C’è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l’unica salvezza
c’è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza
Perché il giudizio universale
non passa per le case
Le case dove noi ci nascondiamo
Bisogna ritornare nella strada
Nella strada per conoscere chi siamo
[Giorgio Gaber]
Mi piacerebbe raccontarvi una storia.[1]
La storia che sto per raccontare, ovviamente, non è reale. È essa stessa, come tutte le storie, un percorso, una strada, una tra le molte possibili vie per dare un senso agli eventi. Infatti, non pare concepibile che due esseri umani, pur mettendo l’uno i piedi nelle orme dell’altro, seguano esattamente lo stesso cammino. Questa è quindi una storia, piuttosto breve e idealizzata, rispetto alla quale si potrebbero raccontare storie alternative che potrebbero somigliarle o essere diverse. È una storia di cui il narratore, dunque, si prende la piena responsabilità.
Per tracciare le direzioni che intendo seguire, raccontare e descrivere in questa storia, inizierò riferendomi a ciò che George Kelly (1955/1991) ha espresso in uno dei suoi corollari più significativi, quello legato al tema del perché le persone fanno una certa cosa piuttosto che un’altra: il corollario della scelta. Egli sosteneva, in completa difformità da ciò che asserivano i suoi illustri colleghi dell’epoca, che le persone non sono spinte da qualcosa (la diffusa idea di “motivazione”) ma, canalizzate dalle loro personali anticipazioni, scelgono l’alternativa più elaborativa tra almeno due possibilità che essi riescono a concepire. In altre parole, se assumiamo che la persona non è immobile e statica, ma per definizione – e almeno finché è viva – in movimento, allora non v’è necessità di alcuna spinta, né interna né esterna; va piuttosto capito perché si muove in una certa direzione, che senso ha per essa l’andarci.[2] Approfondendo e, allo stesso tempo, dilatando il tema, Kelly (1991, vol. 1) scrive:
Qui è dove il tumulto interiore spesso si manifesta. Cosa dovrebbe scegliere un uomo, sicurezza o avventura? Dovrebbe scegliere ciò che porta all’immediata certezza o dovrebbe scegliere ciò che potrebbe eventualmente dargli una maggiore comprensione? (p. 45)
Sicurezza o avventura? Questo potrebbe essere considerato un dilemma cruciale che attraversa la storia dell’umanità, rintracciabile nella religione, nella filosofia, nelle scienze e nell’arte; un dilemma che mette in opposizione da un lato la certezza, la verità, la sicurezza e, dall’altro, l’esperienza, l’ignoto, il viaggio, l’avventura e il rischio. Sia la sicurezza che l’avventura presentano pregi e difetti, vantaggi e svantaggi. La ferma sicurezza delle nostre stesse anticipazioni, infatti, può condurre a una confortevole sensazione di solidità, ma può anche concludersi in uno sterile e ripetitivo senso di immobilità e noia. D’altra parte, l’avventura può estendere gli orizzonti della nostra conoscenza, ma può anche condurci al caos, alla confusione e al disastro.
Questa sorta di dicotomia, che è quella da cui parto per raccontare questa storia, nel corso dei secoli pare abbia acceso una rivalità fra coloro che puntano sull’idea di una realtà oggettiva, certa e inconfutabile, e coloro che riportano la “realtà” – non a caso fra virgolette – all’esperienza che le persone ne fanno, immaginandola come il prodotto in continua evoluzione dei loro viaggi e delle loro avventure di conoscenza. Entrambe le correnti di pensiero partono dalla stessa domanda: che genere di mondo è quello in cui viviamo? Tuttavia, i loro presupposti producono ricerche, ulteriori domande, e dunque esiti e risposte diverse.
Da un lato, abbiamo coloro che indagano la realtà come qualcosa di certo e indipendente da loro. Si tratta dei ricercatori della Verità Ultima. Se volete, è l’immagine tradizionale e stereotipata che abbiamo creato del Mistico e dello Scienziato, accomunati entrambi da una tensione verso l’Assoluto. Le scoperte scientifiche, infatti – almeno in una certa versione della Scienza – dovrebbero essere le risposte definitive sulla natura del mondo e delle cose che lo compongono. Anche se la storia della Scienza ci dice, piuttosto, il contrario: ossia che la conoscenza non procede per accumulo di dati o frammenti di verità, ma per salti paradigmatici, rivoluzioni periodiche che ci restituiscono visioni dell’universo e degli elementi che lo compongono di volta in volta, e in epoche diverse (Kuhn, 1962). Dall’altro lato, abbiamo coloro che vedono la “realtà” come un prodotto del conoscere in continuo cambiamento, perché non indipendente dal ricercatore e dalla sua esperienza, partendo dall’assunto che il conoscere e il conoscitore non possono essere separati. Per costoro, la conoscenza non prescinde dall’esperienza e dalla sua possibile narrazione. Come vedremo, anche questo tipo di visione del mondo e di come ne facciamo esperienza, di come conoscendolo gli diamo forma, ha origini antiche che vanno indietro nel tempo e con una lunga, multiforme e policroma tradizione. Da un lato, dunque, abbiamo “luoghi” e confini, dall’altro abbiamo “sentieri” e direzioni.
A questo punto vorrei usare una metafora – antropologica e geografica – per suggerire che potremmo guardare a queste due visioni del mondo e della conoscenza e alle teorie che esse implicano e producono, come se fossero due comunità, due culture: una nomade e una sedentaria. “Nomade” da nomàs (pascolo) e adòs (ricerca) è tradotto letteralmente come “colui che vaga alla ricerca di pascoli”. Una teoria nomade è quindi, dal mio punto di vista, una teoria che vaga alla ricerca di significato. Viceversa, coloro che sono “sedentari” stabiliscono una residenza permanente in un territorio ben definito e ritenuto definitivo, tracciandone i confini e stabilendone le regole. Una teoria territoriale è, quindi, una teoria che pensa i significati degli eventi come qualcosa di permanente, fin tanto che essi (gli eventi) avvengono nel suo mondo, nel suo territorio stabile.
La storia che cercherò di raccontare ci dice che, nel corso di un lungo periodo, nomadi e sedentari hanno incrociato i loro sentieri, in diverse epoche e luoghi. Vi narrerò, infine, la storia di una tribù nomade, di coraggiosi viaggiatori; una storia che ci riguarda come costruttivisti e come tribù della Teoria dei Costrutti Personali.[3]
1. Storia occidentale e cultura
La prima tribù nomade di cui vi voglio parlare è quella degli Scettici, vissuti tanto tempo fa tra il Sud Italia, la Grecia e l’Asia Minore. Stiamo parlando del VI-IV secolo a.C., il tempo in cui i pensatori presocratici hanno gettato le basi per la filosofia e le scienze attuali (Warren, 1998). Apparentemente fu Senofane, un filosofo vissuto tra Colofone (in Asia Minore) e Zancle (l’odierna Messina), il primo ad argomentare che la conoscenza non può ignorare l’esperienza e che consiste in sentire, agire e pensare. Il mondo “reale”, quindi, non è conoscibile in sé ma è sempre mediato (Geymonat, 1970). Chi poi diede forma a questo pensiero fu Pirro, fondatore della scuola Scettica di Elea, nel Peloponneso (Giliberto, 2014).
Questo approccio fu percepito come terribilmente minaccioso da coloro che seguivano le teorie sedentarie – cioè coloro che desideravano una conoscenza permanente e sicura – e cioè la maggior parte della filosofia successiva. E costoro reagirono. Ci fu, per esempio, il tentativo di Platone di dare corpo a qualcosa di certo con la teoria delle “idee pure”, in cui sosteneva che i sensi riferiti alle “idee pure” dessero una visione della verità, anche se imperfetta. Ci fu poi l’argomentazione del 386 d.C. di Agostino che pubblicò Contra Academicos – un testo contro gli Scettici (Catapano, 2006). E molti anni dopo, si aggiunse alla lista Cartesio (1637/1987). Una lista, insomma, in cui potremmo annoverare numerosi illustri pensatori. È infatti possibile guardare alla maggior parte della filosofia Occidentale successiva a Socrate come a un tentativo delle tribù sedentarie di sconfiggere i nomadi Scettici. Ma la visione nomade non è mai scomparsa del tutto. È diventata un fiume sotterraneo, destinato a riaffiorare in superficie dopo anni, sviluppandosi, cambiando la propria forma e il proprio nome. Tra coloro che contribuirono alla sua riemersione ci fu Giambattista Vico che a Napoli, durante il XVI secolo, invertì l’approccio tradizionale alla conoscenza, rappresentato dal pensiero di Cartesio: anziché chiedersi in che modo la mente possa raggiungere la “vera” conoscenza, si interrogò sui modi in cui la mente organizza le esperienze e ottiene i “fatti”, al punto che il suo lavoro De antiquissima Italorum Sapientia può essere considerato il primo manifesto del costruttivismo (Vico, 1710/2005). Da quel momento, fino alla prima parte del XX secolo, altri pensatori hanno contribuito, direttamente e indirettamente, all’approccio costruttivista.
Durante il XVIII secolo, gli empiristi britannici George Berkeley, John Locke e David Hume hanno considerato l’esperienza come l’antica matrice di ogni conoscenza e hanno supposto che le “qualità” degli oggetti dipendessero dall’osservatore, piuttosto che dagli oggetti stessi (James, 1842-1910/2009). Successivamente, Immanuel Kant (1781/2005) ha sostenuto che i concetti funzionano come principi regolatori per l’esperienza; non come specchi della realtà, ma come guide per interagire con il mondo.
Ad ogni modo, è durante il XX secolo che, a partire da diversi luoghi e lavorando separatamente in diverse aree del conoscere, vari pensatori hanno contribuito allo stesso fiume di questo approccio ritenuto sovversivo dal mainstream positivista (Giliberto, 2014). Fin dall’inizio del XX secolo in Italia, Svizzera, Germania, Stati Uniti e Russia, rispettivamente Silvio Ceccato (1964), Jean Piaget (1936), Edmund Husserl (1950/1981), Ludwig von Bertalanffy (1968), Norbert Wiener (1950/1966), Gregory Bateson (1972/1977), Heinz von Foerster (1987), Vygotskij (1934/1966) e molti altri, hanno prodotto studi e ricerche centrati sul modo in cui costruiamo la realtà in cui viviamo. Certo, hanno sottolineato ed enfatizzato aspetti diversi, ma erano essenzialmente precursori, ispiratori e fondatori dell’idea che la realtà non è indipendente dall’osservatore e la conoscenza è creata attraverso l’azione. In particolare, la parola “costruttivismo” legata alla psicologia fu introdotta per la prima volta da Jean Piaget (1936), che ebbe anche il merito di aver parlato per la prima volta della mente come di un “costruttore di significati”.
George A. Kelly (1955/1991) risulta essere il primo psicologo che ha sviluppato una teoria completa e articolata, totalmente costruttivista, focalizzata nel campo della psicoterapia ma più ampiamente intendibile come una teoria dell’esperienza umana. Più recentemente, alla fine degli anni Settanta, Maturana e Varela (1980) arricchiscono questa prospettiva, studiando i sistemi viventi come una forma di conoscenza auto-organizzatrice. Ad oggi abbiamo due tendenze generali nel costruttivismo: la prima è il Costruttivismo Razionale, che non nega l’esistenza di un mondo fisico, reale, indipendente dall’osservatore, che però non può essere conosciuto direttamente (Gopnik, 2009); la seconda, il Costruttivismo Radicale, ben rappresentata dal pensiero di Ernst von Glasersfeld (1995), che sostiene l’idea che la conoscenza non può riferirsi a nessuna realtà oggettiva, ma solo all’organizzazione delle nostre azioni nel campo dell’esperienza.
Ovviamente, la sfida del concepire una conoscenza come cangiante e incerta, benché soggetta alla verifica concreta della sua utilità, ossia della sua viabilità (Glasersfeld, 1995), fa sorgere numerose reazioni in coloro che hanno bisogno di certezza nelle loro anticipazioni. Parlerò ancora di questa lunga contesa tra le teorie sedentarie e quelle nomadi nel corso del racconto. Ad ogni modo, è già possibile osservare come varie tracce di costruttivismo o, se si preferisce, pensiero nomade, sorgono nella storia della filosofia occidentale. Tracce e percorsi, rivoli e fiumi che emergono dall’idea, e vivono nell’idea, che la conoscenza significa, prima e soprattutto, conoscere come conosciamo (Maturana & Varela, 1987) e che la realtà non è indipendente da chi la esplora.
2. Il percorso orientale
Il percorso nomade, quello che non separa il viaggiatore dalla strada, non appartiene solo al mondo occidentale. Nel sud del Nepal nel VI secolo a.C., con Gautama Siddhartha nasce e si sviluppa il buddismo e, a quanto pare, anche questa visione del mondo segue un’uguale linea di pensiero argomentativo ed esistenziale (McEvilley, 2002). Nella filosofia buddista, infatti, la conoscenza è qualcosa che emerge dalla nostra esperienza e non può essere identificata con il mero atto di raggiungere qualcosa di “oggettivo” e indipendente dall’osservatore (S. McWilliams, conversazioni personali, 14 aprile 2013).
Per i buddisti il dolore e la miseria umani sono la conseguenza del nostro essere ancorati alle idee, al nostro reificarle, crederle vere e intrinsecamente buone o cattive. Viaggiare, nella psicologia buddista, significa lasciare indietro alcune idee, liberarsi da esse e vivere nel momento presente e, una volta passato, lasciarlo andare per abbracciare il presente successivo (Centomo & Bordin, 2013). Non ci dovrebbe sorprendere che un regime totalitario come quello cinese, quindi per definizione ancorato alle sue credenze e certezze, possa aver dichiarato guerra ad una tribù nomade come quella buddista.
In estremo oriente e in una diversa epoca, tra il IV e III secolo a.C., siamo testimoni dell’ascesa del pensiero taoista con Zhungzi[4] e Laozi[5] (Morgan, 2001). Come per altre teorie nomadi, sia occidentali sia orientali, decadono le differenze tra teoria e pratica, tra osservatore e oggetto osservato – in breve tra soggetto e oggetto. Il Tao è, infatti, la sola e invisibile realtà che appare in ogni cosa e di cui ogni cosa è composta, ma è anche una realtà galleggiante, che si muove e si evolve. Per poter navigare in questa realtà, come osservatori, inventiamo classificazioni e astrazioni. Il taoismo ci invita a non cadere nella trappola di pensare che queste classificazioni siano parte della natura stessa delle cose, considerandole, invece, date dalla nostra esperienza. Molto in anticipo rispetto all’idea di costrutto bipolare (Kelly, 1955), nel pensiero taoista gli opposti sono il modo con cui diamo significato al mondo, al suo costante flusso, che il Tao incarna e disfa (Capra, 1982).
Sperimentare il vuoto – la meditazione – sembra essere una conoscenza enattiva (Varela, Thompson & Rosch, 1991) delle infinite possibilità della conoscenza e della realtà; questa è l’esperienza incarnata dell’Alternativismo Costruttivo di Kelly.
3. Le “Vie dei Canti” delle persone aborigene australiane
In un altro luogo e in un altro tempo, emerge un’altra visione nomade dell’esperienza.
Molti anni fa il genere umano popolava l’Australia. La filosofia di queste persone era – ed è ancora – legata alla Terra.[6] Il mondo esiste perché gli antenati lo hanno cantato durante “il tempo dei sogni”. Ma qui, diversamente da altre cosmogonie religiose, non c’è nulla di simile a un Dio come essere supremo ed esterno che modella il mondo. Infatti, gli antenati modellandosi hanno creato il mondo (Isaacs, 1980). Il mondo è una rete di cammini – il viaggio degli antenati che si sono cantati. Il mondo, dunque, esiste perché è stato ed è tuttora cantato. In altre parole, il mondo esiste perché è percepito. Se ho ragione – e mi piace credere che potrei averla – è l’uomo che, partendo per un viaggio, compie un percorso rituale in cui ricrea il mondo; poiché cantare e viaggiare significano esistere (Chatwin, 1987/1988).
Un territorio definito da confini non costituisce, quindi, la geografia dei nativi australiani, ma è piuttosto una geografia di percorsi, una serie di rotte che esistono perché c’è qualcuno che le percorre; e poiché cammina, lui stesso esiste.
4. Teorie nomadi e sedentarie a confronto
Come abbiamo già visto le idee viaggiano, emergono in diverse epoche e luoghi, alcune volte indipendentemente le une dalle altre. Le idee di fondo – i poli del costrutto esaminato – sono:
- da un lato, la sicurezza rappresentata dalle teorie di coloro che rivendicano una conoscenza basata sulla vera natura delle cose, che si appellano all’idea di un mondo oggettivo e dato una volta per tutte e per tutti, rivendicando l’infallibilità e la certezza delle proprie concezioni del mondo;
- dall’altro lato, l’avventura e l’incertezza del viaggio, come riflesso delle teorie nomadi che identificano il viaggiatore con la strada, l’esperienza con chi la esperisce e la conoscenza sia con ciò che è noto che con ciò che è ignoto. Queste teorie sostituiscono la fecondità delle idee alla “verità” e accettano la sfida dell’incerto scorrere delle cose.
Questi due approcci sono l’uno l’alternativa dell’altro. Come abbiamo visto, in alcuni casi collidono e confliggono, in altri si rivelano semplicemente diversi e divergenti.
Non sarebbe corretto sostenere che chi segue le teorie sedentarie non viaggi, non cerchi e non esplori. In questo caso però l’esplorazione potrebbe essere vista come una conquista, e ciò che si è trovato e conquistato viene creduto vero e perciò indipendente da chi lo ha scoperto. È, secondo questa prospettiva, un progredire gradualmente verso la verità. Allo stesso tempo, non sarebbe corretto assumere che le persone nomadi non ricerchino sicurezza, ma queste certezze non sono intese come vere: sono, piuttosto, un tentativo di dare un ordine al continuo scorrere delle nostre esperienze. O, per metterla nelle parole di Kelly, “le teorie sono il pensare dell’uomo che ricerca la libertà in mezzo a eventi vorticosi” (Kelly, 1991, 1, p. 16). Nel primo caso le teorie sono qualcosa per cui vivere, nel secondo le teorie sono qualcosa con cui vivere (Bannister & Fransella, 1980). Tra i due poli di questo antico costrutto, gli approcci che ho qui definito sedentari hanno apparentemente avuto la meglio. Apparentemente. Lo si può osservare in vari settori, tra cui quello della ricerca scientifica e della psicologia. Oggi, come ieri, un certo tipo di psicologia cerca di essere, dal proprio punto di vista, veramente scientifica. Vi sono gli psicologi che ricercano la verità, la comprensione universale e immutabile della mente umana nei suoi contenuti e nelle sue funzioni. Questi psicologi veicolano un linguaggio costituito da un insieme di variabili e numeri entro cui racchiudere e sterilizzare l’infinito umano (Vinci, 2022); come se le variabili fossero dati oggettivi di cui il ricercatore o il professionista non sono responsabili. Oppure cercano delle basi cerebrali per avere conferme fisiche e oggettive delle loro tesi. Essi cercano fattori comuni, intesi come componenti tangibili delle menti umane, anziché vederli come costrutti comuni di uno specifico gruppo in un dato periodo di tempo. È lo scientismo di chi vede le scienze dure sperimentali come le uniche forme valide di conoscenza (Kelly, 1969a)[7]. Da questa prospettiva, le altre forme di conoscenza che non si conformano a questi modelli vengono screditate. Così il fenomeno deve adattarsi ai metodi, anziché cercare metodi che siano cuciti su misura per il fenomeno. Questo tipo di psicologia ha un impressionante arsenale di strumenti. Possiamo dire che non le manca nulla, se non il significato dell’esperienza umana.
Le ricadute di questo approccio sedentario sono varie e su vari livelli. Coloro che ricercano una carriera accademica spesso devono fare i conti con la necessità di fornire dati oggettivi. Su un piano politico, i Paesi ambiscono a dare ai propri cittadini almeno l’illusione di sicurezza, perciò promuovono questo tipo di approcci a scapito delle prospettive umanistiche e nomadi. Comunque, come abbiamo visto, gli approcci nomadi nella filosofia, nella religione, in psicologia e in tanti altri campi non sono mai svaniti del tutto. Al massimo, scivolano sotto il terreno e riemergono da qualche altra parte. O si organizzano in piccoli enclave e gruppi di resistenza. Perché? In uno dei suoi famosi lavori, Psychotherapy and the Nature of Man, Kelly (1969b) fornisce un indizio. Nella Bibbia, i primi esseri umani, Adamo ed Eva, si confrontarono con un antico dilemma: scegliere la sicurezza dell’Eden, un posto che avrebbe offerto loro qualsiasi cosa, oppure mangiare la mela della conoscenza e iniziare un’avventura nell’ignoto? Obbedire alle leggi o peccare? Vivere nella sicurezza e nella comodità o mostrare i sintomi di una devastante nevrosi? Sappiamo tutti come finisce la storia. Eppure, il Creatore conosceva bene le sue creature e avrebbe dovuto prevedere gli effetti del suo esperimento. Forse voleva far loro uno scherzo? O il significato di questa storia potrebbe essere che la natura nomade è intrinseca all’essere umano e nessun tentativo di reprimerla può mai avere successo? Può significare, infine, che – se ampliamo il nostro sguardo ad una più ampia visione di spazio e tempo – siamo tutti, nel profondo, nomadi e migranti? La mia storia personale, in effetti, è fatta di molte storie. Un genetista probabilmente potrebbe trovare nel mio sangue tracce di tutte le popolazioni del Mar Mediterraneo e altre ancora. Ma questa non credo sia una mia caratteristica peculiare.
Ecco, credo che queste osservazioni abbiano a che fare, in qualche modo, con l’ultima tribù nomade di cui vorrei parlarvi: la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP).
5. La tribù della Psicologia dei Costrutti Personali
Sono molto affezionato a questa tribù e ho già menzionato il suo fondatore, George Kelly. Ma una breve menzione non è chiaramente abbastanza. La teoria è nata intorno al 1950 negli Stati Uniti e dichiara la sua natura nomade, chiarendo sin dal principio le sue radici filosofiche, l’Alternativismo Costruttivo, ossia:
“Supponiamo che tutte le nostre interpretazioni presenti dell’universo siano soggette a revisione o sostituzione” (Kelly, 1991, 1, p. 11).
Nondimeno, la natura nomade, concreta ed esperienziale della teoria si mostra in altre nozioni rivoluzionarie: cancella il Sé, trasformandolo da cosa in processo in costante divenire; supera l’inconscio; rimpiazza la motivazione con la scelta; annulla la frattura tra emozione e cognizione; rompe la prospettiva reattiva per offrirne una anticipatoria e, perciò, indirizzata al futuro. Ma, cosa più importante, questa teoria afferma che il suo focus è occuparsi del modo in cui le persone danno significato a sé stesse, agli altri, agli eventi e al mondo. Ricercando il significato e il modo in cui ognuno lo cerca e lo trova al posto dei dati, la PCP è aperta alla possibilità di innumerevoli viaggi personali e si propone come astratta e vuota. Astratta perché si occupa del come prima che del cosa; vuota perché il significato appartiene a chi lo ha creato e non può essere prescritto e sovrascritto dal professionista o dal ricercatore che non sono, appunto, detentori di verità predefinite. È un intero set di strumenti con cui viaggiare per costruire la mappa personale di un’altra persona senza sovrascriverla con la nostra. La PCP si considera, inoltre, riflessiva: i nostri modi di descrivere le altre persone e le loro teorie sono validi anche per noi e per la stessa teoria che stiamo usando. In altre parole, essa “deve rendere conto di sé stessa come prodotto di processi psicologici” (Kelly, 1991, 1, p. 27), esattamente come rende ragione di qualsiasi altra visione del mondo. In questo modo, trattando le persone come scienziati e gli scienziati come persone non si propone come una teoria sulle persone, ma come una teoria per le persone a partire dal loro punto di vista (Bannister & Fransella, 1980; Butt, 2008). Infine, la PCP è una teoria completa, un sistema ampiamente elaborato ed integrato per un vasto campo di fenomeni, un potente strumento per quell’avventura che è l’incontro con un altro essere umano e il suo mondo.
Molte di queste idee nomadiche, oltre che essere state in parte assorbite da altri approcci, restano ancora rivoluzionarie, un corpus unitario, costitutive di un programma di ricerca (Giliberto, 2017; Lakatos, 1980) tuttora intatto. Anche se negli Stati Uniti, almeno all’inizio, la PCP non ha avuto una grande risonanza, si è poi diffusa in giro per il mondo primariamente grazie al lavoro di un rivoluzionario appassionato, una persona descritta da Trevor Butt (2008, p. viii) – evidentemente non per ragioni religiose – come uno psicologo inglese con “uno spirito aggressivo da crociato”: Don Bannister. A partire dal lavoro di divulgazione di Bannister e grazie al contributo di molti altri che nel frattempo vi si sono riconosciuti, la PCP si è propagata in Europa, Australia, Stati Uniti e Canada. Tuttavia, ancora oggi è vista come una teoria di nicchia, un oggetto misterioso non ancora ben conosciuto e spesso frainteso. Bannister e Fransella (1980), enfatizzando più volte l’intenzione di Kelly di creare una psicologia diversa da quella ortodossa, differente da un mainstream spesso disumanizzante, notano che:
la tattica tradizionale per contenere i rivoluzionari è di “metterli al loro posto, così, e non deve sorprendere, gli autori dei testi standard hanno cercato di sminuire le affermazioni di Kelly e hanno messo in lista il suo lavoro come un’altra teoria ‘cognitiva’” (pp. 37-38).
Dal primo congresso sulla PCP, il famoso Simposio in Nebraska del 1976 (Chiari, 2017) sono successe tante cose, ma è vero che siamo ancora fondamentalmente una piccola, forte tribù. Comunque, io credo che il numero di persone che usano la PCP sia aumentato, benché la composizione dei membri della tribù sia cambiata. Sembra ci siano meno accademici, mentre il numero di professionisti – soprattutto giovani – è cresciuto considerevolmente. Questo cambio nella composizione ha ovviamente delle conseguenze. Ad esempio, molti professionisti hanno poco tempo e poco o nullo background per fare ricerca e di conseguenza hanno una voce marginale nelle pubblicazioni scientifiche. Il lavoro nella clinica o nelle organizzazioni è diventato nel corso del tempo sempre più impegnativo e, di conseguenza, non concede molto tempo per contribuire a progetti collettivi. Questo significa che, anche se siamo più numerosi rispetto al passato, siamo allo stesso tempo meno visibili. Questa, assieme ad altre, è una delle ragioni per cui è diventato più difficile organizzare i nostri congressi. La sfida è pensare in modo creativo a questo cambiamento, senza farne un dramma. Ci sono persone che credono che la tribù PCP dovrebbe essere soddisfatta dal fatto che molte delle sue creazioni sono diventate parte, o addirittura il fulcro di altri approcci.[8] Nella mia opinione, sia il movimento delle idee verso altri approcci sia l’acquisizione di pensieri da questi sono buone cose, sono indici di permeabilità e non ci rendono incoerenti. Tuttavia, per me, questo significa costruire ponti piuttosto che convertirsi in un più ampio mainstream (Giliberto, Dell’Aversano & Velicogna, 2012). Io credo che la PCP non abbia compiuto il suo potenziale euristico e non abbia alcuna necessità di diventare più “rispettabile”[9]. E oggi siamo qui, vivi e forti.
Quindi, dal mio punto di vista, dobbiamo confrontarci con alcune domande ancora aperte. Come continuare ad essere “rivoluzionari” senza piegarci a logiche “stanziali”? Come diffondere e sviluppare il nostro potenziale attuale? Come abbracciare e includere il diverso “nuovo spirito della PCP” guidato da una nuova generazione di avventurosi professionisti?
Siamo ancora sulla strada.
Bibliografia
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Note sull’autore
Massimo Giliberto
Institute of Constructivist Psychology
Psicologo e psicoterapeuta, è Direttore e Didatta dell’Institute of Constructivist Psychology (ICP) di Padova. Oltre ad insegnare, opera come psicoterapeuta privato e consulente per aziende. Autore di diverse pubblicazioni, si dedica alla diffusione dell’approccio costruttivista sia come membro di vari e-journal (Journal of Constructivist Psychology e Personal Construct Theory & Practice) sia come Direttore Responsabile della Rivista Italiana di Costruttivismo. È Trainer dell’Associazione Costruttivista Serba (SKA) e co-fondatore dell’European Constructivist Therapy Network (ECTN).
- Articolo tratto dal discorso di apertura al XXIII Congresso Internazionale di Psicologia dei Costrutti personali a Cairns (Australia). ↑
- Di fatto, Kelly va oltre la persona in movimento e ci dice che la persona è una forma di conoscenza in movimento. ↑
- L’idea che la teoria non è la mappa di un territorio, ma la mappa di molti possibili viaggi, unisce questi pensatori e queste tribù. ↑
- Nato in Meng, odierna Shangqiu, distretto del Henan. ↑
- Nato nel villaggio di Chu Jen. ↑
- Per i nativi australiani la Terra non deve essere ferita, perché danneggiando la terra ci si danneggia da soli. ↑
- Anche se paradossalmente, intanto, queste discipline hanno cambiato il loro approccio. ↑
- Nella maggior parte dei casi senza che questo sia esplicitamente riconosciuto. ↑
- Nel 2009, durante il congresso di San Servolo, in Italia, qualcuno stava celebrando il funerale della PCP davanti a un pubblico di 200 giovani colleghi appassionati di questa teoria. Mi è sembrato di essere testimone di un funerale celebrato davanti a una salma ancora viva, che si sentiva viva, e che non stava affatto morendo. ↑
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