Una Ricerca
Il proverbio irlandese Doras feasa fiafraighe (porsi domande è la chiave della conoscenza) ricorda quanto centrale sia esplorare la realtà. Interrogarsi e continuare ad approfondire le proprie conoscenze sono azioni che possiedono il potenziale per il movimento e il cambiamento. L’obiettivo scrivendo questo testo è descrivere la mia esplorazione degli scritti di Kelly sulla colpa, un costrutto che mi ha aiutata a comprendere alcune modalità di risposta a determinate esperienze, soprattutto in un’area dove teoria e pratica della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP)[1] non sono molto diffuse. Il desiderio di rielaborare le idee di Kelly riguardo alla colpa è nato lavorando con i membri di una minoranza etnica irlandese, la comunità dei Travellers[2]. Da questo lavoro non è emersa la colpa come comunemente intesa, nel senso ad esempio di responsabilità morale. Al contrario, da quanto emerge dalla ricerca, dalla terapia e dalle narrazioni sulla vita con i membri della comunità irlandese dei Travellers, la vergogna viene spesso indicata come un’esperienza vissuta (McDonagh, 2012; Hayes, 2006; OSullivan, 2002; Irish Government Report, 1995; Okely, 1994). I Travellers mostrano una profonda acutezza nel descrivere la propria percezione di essere malvisti dal gruppo di maggioranza irlandese e, molto spesso, sentono di essere percepiti come ospiti indesiderati, nonostante siano essi stessi irlandesi (MacGreil, 2011; Helleiner, 2000). Il senso di vergogna provato dai Travellers viene rinforzato quando i media parlano di loro sottolineandone la diversità e riportando solo azioni sbagliate (risse, criminalità, abuso di alcol, violenza domestica) in un modo che sembra assumere che tutti gli appartenenti a quella comunità possano essere così descritti. Rosaleen McDonagh, un’attivista dei Travellers scrive: “è difficile scrollarsi di dosso una vergogna collettiva imposta dall’esterno” (2013).
Dato che la Teoria dei Costrutti Personali (PCT)[3] ha sempre rappresentato per me una valida risorsa, mi è venuto naturale farvi ricorso per tentare di capire meglio la vergogna. Kelly non si riferisce molto alla vergogna nei suoi scritti e, come costrutto, è per la maggior parte assente nella letteratura PCP così come negli scritti e nella pratica di pensatori PCP più recenti, fatta eccezione per la McCoy (1977). Tuttavia ho trovato molta risonanza tra la colpa, per come viene descritta in PCT, e il modo in cui l’esperienza della vergogna viene descritta dai Travellers. Quando ho condiviso i miei interrogativi con un collega psicoterapeuta, appartenente alla suddetta comunità ma poco esperto di PCP, ho ritrovato una reazione familiare, simile a quella che Button (1996) descrive come “uno sguardo perplesso che si perde nel linguaggio della Teoria dei Costrutti Personali” – “persino all’interno della comunità degli psicologi” (p. 142).
Mi sono anche resa conto che l’uso della parola colpa può portare con sé un tono accusatorio, suggerendo che la responsabilità per la propria vergogna sia da attribuire a chi la prova, come ad esempio per il senso di vergogna provato dai Travellers rispetto al gruppo di maggioranza (gli stanziali). Ero preoccupata che se non avessi rivisto l’uso che secondo me Kelly faceva del costrutto di colpa, e se non avessi chiarito come io intendevo usarlo, avrei potuto suggerire, sebbene non intenzionalmente, una comprensione della colpa in termini morali, complicando ulteriormente l’asimmetria di potere in gioco durante i colloqui (Foucault, 1980). Per una donna che dice: “di solito mi vergogno quando incontro le persone stanziali”, come un mio intervento potrebbe essere di supporto? In che modo potrei essere di sostegno a una donna che, allo stesso tempo triste e arrabbiata, mi racconta della necessità di vestirsi diversamente da come vorrebbe per “integrarsi, per non doversi sempre scusare”, ma aggiungendo anche: “quando incontro una donna stanziale mi vergogno – lo so, lo sento, ci guardano sempre dall’alto in basso” (O’Sullivan, 2002, p. 49)?
Inoltre stavo iniziando a entrare in contatto con un nuovo filone di ricerca psicologica sulla colpa e la vergogna, due tra le emozioni autocoscienti.
Tangney (2003) definisce le emozioni autocoscienti come quelle emozioni “evocate dall’autoriflessione e dall’autovalutazione” e come tali “emozioni fondamentali per l’autoregolazione” (p. 384). Secondo Tangney in questa categoria sono incluse vergogna, colpa, imbarazzo e orgoglio. Mi sono chiesta come potessi trarre informazioni utili da questo lavoro e, allo stesso tempo, sviluppare la mia indagine in ottica PCP, approccio in cui mi ritrovo molto, sia personalmente sia professionalmente. Questi sono i quesiti da cui mi sono lasciata guidare durante la stesura di questo testo. Il mio intento è di sviluppare un processo creativo di indagine che possa portare a trascendere l’ovvio (come per esempio affermare che Kelly o la PCP abbiano poco da dire sulla vergogna). Lungo questo percorso ho tenuto a mente l’accento posto da Kelly sull’aspetto invitativo più che prescrittivo (se “A” – allora “B”) dell’elaborazione così da non considerarne l’esito come la verità assoluta, ma solo come una delle possibili alternative percorribili.
Vergogna e Colpa in PCP
Nella tabella 1 ho evidenziato il modo in cui Kelly ha scelto di parlare di colpa e come questo si differenzi dalle definizioni più comuni. Nelle definizioni fornite dall’Oxford English Dictionary (OED), per quanto concerne la vergogna, viene posta l’enfasi sull’aspetto fortemente sociale di questa esperienza, mentre la colpa è definita come implicante un senso di responsabilità per qualcosa ritenuto moralmente sbagliato o riprovevole.
COLPA
(Oxford English Dictionary) |
COLPA
(definizione di Kelly) |
VERGOGNA
(Oxford English Dictionary) |
Colpevolezza (responsabile); biasimevole; il sentirsi colpevole
Il fatto di aver commesso un’offesa esplicita o implicita. |
“La colpa fa riferimento a una condizione del sistema di costrutti personali e non ad un giudizio sociale sulla colpevolezza morale di qualcuno” (1955b, p. 489).
“La colpa è la consapevolezza del dislocamento del Sè dalle proprie strutture nucleari di ruolo” (1955c, p. 565). “La colpa dunque, nel sistema teorico dei costrutti personali, assume il significato di perdita di ruolo” (1969a, p. 179). |
Imbarazzo, umiliazione, mortificazione, ignominia, il perdere la faccia, ritegno da timidezza.
Uno stato di disonore, discredito o intenso rimorso. |
Tab. 1. Definizione di Colpa e Vergogna
Per le intenzioni della sua prospettiva teorica e le relative implicazioni costruttiviste, Kelly (1955b) fornisce una definizione di colpa piuttosto particolare e specifica, che fa riferimento “a una condizione del sistema di costruzione di una persona” (p. 489). Tale condizione è descritta da Kelly come situata all’interno del dominio socio-relazionale, così che la colpa, in questa definizione, implica “la perdita di status all’interno delle costruzioni nucleari di ruolo” (ibidem, p. 503) e la colpevolezza (o senso di colpa) “può essere o meno coinvolta” (Kelly, 1969a, p. 179). Le costruzioni nucleari di ruolo sono descritte da Kelly (1955b) come “quelle cornici che permettono alla persona di predire e controllare le proprie interazioni fondamentali con altre persone e gruppi sociali” (p. 502). Esse costituiscono il ruolo nucleare di una persona, ma tale ruolo è impersonato “non tanto in base a quello che l’altro sembra approvare o disapprovare” quanto “a quello che la persona stessa crede che l’altro pensi”. Quest’ultimo aspetto, come suggerisce Kelly, “rappresenta la nostra comprensione più profonda dell’essere sociali” (ibidem, p. 502). Di conseguenza la perdita di status del proprio ruolo nucleare (che nei termini di Kelly viene definita come una consapevolezza di colpa) porta direttamente a ciò che è più comunemente descritto come vergogna.
Nonostante la vergogna venga menzionata molto raramente, è chiaro come Kelly, fin dall’inizio, effettui una precisa distinzione tra la colpa che ha delle implicazioni morali e la colpa come perdita dei costrutti nucleari di ruolo. Tuttavia in uno dei suoi articoli più personali, Confusion and the Clock (1978), Kelly racconta di provare vergogna e colpa. A seguito di un improvviso incidente cardiaco molto doloroso, scrisse: “mi sentivo scomodamente responsabile, ma allo stesso tempo contrario a fare tutte quelle cose che, secondo l’opinione degli altri, avrei dovuto evitare. Quindi non solo mi sono sentito imbarazzato, responsabile e stupido, ma anche incorreggibile” (p. 222). Io interpreto queste parole come il suo modo di dirci che aveva provato vergogna perché non riusciva ad essere la persona, marito o padre, che avrebbe voluto essere con i suoi familiari, o comunque quello che credeva la famiglia si aspettasse da lui. Ci sta tuttavia anche dicendo che non si è sentito in colpa, moralmente responsabile, per una trasgressione moralmente deprecabile. Ritengo che questo paragrafo dimostri come Kelly attui una distinzione tra colpa e vergogna, ma utilizzando il costrutto vergogna nella modalità in cui, in ottica PCP, ci aspetteremmo si parlasse di colpa. Infatti, più avanti, nello stesso capitolo, scrive: “l’aspetto dell’esperienza che più specificatamente andrebbe chiamato colpa – nell’accezione di perdita di ruolo, di incapacità di soddisfare le mie aspettative nei confronti dei miei cari – è stato il più difficile da sopportare” (ibidem, p. 232). Qui Kelly fa chiaramente riferimento alla definizione PCP di colpa.
Paul Gilbert (1998), ricercatore e psicologo clinico, assumendo una prospettiva bio-psicosociale nel trattare le emozioni auto-coscienti, ha passato in rassegna l’ampio spettro di ricerche e teorie disponibili sulla vergogna. Ha concluso che è complicato “fare chiarezza su che tipo di emozione sia la vergogna” perché ci sono “molte questioni ancora da risolvere, compresa la sua stessa definizione” (p. 29). Egli fa comunque notare che il provare vergogna ha a che fare con lo stare al mondo “in un modo che non corrisponde a quello desiderato” e vede ciò come “una reazione involontaria alla consapevolezza di perdita di status e al sentirsi svalutati” (ibidem, p. 30). Più recentemente, Gilbert (2007) ha proposto una visione della vergogna e delle sue relative implicazioni secondo un “modello di processo descrittivo” che cerca di delineare una visione bio-psicosociale del bisogno umano degli altri (che si prendano cura di noi), presente fin dai primissimi momenti di vita, poiché siamo esseri “squisitamente sociali fin dai primi giorni della nostra vita” (ibidem, p. 303). Questo modello suggerisce che chi si prende cura di noi influenza la nostra sopravvivenza e quindi “chi diventeremo” (ibidem, p. 300). Ciò porta a una comprensione in termini evolutivi della vergogna come un crescente adattamento a ciò che può essere una valorizzazione o una svalutazione per una persona in ogni particolare cultura, società o famiglia. Tutto questo suggerisce perciò come la vergogna sia un’importante e positiva esperienza correttiva sia in ambito sociale sia relazionale, che garantisce la possibilità, per ognuno, di sentirsi conforme a, accettato dal gruppo, dalla comunità, dalle persone, dalla famiglia, dai diversi ambiti di riferimento ecc. che sono centrali per la sopravvivenza dell’individuo. Ne consegue anche che provare vergogna può agire come una potente forza negativa che minaccia pesantemente l’esistenza e la sopravvivenza della persona in quanto membro di una famiglia, gruppo o comunità; se poi è un intero gruppo a provare vergogna, ad essere minacciata è l’esistenza della comunità stessa. Nel vasto panorama degli scritti di Kelly riguardo alla colpa, e in particolare quando fa riferimento ad essa come al dislocamento del Sé dalla struttura nucleare di ruolo, ritrovo molte somiglianze con la vergogna così come descritta da Gilbert.
Ma all’interno di un contesto PCT non si può proseguire la discussione su vergogna e colpa, o più in generale su emozioni e Teoria dei Costrutti Personali, senza citare il lavoro della McCoy (1977), uno scritto su cui sono tornata più volte. Benché sia un utile catalizzatore per imparare ad apprezzare il modo in cui Kelly ci invita a considerare le emozioni in ottica PCP e costruttivista (Chiari e Nuzzo, 2010), l’ho tuttavia trovato insoddisfacente. Kelly (1969b) suggerisce che discriminare (costruire) non sia soltanto un’attività cognitiva o verbalizzabile, ma che “possa prendere forma anche a un livello cosiddetto fisiologico o emozionale” (p. 219). Chiari (2013) sottolinea che “l’abbandono della distinzione tra cognizione ed emozione in PCT è ciò che rende la PCT una teoria genuinamente costruttivista” (p. 258). Quest’ultimo critica fortemente i tentativi fatti fino ad ora di elaborare una prospettiva PCP sulle emozioni e sposta l’attenzione sull’assoluta importanza di tenere in considerazione la posizione epistemologica e filosofica esplicitamente dichiarata di Kelly: l’alternativismo costruttivo. McCoy (1977) è in linea con questo punto di vista quando concentra l’attenzione sulla definizione kelliana di colpa che enfatizza “l’importanza della costruzione sociale” e considera il mantenimento dei processi di base di una persona “non soltanto come una questione individualistica” (p. 112). Non commenta, invece, il fatto che Kelly, con la sua definizione di colpa, stia facendo riferimento al sistema di costruzione di una persona e non alla colpa morale così come comunemente intesa. Spostandosi sull’esperienza di vergogna, McCoy fornisce una definizione che ritiene coerente con un approccio PCP. La vergogna, suggerisce, è “la consapevolezza del dislocamento del sé dalle costruzioni altrui del proprio ruolo” (ibidem, p. 121), e sostiene che ciò differisca dalla definizione di colpa kelliana poiché “il locus è esterno piuttosto che interno”. Aggiunge che “entrambi, comunque, coinvolgono un assessment fenomenologico del Sé in un ruolo” (ibidem, p. 113). Si possono trovare tali definizioni nella seguente tabella (Tab.2).
Definizione di COLPA
(Kelly 1955b/McCoy 1977) |
Definizione di VERGOGNA
(McCoy 1977) |
Consapevolezza del dislocamento del Sé dalle proprie strutture nucleari di ruolo (senso di perdita di ruolo nucleare). | Consapevolezza del dislocamento del Sé dalla costruzione del proprio ruolo da parte dell’altro. |
Tab. 2: Definizioni PCP di Colpa e Vergogna
É stato per me scomodo lavorare con l’approccio della McCoy e, in particolare, con la distinzione effettuata tra colpa e vergogna. In primo luogo, mi sembraa che la definizione di vergogna della McCoy, che si focalizza sulla costruzione altrui del proprio ruolo, non sia sufficientemente differente dal costrutto di colpa così come definito da Kelly. McCoy parla di ruolo piuttosto che di ruolo nucleare, ma non è chiaro quanta enfasi attribuisca esattamente a questa distinzione. Ci offre la sua comprensione in merito a una descrizione PCT di vergogna, ma riguardo all’accento posto sulla consapevolezza di un cambiamento nella costruzione che gli altri hanno o potrebbero avere di noi, mi sembra che si ritorni alla definizione di colpa di Kelly. In secondo luogo, non posso essere d’accordo con la McCoy dal momento che ritengo il costrutto che lei propone, locus interno vs locus esterno, come incoerente con la posizione costruttivista insita nella PCP, la quale riconosce ogni processo costruttivo, modalità di discriminazione e creazione di significato, come interamente creato da colui che costruisce (Kelly, 1955b, p. 8). Di conseguenza, sebbene la McCoy offra una distinzione tra colpa kelliana e vergogna, trovo che non sia una distinzione soddisfacente.
Ma, continuando a costruire una comprensione della colpa kelliana (comparando come Kelly la definisce nella PCP e la colpa come senso morale di colpevolezza) e a questo fine rileggendo il capitolo di Kelly Sin and Psychotherapy (1969a) parecchie volte, mi sono chiesta cosa volesse suggerirci Kelly a questo proposito dicendo:
Lo strumento della scomunica, che sia esso utilizzato dalla Chiesa, da un partito politico, da una comunità di donne, da una famiglia o da uno psicoterapeuta che in modo inopportuno attivi un transfert di dipendenza, è lo strumento più potente che sia mai stato inventato per creare conformismo e mettere a tacere le domande personali circa la distinzione tra bene e male (p. 185).
Secondo Kelly (ibidem), avvicinarsi a “la comprensione più profonda della natura del bene e del male” fa parte dell’iniziativa personale di ognuno, “di fatto l’impresa più importante della sua vita” (p. 186).
Così facendo, la persona non permette ciecamente a se stessa di ripetere errori che sono tali alla luce della “sua personale discriminazione tra bene e male”, ma prende tali decisioni in base alla paura o consapevolezza di essere espulsi (scomunicati), di perdere il ruolo nucleare.
E dunque, per come lo intendo ora, mi sembra che Kelly, nel descrivere la colpa, stesse in effetti descrivendo la battaglia della società umana con le questioni morali, con il giusto e lo sbagliato, il buono e il cattivo.
Ma con lo scopo di collocare tali difficoltà in un contesto psicologico, piuttosto che meramente etico, morale o religioso, Kelly sposta l’attenzione sull’esperienza di colpa come incanalata nell’identità del singolo, nella sua capacità di comprensione e nelle sue convinzioni di chi, cosa o come appare agli occhi dell’altro, nel come questo viene costruito, ovvero nella costruzione dei costrutti nucleari.
E quindi, come fa notare Kelly, la colpevolezza può essere o meno implicata in questo modo di vedere la colpa mentre lo è il modo in cui un individuo costruisce se stesso come compreso o bisognoso di essere compreso negli occhi dell’altro, altro che può assumere la forma, come lui stesso suggerisce, di un Dio, di una religione, di un gruppo, di un parente, della comunità…
In questo scritto, si ha la sensazione di leggere della vergogna e del suo potere, non tanto per la centralità dell’immagine del Giardino dell’Eden e di come la vergogna venga usata per invocare la paura o l’esperienza vera e propria dell’espulsione, della non appartenenza, quanto per la disidentificazione sociale e la perdita di ruolo nucleare di cui Kelly parla in maniera così eloquente. Ciò riporta di nuovo all’idea che la colpa, nella definizione kelliana, risulti essere più vicina al concetto di vergogna come comunemente intesa, e che la sua definizione qualche volta sussuma la colpa così come normalmente definita. Se comprendiamo il coinvolgimento dei costrutti nucleari di ruolo nella transizione di colpa come definita da Kelly, che è ciò che, secondo la mia ipotesi, solitamente chiamiamo vergogna, allora suggerirei che siano i costrutti nucleari, più che i costrutti nucleari di ruolo, ad essere maggiormente coinvolti nella colpa comunemente intesa.
Sono ben consapevole che il mio punto di vista e la mia comprensione in merito a colpa e vergogna in ottica PCP non siano necessariamente condivisibili da altri. Professionisti esperti appartenenti al mondo PCP hanno scritto in merito alla colpa e il contributo più recente è un libro scritto da Richard Butler (2009).
In questi testi così ricchi e coinvolgenti, che danno particolare rilievo alla riflessività, così come alle sfide e all’aiuto che gli autori ritrovano nella PCP in tema di riflessività, essi parlano di colpa, e in certi casi fanno riferimento alla vergogna (Cummins, 2009; Burr, 2009; Green, 2009; Robbins, 2009; Pekkala, 2009). Tuttavia nessuno di questi autori si è trovato di fronte a un dilemma o alla necessità di esplorare la distinzione tra colpa e vergogna, né in termini comuni né come costrutti professionali di transizione (in PCP).
Tuttavia, parlando di colpa kelliana, Burr ha posto un interrogativo interessante (2009). L’autrice ci mostra, con grande chiarezza, degli esempi della sua esperienza personale di dislocamento dalla struttura nucleare di ruolo (colpa kelliana). Più volte ha sottolineato l’importanza delle azioni dell’altro, di come l’individuo costruisca le proprie azioni e reazioni, in modo da poter mantenere le particolarità dei propri costrutti di ruolo in ogni situazione senza provare imbarazzo o vergogna. Burr (ibidem) continua chiedendosi se “si può dire che sperimentiamo la colpa solo quando il nostro ruolo (moglie, genitore) porta con sé forti obblighi morali nella società in cui viviamo” (p. 217). L’autrice non fornisce una risposta a questo quesito, e io non sono certa se stesse facendo riferimento, nello specifico, alla colpa kelliana o alla colpa comunemente intesa. Ma non posso fare a meno di chiedermi se anche lei stesse avendo dei dubbi circa la distinzione tra colpa kelliana (in relazione a costrutti nucleari di ruolo) e valori morali e credenze (in relazione ai costrutti nucleari).
Ritrovandomi a condividere alcune esperienze culturali con Cummins (2009), sono rimasta colpita dall’apertura mentale con cui scrive dei cambiamenti, profondamente sentiti e spesso non facili, che lui stesso ha creato e di cui ha fatto esperienza nella sua relazione con la Chiesa e la fede religiosa della sua infanzia. Ha reso il posizionarsi in quell’esperienza, e il descrivere i suoi incontri e la sua esperienza con i pazienti, ancora più vividi grazie all’utilizzo del costrutto kelliano di colpa.
Tuttavia Cummins non descrive nessun dilemma particolare, nessuna apparente confusione nel parlare di colpa in relazione al peccato o al peccato originale (per come è inteso nella Chiesa Cattolica Romana) e allo stesso tempo di colpa kelliana. Probabilmente a questo punto è inevitabile che mi chieda se questo dilemma sia solo mio e se stia in realtà indulgendo in un’esplorazione vuota, troppo legata alle definizioni. C’è anche un’innegabile esperienza di malessere e di vergogna (es. la mia costruzione di mancata appartenenza agli occhi dei miei colleghi e amici PCP). Penso dunque che io stia incarnando, nella mia esperienza, il mio stesso quesito a proposito della colpa kelliana.
In queste ultime righe ho certamente descritto la colpa kelliana: consapevolezza del dislocamento del sé dalle strutture nucleari di ruolo. E devo aggiungere che non è presente un senso di colpa come quello riscontrabile nella responsabilità morale o nella trasgressione peccaminosa. Mi sarei sorpresa se l’avessi trovato. Se Kelly avesse definito la colpa come la consapevolezza del dislocamento del sé dalle strutture nucleari, mi sarei aspettata che questo implicasse, o perlomeno includesse, la colpa come viene comunemente intesa, poiché la trasgressione starebbe nell’agire contro le proprie posizioni morali. Ma Kelly ci ha indirizzato verso il tema dei costrutti di ruolo della nostra identità. Mi chiedo tuttavia: i costrutti nucleari sono di fatto mai liberi da esperienze nucleari di ruolo? Come potrebbero i costrutti nucleari diventare nucleari al di fuori del contesto socio-relazionale (nucleare di ruolo)? La mia ipotesi è che, posto che la nostra esistenza si costruisca nella realtà sociale e allo stesso tempo contribuisca a costruirla (Harré, 1998; Harrè & Gillett, 1994; Kelly, 1955b; Vygotsky, 1962), i costrutti nucleari di ruolo non saranno sempre sinonimo di costrutti nucleari, ma questi ultimi sicuramente metteranno sempre in gioco costrutti nucleari di ruolo.
Puro divertimento o piano ingegnoso?
Nel darci definizioni PCP così specifiche, come quelle di colpa o ruolo, Kelly stava solo scherzando, accompagnandoci in una danza vivace, o aveva un progetto più serio? Lo fa soprattutto con i costrutti professionali delle transizioni come ansia, colpa, ostilità e osserva che “le più comuni definizioni di questi termini non sono da eliminare, solo perché nel nostro sistema diamo loro un significato più ristretto” (Kelly, 1955b, p. 489). Credo che Kelly intendesse che se vogliamo rimanere coerenti con gli assunti filosofici alla base della PCP, allora dobbiamo pensare alle definizioni date come uno dei tanti modi possibili in cui l’evento o l’esperienza può essere costruita. Tuttavia, Kelly (1969a) non considera “il sistema di costrutti personali come interamente privato, né tanto meno tale sistema è libero di rigenerarsi in modo avulso dalla realtà esterna” (p. 177). Eppure Kelly si permette di fornire termini di uso comune con dei significati particolari e, si potrebbe dire, idiosincratici. Perché lo fa?
Sono consapevole dell’apparente paradosso in cui ricado mettendo in discussione, da un lato, la definizione di colpa scelta da Kelly e assumendo, dall’altro, un approccio epistemologico costruttivista alla conoscenza. Tale approccio ci porta a vedere la conoscenza non come un processo che porta “a una determinata immagine vera del mondo, ma solo come un’ipotetica interpretazione” che può funzionare pur non essendo perfettamente combaciante, ma che può aprirci “la via per il particolare obiettivo che volevamo raggiungere” (Von Glasersfeld, 1984, p. 32). E quindi, scegliendo di definire certi costrutti professionali di transizione in un certo modo, Kelly resta coerente con la posizione costruttivista. Credo tuttavia che, per evitare di fare confusione, sia necessario chiarire ogni volta che tipo di definizione stiamo adottando per una determinata parola. Von Glasersfeld (1988) sostiene che da una prospettiva costruttivista “non ha più senso sostenere che i significati delle parole debbano essere condivisi tra persone che parlano una stessa lingua poiché essi derivano da entità esterne, prefissate. Al massimo, ci potrà essere una relazione di adattamento” (p. 89). Dato che il linguaggio e il processo di costruzione sono fluidi e in continua evoluzione, è inevitabile che ci ritroviamo costantemente impegnati, nelle nostre interazioni linguistiche, non solo ad agire in modo adeguato insieme, ma anche a cercare di capire come comprenderci a vicenda, come adattarci al meglio. Scegliere, come fa Kelly, di offrire definizioni alternative per dei concetti apparentemente familiari, potrebbe essere ritenuta un’idea interessante o, in alternativa, un’idea confusiva.
Bannister (1977) suggerisce che, poiché Kelly sembra “aver agito raramente senza attenta valutazione”, questo particolare uso di specifici termini (“una curiosa strategia”) è una sua scelta deliberata per fare in modo che “in ogni contesto ciò che Kelly riesce a porre al centro dell’attenzione è sempre il significato attribuito ad un evento dalla persona alla quale quel dato termine è riferito” (p. 28). Una prospettiva PCP su vergogna e colpa, nonché l’accettare la spiegazione di Bannister come hanno fatto anche altri (es. Chiari, 2013), potrebbe implicare le seguenti domande: la definizione kelliana di colpa concentra la nostra attenzione su di essa in contrasto con la concezione più comune? La sua strategia ci porta a una comprensione dell’esperienza presa in esame dal punto di vista della persona? E infine, ci permette di fare questo più accuratamente di quanto avremmo fatto adottando una definizione maggiormente comune di colpa?
Come dimostra questo articolo, la strategia di Kelly canalizza la mia attenzione sul contrasto tra la sua definizione di colpa e la definizione comune. Si può dire che questo vivido esempio di alternativismo costruttivo in azione mi abbia risvegliato, portandomi a concentrarmi in dettaglio su cosa Kelly ci stesse dicendo con la sua particolare definizione di colpa. Questo mi ha spinto a rianalizzare con maggiore attenzione ciò di cui può fare esperienza chi descrive la vergogna e la colpa. Posso identificare tre temi rilevanti per la mia esplorazione della definizione kelliana di colpa. Essi sono:
- L’importanza della discriminazione tra vergogna e colpa.
- La rilevanza che Kelly dà al contesto socio-relazionale, fin dalla fanciullezza, per la formazione della propria identità e soggettività (costrutti del sé).
- La distinzione tra costrutti nucleari e costrutti nucleari di ruolo.
Riassumerò ora le mie osservazioni in relazione a questi tre temi.
L’importanza di mantenere una distinzione tra vergogna e colpa
Kelly distingue molto chiaramente le esperienze di colpa da quelle di vergogna. Più volte Kelly (1969a) ha chiarito che quando ha affrontato il tema della colpa (in termini PCP) non faceva riferimento alla colpevolezza dal punto di vista morale. Egli sostiene che si possa anche sperimentare la sensazione di “sentirsi colpevoli per il fatto di essere buoni” (p. 180). Sono abbastanza convinta che sia utile per me costruire Kelly come colui che sceglie attivamente di utilizzare una definizione alternativa di colpa per portarci a una comprensione psicologica di quanto profondamente ci si senta messi in discussione quando c’è un cambiamento nelle strutture nucleari di ruolo. Tale cambiamento non necessariamente è cattivo, pur essendo difficoltoso. Si abbandonano qui altri significati di colpa legati a dimensioni come cattivo o sbagliato, più attinenti a domini diversi da quello psicologico, come ad esempio la sfera filosofica o morale. E così, Kelly propone la sua definizione di colpa come una ricca esperienza psicologica, che emerge quando il significato di quello che una persona capisce di essere agli occhi e nei pensieri di “certe altre persone” (1955b, p. 503) è minacciato o modificato, una forma di disidentificazione sociale ed esilio, o di fatto di potenziale emancipazione (1955c, p.836). Dunque, come suggerisce Kelly, il senso di colpa non è necessariamente implicato in tale visione della colpa e ciò che invece assume importanza è il modo in cui la persona costruisce com’è o sente il bisogno di essere agli occhi dell’altro.
Recenti ricerche e riflessioni in ambito psicologico hanno evidenziato che operare una distinzione tra colpa e vergogna è molto utile (Roos, 2010; Tangney, Stuweig & Mashek, 2007; Tantam, 1998; Miller, 1996), pur riconoscendo l’esistenza di importanti differenze culturali non ancora ben comprese. Con il suo continuo ripetere che il senso di colpa non è necessariamente coinvolto nella propria definizione di colpa, Kelly riconosce che sia quantomeno utile, se non addirittura necessario, fare una distinzione tra esperienza di colpa (come perdita di ruoli nucleari) e colpa implicante colpa morale (costruzioni nucleari). Sembra tuttavia che, a meno che non si stia molto attenti, l’adozione del costrutto transizionale di colpa kelliana (e la sua definizione) possa portare ad un’apparente accettazione della fusione di colpa e vergogna. Una distinzione è importante poiché, come minimo, vergogna e colpa attengono a esperienze fenomenologiche diverse e, più importante, esse potrebbero implicare e sfidare costruzioni personali molto varie a differenti livelli di costruzione, cognitivi, emotivi e fisiologici. Tangney e colleghi (2007), in linea con Gilbert (2007), trovano dati a sostegno dell’ipotesi per cui il senso di vergogna è molto spesso esperito come più serio e personalmente difficoltoso rispetto alla colpa comunemente intesa. Altri studi (esaminati da Stuewig & Tangney, 2007) evidenziano anche come, in contesti psicoterapeutici, sia più impegnativo lavorare con esperienze di vergogna piuttosto che di colpa.
Tutto questo ben si adatta alla descrizione kelliana dell’implicazione dei costrutti nucleari di ruolo nella colpa PCT.
Dominio socio-relazionale e costrutto kelliano di colpa
La colpa in termini PCP è ciò che potremmo descrivere come un costrutto di transizione esplicitamente relazionale, nel senso che nasce da, o è conseguenza di, la comprensione del significato che una persona potrebbe dare, o vorrebbe dare, di se stessa agli occhi di altri significativi o in determinati contesti sociali. Così si evidenzia la centralità del contesto socio-relazionale nell’esperienza del sé e nel mantenimento dello stesso. Questa enfasi sull’aspetto socio-relazionale nella creazione del sé, che riprende il lavoro di George Mead, è certamente un movimento innovativo e stimolante nella psicologia degli anni ’50. È una visione delle persone “come autrici della propria storia, ma in un modo che riconosce la loro interdipendenza dal contesto sociale molto più chiaramente di quanto facciano gli psicologi a lui contemporanei” (Neimeyer & Baldwin, 2003, p. 248). È come se Kelly ci volesse riportare, nella sua discussione sulla colpa, a un principio fondamentale della PCP: non possiamo costruire noi stessi senza costruire anche la costruzione che gli altri hanno di noi. Come sostengono Stojnov e Procter (2012):
Kelly ha fatto degli altri un prerequisito della nostra stessa esistenza. Per essere una persona, dobbiamo essere costruiti come persona dagli altri; per costruire noi stessi, gli altri devono essere costruiti come persone (da altri o da noi). Ne consegue, quindi, che Kelly ha irrimediabilmente spostato la psicologia verso un’ontologia relazionale! (p. 12).
Sperimentare la colpa in termini kelliani significa sperimentare la perdita, o la minaccia di perdita, di ciò o di chi si pensava di essere fino a quel momento, attraverso il contesto relazionale e sociale. Infatti Kelly (1955c) sostiene che “è veramente difficile riuscire a vivere fronteggiando la colpa. Alcune persone nemmeno ci provano” (p. 909). La perdita di identificazione sociale, l’esilio sociale, può farci sentire a rischio di vita da una parte, ma dall’altra può permetterci di capire più profondamente “la centralità che i costrutti nucleari di ruolo giocano nel definire l’identità di una persona in relazione agli altri” (Neimeyer & Baldwin, 2003, p. 248).
Effettuare una distinzione tra costrutti nucleari e costrutti nucleari di ruolo
Quando parla di esperienza di colpa (in termini PCP) Kelly non si riferisce ai costrutti nucleari, ma ai costrutti nucleari di ruolo. Il termine colpa è dunque usato per evidenziare non tanto una sensazione di violazione dei costrutti nucleari quanto una sensazione di minaccia ai costrutti nucleari di ruolo. Questa è la profonda sensazione di perdita, o la minaccia di perdita, del sé relazionale poiché, dice Kelly (1955b), “noi siamo dipendenti per tutta la vita dalla comprensione di ciò che pensano altri significativi” (p. 503). Ciò richiama fortemente l’importanza data all’attaccamento nelle teorie sullo sviluppo psicologico e nel riconoscimento di quanto il cambiamento, ad ogni stadio evolutivo, possa essere accompagnato da un senso di perdita di ruoli nucleari, così come ha raccontato splendidamente Green (2009) durante le sue riflessioni anticipatorie sul pensionamento. La perdita di ruoli nucleari (e dunque la colpa kelliana) può essere sperimentata anche quando il cambiamento in atto va nella direzione di ciò che si desidera o si costruisce positivamente. Un’esperienza di grande scomodità, come quella di perdita e colpa, nonostante il desiderio di movimento verso un nuovo ruolo nucleare, è stata ben dimostrata da Dana Breen (1981) nel suo studio PCP sulle donne in gravidanza.
Da quanto ho compreso, quando Kelly (1955b) parla di costrutti nucleari (in opposizione a costrutti nucleari di ruolo) si riferisce a valori e credenze significativi, di centrale importanza per la persona, tanto da governare “i processi di mantenimento della persona, e cioè quei processi che mantengono l’identità e l’esistenza stessa della persona” (p. 482) e sono molto spesso validati da aspettative di gruppo o dall’uso “esattamente dello stesso sistema dimensionale” (ibidem, p. 176) utilizzato dagli altri significativi (es. genitori, gruppi culturali, ecc.). Ciò suggerisce che la costruzione dei costrutti nucleari può spesso coinvolgere costrutti nucleari di ruolo. Sono rimasta perplessa di fronte alla distinzione tra costrutti nucleari e costrutti nucleari di ruolo e mi sono chiesta se fosse utile indulgere in tale distinzione. Infine, pur riconoscendo la permeabilità di una definizione con l’altra, negli anni ho deciso che fosse una distinzione utile da mantenere sia in ambito terapeutico, che professionale e personale. Per utile qui intendo che delineare tale distinzione (una costruzione proposizionale) mi ha offerto una mappa di riferimento temporanea con la quale esplorare possibili modi di costruire, legati alla dimensione emotiva e non, che occupano la nostra vita quotidiana e i quesiti che ci poniamo. Come terapeuta, trovo che sia utile continuare a mantenere una distinzione tra costrutti nucleari e costrutti nucleari di ruolo, nonostante la complicata sovrapposizione degli uni con gli altri, poiché mi aiuta a capire meglio come posizionarmi all’interno dei colloqui terapeutici, dove le relazioni di ruolo (dentro e fuori la terapia) sono così centrali per l’intero processo (Leitner, 2006; Button, 1996). Ho ben presente tutte le volte che tale distinzione si è rivelata utile. Mi ricordo tutti i momenti in cui ho trovato utile effettuare una distinzione tra idee, credenze e valori da un lato e, dall’altro, in relazione a chi tali idee, credenze e valori erano importanti. Un altro esempio sono state le lettere che ricevevo più o meno una volta l’anno da una mia ex paziente. Ho costruito questo gesto come il suo modo di tenermi all’interno del suo gruppo di riferimento per quel che riguarda i suoi costrutti nucleari di ruolo e in relazione a questioni per lei importanti (costrutti nucleari). Ho letto questo come un modo di includere me, sua compagna nella relazione terapeutica e durante i colloqui, nel suo gruppo di riferimento e in relazione alle questioni per lei più rilevanti.
Funzionano le strategie di Kelly? Funziona, ad esempio, prendere dei termini già noti e dotarli di un nuovo significato senza per questo negarne la consueta definizione? Come accade spesso con Kelly, la sua decostruzione e ricostruzione di significati è un’idea tanto divertente quanto ingegnosa.
Mi sono infatti lasciata guidare in questa danza ritrovandomi a rivalutare la PCT come “non solo la più antica ma anche la più sofisticata e rigorosa teoria costruttivista” (Chiari, 2013, p. 251) che ci chiede di essere costantemente consapevoli del fondamentale assunto filosofico dell’alternativismo costruttivo (Kelly, 1955b, p. 15). Questo mi ha portato verso una rivalutazione della teoria di Kelly mostrandomela come ancora più profondamente calata nelle relazioni e in grado di anticipare sviluppi futuri in psicologia di quanto non avessi mai riconosciuto prima.
Questa esplorazione mi ha spinto a concludere che la prospettiva assunta da Kelly sulla colpa emerge da, e permette di attingere a, uno dei maggiori lavori che sono stati realizzati fino ad oggi nella complessa area delle emozioni autocoscienti come la colpa e la vergogna. Nella riformulazione dei significati di colpa e vergogna, Kelly concentra l’attenzione sull’esperienza dal punto di vista dello sperimentatore piuttosto che da quello del commentatore. Inizialmente mi sembrava che Kelly confondesse le due esperienze di colpa e vergogna; ora direi che, da una prospettiva PCP, il costrutto kelliano di transizione di colpa si riferisce in realtà all’esperienza di vergogna per come solitamente descritta. Come discusso prima, ricerche psicologiche recenti hanno evidenziato come spesso sia più difficile per l’individuo sperimentare vergogna e, allo stesso tempo, come sia importante per i professionisti cercare di comprendere e intervenire adeguatamente. In linea con questo è l’enfasi posta da Kelly sulla profondità dell’esperienza nella perdita di ruoli nucleari o nella minaccia di tale perdita. Invece che confondere colpa e vergogna, credo ora che Kelly ci voglia invitare a riconoscere che colpevolezza morale, e colpa comunemente intesa, siano esperienze diverse e non è detto che coinvolgano la perdita di ruoli nucleari (colpa kelliana). Penso dunque che la differenza tra costrutti nucleari e costrutti nucleari di ruolo sia parte del processo di costruzione dei significati coinvolto nell’esperienza di colpa e vergogna.
Sviluppi Futuri
Tornando all’evento da cui sono partita, cioè la reazione negativa del mio collega nel sentire usare la parola colpa in relazione alla vergogna, mi porta a chiedermi: ha davvero importanza quale termine scegliamo di usare per definire qualcosa? La mia risposta ora, dopo aver intrapreso l’esplorazione fin qui descritta, è che sono divenuta più riluttante che mai ad abbandonare il punto di vista della PCP (e la definizione di colpa presente in questo approccio) come guida per eventuali ricerche nell’ambito della comunità e per riflessioni terapeutiche che potrei fare in relazione alla vergogna. Tuttavia, credo di aver capito che sia necessario stare attenti, monitorare il modo in cui utilizziamo il nostro linguaggio e cercare di muoversi abilmente attraverso diversi linguaggi all’interno di diverse comunità: professionali e non professionali, appartenenti a diversi approcci psicologici o teorici, di diversa cultura o etnia. Come scrisse James William James (1987): “tutte le nostre categorie mentali, senza eccezioni, si sono evolute in base alla loro utilità e devono la loro esistenza a circostanze storiche, esattamente come per nomi, verbi e aggettivi di cui il nostro linguaggio li riveste” (p. 551). La natura di costrutto delle nostre categorie mentali e la forza costitutiva del nostro linguaggio non vanno mai dimenticate. La porta del conoscere è infatti porsi domande (Doras Feasa Fiafraighe).
E dunque, benché l’esperienza di vergogna o di colpa, come descritta da Kelly, sia spesso profondamente dolorosa, Kelly sostiene che la “colpa sia un rischio in ogni processo sociale creativo nel quale l’uomo cerca di trascendere la cieca obbedienza” (1970, p. 27). Dunque è davvero una questione di cambiamento e avventura. Non solo la colpa kelliana (vergogna) non deve essere evitata, ma anzi può giocare un ruolo positivo nella vita di una persona. Può non essere tutto un male. Concordo con Cummins quando scrive che “una delle cose che la PCP ha fatto per me è portarmi a rivalutare l’esperienza di colpa. Mi comunica che c’è una sorta di cambiamento in atto dentro di me” (2009, p. 182). La sfida per me, nel lavoro che svolgo, è quella di provare a rispondere alle esperienze descritte come vergogna, come qualcosa che potenzialmente ci porti verso eventi, relazioni ed incontri che coinvolgono il cambiamento e il movimento, ma sempre in relazione con gli altri e con il modo in cui noi costruiamo la costruzione che gli altri hanno di noi stessi. Mi auguro che apprendere a lavorare con la vergogna come un’esperienza di colpa (in termini PCP) possa aprire nuove opportunità per i membri della comunità dei Travellers con i quali potrei trovarmi a lavorare e in particolar modo che possa aiutarli nelle loro relazioni con la comunità maggioritaria (o forse meglio con la comunità degli Stanziali).
Non posso che concludere questo articolo rifacendomi a Raskin (2006) quando dice che affidarsi a citazioni è inappropriato per onorare Kelly da una prospettiva costruttivista: è come se qualcosa di ciò che Kelly ha detto potesse essere letto come un fatto piuttosto che in modo proposizionale. Inoltre, Raskin (ibidem) sostiene che è una missione destinata a fallire, semplicemente perché “si può interpretare Kelly in modo diverso in parti diverse del suo lavoro” (p. 51). Ancor di più, forse, affidarsi alle citazioni come se fossero verità, significa che l’autore che fa ricorso ad esse come strategia argomentativa utilizza una voce autorevole come argomento e, in questo modo, mette in ombra o quantomeno non è consapevole del proprio inevitabile ruolo nella creazione di significato di ciò che sta scrivendo. Credo tuttavia ci siano anche delle buone ragioni per usare citazioni, come oltretutto fa Raskin stesso nel suddetto articolo. Nel mio caso, le citazioni che ho utilizzato mi sono servite a mostrare come per me la PCP offra linee guida proposizionali e un modo per rimanere coerenti con la prospettiva costruttivista.
In conclusione spero di aver mostrato che abbracciare la colpa kelliana e scavare nella vergogna può rivelarsi un modo fertile di lavorare, sia quando quest’ultima è incorporata nel lavoro di Kelly sia quando viene affrontata più apertamente da altri teorici della psicologia. Solo così, con un’ampia comprensione, possiamo essere certi che le idee di Kelly verranno portate avanti per la loro utilità nel rendere possibili definizioni, estensioni di significato e aggressività costruttiva, mettendoci alla prova nel confronto con l’immediatezza delle esperienze dell’altro e aiutandoci talvolta, come avrebbe fatto Kelly (1977), a “trascendere l’ovvio” (p. 11).
Ringraziamenti
Sono particolarmente riconoscente ai miei colleghi e compagni di avventure, Sheila Greene, Vincent Kenny, Imelda McCarthy, Aine OReilly, Dusan Stojnov e Mia Van Doorslaer, per la loro resistenza alla mia teoria sulla vergogna, per i loro commenti puntuali, le conversazioni sfidanti, il grande incoraggiamento e la disponibilità dimostrata nel dedicare attenzione ai miei sforzi anche quando non erano sempre d’accordo con ciò che dicevo. Essi sono i migliori compagni dialogici possibili, e io sono interamente responsabile per le conclusioni qui presentate.
Come sempre, sono debitrice verso tutte le persone, provenienti da diverse comunità, con cui mi sono trovata a lavorare. Qualche volta ci si capisce alla perfezione e altre volte ci si perde tra ciò che è impossibile da dire, ciò che è spesso impronunciabile benché dicibile, e comunque insieme uniamo le forze e andiamo avanti, giorno dopo giorno.
An inquiry
The Irish proverb Doras feasa fiafraighe (questioning is the door to knowledge) is a recognition of how important enquiring can be. To question, to enquire, holds the potential for movement and change. My intention in writing this article is to describe my exploration of Kelly’s writings on guilt, one which has helped me to clarify ways of responding to particular experiences and more especially in a domain where PCP ideas and practices are not widespread. The wish to revisit Kelly’s ideas on guilt arose out of working alongside of, and with, members of an ethnic minority group in Ireland, the Traveller community. Guilt, as we usually understand it, i.e. implying moral culpability, is not especially foregrounded in such work. In contrast, shame is frequently named as a lived experience in research, therapy and “about life” conversations with members of the Irish Traveller community (Hayes, 2006; Irish Government Report, 1995; McDonagh, 2012; Okely, 1994; OSullivan, 2002). Travellers speak with a fine-tuned recognition of how they experience themselves as viewed, largely negatively, by the majority community in Ireland and, very often, as unwelcome outsiders despite being Irish (Helleiner, 2000; MacGreil, 2011). The sense of shame is especially “re-ignited” for individual Travellers when the media carry stories describing difference but especially of wrongdoing (fights, criminality, alcohol abuse, domestic violence) and in a way which seems to assume all Travellers can be so described. And, as Rosaleen McDonagh, a Traveller woman activist, wrote: “an imposed collective shame is difficult to shrug off” (2013).
In view of the resource I have always experienced Personal Construct Theory to be, it was inevitable that I would turn with curiosity to it when questioning my understanding of shame. Kelly makes very few references to shame in any of his writings and, as a construct, it is also largely absent from the indices of PCP literature and in the reports of work by later PCP writers and practitioners, an exception being McCoy (1977). However, I found many resonances between guilt as described in PCT and how shame experiences were being described in the Traveller community. On sharing my emerging enquiries with a psychotherapeutic colleague, who is a member of the Traveller community but not versed in PCP, I experienced a familiar reaction, one which I believe is similar to that described by Button (1996) as “a perplexed look when straying into (such) personal construct theory language” – “even in the psychological community” (p. 142). I also recognised that the use of the word “guilt” may carry with it an accusatory tone, suggesting responsibility for their shame on the part of those who describe experiencing shame e.g. members of the minority Traveller community in their relationships with the majority (settled) community. I was concerned that without revisiting my sense of Kelly’s use of the construct of “guilt” and how I wished to use it, that I might, however unintentionally, carry an understanding of guilt as implying moral responsibility, complicating further the power imbalance involved in the consultation process (Foucault, 1980). How could such a response be experienced as supportive by the woman who says “I used to be ashamed of meeting the settled people” or the woman who, both sadly and angrily, describes the need to change a preferred way of dressing in order to “blend in – you’d go on apologizing for yourself” but when “I’d meet a settled woman I’d be ashamed – I knew, I thought – they were still looking down on us” (OSullivan, 2002, p.49).
I was also becoming aware of the growing body of recent psychological research on shame and guilt, amongst other of the self-conscious emotions. Tangney (2003) describes the self-conscious emotions as those “evoked by self-reflection and self-evaluation” and as “fundamentally emotions of self-regulation” (p.384). She includes in this category shame, guilt, embarrassment and pride. I wondered how such work might be informing and how, simultaneously, I could continue to mine a PCP perspective and approach since that is where I am most comfortable, personally and professionally. And so I have been led by these questions to the exploration I am describing here. My hope is to engage in a creative questioning process that may lead to transcending the obvious, e.g. that Kelly or a PCP perspective had little to say on shame. In this exploration I also have in mind Kelly’s emphasis (1969a, p.149) on the invitational (“as if this – then what”) rather than indicative grammatical mood so that I do not see this exploration as leading to a “real truth” but rather to ways forward that I may take.
Shame and guilt in PCP
In Table 1 I highlight the way Kelly chooses to speak of guilt and how this contrasts with the more usual descriptions and definitions. In the Oxford English Dictionary (OED) definitions of the terms, there is an emphasis on shame as a socially-embedded experience, whereas guilt is defined as involving a sense of responsibility for something regarded as morally wrong, reprehensible etc. For the purposes of his theoretical perspective and its constructivist implications, Kelly provides a particular and restricted definition of guilt which refers “to a condition of the person’s construction system” (1955b, p.489). That condition Kelly describes as one embedded in the socio-relational domain so that guilt, in this definition, involves “the loss of status within the core role constructions” (ibidem, p.503) and culpability (or a sense of culpability) “may or may not be involved” (Kelly, 1969a, p.179). Core role constructions are described by Kelly as “those frames which enable one to predict and control the essential interactions of himself (sic) with other persons and with societal groups of persons” (1955b, p.502) and constituting one’s core role. But such a role is enacted “not merely according to what the other person appears to approve or disapprove” but “according to what he (sic) believes another person thinks”. The latter, Kelly proposes, is “one’s deepest understanding of being maintained as a social being” (p.502). And so the loss of status within one’s core role (an awareness of guilt in Kellyan terms) points very directly I believe to what is more usually described as the experience of shame.
GUILT –
Oxford English Dictionary |
GUILT as defined by Kelly | SHAME –
Oxford English Dictionary |
Culpability (responsible); blameworthy; the feeling of being culpable.
The fact (sic) of having committed a specified or implied offence. |
“Guilt refers to a condition of the person’s construction system and not to society’s judgement of one’s moral culpability” (1955b, p.489).
“Guilt is the awareness of dislodgement of the self from one’s core role structure” (1955c, p.565). “Guilt, in the personal construct theoretical system, then, becomes the sense of loss of role” (1969a, p.179). |
Embarrassment, humiliation, mortification, chagrin, ignominy, shamefacedness, loss of face, abashment.
A state of disgrace, discredit or intense regret. |
Table 1: Definition of Guilt and Shame
Whilst so rarely mentioning shame, it is also clear that from the outset Kelly held to a fine distinction between moral guilt and guilt as in core role loss. But in one of his most personal articles, Confusion and the Clock (1978), Kelly speaks of experiencing shame and guilt. Following a sudden and painful cardiac incident, he wrote (1978, p.222) that “I felt uncomfortably responsible” but that he “still felt rebellious against doing the things that people say would have avoided it. So, not only did I feel ashamed, responsible, and stupid; I also felt unrepentant”. I interpret this as Kelly suggesting to us that he felt “ashamed” because he was not being the person, husband or father that he aspired to be within his family or that he believed was expected of him. But he is telling us that he did not feel “guilty” (or repentant) as in morally responsible for a morally reprehensible transgression. I think this paragraph demonstrates Kelly making a distinction between guilt and shame but using the construct “shame” where to be consistent with a PCP perspective one might expect him to speak of “guilt”. Indeed, later on in that chapter he writes that:
“The part of the experience that more particularly might be called “guilt” – the sense of loss of role, the failure to live up to my own expectations in relation to those closest to me – was the most difficult to get hold of” (ibidem, p.232). Here Kelly is clearly drawing on a PCP definition of guilt.
Paul Gilbert (1998), a researcher and clinical psychologist taking a biopsychosocial position on the self-conscious emotions, has reviewed the wide-ranging field of research and theorising on shame. He concluded that it is difficult “to be clear what kind of affect shame is” because there are “many yet-to-be-resolved issues, including definitional ones” (1998, p.29). He argues however that the experience of shame is about being in the world as a “self one does not wish to be” and sees it as an “involuntary response to an awareness that one has lost status and is devalued” (ibidem, p.30). More recently, Gilbert (2007) places an understanding of shame and its development within a “descriptive process model” which attempts to capture a biopsychosocial understanding of the human’s need from the earliest days of life for others (to care for us) because we are “exquisitely social from the first days of our lives” (p.303). Others caring for us, this model suggests, influence our survival and so “the self we will become” (p.300). This view points to a developmental understanding of shame as a growing attunement to what is valued in a person in any particular culture, society or family, and so equally as to what may be devalued. It therefore suggests that shame is an important positive social and relational “corrective” experience, ensuring that one has the chance to find a fit with, feel accepted by, the group, community, persons, family, reference groups etc. that are important to one’s continued survival. It also follows that the experience of being shamed can be a powerful negative force, threatening one’s very existence and survival as a family, group or community member or, where a whole group experiences shame, the very community’s existence. I see in Kelly’s broad ranging writings and discussions on guilt, and in the very particular focus he gives to core role dislodgement in his construction of guilt, many similarities with shame as it is discussed by Gilbert above.
But within a PCT context, no discussion of shame and guilt, or of PCT and emotions more generally, can progress without referring to McCoy’s work (1977). This is a chapter I have returned to many times. Whilst serving as a catalyst to developing an appreciation of how Kelly invited us to construe emotion within PCP, and from a constructivist position (Chiari & Nuzzo, 2010), I have also found it to be unsatisfactory. Kelly proposed that making discriminations (to construe) is neither solely nor uniquely a cognitive or verbalizable activity but rather “can take place also at levels which have been called “physiological” or “emotional” (Kelly, 1969b, p.219). Chiari (2013) argues that “this abandoning of the distinction between cognition and emotion in PCT” is that which “makes PCT a genuinely constructivist theory” (p.258). He provides a strong critique of work to date regarding attempts to elaborate a PCP perspective on emotions and draws attention to the absolute pertinence of taking into account Kelly’s explicitly declared philosophical and epistemological positioning, i.e. of constructive alternativism. McCoy (1977) fits with this expectation when she draws attention to Kelly’s definition of guilt as emphasising “the importance of social construction” and the basic maintenance of oneself as an integral being which is “not only a self-centred matter” (p.112). She does not comment on Kelly’s assertion that his definition of guilt is not referring to society’s view of one’s moral culpability but rather to the person’s construction system. Turning to the experience of shame, McCoy offers a definition of it which she argues is coherent with a PCP approach. Shame, she suggests, is an “awareness of dislodgement of the self from another’s construing of your role” (ibidem, p.121) and says that it differs from Kelly’s definition of guilt in that “the locus is rather more external than internal”. She adds that “both, however, involve a phenomenological assessment of the self in a role” (ibidem, p.113). These definitions are given in Table 2 below.
Definition of GUILT (Kelly 1955b/McCoy 1997) | Definition of SHAME (McCoy 1977) |
Awareness of dislodgement of the self from one’s core role structure (a sense of loss of core role) |
Awareness of dislodgement of the self from another’s construing of your role |
Table 2: PCP definition of Shame and Guilt
I became uncomfortable in working with McCoy’s approach and in particular with the distinction she was offering regarding shame and guilt. Firstly, I found that McCoy’s definition of shame, focusing on “the other’s construing of one’s role”, was not distinctive enough from Kelly’s construct of guilt. She does refer to “role” rather than “core role” but it is not clear how much emphasis she wishes to give to that distinction. She offers us her understanding of a PCT description of shame but in its emphasis on the awareness of change in how another viewed or might be viewing one I would argue that we are brought back to Kelly’s definition of guilt. Secondly, I could not agree with McCoy since I interpreted the construct she proposes of “internal VS external” locus as inconsistent with the constructivist position implicated in PCP, which recognises all construing, patterns of distinction and meaning, as created by the construer (Kelly,1955b, p.8). So although McCoy offers a distinction between Kellyan guilt and shame I find it not to be a satisfactory one.
But continuing to create an understanding of guilt (as Kelly defines it in PCP and, in contrast, guilt as including a sense of moral culpability) and so rereading Kelly’s chapter “Sin and Psychotherapy” (1969a) a number of times, I came to wonder what indeed was Kelly suggesting to us when he argued that:
“The device of excommunication, whether employed by a church, a political party, a sorority, a household, or a psychotherapist who unnecessarily invokes a dependency transference, is the most powerful device man (sic) has ever invented for bringing about individual conformity and cutting short man’s (sic) personal quest for distinguishing good from evil” (p.185).
Kelly (ibidem) argues that it is each person’s individual enterprise, indeed “singularly the most important undertaking of his (sic) life” to grasp “the fullest possible understanding of the nature of good and evil” (p.186). In that way, one is not “blindly” allowing oneself to repeat mistakes that are such, or even wrongful, in the light of “his own determinations of the difference between good and evil” as opposed to making such decisions on the basis of a fear or awareness of expulsion (excommunication), loss of core role. And so, as I now understand it, it seems that Kelly, in describing guilt, was indeed describing human society’s struggle with morality, right and wrong, good and evil. But in order to locate that struggle within a psychological rather than solely ethical, moral or religious frame he draws attention to the experience of guilt as woven into one’s identity, one’s understanding and belief of who or what or how one is in the eyes of others , as one construes it, i.e. in core role construing. And thus as Kelly argues, culpability may or may not be involved in such a view of guilt but what one construes oneself as being or needing to be in the other’s eyes is involved, and that other may be, as he suggests, a God, a religion, a group, parents, a community etc.
In this chapter, there is a sense of reading about shame and the power of shame, not least because of the centrality of the image of the Garden of Eden and how shame is used to invoke the fear of or the actual experience of expulsion, of not belonging, indeed the “social disidentification” and “core role loss” that Kelly speaks about so eloquently. This leads again to the idea that guilt, in Kelly’s definition, is closer to shame as more usually understood and that his definition sometimes also subsumes guilt as ordinarily defined. If I understand core role constructs to be involved in guilt as Kelly defined it, which I am suggesting is primarily what we usually call shame, then I would suggest that core constructs rather than core role constructs are more clearly involved in guilt as more usually understood.
I have also been aware that my perspective and the understandings that I have been creating regarding guilt and shame from a PCP perspective are not necessarily shared by others. Experienced workers within the PCP field have written about guilt, most recently in Richard Butler’s edited book (2009). In these variously rich and compelling chapters, particularly in the foregrounding of reflexivity and the challenges and assistance that the writers find to be implicit in PCP regarding reflexivity, the writers discussed guilt and sometimes referred to shame (Cummins, 2009; Burr, 2009; Green, 2009; Robbins, 2009; Pekkala, 2009). However, none of these writers describe a dilemma being experienced or a need to explore distinctions between shame and guilt, either as PCP professional transitional constructs or as more usually defined.
But, in discussing Kellyan guilt, an interesting question is raised by Burr (2009). She lays out, with great clarity, examples of her lived experience of dislodgement from core role structure (Kellyan guilt). Each time she draws attention to the importance of others’ actions, one’s construing of their actions and responses, in order to maintain without embarrassment, or shame, the particularities of one’s core role in any situation. Burr (2009) goes on to wonder if “it may be argued that we only specifically experience guilt when the role (e.g. spouse or parent) carries strong moral obligations in the society in which we live” (p.217). She does not provide answers to this speculation and I am unsure whether she was in this comment specifically referring to guilt as Kelly chose to define it or to guilt in the more usual construction of the word. But I cannot but wonder if she is touching on the issue that I am raising, i.e. the distinctions between guilt as related to core role constructs (Kellyan guilt) and guilt as related to core constructs (moral values and beliefs).
Sharing cultural experiences with him, I am taken with the openness with which Cummins (2009) writes about the deeply felt and often uneasy shifts and changes he created and lived out in his relationship to his childhood church and religious faith. Positioning himself in that experience, and describing encounters with and experiences of clients, was made more vivid by his use of Kelly’s transitional construct of guilt. However, he does not describe any particular dilemma or apparent confusion when discussing guilt as in its relation to sin and original sin (as understood in the Roman Catholic Church) and in simultaneously discussing guilt as described by Kelly. It is probably inevitable that I ask myself if I am engaged on an empty exploration, what might even be described as an over-allegiance to definition and pre-emption and concerned with a dilemma apparently not experienced by others. There is also an undeniable experience of discomfort but very distinctly of shame, i.e. my construing of “failing to belong” in the eyes of my professional PCP colleagues and friends. And so I find that I am embedded in a lived experience of my own question regarding Kellyan guilt.
I have surely described Kellyan guilt in those last few lines, i.e. awareness of dislodgement of the self from one’s core role structure. And I must say that there is no sense of guilt as in “moral responsibility” or “sinful transgression”. I would be surprised if there were. If Kelly had said guilt was an awareness of dislodgement of the self from core structures then I would expect that to imply, or at least to include, guilt as more usually defined because the transgression would be one of acting against one’s moral positioning. But he is pointing us towards the core role aspect of our identity. However, I wonder if core constructs are indeed ever free of core-role experiencing? How might core constructs become “core” outside of the socio-relational (core-role) realm? My suggestion is that if we take the position that we come into being and continue being constituted in the social realm as well as constituting it (Harré & Gillett, 1994; Harré, 1998; Kelly, 1955b; Vygotsky, 1962), core role constructs will not always be synonymous with core constructs but that the latter will surely always involve, bring into play, core role constructs.
A playful or a clever ploy?
In providing us with PCP-specific definitions, as with guilt or even role, was Kelly being playful, leading us a merry dance, or is this a more serious ploy? He does it most particularly with regard to transitional professional constructs, e.g. anxiety, guilt, hostility and adds the rider that: “the commoner definitions of these terms are not abrogated by their being given limited meanings within our system” (1955b, p.489). I understand Kelly to be saying that if we are to remain coherent with the philosophical assumptions underlying PCP then we approach his provided definitions as one way of construing an event or experience which can be construed differently by others. However, Kelly (1969a) also argued that he did not see “one’s personal construct system as wholly private, nor do I see it as free to regenerate itself into some monstrosity completely oblivious to external reality” (p.177). And yet Kelly took the freedom to provide commonly used terms with particular and, one might even say, idiosyncratic meanings. Why did he do this?
I am aware of an apparent paradox of, on the one hand, interrogating Kelly’s chosen definition of guilt and, on the other hand, taking a constructivist epistemological approach to knowledge. The latter involves us in understanding all knowledge as not leading “to a certain and true picture of the world, but only to conjectural interpretation” which may allow us to find a “fit and not a match” but one which may open “the way to the particular goal we want to reach” (Von Glasersfeld, 1984, p.32). And so, in providing us with his chosen definitions of certain transitional professional constructs, Kelly was remaining coherent with a constructivist position. But I believe that in order to avoid confusion there is a need to clarify which definition we are choosing to attach to a word at any particular time. Von Glasersfeld (1988) argues that from a constructivist perspective:
“there can no longer be the claim that the meanings of words must be shared by the users of a language because these meanings are derived from fixed, external entities. Instead there is at best a relation of fit” (p.89).
It is inevitable that since language and construing are fluid and changing, we are constantly faced, in our languaged interactions together, with the challenge of how not only to act well together but how to explain ourselves to each other, how to keep achieving a “fit”. Choosing, as Kelly did, to proffer alternative definitions to some apparently familiar concepts may be seen as an interesting ploy or, at times, a confusing one.
Bannister (1977) offers the plausible idea that, since Kelly probably “did little without malice aforethought”, this transposition of terms (“a curious strategy”) was deliberately undertaken so that “in every case what Kelly is pointing to is the meaning of the situation for the person to whom the adjective is applied” (p.28). A PCP perspective on “shame and guilt”, and accepting Bannister’s explanations as others do (e.g. Chiari, 2013), may involve the following questions. Does Kelly’s particular definition of guilt draw our attention to it and in contrast to the usual understanding? Does his strategy lead to an understanding of the experience under examination “from the person’s point of view”? And does it serve to do this more than might have been the case if he had held to the more usual (OED) definitions?
As this article demonstrates, Kelly’s strategy drew my attention to the contrast between his definition of guilt and that most usually given. This lived example of constructive-alternativism-in-action could be said to have woken up this reader and to have led me to focus in some detail on what Kelly was suggesting to us by his very particular definition of guilt. It influenced me to try to hear again with great care what those describing shame and guilt may be experiencing. I can identify three themes which are highlighted by my exploration of Kelly’s particular definition of guilt. These are:
- the importance of distinguishing between shame and guilt;
- the centrality Kelly gives to the socio-relational domain from infanthood onwards in the development of identity, subjectivity (self constructs); and
- the distinctions to be made between core constructs and core role constructs.
I will summarise my observations below in relation to each of these themes.
Importance of holding a distinction between shame and guilt
Kelly quite clearly distinguishes between guilt and shame experiences. Time and again Kelly (1969a) makes it clear that in describing guilt (in PCP terms) he is not talking about moral culpability (p.178). As he says there can also be the experience of “feeling-guilty-for-being-good” (p.180). I am persuaded and find it useful to construe Kelly as choosing to use an alternative definition of guilt to draw us towards a psychological understanding of the deeply felt challenge involved in core role change which is not always “bad” even if challenging, leaving other understandings of guilt and evil or wrong-doing to different domains, e.g. philosophical and moral domains. And so he puts forward his definition of guilt as an eventful psychological experience which is evoked when the sense of whom one understands oneself to be in the eyes, thoughts, of “certain other people” (Kelly, 1955b, p.503) is threatened or changed, a form of social disidentification and exile or indeed of potential emancipation (Kelly, 1955c, p.836). And thus as he argues, culpability may or may not be involved in such a view of guilt but what one construes oneself as being, or needing to be, in the other’s eyes is involved.
Making a distinction between guilt and shame is indicated as fruitful by recent psychological research and commentary (Miller, 1996; Roos, 2010; Tangney, Stuweig & Mashek,2007; Tantam, 1998) with a recognition that there are important cultural differences not yet understood. By his continuous reference to moral culpability as not necessarily involved in his construction of guilt, Kelly recognised that it was at least useful if not necessary to make a distinction between the experiences of guilt (as in core role loss) and guilt as involving moral culpability (core construing). It does seem however that, unless one is vigilant, the adoption of Kelly’s transitional construct of guilt (and his provided definition) may involve one in an apparent acceptance of a conflation of shame and guilt. A distinction is important since, at the least, shame and guilt touch on somewhat different phenomenological experiences and, at the most, they may involve and challenge very different personal constructions at all levels of construing, cognitive, emotional and physiological. Tangney and her colleagues (2007) also provide corroboration, as does Gilbert (2007), for the hypothesis that a sense of shame is very often experienced as more serious and personally difficult than is guilt (as usually defined). Other studies (reviewed by Stuewig & Tangney, 2007) also point to the usually greater psychotherapeutic challenges presented by shame experiences than by guilt. All of this is a fit with Kelly’s description of the involvement of core role constructs in PCT guilt.
Socio-relational domain and Kelly’s construct of guilt
Guilt in PCP terms is what we may describe as an explicitly relational transitional construct in the sense that it arises out of, or is consequent on, the understanding or the sense a person may have, or may want to have, of themselves in the eyes of significant others or significant societal discourses. Thus it points to the centrality of the socio-relational domain in the experience of, and in the continued maintenance of (a sense of) the self. This emphasis on the socio-relational in the creation of self, reminiscent of e.g. George Mead’s work, is surely an innovative and exciting move in psychology of the 1950s. It is a vision of persons, according to Neimeyer & Baldwin (2003), “as authors of their own biographies, but in a way that acknowledged their anchoring in the social realm – to a far greater extent than most psychologists of his day” (p.248). It is as if Kelly is referencing us, in his discussion of guilt, to a central PCP tenet, i.e. that there cannot be a sense of self without a sense of the other’s view of one. As Stojnov and Procter (2012) argue:
“Kelly made the otherness a prerequisite of our existence. In order to be persons, we have to be construed as persons by others; in order to construe us others have to be construed as persons – by others or by us. Thus, he irretrievably moved psychology towards relational ontology!” (p.12).
To experience guilt in Kelly’s terms is to experience the loss or the threatened loss of who or what one has learnt to know oneself to be, through and in the relational and social domains. Indeed he argues (1955c) that “it is genuinely difficult to sustain life in the face of guilt. Some people do not even try” (p.909). Social disidentification, social exile, can have that kind of life threatening effect whilst the obverse is to heighten a recognition of “the identity-defining nature of core-roles that the person constructs with reference to others” (Neimeyer & Baldwin, 2003, p.248).
Making a distinction between core constructs and core role constructs
When speaking about the experience of guilt (as defined within PCP) Kelly does not speak of core constructs but rather of core role constructs. And so the term guilt is used to point not so much to a sense of violating core constructs as it is to a sense of threatening core role constructs. It is the deeply felt loss, or threatened loss, of the relational self because, Kelly says (1955b) “we are dependent for life itself on an understanding of the thoughts of certain other people” (p.503). This strongly resonates with the importance given to attachment in developmental psychological theorising and in the recognition of how change at any age may involve a sense of loss of core role(s) as indeed Green (2009) rather beautifully illustrates in his anticipatory meditation on occupational retirement. Core role loss (and so Kellyan guilt) is also clearly something one may experience albeit that the change involves something desired and construed as positive. Such an experience of severe discomfort, of loss and guilt, despite the desire to move into a new core role, was well demonstrated many years ago by Dana Breen (1981) in her PCP study with pregnant women.
When Kelly speaks of core constructs (as opposed to core role constructs specifically), I understand him to be referring to important values and beliefs, centrally important to the person, indeed governing “a persons’s maintenance processes – that is, those by which he maintains his identity and existence” (Kelly, 1955b, p.482) and very often validated by “group expectancies” or by the use of “the very same dimensional system” (ibidem, p.176) of usually significant others, e.g. parents, cultural group etc. This suggests that the construction of core constructs may often involve core role constructs. I have puzzled over the distinction between core constructs and core role constructs and questioned if it is useful that I hold such a distinction. Ultimately, whilst acknowledging the permeability of one with the other, I have found it a useful distinction to continue to hold in conversations over the years, therapeutic, professional and personal. By useful here I mean that, by drawing that distinction (a propositional construction), it has offered me a temporary guiding map whilst exploring possible ways through the entanglements of construing, emotional and otherwise, that attend each and all of our daily lives and enquiries together. As a therapist, I find continuing to hold a distinction between core construing and core role construing, despite the complicated interweaving of one with the other, to be very helpful to my own positioning in therapy conversations where role relationships (both in and outside of therapy) are so central to the process (Leitner, 2006; Button, 1996). I have in mind here the many times I have found it helpful to offer a distinction between ideas, beliefs or values and “in relation to whom” such values etc. were important. Another example has been the letters I receive on approximately a yearly basis from a former client. I construe this as her way of continuing to include me, her partner in the therapy relationship and conversations, in her core role reference group and in relation to issues of importance to her (core constructs).
Did Kelly’s strategy work, i.e. of transposing terms or providing them with alternative meanings without denying the usual definitions? As so often with Kelly, his deconstruction and reconstruction of meanings and terms is both a playful and a clever ploy. I have indeed been led a merry dance but one which has helped to draw me back into a re-appreciation of PCT as “not only the oldest but also the most sophisticated and rigorous constructivist theory” (Chiari, 2013, p.251) which demands of us to be continuously mindful of its prior philosophical assumption of constructive alternativism (Kelly,1955b, p.15). I have also been led to a re-appreciation of Kelly’s theory as even more deeply relationally embedded and prescient about future developments in psychology than I have always recognised.
This exploration influences me to argue for the position that Kelly’s perspective on guilt is one that is both elaborated by, and in turn frees one to draw on, the major work being carried out today in the complex area of the self conscious emotions of guilt and shame. In transposing the terms guilt and shame, Kelly did achieve his possible aim of drawing attention to the experience from the experiencer’s rather than the commentator’s point of view. But to my naïve eye it initially seemed that Kelly conflated the experiences of shame and guilt. I would now say that, from a PCP perspective, Kelly’s transitional construct of guilt is itself referring to shame experiences as more usually described. As mentioned above, recent psychological research indicates that the experience of shame is very often more challenging for the person(s) experiencing it, as well as for the professionals wishing to understand and respond to it. Kelly’s emphasis on the depth of the experience involved in core role loss, or the threat of such, agrees with that. Rather than conflating guilt and shame, I now believe that Kelly is inviting us to recognise that moral culpability and the guilt related to that (as usually understood) is a different experience and one that may or may not involve core role loss (Kellyan guilt). And so I believe the distinctions Kelly offers us between core constructs and core role constructs are part of the pattern of meaning-making involved in the experience of shame and guilt.
Going on
But returning to the incident which set me venturing forth on this search, i.e. my colleague’s negative reaction to the word guilt being proffered as a possible way of thinking about shame, leads me to ask if it matters which “term” we use, how we name something? My response now is that, having engaged in the search that I have been describing here, I am more reluctant than ever to abandon a PCP understanding (and a PCP definition of guilt) as a guide to possible community searches and therapeutic explorations in any work I might do in response to descriptions of experiences of shame. However, I hope I am also more sensitised to the need to monitor my language and, perhaps, to becoming a great deal more skilled in moving across language-communities whether these be between one psychological theoretical domain and another, between professional and nonprofessional groups or between cultural and diverse ethnic communities. As William James wrote:
“All our mental categories without exception have been evolved because of their fruitfulness for life, and owe their being to historic circumstances, just as much as do the nouns and verbs and adjectives in which our languages clothe them” (1987, p.551).
The constructed nature of our mental categories and the constitutive force of our languaging must not be forgotten. The door to knowledge is indeed questioning (Doras feasa fiafraighe).
And so although the experience of shame, of guilt as described by Kelly, is often profoundly painful, Kelly did say (1970) that “Guilt is thus a concomitant risk in any creative social process by which man (sic) may seek to transcend blind obedience” (p.27). So it is truly about change and adventure. Thus not only may Kellyan guilt (shame) not be avoided but it can play a very positive role in somebody’s life. It may not be “all bad”. I resonate with Cummins when he writes (2009) that “one of the things that PCP has done for me is to value the experience of guilt. It tells me that there is some sort of change going on inside me” (p.182). The challenge for me, in the work I do, will be to invite us to respond to the experiences, described as shame, as ones potentially pointing us towards events, relationships and encounters involving change and movement but always in relation to others and how we construe others construing us. I am hopeful that learning to work with shame as a guilty experience (in PCP terms) may open that possibility for members of the Traveller community with whom I may work and most especially in their relationship with the majority community.
But I cannot close this article without referring to Raskin’s (2006) argument that relying on quotations is an inappropriate form of Kelly-worship, from a constructivist’s perspective, as if somehow what Kelly said could or should be read as “fact” rather than propositionally. Furthermore, he argues (2006) that it is a task doomed to failure simply because “Kelly can be interpreted as saying different things in different places of his work” (p.51). More seriously perhaps, reliance on quotations as if to establish a “truth” means that the writer resorting to that discursive strategy is doing so as a form of argumentation (drawing on an authoritative voice) whilst simultaneously obscuring or not acknowledging her/his own active involvement in how one is actually and unavoidably involved in the meaning making. But I believe there are other, and good, reasons for using quotations as indeed Raskin himself does in that article. In my own case, I have drawn on many Kellyan and other quotations above but my intention in doing so is to track and describe more clearly how I draw on PCP practices as propositional guidelines and as one way of remaining coherent with a constructivist perspective.
In conclusion, I hope that I have shown that there is a richness to be found in Embracing Kellyan Guilt but also, and simultaneously, in Excavating Shame, both where the latter is embedded in Kelly’s work and where it is worked on more overtly, above ground as it were, by other psychological theorists. Only thus with such a marrying of understandings, it seems to me, can we ensure that Kelly’s ideas are continuously being drawn on for their usefulness in enabling definition, extension and constructive aggression, in challenging us to engage with the immediacy of others’ experiences, and in helping us to sometimes, as Kelly (1977) would have it, “transcend the obvious”(p.11).
Acknowledgments
I am especially grateful to my long-time colleagues and co-adventurers, Sheila Greene, Vincent Kenny, Imelda McCarthy, Aine OReilly, Dusan Stojnov, and Mia Van Doorslaer, above all for their resistance to shaming practices, their apposite comments, challenging conversations, consistent encouragement, and readiness to give time to reading my efforts even when they do not always agree with what I am saying. They are the best possible kind of dialogical partners to have and so I am entirely responsible for the conclusions presented here.
As always I am indebted to the people, from all communities, that I work alongside. Sometimes we need no translation and at other times we despair at what it is not possible to say, what is so often unspeakable even when sayable, and yet we do together become energised and renewed for another day.
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Note sull’autore
Bernadette O’Sullivan
VICO Consultation Centre and Clanwilliam Institute Dublin
Bernadette O’Sullivan, come psicologa clinica presso il Servizio Sanitario Nazionale in Irlanda negli anni ‘7o00000, si è interessata ai principi e alla pratica della Psicologia dei Costrutti Personali. Mentre stava conseguendo il suo diploma in Teoria dei Costrutti Personali presso il London Centre, Bernadette ha basato il suo dottorato (Trinity College, Dublino 1984) sulla comprensione in termini PCT dell’agorafobia. Come clinico, insegnante e supervisore di programmi terapeutici costruttivisti e sistemici, Bernadette è interessata al modo in cui i principi costruttivisti e sistemici siano di reciproco sviluppo e sfida produttiva, e a come gli utenti dei servizi in cui lavora possano fare esperienze costruttive.
Bernadette OSullivan, a clinical psychologist in the Irish health services in the 1970s, became interested in Personal Construct ideas and practices. Undertaking the PCT Diploma course in the London Centre, she simultaneously focused her doctoral work (Trinity College, Dublin 1984) on exploring a PCT understanding of agoraphobia. As a practitioner, teacher and supervisor on systemic and constructivist therapy programmes, Bernadette is interested in how constructivism and systemic ideas are mutually informing and challenging, and experienced constructively by users of services where she is working.
Note
- Psicologia dei Costrutti Personali: traduzione dall’inglese di Personal Construct Psychology. D’ora in avanti nel testo si farà riferimento ad essa con l’acronimo PCP (N.d.T.). ↑
- Travellers Community: I pavee (in irlandese an lucht siúil, in inglese chiamati soprattutto irish travellers o tinkers) sono un popolo nomade di origine irlandese, che attualmente vive principalmente in Irlanda, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America. Sono conosciuti anche come Irish Travellers (viaggiatori irlandesi), Minceir, Lucht siúil (gente che cammina), tinkers (stagnai), walking people (gente che cammina). Essi chiamano le persone al di fuori della loro comunità Buffers o Rooters (N.d.T.). ↑
- Teoria dei Costrutti Personali: traduzione dall’inglese di Personal Construct Theory. D’ora in avanti nel testo si farà riferimento ad essa con l’acronimo PCT (N.d.T.). ↑
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