful and knowledgeable about a philosophical base. And so, he makes very clear at the beginning and throughout his work, about what his philosophical assumptions are. But he also said, “If we stopped to pay our respects to all the thinking which has preceded and influenced what we have to say, we would never get it said” (1955, p. 42). But for me, from the very start I was interested in exploring connections with philosophy – the first chapter of my PhD (Procter, 1978) is about the philosophical context of PCP.
I’ve continued to be interested ever since and recently, I’ve started looking at Pragmatism as Kelly’s main framework, his main context, if you like. He acknowledges John Dewey, he says Dewey’s work “can be read between the lines of personal construct psychology” and I discovered, actually through talking to a colleague here in Padua, Carmen Dell’Aversano, who told me about Charles Peirce (it’s pronounced “purse” as in a purse). She told me about Peirce and his semiotics, the person who founded pragmatism. So I started to have a look at Peirce’s work and I found that here was an enormously rich philosopher, incredibly well-read and he touches every area of philosophy. It turns out that he is a strong influence on, a much stronger influence on William James and John Dewey than had been previously recognised. This is now being acknowledged. When I started to read him, I found that you could find in Kelly’s philosophical assumptions, listed at the beginning of Volume 1 of the Psychology of Personal Constructs, and you could find a correspondence between Kelly’s statements and what Peirce was saying (see Procter, 2014a).
What is the point of doing this? Well, it enriches our understanding so that when we look at an assumption that Kelly makes and we look at what Peirce says, it allows us to make links, connections with other philosophers through history, and also with 20th and 21st Century philosophy. You’ve mentioned Wittgenstein…Peirce managed to anticipate many 20th Century trends within philosophy, including Wittgenstein. Wittgenstein made a big change during the 1920’s. He met Frank Ramsey, a brilliant young Cambridge philosopher, who unfortunately died when he was only 27. Ramsey had read and studied Peirce’s work and persuaded Wittgenstein that his early work, in the Tractatus, needed to bring a more pragmatic element into it. And if you look at later Wittgenstein, he’s saying something means something according to its use in the particular context, what Wittgenstein calls a language game. This, to me, relates very closely with the idea of the construing that’s being used in the local situation and group of people, so we can talk about how meaning is really based in what the practical use is, what the implications are in practice. Peirce said that the meaning of something is the practical consequences of taking that particular idea seriously. So, that fits in very well, too, with Kelly’s idea that we’re a bit like scientists, we’re involved in a process of inquiry and inference. Anticipating the future is central in both bodies of work.
How do you think the knowledge and understanding of these authors could be useful? For psychotherapy or psychology in general?
When we’re doing psychotherapy, we’re helping the person make sense of the puzzling situations that they encounter, that they have to find a way forward within. Both clients and therapist are involved in the same kind of venture – inquiry. This is the reflexivity of PCP. I had a supervisor when I was training in Nottingham and he used to say, “Harry, we’re not really doing psychology, we’re doing philosophy!”. I liked that! When we’re sitting down with somebody and working out what the meaning of the events and the dilemmas that they’re in, it raises all the philosophical questions. I think that personal construct psychology really is – it’s a methodology, it’s got its ways of working with people in terms of how to do things, the questions and other approaches that have been developed and the grids and all that sort of thing. But actually, more importantly, it’s a philosophy that I think is incredibly helpful for the therapist. So I would advise people not to be scared of going into the philosophy! Very often when you’ve learned psychology, it’s much more about, you know, experimental method and that sort of thing, but the important thing is that anything that you say is within a framework of assumptions. Those assumptions are philosophical, they’re what we would call in a social constructionist framework, discourses, prejudices and beliefs, the overall discriminations that people make. These have very important effects on how people are functioning in life and the kind of pressures that they have to encounter. Difficulties tend to be perpetuated by the approaches that people make, and these flow from their background assumptions or what we would call their way of construing the situations. The therapist’s task then is to enter into clients’ worlds in an accepting way, and work within these collaboratively to find a better way forward. Often, just making clear what assumptions are being made and putting these respectfully “on the table” together begins to suggest new ways of proceeding. This may happen quite automatically rather than deliberately with change then occurring in unexpected and surprising ways.
In your opinion, what are the present and future challenges for PCP?
It’s quite paradoxical really, because probably within psychotherapy and psychology, PCP is not as known as it should be. But on the other hand, it is also very widely known. When we run our conferences, we’ve had a very successful series of conferences, the one in London that’s coming up (July 2015), in Hertfordshire, is the 21st International Conference, and we also have a successful series of European, American and Australian conferences and at those conferences, there’s a much broader range of people, working within Education and in Organisational and Business contexts, in Philosophy and in the Arts as well as psychology. So in many ways there is a durable strength within PCP across a wider set of disciplines.
But maybe the challenges in the clinical field, with still the very powerful influence of cognitive-behavioural approaches, psychodynamic and other models, are to show that PCP has a lot to offer all of those models and indeed it has absorbed a lot of useful things from those approaches. I feel our challenge is to give personal construct psychology its proper recognition as an important original trend, arising from the mid-twentieth century but still alive and well and developing. My own efforts in trying to connect PCP, looking more at the social and relational issues is all part of that attempt to get it recognised as the useful framework that it is.
It is well-known that your efforts have been to elaborate PCP in a direction of applying it to groups, families and organisations. Where does your interest come from?
Where does my interest come from? I’ve always been interested in families. In my own family, before the second world war, my father and mother had met. She’d come over from South Germany, in order to learn English, to help her father in his business of making electronic time switches[10]. And unfortunately for her father, fortunately for me (!), she met and got engaged to my father. She was continuing to work with her father up until two weeks before the war broke out, and she just got out in time. And so, she and my father got married. So, I was living in the context of a dual nationality family. That intrigued me: what living in a dual tradition family – with two cultures in its background – is that it allows two different frameworks, two ways of looking at the world to come together. Of course that applies to all families, because however much you’re within a culture – what Kelly would say is that we’re all unique – individuals are unique, families are unique, and so the families of origin, on each side of the family, are always different, even if it’s in the same culture. But if it’s from a different language and culture, then there is a greater and interesting bringing together of two quite different ways of looking at things.
The famous anthropologist, Gregory Bateson, would say that binocular vision, having two eyes; a metaphor for looking at things from two different positions or points of view simultaneously gives depth, it gives you richness and depth. It makes you question and become more aware of the kind of assumptions I was talking about earlier. And so you become aware that you don’t have to look at something in only one way. You can look at things in different ways and that’s basically Kelly’s philosophy of Constructive Alternativism. There’s always a different way of looking at something and that if things are difficult, you can approach something from a different point of view.
So that was fascinating for me and when I came across and got interested, particularly in the family and schizophrenia research that was arising in the 1950’s and 60’s; they were looking in detail at the kind of patterns of interaction in families. So my doctoral research consisted of beginning to look at those through the lens of personal construct psychology and its methods. I gave repertory grids to members of the families. Out of that, incidentally, came the idea of Qualitative Grids (Procter, 2014b), which can be used much more immediately and very flexibly in interviewing situations. So you can look at what the construings are of the important people in the family, you can look at how those construings change over time or across different situations. Literally, by using the so called “raw data” of what people actually say, rather than using some kind of standardised questionnaire or method of that kind, you actually use the people’s words. You can even include their nonverbal communication, with drawings and cartoons of nonverbal behaviour in those grids as well. That captures the dynamic, the politics of what’s going on in the situation that enables a better understanding of the particular problems and dilemmas that people are struggling with.
Your Relationality Corollary gives a deeper understanding of group situations, but this involves developing a conception of the different levels of interpersonal construing. Could you explain this idea?
Yes. Actually the origin of that idea comes from the family therapist Jay Haley, who talked about how we can look at any situation, let’s say it’s a family with a person with eating disorders or something like that. Haley used the metaphor of a lens. He said we can just look at the individual, so you’re looking at their behaviour, their attitudes, their emotions and all that. And then you can zoom out the lens to include two people. So it’s very common to look at the relationship with the mother or father. So you can just look at the relationship of two people, the person and one parent. That is what we would call a dyadic situation, the dyadic interaction and relationship. A lot of research in psychopathology, in clinical psychology, looks at two-person situations – attachment work and that sort of thing. But Haley said it is very important to go even wider, and to look at three people, and of course wider still… But the family therapists, people like Murray Bowen, Haley himself, Zuk, Minuchin, even Freud, if we go back further in time, who was interested in the “Oedipal” situation, which is of course, involving three people – all the rivalries, coalitions, exclusions and that sort of thing, that can occur between three people. So Haley talked about a lens looking at three people, a threesome or triadic situation. That’s a common thing to look at in family systemic work. What was important was the moment-by-moment, ephemeral, construing that was governing these patterns of interaction, and how it all connected together.
We can observe and make sense of these patterns, but the people in the situation themselves have to make sense of being confronted by one other person… two people… three people…and then thinking of themselves within a two-person situation, thinking of themselves in a three-person situation, or looking at three other people and having to deal with that. So, if a person is like a scientist, they must be making sense of, and making hypotheses and anticipations about how the dynamics in these multiple relational situations are occurring. We do all this normally so skilfully using knowledge and constructs of which we are hardly aware. Most of the language that people use in our society, this again goes back to Jay Haley (1963, p. 3), most of the language that we use about human problems is just talking about one person, so their emotions, their strengths and limitations, their disabilities, the psychiatric categories, are very much descriptions of individual behaviour. So we need to stretch the language within our professional construing to cover dyadic and triadic situations which the family systems people, and to some extent, social psychology generally, has done very well over the years. But maybe the construing that the people themselves in the situation are making of two person, three person, four person situations is not articulated in language so well. In order to describe, say a triadic situation, we can use a single word like, let’s say,” jealousy”, but actually it needs to be, to do justice to the construing, it needs to be put into a little story about how things work, even though in reality, it occurs naturally and rapidly, ever changing and flowing. And that story, can be connected with the construing, the hypothesis that somebody makes, “A and B are determined to exclude C from their activity”: – that would be an example of a triadic construing occurring in the moment.
We can speak about developmental age. In our journal, in the editorial board, we are creating an issue about developmental age. One of the premises of constructivism is the vision of the person as a system of meaning in continuous development and change. From this perspective, the traditional partition of psychology into childhood, adolescence, adulthood and so on is overcome. I am interested in understanding what developmental age means in your opinion. What are childhood, adolescence etc. in your opinion?
A really interesting question. First of all it’s worth saying that there was a critique within PCP, particularly by Phillida Salmon (1970), about the idea of looking at development in terms of developmental stages. The well-known accounts are those by Freud, Erik Erikson and Piaget, where the idea is that there are particular stages. I don’t think we should rule that out entirely, I think it’s quite useful to sort of “tune in” to the issues of a particular age. So obviously children negotiate different things at different stages – before they go to school, after they go to school[11], would be an example of that, where one is suddenly confronted with a very different context. But certainly, PCP would want to say that there is a personal continuity going through, that the construct system is gradually elaborating and changing and dealing with the broader and more disparate issues that they negotiate as we get older. I was mentioning earlier about levels of interpersonal construing, the monadic, the dyadic and the triadic. It was assumed for many years that to understand the dyadic and triadic would be something occurring much later in the child’s development.
The Piagetian model of cognitive development is that you start very much with interaction with the physical world, marginalising the social and relational. Freud’s account is very much about learning to deal with and control bodily sensations and functions. But actually more recent developmental research – I’m thinking of the brilliant work of two Swiss researchers, Elisabeth Fivaz-Depeursinge and Antoinette Corboz-Warnery (1999) who wrote The Primary Triangle. They looked at children still in their first year, very early, at nine months. Even at three months the child is clearly aware of relating to more than one person at once. The previous work, within, for instance, attachment theory, was very much looking at a single carer and the child’s interaction with, the intersubjectivity with the primary carer. Researchers, people like Colwyn Trevarthen, were looking at secondary intersubjectivity. In primary intersubjectivity there is a primary dyadic relationship, then gradually, the mother or the father or the carer of the child introduces the child to the world, so a labelling of an object, giving us an idea of learning the language, the names of objects and things. But what the Swiss work was looking at was already very much evidence of what I would call triadic construing between the primary triangle – child mother and father (or brother and sister and other important figures). So we can see that what I would call dyadic and triadic construing is occurring really in the first months of life. Of course language hasn’t really developed then – we have the musical patterns of babbling out of which develops more and more differentiated patterns of language. But it means that that construing is actually, Kelly would call it preverbal. Constructs governing joint attention, switching of interest in following the turn-taking of conversations between people – highly elaborated skills already involving distinctions for which we have no verbal labels attached to them. This opens the door and forms the basis of a much more Vygotskyan view of development in which the child is learning from and leaning to manage his or her own contributions to the interpersonal gestalts of conversation and interaction. The framework of these levels of interpersonal construing provides a tool for describing and understanding these processes, which is helpful as a methodology. I’ve been influenced here by the work of Valeria Ugazio and her school in Milan and Bergamo. Our models have developed in parallel, in a similar but also complimentary way. So I would like to acknowledge Valeria as well in the enrichment of my understanding of those processes (see Procter and Ugazio, 2016).
From your point of view, how does the introduction of language affect the developmental processes?
That’s a huge question. Language is incredibly important. Whilst a lot of these construings are happening before the appearance of language, how Kelly talks about language is in terms of symbols which become linked to construct poles. And this makes a good connection with Peirce’s and later writers’ semiotic studies. So, if we look at Kelly, we can see that there is a semiotic idea right at the centre of his idea of the construct. Whilst we make a discrimination, whilst even an animal can understand a physical construct like inside and outside, or here and there. The animal knows how to go and search for its food “over there” rather than “over here”. So even an animal has some sort of construct of space there. The animal can show another animal where some food is, which we can do to: communication through action. But we can communicate in addition by putting words to it, words like “here”, “there”, “next to” and so on, to signify very early constructs, amongst the first constructs to be connected with verbal symbols. Kelly talks about how a symbol, a word, (not necessarily a word, it can be a gesture or a physical object such as clothing or a badge), becomes attached to one of the poles of the construct and that’s how we begin to communicate the way we construe the world in language and signs. Then of course, language begins to shape our construing as well. So when we talked earlier about how a family or a culture will structure and shape our construing, we begin to become influenced by the assumptions and the discourses of the culture and that’s vital for understanding how the construct system continues to develop.
I was interested to ask you, what do you think about attachment theory?
Well, I think there is a lot of development in attachment theory, certainly from a family systemic emphasis on triads, triangles. One would want to critique the early work as being too dyadic, the idea of a particular attachment figure. But I think that that’s beginning to change. My colleagues in England, people like Rudi Dallos and Arlene Vetere are looking at attachment theory within a family systemic context. I think this is signalling the beginning of a recognition that– as with the Swiss work I mentioned earlier, they say in the introduction to that book that we need to develop attachment theory to give proper recognition of processes wider than dyadic. An attachment to mother and an attachment to father that hopefully happens well in families can be a completely different kind of relationship. So looking at that dyadically, we can talk about the parallel multiple dyads that the people develop, that the child develops, but then also, talking earlier about making sense of dyadic and triadic processes, we need to recognise how the child begins to integrate the knowledge and the experience that develops within each of these attachments, that is brought together into a broader multi-relational construct system and interaction system. The work of Judy Dunn (1993) in her book young children’s close relationships: beyond attachment is important in looking at the variety of different forms that important relationships for the child can take. Attachment theory has tended to dwell exclusively on the issues of security, avoidance etc., important as these are.
Thank you. In your experience, what aspects of PCP are more useful in working with children and adolescents?
The philosophical background and the psychology behind the idea of preverbal construing is very important. So, when we’re relating to even the youngest of children, we hopefully become able to have sociality as we say, to have the ability to “construe the child’s construction processes”, in terms of these very early constructs. So, literally in the way that we play with the child, and the way that we’re already getting into an age-appropriate and productive relationship with the child in terms of play and interaction and understanding how the child is already beginning to construe us and construe our relationship and the emotions that are attached to that. There’s a lot of very rich work within PCP on children. I’m thinking particularly of Don Bannister’s work on the development of “self” (Bannister and Agnew, 1977; Jackson & Bannister, 1985), and the outstanding work of Tom Ravenette, an educational psychologist, who was brilliant in working with children. His papers (Ravenette, 1999) on all the aspects of his work with children are an enormous resource. There is a wide literature, people like Heather Moran, Simon Burnham, Richard Butler and Dave Green (2007). I am sure there are many writings I cannot do justice to here. A list of such references can be found in Fransella and Procter (2015).
The chapter I contributed to the second edition of Butler and Green’s book summarises the main guidelines and approaches that I developed for working with children, individually or in the context of the family session. This includes interviewing children and young people in the right environment with toys and materials of interest available. A series of questions are listed which are particularly worded to engage the young person with an emphasis on finding out about their interests and worries and what they would like life to be like and to stimulate in them new ways of looking at things (see Procter, 2015[12]). It is very important to engage the child with enthusiasm and playfulness. I learned a huge amount from Ravenette in this. He ran his interviews as if they were a fascinating and exciting adventure and had a whole series of techniques for helping the child articulate their experiences and reflect on them. I used to love playing with words and having a lot of fun. When the child begins to see you as someone genuinely interested in them, they will tell you much about what is going on in their lives. Being really focused, remembering the way they put things into words accurately, protecting their space from interruptions by other people present and “juggling” the different topics they have raised, revisiting them to get more detail, are all very useful interviewing techniques. Using drawing and play to focus on and illustrate their stories are of course fundamental. When the child shares a construct with you, you regard this as a “gem”, something to savour and explore with enthusiasm and wonder: It is theirs! Playing with the idea of contrast poles is very useful. Tom Ravenette (1999, chapter 18) extended this with a brilliant technique called “A drawing and its opposite”. When the child has done a drawing, you can always say, “I don’t know what it means, but you do. Can you think of the opposite meaning and do me another drawing to show me the opposite?” This keeps the focus and extends the time the child is thinking about what he or she is expressing. You can then ask the child to talk about the similarities and differences between the two drawings. It works very well. The usefulness of the idea of contrast pole as intrinsic to meaning is nowhere better validated than its resonance and appeal to young people struggling to make sense of their circumstances. One should always be cautious about providing constructs as opposed to eliciting them. When we do, we should check and make double sure that our words express the child’s meaning.
Have you got any suggestions for a psychologist who is choosing to work with children or adolescents?
Well, it will be helpful to become familiar with the literature that I mentioned earlier, because as well as being very good, it stimulates in the reader further ideas and developments. There are many opportunities for people entering the field to initiate new topics and areas for research and the development of clinical practice within a PCP framework. Some of the methods I have developed myself in terms of Qualitative Grids as well as all the other PCP methodologies are valuable in researching the many areas of development and unexplored types of childhood difficulty, not just in the clinical field, but in youth offending, development of sexuality, child protection, children facing disabilities, physical and terminal illness, migration, discrimination – the list is large. PCP could benefit from using video research in which interaction with family, peers, and teachers is studied in microscopic detail, enabling us to throw far more light on the patterns we have discussed of which we still have a very sketchy understanding. That needs to be developed more, making transcripts to study the verbal side of things, but also to look at all the nonverbal interaction, the gestures and emotional expressions and the use of the body, the physical positioning in relation to construing that people are using, connecting the sense that people are making of the actual interactions and behaviours. I think that would enable us to learn much about how development occurs.
But perhaps the main reason for choosing to work with children and young people is that they are so fresh and alive and spontaneous. Even children who are struggling hugely with difficulties tend often to maintain a positive attitude and aliveness which is inspiring. I changed mid-career from working with adult mental health to working with child and adolescent mental health and learning disabilities. I never regretted making that change. It opened the door to a whole new world, one that is vital for us to be working in, given the tremendous difference that we can make to these young people’s lives. Also, people working only with adults tend to underestimate the difficulties their clients face as parents in bringing up their children. Working with parents is a vital, fascinating and challenging part of this specialty.
I think that one of the current challenges for PCP is describing the construct system in an epigenetic perspective, how construing changes over time. I have found that this idea in your papers about the notion of the construct, in which you describe how a construct system is born and grows, starting from sensory discrimination. Can you explain for the readers what a construct is and how the developmental processes happen?
A construct is basically some kind of recognition of a difference between things. So, if we think of the stream of reality that we all exist within, we could say that there is a continuity, a seamless flow, and the human mind comes along, in order to survive in this situation and make sense of it, we have to make distinctions. Kelly is basically saying that we use these, what he calls bipolar constructs that actually involve three things. So, when we are construing something, when we’re using a construct, he says in a single psychological act, we are putting some things together and identifying them, seeing them as similar and seeing them as different from something else, all in one go. To me that is what I would call a very dialectical idea, which we can trace back to the dialectical philosophy of Hegel, in which he says that the meaning of something – something doesn’t really mean anything until we’ve got some sort of contrast to it, so that there’s a dialectic. So, let’s say the word secure only means something in relation to something like insecure or fearful. But it wouldn’t necessarily be that: each person finds a construct that is, what Kelly would call “convenient” for anticipating and making sense of events. It is also very situational: a person may be using a construct, with different contrasts or distinctions being made, in different contexts. We have to discover what meaning is involved each time the construct is used. So that’s what is happening in construct development. A construct is a dynamic entity, recreated each time it is used. As a construct is refined and elaborated, it allows the person to make a more and more informed and, I won’t say accurate, because I don’t think we want to get the idea that a construct is something like a schema or a representation of reality. It’s something more like a tool, perhaps, for making a decision about how to relate and to act upon the world. When we act upon the world, it comes back at us! So, Kelly would talk about the validation and invalidation of an anticipation. If we make a decision. If we miss a step on a staircase, we anticipate that the step is going to be “about there” and we get that wrong, we stumble. And so we quickly learn to revise the judgement or change the construct or make it more sophisticated for dealing with more and more complex or subtle situations that we encounter. And that’s a nice metaphor for the whole thing occurring socially too, so we anticipate each other, we think that somebody has a certain feeling or attitude towards something, but we’re often wrong, so we gradually learn better to construe the construction processes of another person and to enrich that mutual understanding.
In your experience, what does the word “change” mean? I’m talking about children.
Well, Kelly talks about us as a “form of motion”, which is rather a good thing, I think, it’s a very central thing. We are “alive and kicking” as we might say. Kelly says that in order to critique the idea that there are sort of drives or that we need what he calls “push” and “pull” theories like reinforcements, drive theories, that actually the person is already alive, the child is already alive. Even a little baby, a new-born baby is absolutely spontaneous and already changing all the time and the direction that change takes place in is structured by, as Kelly says, the construct system of that person and I would add the construing system of the group of carers in the situation in which the child is in at all times. That construct system gradually gets more and more complex and elaborates – that’s a very central word in Kelly – that a construct that is just about one thing begins to divide up and get more and more elaborated, like the tree model, in which there is a hierarchy of construing, in which there is a construct at the top governing a subsystem of construing. That is ever alive. Literally from one minute to the next, constructs are revising as we are in conversation, with our mutual construing, as we position ourselves towards each other and understand the games that we’re playing or the conversation that we’re having leads to the growth of meaning all the time. Constructs are continually being re-created in our interaction. As I anticipate what your position is towards something, I will be naturally, not particularly consciously, positioning myself in order to communicate in the best way with you, and you’re doing the same back with me, and so constructs are forever developing within our conversational process and flow. Even when we are by ourselves, or even asleep, this never stops because our internal processes are conversational in nature too, as Peirce and Vygotsky emphasised. For Peirce, thinking is what a person is “saying to himself”, saying to “that other self that is just coming into life in the flow of time”. This is what we call a dialogical process. It is a creative problem solving process, as we know when we awaken with a new idea or a clarified perspective about something.
The important thing about this optimistic model of change is that when people are “stuck” in dealing with problems in life, it is not a question really of “stuckness” but rather that their attempts to deal with situations have become repetitious. There is not a lack of “energy”, although, of course, there are situations where people have “given up” and become discouraged and despairing. But usually it is a question of a repeating interpersonal pattern. This is captured in Kelly’s definition of hostility and in the pattern I have described as the “bow-tie” (Procter, 1985). In these situations, it is easy to be critical that people are not “trying something new”; but usually they are defending a core value or position that seems under threat in the politics of the family or group, perhaps in loyalty to a mentor or figure in their family history. Or it may be that they have not been able yet to think of a different way of approaching the situation and so they repeat the solution that makes sense to them.
For you, working with children or adolescents, always involves the family system – why?
Who one sees in therapy is one thing. Where “the problem” lies is a totally different thing. The danger of confusing these is to see a problem as somehow belonging to an individual, as reinforced by psychiatric diagnosis. All experiences, emotions and difficulties exist in a social, relational context. Working with someone always involves the family system in that even working with a person individually is an intervention in to the family system, indirectly through the changes that the individual makes and through the knowledge that the rest of the family have of you being involved. I will always consider the option of convening the family at the beginning of contact with a client, because, if that becomes necessary later, it is much harder to go from individual to family sessions rather that the other way round. When seeing a family, one wants to be flexible about who one sees in what combination. We may end up seeing one member of a family after an initial session but with the blessing of everyone involved. Family members know each other extremely well. Their views of each other are of course highly positioned, but we can still use the vast amount of detail that they provide us with. They are a huge resource which remains untapped in individual intervention and observing and intervening in their interactions provides us with a whole additional stratum of information and insight.
I will often divide a session up and see, say the parents and children in separate sessions, but that is best done in negotiation with the whole group. Each part of the session is confidential to that group. I say “I won’t act as a bridge between you explaining how each other feel, but I will use all the information you give me and put it together so that I can help you all in the best way I can think of”. All this obviously depends on the situation that is occurring. If there are high levels of violence, abuse, hostility or rejection it could be counterproductive to try and engage the family. Sometimes it is a question of therapy not being the primary requirement but rather the intervention of statutory services such as child protection or the police.
But let’s say you’re working with a young person, an adolescent, and they don’t want to work with their parents or with other people, they just want to sit one-to-one with you and that’s fine, if that’s what they prefer and it seems the most appropriate way forward. Sometimes one might feel it would be a good idea to change that format and negotiate working with a broader group and persuade them to include someone else, but it’s fine to work one-to-one with a person. But even when you are working one-to-one with a person, their family and their relationships are of central importance and in a sense the other people are still “in the room” and become alive “in the heads” of both client and therapist, present in the therapeutic conversation. The young person has the “voices” of people in their situation that they are struggling with. Let’s say they are talking about their peer group, friends at school, maybe there are some difficult situations at school they have to deal with. In adolescence we begin to develop, the beginning of sexual interest becomes much more important, so issues about boyfriends and girlfriends, feeling abandoned by somebody, disappointments, rivalries and conflicts. That would be some of the material that we would be looking at with a young person. And so we can use the methods, looking at the construing of relationships, looking at the sense people are making of a friend or a relationship issue in their friendship group. This helps them to better understand their own construing, helps the therapist understand better their construing, who is then better able to help the young person work out some different way of approaching something. But, clearly the family is always important and that will usually be the central focus of the work. Adolescence involves a radical change in role relationships which is challenging and disturbing for everyone in the situation. So this idea that the person is part of a system of relationships is always there even when we’re working with a person individually. Since we are intervening in a family system and an individual is not an isolated, disconnected entity, it is better to be aware of this and understand all the positions of family members in the credulous way that Kelly advised, to the extent we are able to gain access to absent member’s construing.
What kind of difficulties do you face in working with the families?
Difficulties within the work or in the institutional context?
Where you work or usually work…
Yes. I have now retired but I worked for many years in the National Health Service in Britain in adult mental health services and later in child mental health and then developing a small team to work with childhood learning disabilities and autistic spectrum disorders. I was very lucky to be able to have that breadth of experience over the years. Within the adult context, very often there is a great emphasis on just working with individuals, as if all their problems occurred within the individual. I was instrumental in introducing a much more systemic, family-oriented service in Southwood House, the community mental health team in Bridgwater, Somerset. It was the first family service in Adult Mental Health to be formed in the whole of the UK. That led to the formation of many family therapy teams working in the South West Region of England.
When it comes to PCP, we really want to emphasise that every situation is unique, so every example, even of a common difficulty like say agoraphobia, is unique. Symptomatology exists within a unique situation, a unique construct system. This means that it is rather limiting to use standardised, manualised approaches with prescriptions based on group research organised around diagnostic categories that says that this particular type of symptomatology should be treated in this particular kind of therapeutic manner. That is a struggle that needs to be met in the coming years with the ideology of evidence based practice amongst management and policy making in the services. I think it was useful for a stronger evidence base emphasis to come in but it mustn’t restrict our practice. As a therapist, we develop expertise in working with different kinds of difficulties, but it’s not just working with the difficulty, it is using our self and our own understanding, and the therapeutic relationship that we build in our work with that person. We as therapists, and the clients, are the experts working in collaboration on how best to help a situation. Obviously we need the help of clinical supervision and team discussion, seminars etc., but somebody removed from the situation like a manager can’t really tell you what is best to do. They can try and tell you what to do, and if you think, “yes, that makes sense to me, I’ll try that”, that’s okay. But if somebody is telling you, “you must do this” and it’s not feeling right in that particular therapeutic relationship, then that is a very problematic situation within psychological therapies. It is neat to turn the phrase around and talk about practice based evidence, as David Green and Gary Latchford (2012) have recently promoted. The job of manager in psychotherapy services must be to support therapists in their difficult work and of course to ensure that the quality of the work remains at its highest and ensuring that any inappropriate practices are precluded.
A last question. We are asking to our friend around the world: “what is the Institute of Constructivist Psychotherapy (ICP) for you?”
ICP is a very warm set of friends for me! I’ve been coming here now, probably four or five times, teaching workshops over two days. I am looking forward very much to the conference next year (2016), the European Personal Construct Conference that you will be holding here in Padua, in the Euganean Hills. I think ICP is an important and exciting development. I am impressed with the programme, the teachers and the students. It’s one of the important centres promoting Kelly’s vision; there are other centres in Italy, in Barcelona, Belgrade as well as our centres in Britain and of course in America and Australia, so ICP is one of the important places in which PCP is being promoted and developed. Especially now with the launch of the journal, the RIC, it is going to be exciting in the coming years seeing people consolidating a broader knowledge base in this field.
Thank you very much.
Thanks to you.
References
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Website
http://herts.academia.edu/HarryProcter
Note
- L’intervista è stata svolta presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova il 13 Aprile 2015. ↑
- Una compagnia che è fiorente ancora oggi, un secolo dopo! Sul sito http://www.theben.de/en/International/Home/The-Company/History è possibile vedere foto di mio nonno Paul Schwenk, la mia Tante (zia) Ellen e il mio Onkel (zio) Paul che ha fatto funzionare la compagnia fino alla sua morte qualche anno dopo. ↑
- Questo tipo di transizioni (lasciare casa, la pensione, sposarsi, avere bambini, subire una perdita) sono ovviamente cambiamenti situazionali. Possiamo parlare di stadi nel ciclo della vita della famiglia come opposto al ciclo della vita individuale, un concetto molto più sistemico. ↑
- Vedere le “Domande utili nelle interviste con le famiglie e i bambini” pubblicate in questo stesso numero. (N.d.T.) ↑
- http://www.herts.ac.uk/about-us/facilities/learning-resources/visitors/fransella-pcp-collection ↑
- Disponibile da:https://www.academia.edu/540452/A_construct_approach_to_family_therapy_and_systems_intervention_1985 ↑
- Disponibile da: http://www.pcp-net.org/journal/pctp14/procter14.pdf ↑
- Vedi http://eu.wiley.com/WileyCDA/WileyTitle/productCd-1118508319.html ↑
- Institute of Constructivist Psychology, Padua, 13th April 2015. ↑
- A company that is still thriving today, one hundred years later! See http://www.theben.de/en/International/Home/The-Company/History where you can see pictures of my grandfather Paul Schwenk, my Tante Ellen and my Onkel Paul who ran the company until his death a few years ago. ↑
- These kinds of transitions, leaving home, retiring, getting married, having children, bereavement are of course situational changes. We can talk about stages in the family life cycle as opposed to the individual life cycle, a much more systemic concept. ↑
- See “Useful questions in interview with families and children” published in this issue. (N.d.T.) ↑
- http://www.herts.ac.uk/about-us/facilities/learning-resources/visitors/fransella-pcp-collection ↑
- Retrievable from:https://www.academia.edu/540452/A_construct_approach_to_family_therapy_and_systems_intervention_1985 ↑
- Retrievable from: http://www.pcp-net.org/journal/pctp14/procter14.pdf ↑
- See http://eu.wiley.com/WileyCDA/WileyTitle/productCd-1118508319.html ↑
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