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Psicologia dell’Emergenza, tra falsi miti e prospettive future: intervista a Luca Pezzullo

Emergency Psychology, between false myths and future prospects: interview with Luca Pezzullo

a cura di

Beatrice Bortolotto, Giulia Marcon e Alessandro Zumerle

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

Luca Pezzullo, attuale Presidente dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi del Veneto e consigliere dell’ENPAP, sin dagli esordi della sua carriera sviluppa il suo interesse clinico nell’ambito dell’emergenza, qualificandosi nel panorama nazionale e internazionale come esperto nella Psicologia dell’Emergenza, dei rischi e della sicurezza. Ha contribuito a organizzare il supporto psicologico alla popolazione in grandi emergenze nazionali, tra cui il terremoto dell’Aquila e di Amatrice. Durante la pandemia da Covid-19 ha coordinato l’organizzazione dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi, in collaborazione col Servizio Sanitario Nazionale e i vari enti territoriali. È professore a contratto presso l’Università degli Studi di Padova, docente di Metodologia della Ricerca presso l’Institute of Constructivist Psychology e già direttore scientifico della Rivista Italiana di Costruttivismo.

Luca Pezzullo, the current President of the Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi of Veneto (Italy) and ENPAP advisor, since the early stages of his career has developed a clinical interest in Emergency Psychology, establishing himself as an expert in the national and international field of Emergency Psychology, risks, and security. He has contributed to organizing psychological support for the population during significant national emergencies, including the earthquakes in Aquila and Amatrice. During the Covid-19 pandemic, he coordinated the activities of the Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi in collaboration with the National Health Service and various regional authorities. He is adjunct professor at the University of Padua, lecturer in Research Methodology at the Institute of Constructivist Psychology and scientific director of the Rivista Italiana di Costruttivismo.

Keywords:
Psicologia dell’Emergenza, trauma, catastrofi naturali, costruttivismo | Emergency Psychology, trauma, natural disasters, constructivism
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A cosa ci stiamo riferendo quando parliamo di Psicologia dell’Emergenza?

La Psicologia dell’Emergenza è un costrutto polisemico che ha avuto varie costruzioni in letteratura scientifica. Dovendo fare una sintesi direi: la Psicologia dell’Emergenza è l’area della Psicologia che si occupa degli eventi acuti, intendendo quegli eventi che vanno a creare una disruption rispetto ad un cosmos pregresso. Questo concetto di cosmos e caos è un costrutto che ci accompagna nella comprensione di molti processi tipici della Psicologia dell’Emergenza. Il cosmos è sostanzialmente l’universo ordinato, preciso, anticipabile, prevedibile, dentro cui il sistema psichico si muove o sa che si può muovere. Nel Costruttivismo lo potremmo definire come il nostro sistema di costrutti che ci permette in maniera isomorfa di comprendere e anticipare il mondo. Anticiparlo, però, implica che il mondo abbia una struttura anticipabile che la nostra mente costruisce progressivamente nel corso di tutto il suo processo ontogenetico. A volte succede che alcune anticipazioni vengano invalidate massicciamente, oppure che il nostro sistema si scopra incapace di anticipare gli eventi. Questo è un tema che viene ampiamente studiato nella Psicologia dei Costrutti Personali (PCP). Il nostro è un sistema che anticipa minuto dopo minuto quello che si aspetta, e repentinamente si può trovare proiettato in una situazione in cui la sua capacità anticipatoria è inadeguata. Sto andando a lavorare, sto pensando che fra poco andrò a fare questo e quest’altro e improvvisamente mi trovo per terra perché mi hanno investito. Oppure, vado a letto la sera, saluto la mia famiglia, anticipo già la mia giornata successiva, la mia settimana successiva e in maniera più generica i miei mesi successivi. Di colpo, alle 3:32 del mattino, inizia a tremarmi la camera. Alle 3:32 del mattino c’è un terremoto e alle 3:35 non ho più la casa, non ho più nulla, ho perso il lavoro, ho perso tutto quello che costruiva la mia identità. In pochi minuti mi trovo di fronte ad un’incapacità totale del mio sistema, non solo di anticipare cosa succederà tra una settimana, un mese, un anno, ma anche solo fra dieci minuti, fra due ore. Il caos ha fatto irruzione nel mio cosmos, nell’universo ordinato, prevedibile entro cui vivo. Inizia uno stato di confusione e disperante necessità di ricostruire un senso. Allora, da questo punto di vista, la Psicologia dell’Emergenza è la Psicologia che si occupa di menti o sistemi di menti che si trovano ad affrontare una transizione improvvisa da una situazione di cosmos ad una situazione di caos, e la disperata necessità di ricostruire un nuovo cosmos, inevitabilmente diverso da quello prima, per riuscire a muoversi in un nuovo contesto. Questa è la risposta ad un livello sovraordinato; poi c’è una risposta più strutturale: la Psicologia dell’Emergenza è una disciplina non verticale, ma orizzontale nell’ambito della Psicologia. Quest’ultimo è un costrutto chiave. Siamo soliti pensare in maniera un po’ didascalica a silos verticali: c’è la Psicologia dello Sviluppo, quella Sociale, la Psicologia Clinica, del Turismo, la Psicologia dei Delfini Bianchi, ecc. Esistono però degli elementi che sono trasversali, abitano orizzontalmente diversi ambiti. Portando un esempio possiamo considerare il medico di Pronto Soccorso che deve sapere di gastroenterologia, neurologia, ecc., ma non ha la competenza verticale profonda di un neurologo o di un gastroenterologo se si parla rispettivamente di neurologia o di gastroenterologia. Quello che lui possiede è una conoscenza specifica dei segmenti di questo silos verticale legati all’emergenza e all’urgenza, ovvero come un sintomo di acuzie neurologica potrebbe nascondere il sintomo di acuzie cardiologica o di altra natura. È questa competenza orizzontale, in questo segmento di acuzie di ognuno degli altri silos verticali specialistici dei vari ambiti della medicina, che lo rende specialista orizzontale di pronto soccorso. Non potrà mai competere con il neurologo sulla neurologia in generale ma nessun neurologo o cardiologo potrà competere con lui, probabilmente, sulla sua capacità di leggere trasversalmente una patologia mista nell’ambito delle acuzie tra neurologia e cardiologia. Stessa cosa fa lo psicologo dell’emergenza. La Psicologia dell’Emergenza è un taglio orizzontale che unisce aspetti della Psicologia Sociale, Clinica, dello Sviluppo al contesto emergenziale, interrogandosi, ad esempio, su che cosa succeda ad un gruppo di lavoro in una situazione di emergenza o in che modo la leadership possa essere applicata in una situazione di crisi, o come un bambino di tre, cinque, otto anni si rappresenta la situazione acuta e confusa del caos, in che modo posso comunicare il decesso di un genitore ad un bambino o ad un ragazzo. In questo senso la Psicologia dell’Emergenza non è una specializzazione verticale, ma orizzontale. Uno degli errori concettuali più critici è confonderla e sovrapporla alla clinica del trauma o alla clinica dell’evento acuto. La Psicologia dell’Emergenza non è di per sé psicoterapia, non è trattare il trauma e non è neanche Psicologia Clinica. È anche queste cose, ma non solo.

 

Come è nato il tuo interesse per questo ambito della Psicologia?

Sostanzialmente la sfiga. Nel senso che sono stato un collettore di calamità per tutta la mia infanzia e adolescenza in quanto, per una serie di motivi, mi sono trovato di fronte ad alcune catastrofi naturali ripetutamente, tra alluvioni, frane ed eventi di questo tipo. Ad un certo punto una persona si pone delle domande esistenziali! Il tema dell’emergenza ha iniziato ad interessarmi significativamente nel periodo dell’adolescenza, attraverso il volontariato in Croce Rossa e poi in Protezione Civile. Poi, durante gli studi universitari, iniziai a pensare che l’area della Psicologia dell’Emergenza e della Protezione Civile, che avevo sempre visto come ambiti un po’ separati, potessero essere messe insieme. A metà anni ’90 non c’era una cultura della Psicologia dell’Emergenza e quella che c’era tendeva a identificarsi un po’ troppo con la sola prevenzione del PTSD (post-traumatic stress disorder), una definizione molto stretta e specifica dell’intervento. La letteratura era molto polarizzata all’epoca, molto CBT (Teoria Cognitivo Comportamentale) classica nordamericana, con interventi strutturati per la prevenzione del trauma in soggetti esposti ad eventi ad alto rischio. Finii a fare tirocinio in un ospedale militare con Massimo Giliberto. In questo contesto mi interessai ad alcune applicazioni legate alla psicologia militare. Nel 2000 venni coinvolto dall’allora Presidente dell’Ordine Nazionale degli Psicologi, Luigi Ranzato, anche fondatore di Psicologi per i Popoli (associazione di Psicologia dell’Emergenza nazionale) nell’avvio dell’associazione in Italia, per cui ci entrai e partii da quello. Lavorai per l’associazione qualche anno e poi andai a fare un dottorato di ricerca in “Geografia dei Disastri”, avviandomi definitivamente in questo ambito.

 

Interessante, ti va di raccontarci un’esperienza per te significativa che ti ha visto coinvolto in prima persona?

Ce ne sono state diverse. Una delle più complesse e articolate è stata in Italia, con il terremoto dell’Abruzzo nel 2009, in cui siamo stati operatori con l’associazione Psicologi per i Popoli e con la Protezione Civile Nazionale. Per poter lavorare nel sistema dell’emergenza, che è un sistema “paramilitare”, tutto deve essere estremamente organizzato, disciplinato, inquadrato dentro a perimetri organizzativi di coordinamento molto rigorosi. Nel senso che l’emergenza è un ambito in cui si possono fare grossi danni se ci si muove in maniera disorientata e disorientante e, purtroppo, molti colleghi lo fanno. La Protezione Civile Nazionale ha una serie di procedure rigorose per l’accreditamento delle pedine operative delle associazioni di volontariato specialistiche in vari ambiti nel territorio nazionale. Psicologi per i Popoli è la pedina operativa di Psicologia dell’Emergenza. All’epoca avevo già delle collaborazioni con il Dipartimento di Protezione Civile, e con Luigi Ranzato dalla notte del 6 aprile lavorammo fino a ottobre senza sosta sia a distanza che in Abruzzo, nelle tendopoli, organizzando soprattutto quelli che erano gli afflussi, l’organizzazione e la supervisione degli psicologi e delle unità operative che arrivarono nelle varie tendopoli. Ci furono più di centocinquanta tendopoli con sessanta-settantamila mila persone sfollate nel cratere sismico, e andammo a contare sul campo tra i cinquecento e seicento psicologi nell’arco dei sei mesi di operatività delle tendopoli. Ci fu la necessità di dare un forte coordinamento, in quanto la situazione operativa era molto frammentata e vi era grande confusione nell’inserimento degli psicologi nel sistema di protezione civile. Nelle prime settimane avevamo a disposizione psicologi dell’emergenza già formati, ma nelle settimane successive ci trovammo a mettere in campo psicologi senza una solida preparazione. Questo ci costrinse ad un lavoro molto denso e faticoso di supervisione e organizzazione delle squadre. Fu un evento organizzativamente totalizzante anche perché io mi trovai assieme ad altre quattro, cinque persone a fare da cabina di regia nazionale. Fu un carico totale, e mi ricordo che le prime 48-72 ore non chiusi praticamente occhio perché avevamo messo in moto la macchina dei funerali di Stato, del centro di riconoscimento delle salme e il secondo giorno mia moglie mi trovò steso per terra con il telefono in mano perché non dormivo da 48 ore. Una situazione fantozziana, eravamo veramente esauriti ma in quel momento c’era da lavorare senza fermarsi, soprattutto nei primi giorni. È stato il più grande evento di Protezione Civile e Psicologia dell’Emergenza a livello europeo fino a quel momento. Fino ad allora e anche successivamente in nessun altro paese europeo sono mai stati convocati più di cinquecento psicologi in uno scenario emergenziale. Ci sono stati altri terremoti, in Emilia, o ad Amatrice, però quello è stato numericamente il più complesso da gestire.

 

Grazie per aver condiviso la tua esperienza. Volevamo chiederti: quale contributo può offrire la Psicologia dell’Emergenza alla comunità, volgendo anche uno sguardo al futuro?

La Psicologia dell’Emergenza è quella che rende permissibile l’elaborazione di eventi che spesso sfidano la mentalizzazione. Il sistema dell’emergenza ha varie articolazioni al suo interno, culturali e operative, di mission. Se vogliamo, la dimensione sovraordinata di tutto il sistema dell’emergenza è quella di “mettere in sicurezza” qualcosa. Il vigile del fuoco, che fa soccorso, mette in sicurezza le infrastrutture; il 118 mette in sicurezza la salute e la vita delle persone; le forze dell’ordine mettono in sicurezza da un punto di vista di security i contesti e le persone. E lo psicologo dell’emergenza cosa fa? Mette in sicurezza le emozioni e le relazioni, la pensabilità degli eventi, la pensabilità di un nuovo cosmos che può riemergere dal caos, ovvero accompagnare singoli, famiglie, gruppi, comunità, istituzioni, a funzionare in maniera sana in una situazione folle. Ciò significa accompagnarli ad essere in grado di affrontare questi temi e gestirli in maniera sufficientemente buona. Sottolineo “sufficientemente buona” perché l’emergenza attiva in maniera un po’ eccessiva, ti mette il turbo, devi fare tutto e subito, ma l’obiettivo non è fare tutto alla perfezione. Questa è la spinta viscerale che tutti provano, operatori compresi, ma riuscire a fare sufficientemente bene, in senso winnicottiano, è tantissimo. Un importante aspetto è l’azione di tutela interna al sistema di soccorsi. È fondamentale sostenere gli operatori a lavorare in maniera sana in una situazione folle evitando che vadano in burn-out perché questo genererebbe problemi per tutti. Nel complesso, sia nella fase acuta che nella fase della cosiddetta recovery, la Psicologia dell’Emergenza ha un ruolo importante. Faccio un esempio molto banale. Purtroppo, diversi colleghi, in America li chiamano i cosiddetti “cacciatori di traumi”, vanno a prendere le persone che hanno subìto un terremoto da tre giorni dicendo loro “Ah, forse c’è il trauma, dobbiamo toglierti il trauma, c’avrai gli incubi, starai malissimo, c’avrai il PTSD”, che è un po’ una leggerezza, detto proprio fuori i denti. Nel senso che l’incidenza di PTSD, a meno che tu non abbia avuto un lutto traumatico di primo grado, quindi hai perso qualcuno direttamente, a seguito di un terremoto, un’alluvione, ecc., si aggira tra il 3% e il 5%. Il che significa che su cento persone che l’hanno subìto, meno di cinque svilupperanno il PTSD. Gli altri novantacinque stanno comunque male per quello che è successo. Gli altri novantacinque devono ricostruire un significato all’esperienza vissuta, devono riadattarsi, dovranno passare mesi nelle tendopoli o nei ricoveri temporanei, dovranno ricostruire la loro identità lavorativa, professionale, dovranno ridare una regolarità alla propria famiglia. Per lo psicologo è un compito molto impegnativo che non necessariamente si identifica con un PTSD. Quindi, se noi stessi stringiamo tantissimo solo sul PTSD, ci stiamo autolimitando enormemente il campo operativo come psicologi e denigrando la nostra identità professionale a 360 gradi. Non siamo lì a dare la caccia al trauma, siamo lì a cercare di ripristinare i processi psicosociali, identitari di persone, famiglie, comunità che è un compito molto particolare e complesso, che si può riassumere nel concetto di recovery, ovvero il ripristino della vita dopo settimane o mesi dall’evento catastrofico. Non dimentichiamoci di questo, altrimenti abbiamo una visione miope nell’immediato e a breve termine, ovvero di pochi giorni o poche settimane dopo l’evento. Molti colleghi che hanno lavorato ad esempio in centro Italia, ad Amatrice o dintorni, hanno creato un centro psicosociale per dare una continuità assistenziale alla comunità, perché c’è una disruption della medicina e dei supporti territoriali. Abbiamo visto che la mortalità e la morbilità degli anziani, che erano passati sotto i radar degli interventi emergenziali iniziali, a un anno di distanza dal terremoto ha avuto un picco enorme. Questo perché, in realtà, tu all’inizio compensi con tutte le tue risorse, hai le capacità di coping, hai la possibilità di tirare avanti in qualche modo, però intanto il sistema sanitario territoriale, delle tue reti sociali personali, dei tuoi amici, dei tuoi conoscenti, della tua quotidianità, salta e allora reggi qualche mese e poi i problemi subclinici iniziano a sommarsi tra di loro. Allora la signora anziana che non fa più le passeggiate, che ha interrotto la riabilitazione, che inizia a non essere più seguita regolarmente dal medico, che inizia a sentirsi sempre più sola, che inizia a sentirsi depressa, che non ha più stimolazioni cognitive adeguate, che vede di meno i parenti, che inizia a vedere una riduzione della sua prospettiva esistenziale, tutto questo si accumula giorno per giorno. Ma non è che è emersa per caso un anno dopo, è iniziata da subito ma non era cosa clamorosa, immediata e visibile. Quindi chi va a cercare l’evento clamoroso non se ne accorge ma è comunque legato all’emergenza, alla fase di ripristino e recovery post emergenza. Quindi è necessario implementare interventi psicosociali di comunità a medio e lungo termine che siano comunque legati alla matrice emergenziale e vadano oltre l’orizzonte del brevissimo termine.

 

Qual è il contributo che lo sguardo costruttivista offre alla Psicologia dell’Emergenza?

Personalmente mi convince molto l’applicabilità dell’approccio all’interno della Psicologia dell’Emergenza. In tal senso trovo che la possibilità di usare una chiave di lettura costruttivista per comprendere molti dei processi tipici della Psicologia dell’Emergenza, come quello di anticipazione, sia molto arricchente e utile per comprendere quei processi che altrimenti sarebbero poco chiari o intesi in maniera semplicistica. Questo approccio ci dà uno strumento di comprensione e di lavoro, fondamentale per non avere una comprensione fine a sé stessa all’interno dei contesti emergenziali, ed è sufficientemente flessibile per adattarsi a situazioni e contesti molto diversi fornendo uno sguardo abbastanza trasversale. Avere una visione di questo tipo ci permette di navigare più facilmente in modo orizzontale e più flessibile. C’è un “però”. Se da un lato l’approccio costruttivista, rispetto ad altre correnti, ci aiuta a ragionare sulla Psicologia dell’Emergenza e sul senso dell’emergenza in termini meno circoscritti, non scendendo nelle specializzazioni verticali di cui parlavamo prima, interessandosi solo del “trauma”, nel contempo il rischio è quello di chiudersi troppo in un sotto-orientamento. Mi spiego: lo psicologo dell’emergenza deve sapere tantissimo di tante altre cose e non esiste che uno “vada lì” sapendo solo di psicologia, quindi va ancora meno bene che una persona sia formata nella psicologia in un solo orientamento. È il contrario, bisogna ampliare tantissimo! Come dicevo precedentemente, gli psicologi dell’emergenza troppo spesso sono percepiti come corpo estraneo perché si pongono loro come corpo estraneo, come lettori di processi che in realtà loro stessi, per primi, non capiscono bene. Questo crea un’alienazione tua rispetto al contesto e un’alienazione del contesto verso di te perché ti percepiscono distante. Riassumendo, è bene avere un orientamento, è bene avere degli strumenti che ci possano essere utili, ma quello che direi alle psicologhe e agli psicologi è di non occuparsi tanto dell’approccio teorico, quanto di tutto quello che esiste al di fuori dal modello etnologico, fuori dalla vita professionale e così facendo, invece di restringere, allargare la prospettiva. Sarebbe bene conoscere la comunicazione, un minimo di geografia dei disastri, un minimo di normativa (il contesto delle emergenze è pieno di normative ed aspetti legali che hanno un impatto molto importante rispetto a quello che si va a fare e una persona questo lo deve conoscere). Mi ricorderò sempre il gruppo di bambini di dieci anni che, tutti festanti, sono venuti verso di noi ridendo, dicendo che la psicologa si era chiusa nel bagno chimico senza saper uscire. La trovo un’immagine molto rappresentativa di questa dimensione “fuori dal contesto”, essere presi in giro addirittura dai bambini della tendopoli! Questo non va bene, non va bene soprattutto se ci presentiamo come specialisti dell’emergenza e allora in questo caso bisogna essere prima di tutto competenti.

 

Qual è la valigetta dello/a psicologo/a dell’emergenza?

La valigetta è dimenticarsi di essere psicologo e farsi un annetto di corsi, o da volontario della Croce Rossa o Protezione Civile, passare le serate e le domeniche a fare esercitazioni, cercare di ragionare sui processi a cui si assiste, interessarsi delle tantissime cose che non c’entrano con la psicologia e poi pian piano avvicinarsi alla Psicologia dell’Emergenza. Non fate il contrario.

Mi ricordo un episodio in Emilia nel 2012, quando eravamo in una tendopoli con trecento persone e quattordici etnie diverse, con conflitti etnici interni molto pesanti, ad esempio gente che tirava fuori coltelli. Gli psicologi dicevano: “Ma noi cosa c’entriamo, di cosa dobbiamo occuparci?”. Io a questi avrei risposto: “Ma chi se ne deve occupare l’idraulico o l’elettricista?!?!”. Ad un certo punto ci chiamano dal C.O.M (centro operativo misto che supervisiona un gruppo di tendopoli) e ci dicono: “Guardate, c’è un gruppo di psicologi che si offrono disponibili per aiutare i cittadini traumatizzati”, che già un termine così… Venerdì ci arriva una comunicazione: “Arriveranno gli psicologi da una certa città domenica pomeriggio e quegli psicologi “potranno fare” dieci traumatizzati. Siete pregati di identificarli ed organizzare gli appuntamenti con i dieci traumatizzati da campo”. Ho subito pensato che anche in questo caso c’era evidentemente lo stereotipo e l’idea dello psicologo che “ha bisogno del traumatizzato” per sentirsi salvatore e va lì senza sapere nulla di Psicologia dell’Emergenza, dei reali problemi dell’emergenza, dei conflitti dell’emergenza e di cosa vuol dire stare in una tendopoli per un certo periodo di tempo. Una cosa talmente stereotipata e talmente banalizzante che evidenzia la totale non consapevolezza e l’inesperienza dei contesti emergenziali e delle reali domande della Psicologia dell’Emergenza, dei reali problemi delle persone che sono lì. Lo trovo veramente sconcertante. Quando la domenica arrivò questa psicologa al campo, iniziò a chiedere dove erano i suoi pazienti e noi le rispondemmo: “I pazienti non ci sono, però c’è un gruppo di pakistani furiosi che hanno appena finito di litigare con una ventina di indiani, abbiamo un caso di malattia del legionario che potrebbe aver ucciso una persona a causa delle condizioni igieniche, abbiamo un soccorritore che sta per essere evacuato perché forse ha avuto un crollo psicotico, e lì ci sono alcune persone che stanno litigando. Se vuoi darci una mano abbiamo un bel po’ di roba”. Questa persona, che era completamente fuori dal suo contesto ed era arrivata a fare la terapia del trauma, si sentì sorpresa e smarrita. Quindi dopo poco abbiamo aggiunto: “Ci sono altri problemi molto più importanti e urgenti. Se c’è qualche persona con un disturbo post-traumatico te la invieremo, però attualmente abbiamo una serie di problemi psicologici e psicosociali estremamente importanti, che impattano sul benessere psicologico di tutti quanti, dinamiche familiari e dinamiche di gruppo”. Questa collega non si fece più vedere, se ne andò via arrabbiatissima e non si presentò più. Il problema spesso siamo noi psicologi che pensiamo di andare a fare “cose da psicologi” in contesti in cui non sappiamo quali sono i veri problemi.

Un’altra questione che mi fa spesso arrabbiare è quella dei disegni. Lo psicologo medio che arriva nelle tendopoli e a cui dicono di occuparsi dei bambini: prende i bambini e inizia a far disegnare il terremoto o l’alluvione o quello che è successo. Questi poveri bambini continuano a disegnare terremoti, perché ogni settimana cambiano psicologo e quello nuovo arriva e dice: “Beh, disegniamo un terremoto?”. Quindi ci sono queste tende dove stanno i bambini ricoperti di disegni del terremoto e alla fine non hanno più voglia e ti dicono: “Ma perché? È la settima volta!”. Lo psicologo corre dai genitori dicendo: “Deve esserci qualcosa di talmente inelaborabile che nemmeno l’espressione grafica è accessibile!”. No, il problema è che hanno raggiunto il limite ed è la settima volta che uno psicologo gli fa fare i disegni, e stranamente preferiscono andare a fare una partita a pallone! Questa è una serie di stereotipizzazioni auto-riferite, perché lo psicologo pensa di dover fare il “lavoro dello psicologo” e di “salvare la gente”, senza saperne di quelli che sono i reali problemi della gente nell’emergenza.

Allora, per rispondere alla domanda, prima si va in emergenza, prima si lavora per la Protezione Civile, ad esempio, prima si dorme in tende a quaranta gradi e poi si capisce quali sono i problemi delle persone e non il fantomatico disturbo post-traumatico. Non voglio sminuirlo, esiste, però c’è in casi specifici e non è comune, non è così comune. Il problema spesso non è la paura durante l’evento del terremoto, durante la notte del terremoto, il problema è quello che succederà nei tre mesi dopo perché questa povera persona di quarant’anni con un bambino di tre anni che ha perso la casa, ha perso il lavoro e il bambino di tre anni gli chiede: “Papà perché non fai tornare le cose come prima?”, entra in una crisi identitaria nel suo ruolo personale, nel suo ruolo professionale e nel suo ruolo genitoriale. Non sa dove sbattere la testa per uscirne e non vede alternative tramite le quali può costruire la sua esperienza in quel momento, è disperato. È la sua prospettiva identitaria che lo preoccupa, lo spaventa e non lo fa dormire la notte. Noi psicologi siamo i primi che dobbiamo ristrutturare le nostre anticipazioni rispetto alla Psicologia dell’Emergenza.

 

Come mai gli/le psicologi/ghe dovrebbero interessarsi a tale ambito?

In primo luogo, perché, da un punto di vista sociale, risponde ad una mission professionale, sociale e sanitaria ovvero quella del supporto psicologico nell’emergenza, il diritto e/o dovere di tutelare il benessere psicologico degli individui, delle famiglie, gruppi e istituzioni ed è essenziale in questo contesto. In secondo luogo, perché, da un punto di vista più professionale interno, lavorare nell’emergenza, in modo formativo o operativo, è un laboratorio professionale estremamente interessante e formativo. Permette di esportare e superordinare altri processi professionali che sono di utile applicazione anche nella quotidianità del nostro lavoro. Quindi, dal mio punto di vista, sia in una prospettiva sociale che personale e professionale è un tipo di attività che ha il suo valore aggiunto importante per il professionista.

 

Che consigli daresti ad uno/a psicologo/a che si vuole avvicinare e formare in quest’ambito?

Il primo passo è affrontare in una terapia personale il perché vogliamo lavorare nell’emergenza elaborando che cosa significa e che implicazione ha nel proprio sistema. Spesso chi vuole lavorare in tale ambito è attivato dall’idea di onnipotenza “io ti salverò” e “non mi basta salvarti nel quotidiano, ma proprio nei momenti più critici e caotici della tua esistenza”. Questi aspetti possono risultare una limitazione e addirittura un problema nel lavoro se non li si elabora facendoli diventare risorsa, poiché il rischio è di fare del male a noi stessi e agli altri. Aggiungo che non si va mai in emergenza da soli, mai, è la regola zero. Si va in gruppo, in intervisione quotidiana con compagni di squadra e con la supervisione alla fine dell’intervento. Si va portando il proprio materiale di cui ci si è fatti carico in quei giorni, lo si riporta per condividerlo e rielaborarlo con e grazie agli altri. Questo è un essenziale presidio di tutela del benessere psicologico di tutti. L’emergenza è magmatica, “ti mangia e ti sputa”, e c’è bisogno di una rete che ti sostenga e il gruppo è necessario. La formazione non è qualcosa che fai da solo ma qualcosa che fai con e assieme ad altri e questo è un altro elemento fondamentale. Queste ed altre sono le regole basilari di cosiddetta “igiene mentale”.

Vi porto un esempio. In Abruzzo, nell’arco delle prime 72 ore ci siamo dedicati a completare l’accompagnamento dei familiari al riconoscimento di moltissime salme che, schiacciate dalle macerie, non avevano uno schema corporeo integro. Mi ricordo che c’erano un paio di psicologi molto bravi che non riuscivano più a sganciarsi dalla loro funzione in uno stato di quasi maniacalità. Quando in un contesto di supervisione dissi loro “Adesso sganciatevi e andatevene, siete incapaci di proseguire” fu un momento veramente duro perché loro si opposero all’idea di interrompere “Noi stiamo benissimo! Dobbiamo aiutare le famiglie, ci conoscono da due giorni, non li abbandoniamo! Hanno bisogno di noi e riusciamo ad andare avanti!”. Abbiamo dovuto organizzare una rotazione forzata con un’altra squadra. In conclusione, consiglierei una buona preparazione che parta dal riconoscimento ed elaborazione dei propri limiti e, nonostante l’entusiasmo in quello che si fa, alternare i contesti emergenziali con fasi in cui ci si occupa di altro perché l’emergenza è usurante, psichicamente e fisicamente. È un’usura seduttiva, adrenalinica, fight or flee, e pertanto pericolosa.

 

Qual è il tuo sguardo sul futuro nella Psicologia dell’Emergenza?

La Psicologia dell’Emergenza sembrava destinata ad un enorme salto in avanti una dozzina di anni fa. Erano sorti in Italia diversi master e corsi di formazione in Psicologia dell’Emergenza, si stava qualificando e affermando rapidamente con possibili ricadute anche sul sistema sanitario nazionale. Dopo il terremoto dell’Aquila, dal 2009 al 2012, in Italia, il sistema nazionale di protezione civile, che pur con i suoi limiti era probabilmente il miglior modello d’Europa, ha conosciuto una crisi e un crollo organizzativo dopo le polemiche su Bertolaso e dintorni, uscendone molto depotenziato. Adesso la Protezione Civile italiana è meno influente di quella di dieci anni fa, purtroppo, in termini operativi, normativi, organizzativi, e il contenitore nella protezione civile della Psicologia dell’Emergenza ne ha subito le conseguenze. Dal 2012 in poi, inoltre, tantissimi corsi di formazione e master universitari hanno chiuso e le associazioni nazionali (Psicologi per i popoli e SIPEM) hanno avuto varie vicissitudini abbastanza complesse e articolate, fra tensioni e fratture. In aggiunta anche l’interesse all’interno della categoria è calato, depotenziandosi nel corso degli anni. Ad oggi la Psicologia dell’Emergenza ha forse la possibilità di assestarsi su una dimensione più equilibrata, soprattutto se riuscirà ad essere riconosciuta nei contesti dei servizi sanitari, forze dell’ordine, vigili del fuoco, ecc. In parte sta avvenendo, anche se con numeri ridotti, e questo potrebbe offrire delle prospettive importanti sui modelli d’intervento: pensare l’intervento psicosociale come diritto e sostegno anche dopo la fase strettamente emergenziale quindi non solo come intervento circoscritto all’evento acuto, ma in una logica di continuità nel territorio dell’intervento psicologico. La Psicologia dell’Emergenza, poi, deve innovarsi anche in questa direzione, uscendo dalle stereotipie dell’intervento alla “rambo” ovvero “arrivo giù col paracadute e salvo la gente dal trauma”. Ecco, lì non vedo tanto futuro per la Psicologia dell’Emergenza; invece, una visione più psicosociale e comunitaria, sì.

 

Vi sono differenze e/o comunanze nella Psicologia dell’Emergenza tra il panorama italiano e quello estero?

C’è da considerare che l’Italia è il primo paese col maggior numero di tipologie diverse di disastri naturali (terremoti, rischio idrogeologico, vulcani, rischio di tsunami, frane, ecc.). La Psicologia dell’Emergenza italiana, anche se siamo abituati a dire che siamo indietro, dal 2000 in poi ha dimostrato di essere una delle più avanzate. Abbiamo effettivamente messo in campo un buon numero di risorse (psicologi dell’emergenza) e costruito e applicato modelli di intervento di Psicologia dell’Emergenza raffinati. Ad esempio, la Croce Rossa francese adesso utilizza gli stessi zaini per l’infanzia che hanno sviluppato gli psicologi dell’emergenza valdostani. In Spagna, Inghilterra, Olanda, spesso usano e hanno usato per tanto tempo modelli molto più ristretti e meno raffinati da un punto di vista psicosociale, poiché sono rimasti quasi solo su modelli CBT classici di intervento precoce sul trauma e l’emergenza viene ridotta quasi esclusivamente a questo. L’esclusivo intervento CBT immediato per ridurre, ad esempio, il rischio di PTSD, porta spesso ad una visione più riduttiva di un approccio che invece sia anche comunitario e psicosociale.

Adesso anche altri paesi si stanno muovendo in maniera più ampia e flessibile, ma noi abbiamo aperto la strada, ripeto, sia come numeri che come modelli. Quindi, da questo punto di vista in Europa ce la giochiamo bene, anche se adesso siamo un po’ meno innovatori. Negli ultimi anni abbiamo avuto il periodo d’oro della Psicologia dell’Emergenza italiana, dal 2004-2005 fino al 2012-2015, e adesso siamo forse un po’ alla pari con gli altri, siamo meno innovatori, abbiamo meno energia creativa, ma tutto sommato siamo comunque uno dei sistemi più articolati di Psicologia dell’Emergenza europea.

 

E rispetto all’emergenza Covid?

Sono saltate molte delle procedure ordinarie, ci hanno lavorato molte persone, ma è diventato difficile da delimitare, perché anche il tipo di intervento era nuovo nell’ambito della Psicologia dell’Emergenza, oltre che a livello normativo. Il Covid è stata una meta-emergenza da tutti i punti di vista. Solitamente c’è un “cratere”, un’area che definisce un “dentro e fuori” dall’emergenza, ma in questo caso no; nel caso del Covid la gestione del sistema sanitario è stata inizialmente caotica, poiché i soccorritori erano anche “vittime” dell’emergenza stessa, poiché la pandemia ha toccato tutti noi ed eravamo tutti a rischio. Questo ha creato una serie di dinamiche psicologiche molto complesse, oltre che operative.

 

Un’ultima domanda per concludere: manterresti il nome “Psicologia dell’Emergenza” o lo cambieresti?

C’è una discussione vivace nel contesto della Psicologia dell’Emergenza perché qualcuno dice che non bisogna parlare di “Psicologia dell’Emergenza” ma di “Psicologia nell’Emergenza”. Il primo termine sembra oggettivare la cosa, mentre il secondo coinvolge tutta la psicologia nel contesto dell’emergenza e forse è una sfumatura che avrebbe senso. Dovremmo restituirla alla sua complessità orizzontale e trasversale in maniera esplicita. Allora io sarei d’accordo, nel senso che trovo la semantica “nell’Emergenza” più corretta, però per semplicità e fluidità possiamo ancora utilizzare “dell’Emergenza”. L’importante è come si sviluppa operativamente: “stat rosa pristina nomine”, “la rosa sta prima del nome rosa”, possiamo usare l’espressione verbale che vogliamo, basta che facciamo le cose correttamente!

 

Note sugli autori

 

Beatrice Bortolotto

Institute of Constructivist Psychology

bortolottobeatrice@gmail.com

Psicologa laureata all’Università di Padova in Psicologia Clinico-Dinamica e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Lavora in libera professione occupandosi principalmente di attività clinica con adulti, anziani e caregiver. Negli ultimi anni si è interessata inoltre dell’area delle malattie psicosomatiche. Conduce gruppi di meditazione per adulti collaborando con un’associazione nel territorio padovano e veneziano.

 

Giulia Marcon

Institute of Constructivist Psychology

g.marcon@ordinepsicologiveneto.it

Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Si è laureata all’Università degli Studi di Padova e ha dedicato la tesi all’approccio dell’Open Dialogue applicato alla gestione delle crisi psichiatriche. Svolge percorsi di supporto psicologico in libera professione con adolescenti, adulti e gruppi; collabora con alcune Cooperative nel territorio di Treviso come psicologa e come supervisore di équipe sanitarie.

 

Alessandro Zumerle

Institute of Constructivist Psychology

alessandro@zumerle.it

Psicologo e specializzando in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Laureato in Psicologia Clinica e di Comunità, attualmente svolge la libera professione occupandosi di psicologia clinica con adulti e minori collaborando con differenti strutture nel territorio veronese. Negli ultimi anni ha approfondito il tema del dolore cronico e delle dipendenze.