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Didattica costruttivista in psicoterapia costruttivista: il modello dell’Institute of Constructivist Psychology

Quando il post-moderno incontra l’antico

Teaching psychotherapy in constructivist psychotherapy: the model of the Institute of Constructivist Psychology

When the post-modern meets the ancient

di

Francesca Del Rizzo

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

La didattica della psicoterapia è una disciplina giovane sulla quale non esiste una riflessione teorica imponente. Balzani et al. (2011) hanno tentato di delineare il modello di formazione dell’Institute of Constructivist Psychology (d’ora in poi ICP) di Padova che cerca di dedurre la sua prassi didattica direttamente dai presupposti epistemologici della Psicologia dei Costrutti Personali di George Kelly (1955). Questo articolo tenta una riflessione ulteriore su quel modello di didattica in psicoterapia grazie ad un parallelismo con i principi e le modalità attraverso i quali veniva insegnata la filosofia ai tempi dell’antica Grecia. Vengono evidenziate alcune analogie e viene particolarmente sottolineato il ruolo del didatta.

Teaching psychotherapy is a new discipline. The literature on this issue is very scarce. Balzani et al. (2011) tried to illustrate the formative model created by the Institute of Constructivist Psychology in Padua. This model stems directly from the epistemological assumptions of Personal Construct Psychology (Kelly, 1955). In this paper a further reflection on ICP model is made thanks to references at the art of teaching philosophy in Ancient Greece. Some analogies are highlighted and the role of the teacher is particularly underlined.

Keywords:
Didattica della psicoterapia, didattica della filosofia, costruttivismo, psicoterapia costruttivista, Kelly, G.A. | psychotherapy – study & teaching, teaching philosophy, constructivism, constructivist psychotherapy, Kelly, G.A.
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1. Introduzione

Qualche anno fa io, Laura Balzani e Federica Sandi abbiamo scritto un articolo, che poi è stato presentato al Congresso dell’EPCA a Belgrado nel 2010 e pubblicato negli atti di quel congresso (Balzani et al., 2011), sul percorso che conduce uno psicoterapeuta costruttivista a diventare un didatta in psicoterapia ad orientamento costruttivista. Riflettevamo, in quel nostro scritto, su come fosse possibile pensare un percorso formativo che fosse coerente con i presupposti del costruttivismo, in particolare il costruttivismo kelliano, e ci trovavamo anche e doverosamente a tentare di esplicitare cosa fosse e in che cosa consistesse l’insegnamento della psicoterapia.

Sulla scorta degli insegnamenti dei nostri maestri, Gabriele Chiari e Massimo Giliberto in primis, descrivevamo l’insegnamento come un processo relazionale ed in particolare come una relazione di ruolo strategicamente orientata a favorire la formazione degli psicoterapeuti in erba:

teachers have to construe the student’s constructions personally and professionally in order to be able to anticipate how they can construe their training experience and which directions their personal construct system will move in. (Balzani et al., 2011, p. 172)

E fondavamo questa nostra definizione su quanto avevano scritto Gabriele Chiari e Maria Laura Nuzzo:

the peculiar epistemological assumption of personal construct theory leads to a radically new way of understanding knowledge and learning and consequently the process of teaching, seen as the struggle to enlarge mutual comprehension between people who have different world views. (Chiari & Nuzzo, 2010, p. 15)

Recuperando la metafora della persona come scienziato, descrivevamo inoltre il gruppo classe come un laboratorio ed il didatta come un supervisore al complesso esperimento condotto in prima persona dallo psicoterapeuta in formazione. Affermavamo inoltre, citando Mary Frances, che in questo la formazione in psicoterapia poteva diventare una “lived experience of constructivism” (Mary Frances, 2008): un’esperienza relazionale nel corso della quale e grazie alla quale gli studenti avrebbero potuto fare esperienza in prima persona di alternativismo costruttivo, accettazione e relazione di ruolo.

Una citazione di Kelly riportata da Dusan Stojnov ci ha aiutato a definire ancor meglio l’obiettivo della didattica costruttivista in psicoterapia costruttivista:

Kelly himself has said that “the primary object of the school is not to control behaviour, or even to ‘give’ the child experience” (Kelly, 1966/1970, p. 261). He stated that “in a society convinced that freedom is more than a happy personal convenience, it also enables persons to make the most of their capacity to help each other ” (Kelly, 1966/1970, p. 261). He was convinced that the object of school is to give each learner the opportunity to discover through her own venture who she is and what she may become […] (Stojnov, 2008)

Le riflessioni che qui intendo proporre ripartono dal testo scritto con Balzani e Sandi e sviluppano in particolare il tema dell’atteggiamento, degli obiettivi, dei compiti, del ruolo del didatta. Esse sono il risultato della mia riflessione personale sulla mia esperienza di codidattica, sulla mia relazione di apprendimento con i didatti della mia scuola e sulla lettura di alcuni testi filosofici incentrati sul ruolo dell’educatore, del pedagogo, del formatore “di anime”. In particolare tenterò di sviluppare il tema della didattica costruttivista in psicoterapia costruttivista leggendo e confrontando assieme George Kelly, Platone, Pierre Hadot e Michel Foucault. È chiaro che questo testo non vuole essere una trattazione sistematica o completa – si tratta infatti di un primo passo in un lavoro di ricerca che vuole essere più organico e comprensivo – quanto piuttosto offrire alla riflessione di chi lo leggerà alcuni spunti che io per prima ho trovato interessanti.

 

2. La formazione in psicoterapia

Per delineare i tratti fondamentali della formazione in psicoterapia costruttivista farò riferimento in particolare al modello didattico proposto da Massimo Giliberto (vedi Frances e Giliberto, 2014) ed elaborato, sotto la sua direzione, dal gruppo di didatti e co-didatti dell’ICP, me compresa. Utilizzerò, pertanto, come fonti i documenti ufficiali della scuola che recepiscono peraltro, per quanto di comune fra tutte le scuole di specializzazione in psicoterapia, le direttive del MIUR.

In riferimento al 1° anno di corso il Programma della scuola afferma testualmente:

Il primo anno ha la finalità per gli allievi di introdursi ai presupposti del Costruttivismo e delle Psicoterapie Costruttiviste, nonché apprendere la teoria di base formulata da George A. Kelly (1905-1967) in termini di Psicologia dei Costrutti Personali (PCP). Sul piano dello sviluppo personale, al fine di elaborare i temi individuali che incideranno sull’interpretazione della professione, si avvieranno gli allievi a una conoscenza di sé – ovvero dei propri presupposti e del proprio sistema di costrutti – e del Gruppo; ciò avverrà utilizzando gli strumenti teorici della PCP e un approccio esperienziale all’interno del Gruppo-Classe. (Corsivi miei, ICP, 2008)

Già da questa prima sintetica e chiara formulazione si ha modo di vedere come la formazione in psicoterapia costruttivista implichi necessariamente sia una riflessione sui presupposti personali e quindi un approfondimento della conoscenza di sé sia una riflessione sui presupposti della teoria di riferimento.

Ma cosa sono i “presupposti”? Cosa si intende quando si fa riferimento ai presupposti della teoria?

Al di là dei contenuti specifici – di quali siano i presupposti delle teorie costruttiviste ed in particolare della PCP – mi sembra di poter affermare che i presupposti di una teoria sono l’orizzonte concettuale ultimo e primo all’interno del quale quella teoria si sviluppa, ne costituiscono contemporaneamente il limite ed il punto di partenza. Sono ciò che non viene messo mai in discussione, ciò che non viene mai negato all’interno della teoria e ciò che differenzia quella teoria da altre teorie che vogliono dare conto dello stesso campo fenomenico.

Allora “introdurre ai presupposti del Costruttivismo” significa probabilmente esplicitare quali essi siano, approfondirne significato ed implicazioni, porli a confronto con i presupposti di altri orientamenti teorici individuando somiglianze e differenze, rispettivi limiti e potenzialità.

Fino a qui il tutto assume l’aspetto dell’illustrazione di uno sfondo teorico. Ma all’allievo si chiede di padroneggiare quello sfondo teorico e gli strumenti che esso racchiude, “interpretando” anche grazie ad essi la sua professione (come emerge in particolare dal programma dei successivi anni di corso). Il che sembra significare che, in una certa misura, per quanto riguarda l’ambito professionale, l’allievo dovrà fare propri questi presupposti, condividerli, o, per utilizzare una terminologia costruttivista, incarnarli. Come si può giungere a questo obiettivo? Il testo è chiaro e per ulteriore chiarezza preferisco riprenderlo:

[…] al fine di elaborare i temi individuali che incideranno sull’interpretazione della professione, si avvieranno gli allievi a una conoscenza di sé – ovvero dei propri presupposti e del proprio sistema di costrutti – e del Gruppo; ciò avverrà utilizzando gli strumenti teorici della PCP e un approccio esperienziale all’interno del Gruppo-Classe”.

All’allievo si chiederà quindi di elaborare alcuni aspetti di sé lavorando sulla conoscenza di sé come persona-in-relazione utilizzando i costrutti della teoria e l’esperienza delle relazioni instaurate con i suoi compagni di corso e con i didatti.

Mi sembra di poterne dedurre che ciò che si chiede all’allievo è di cambiare come persona per poter interpretare rigorosamente la professione. Gli si chiede di esplicitare e di mettere alla prova il suo sistema personale, la sua teoria ingenua di sé, degli altri e delle relazioni, leggendo i risultati di queste prove, di questi esperimenti, grazie agli strumenti concettuali messi a disposizione dalla teoria formale.

Gli si chiede, in termini tecnici, di sviluppare, a partire dal proprio sistema personale di costrutti, un sistema di costrutti professionale che sia in grado di sussumere, di comprendere sovraordinandoli, il proprio personale sistema di costrutti, quello del paziente, quello dei colleghi e, volendolo, di ogni eventuale altra persona. Inoltre, e coerentemente con la struttura assiomatica della PCP, gli si chiede di instaurare le sue relazioni professionali sulla base di questa comprensione.

Procedendo oltre con il processo deduttivo mi sembra di poter inoltre affermare che, in virtù di questo cambiamento, all’allievo è chiesto anche un cambiamento a livello dei suoi presupposti personali – che, come minimo, devono essere in grado di integrare, grazie ad una personale elaborazione, i presupposti della teoria.

Cioè: nel corso della loro formazione in psicoterapia gli allievi modificheranno i loro presupposti personali,

l’orizzonte ultimo e primo grazie al quale danno significato al mondo, agli altri ed a sé stessi. E questo cambiamento non avverrà tanto perché studieranno nei manuali dei contenuti specifici ma soprattutto perché faranno esperienza in prima persona delle implicazioni che incarnare un tipo piuttosto che un altro di presupposti può avere all’interno delle relazioni.

Ne consegue pertanto che il ruolo del didatta, coerentemente con i presupposti del costruttivismo , è quello di facilitare “the students’ path to both personal and professional growth by proposing specifically designed experiments, construing an environment that can promote different kinds of interactions between students, by valuing students’ proposals and initiatives” (Balzani et al., 2011, p. 173). Per fare ciò egli deve costruire i processi di costruzione degli studenti come persone e della classe come gruppo, anticipando le loro direzioni di movimento e agendo nei loro confronti in modo strategicamente orientato a stimolare l’autoriflessività, la conoscenza di sé, la messa in atto di esperimenti con sé e con gli altri, il cambiamento dei presupposti nella direzione indicata dai presupposti della PCP.

Ciò che ci si propone di fare e che in effetti si fa all’interno di una scuola di specializzazione in psicoterapia – in particolare ad orientamento costruttivista – non ha pertanto nulla a che fare con l’insegnamento così come comunemente ed attualmente inteso in contesto scolastico ed universitario e, salvo rare e preziose eccezioni, nemmeno in altri contesti di “apprendimento” quali possono essere l’ambito sportivo, artistico o musicale. Mi sembra infatti che in quei contesti prevalga l’idea dell’insegnamento come trasmissione di conoscenze, saperi, capacità, come addestramento o come perfezionamento di abilità, ma mai come relazione in cui ad essere in gioco sono – almeno – due persone e ciò che le rende tali, l’intero mondo di significati che esse sono. Non a caso, credo, sempre più raramente si parla di “maestri” e sempre più frequentemente di “professori”, “formatori”, “educatori”, “insegnanti”, “trainer”, “coach”… Ma, nell’intendimento di una scuola ad orientamento costruttivista, la relazione fra didatta ed allievo dovrebbe piuttosto assomigliare a quella, appunto, fra maestro ed allievo, presente nella nostra tradizione da millenni. Ed è a quella tradizione che ho pensato di rivolgermi, alla ricerca di spunti e utili esperienze.

 

3. Diventare filosofi nella Grecia antica

Nel mio peregrinare, più o meno ordinato, fra testi filosofici, mi sono imbattuta in un libro particolare: “Esercizi spirituali e filosofia antica” di Pierre Hadot (2002/2005). La quarta di copertina recita “Il libro ricostruisce la storia di un sistema di pratiche filosofiche che si proponeva di formare gli uomini piuttosto che informarli, attraverso un lavoro su se stessi che coinvolgeva non solo il pensiero, ma anche l’immaginazione, la sensibilità e la volontà” (corsivi miei). Ed il focus del libro è proprio questo: Hadot dimostra come, per la maggior parte, i testi filosofici dell’antichità siano da intendere come strumenti di lavoro utili al maestro per integrare un insegnamento prevalentemente orale, creato nel dialogo e nella discussione, il cui obiettivo era trasformare la personalità dell’allievo. I testi non venivano quindi scritti con l’intento di esporre un sistema ma con quello di dare vita ad opportuni ausili alla didattica filosofica – che si svolgeva poi nella relazione vissuta ed attraverso l’oralità. E questa didattica filosofica non era intesa tanto come insegnamento di contenuti, di concetti, di teorie, ma primariamente come un continuo stimolo alla cura di sé, alla riflessione su di sé ed alla conoscenza di sé. In questo senso fare filosofia corrispondeva a “vivere filosoficamente”, vivere amando e ricercando la sapienza innanzitutto attraverso un profondo lavoro su di sé.

La riflessione di Hadot fu di stimolo anche per Foucault, che a sua volta si dedicò all’argomento in varie pubblicazioni sostenendo ipotesi molto simili (ad es. Foucault, 1984/1985, 1985/1992, 1984/1998, 2001/2003). Per entrambi la filosofia antica

non si esauriva in un pur straordinario impianto teoretico capace di indagare e definire verità ma si caratterizzava soprattutto per la sua portata “eto-poietica” capace di trasformare la verità in ethos praticato, ossia, in tratto caratteriale, costume di vita, specifica “modalità di esistenza di un individuo” (Foucault, 2001/2003, p. 209). (Montanari, 2009, p. 11)

Ora, la formazione di un filosofo, tanto antico quanto contemporaneo, è tutt’altra cosa dalla formazione di uno psicoterapeuta, tuttavia sono certa che la sapienza accumulata nei secoli dalla tradizione filosofica possa essere utile anche per la didattica in psicoterapia. È chiaro che quello a cui mi rivolgo nella tradizione filosofica non sono i contenuti, ma il metodo. Mi spiego: l’obiettivo di un “maestro filosofo” era duplice e circolare: formare all’attività filosofica e tramandare una teoria che fosse anche condotta di vita, poiché la ricerca della verità ed il rapporto con la verità avevano senso in quanto in grado di trasformare l’esistenza della persona (Foucault, 2001/2003). Ciò avveniva attraverso pratiche ed esercizi che incidevano profondamente sul sé dell’allievo. Sia Foucault che Hadot sono infatti d’accordo nel ritenere che nell’antichità la filosofia non consistesse

nell’insegnamento di una teoria astratta, e meno ancora in un’esegesi di testi, ma in un’arte di vivere, in un atteggiamento concreto, in uno stile di vita determinato che impegna tutta l’esistenza. L’atto filosofico non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del “Sé” e dell’essere […]. (Hadot, 2002/2005, pp. 31-32)

Se già Eraclito affermava “l’essere sapienti è la virtù più grande: e la sapienza è dire il vero e agire dando ascolto alla natura” (22 [B112] DK), Hadot cita anche Porfirio: “la contemplazione beatificante non consiste di un’accumulazione di ragionamenti né di una massa di conoscenze apprese, ma occorre che la teoria divenga in noi natura e vita (ibidem, p. 16, corsivo mio)”. Per i greci non aveva senso contrapporre teoria e pratica, poiché, come afferma Natoli “per i greci il termine a-praktikos – non pratico – non era affatto opposto a teoretico, ma significava semplicemente sbagliato” (Natoli, 2006, p. 1). Tutto ciò mi sembra avere forti aspetti di comunanza con la concezione di conoscenza incarnata caratteristica degli approcci costruttivisti.

L’obiettivo circolare di un didatta in psicoterapia è formare all’attività psicoterapeutica attraverso l’insegnamento di una teoria che è anche prassi psicoterapeutica. Nel caso di una formazione in psicoterapia costruttivista l’obiettivo del didatta comprende pertanto anche la prassi, la pratica, l’esercizio dell’autoriflessività, dell’accettazione, della presenza, dell’ascolto, della comprensione, della messa in discussione di sé e dei propri presupposti. Ed è proprio qui che, a mio avviso, didattica della psicoterapia e didattica antica della filosofia si incontrano.

Come già accennato, entrare in una scuola filosofica ed esercitarsi alla filosofia significava, nell’antichità, innanzitutto modificare la propria visione del mondo. Hadot scrive: “Questo cambiamento di visione è difficile. È precisamente lì che dovevano intervenire gli esercizi spirituali, al fine di operare a poco a poco la trasformazione interiore che è indispensabile” (Hadot, 2002/2005, p. 33). Questi esercizi avevano, secondo il Nostro, un triplice scopo: “trascendenza della centratura egoica nella ricerca della verità, trascendenza nel rapporto con il cosmo, trascendenza nel rapporto con gli altri” (Màdera, 2006, p. 93):

questo è appunto il cuore di tutti gli esercizi spirituali della filosofia antica: insegnare a trascendere il proprio punto di vista per abbracciare quello del tutto, sino a concepirsi ed a sentirsi parte di esso, riconoscendosi non tanto come risultato di relazioni estrinseche, quanto come intrinsecamente relazione. (Montanari, 2013, p. 26)

Per quanto tali pratiche fossero diffuse già all’interno della scuola pitagorica, è al periodo ellenistico che risalgono i testi che vi fanno riferimento in modo sistematico. Riprendendo uno studio di Paul Rabbow del 1954, Hadot elenca gli esercizi utilizzati all’interno della scuola stoica e tramandati grazie a Filone di Alessandria (cfr. il trattato “Sulla vita contemplativa”). Suddivisibili in “esercizi letterari, dialogici, monologici ed immaginativi” (Horn, 1988/2004, p.45), fra di essi troviamo: “la ricerca, l’esame approfondito, la lettura, l’ascolto, l’attenzione, il dominio di sé, l’indifferenza alle cose indifferenti, […] le meditazioni, le terapie delle passioni, i ricordi di ciò che è bene, il compimento dei doveri” (Hadot, 2002/2005, p. 34).

A titolo di esempio riporto quanto Hadot scrive a proposito dell’attenzione, sicuramente una “virtù” da coltivare anche nello psicoterapeuta in formazione:

L’attenzione è l’atteggiamento spirituale fondamentale dello stoico. Sta in una vigilanza ed in una presenza di spirito continue, una coscienza di sé sempre desta, una costante tensione dello spirito. Grazie ad essa il filosofo sa pienamente ciò che fa in ogni istante. […] Questa stessa vigilanza mentale permette di applicare la regola fondamentale alle situazioni particolari della vita, e di fare sempre ‘a proposito’ ciò che si fa. Si può anche definire tale vigilanza come la concentrazione sul momento presente. […] L’attenzione permette di rispondere immediatamente agli eventi come a domande che ci fossero bruscamente poste (ibidem, pp. 34-35).

Gli stoici infatti fornivano ai discepoli un principio fondamentale da tenere sempre in mente nel corso dell’intera giornata e nel corso di qualsiasi attività, di modo da poterlo applicare di volta in volta ai vari casi della vita. Questa continua vigilanza su di sé, sui propri pensieri, permetteva ai discepoli di essere continuamente concentrati sul momento presente, consapevoli di sé e del proprio agire.

È chiaro come questo tipo di esercizi non conducessero tanto all’acquisizione di un certo particolare sapere, quanto ad una trasformazione della personalità, tanto che Hadot può scrivere: “l’immaginazione e l’affettività devono essere associate all’esercizio del pensiero” (ibidem, p. 35).

Come già accennato tali esercizi non erano appannaggio della sola scuola stoica ma ad esempio si ritrovano, con varianti dovute alla differenza della teoria filosofica di riferimento, anche nell’epicureismo, perché “il fatto è che per Epicuro, come per gli stoici, la filosofia è una terapia: ‘La nostra sola occupazione deve essere la nostra guarigione’” (ibidem, p. 39).

Mi sembra quindi si possano identificare alcune non casuali somiglianze fra la didattica in psicoterapia e la didattica antica della filosofia.

1. Il presupposto che un cambiamento nella prassi possa avvenire solo attraverso un cambiamento nella teoria che la persona incarna. E quindi la considerazione della teoria non come qualcosa di intellettuale e razionale, ma come qualcosa che coinvolge la persona nella sua interezza, poiché, anche per i greci,

per accedere ad un sapere realmente trasformativo e destinato ad incarnarsi in uno stile di vita non basta comprendere […] ma è necessario sperimentare “una serie di pratiche che permettono di acquisire, assimilare la verità e di trasformarla in un principio permanente dell’azione” (Foucault, 1988/1992, p. 32). (Montanari, 2009, p.14)

2. L’obiettivo di favorire il cambiamento – almeno in parte – della visione del mondo dell’allievo. Lo psicoterapeuta in erba viene chiamato a leggere gli eventi relazionali alla luce di una teoria psicologica; il filosofo in erba viene stimolato a guardare al mondo attraverso la lente della teoria filosofica di riferimento. Foucault esprime la circolarità del rapporto tra il mondo e la persona attraverso la metafora della vita come prova:

Che il bios, che la vita – intendendo con ciò il modo in cui il mondo si presenta immediatamente a noi nel corso della nostra esistenza – sia una prova, è un asserto che dovrà essere inteso in un duplice senso. Prova, nel senso di esperienza, sta innanzitutto a significare che il mondo viene riconosciuto come ciò attraverso cui facciamo l’esperienza di noi stessi, ciò attraverso cui conosciamo e scopriamo noi stessi, ciò attraverso cui ci riveliamo a noi stessi. Ma prova sta inoltre a significare che tale mondo, tale bios, è anche un esercizio, ovvero che costituisce ciò a partire da cui, ciò attraverso cui, ciò nonostante cui, o ciò grazie a cui, potremo formare noi stessi, potremo trasformarci, potremo muovere verso uno scopo o verso una salvezza, andare verso la nostra propria perfezione. (Foucault, 2001/2003, p. 435)

3. Lo strumento principale attraverso il quale questo obiettivo viene perseguito, che è l’approfondimento della conoscenza di sé, di tutto ciò che costituisce il proprio mondo interiore ma anche di tutto ciò che riguarda la propria azione nel mondo. Le tecniche che permettono di volta in volta di migliorare la conoscenza di sé servono ad esercitare l’attenzione, la concentrazione, la presenza a se stessi, la consapevolezza, la riflessione su di sé. Secondo Foucault, esse sono, nel caso della filosofia,

le tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri, al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità. (Foucault, 1988/1992, p. 13)

4. L’attenzione per la dimensione “sistemica” e per una prospettiva che superi la propria “centratura egoica”. Nei molti esercizi che invitavano i filosofi in formazione ad osservare se stessi e la vita “dall’alto” di una prospettiva cosmica o a partire dall’attualizzazione della loro stessa morte, possiamo riconoscere lo sforzo di favorire “l’uscita da se stessi”, l’adozione di una prospettiva rispetto alla quale la propria vita, i propri desideri e le proprie sciagure vengono viste all’interno di un contesto più ampio che comprende anche la vita, i desideri e le sciagure altrui. Gli psicoterapeuti in formazione vengono continuamente sollecitati ad assumere la prospettiva dell’altro, per poterlo comprendere, ma anche una prospettiva sovraordinata ai punti di vista individuali ed in grado di sussumerli vedendone le reciproche interrelazioni.

Ma vi è un altro importante aspetto di comunanza fra la didattica antica della filosofia e la didattica della psicoterapia ed è, a mio avviso, nella natura e nella qualità della relazione fra maestro ed allievo. A questo punto credo sia utile riflettere su una straordinaria figura filosofica: Socrate.

 

4. Socrate educatore attraverso lo sguardo di Platone

Se del Socrate storico poco di certo può essere detto, l’immagine che di Socrate ci danno Aristofane, Platone, Senofonte ed Aristotele è invece ben chiara, sebbene non sempre univoca.

Di questo secondo Socrate sappiamo che affermava di non aver nulla da insegnare a quelli che fra i suoi contemporanei si fermavano a dialogare con lui, ma che, come un tafano che tormenta un cavallo, non smetteva di portare la loro attenzione su loro stessi, come dice Alcibiade nel Simposio:

Socrate mi costringe a confessare a me stesso che, mentre sono così carente per tanti punti, persisto a non curarmi di me stesso. […] Più volte ha fatto sì che mi trovassi in uno stato tale da non ritenere possibile vivere comportandomi come mi comporto. (Platone, Simposio, 216a e 215e)

Quando ci si avvicina troppo a Socrate e ci si è addentrati nel dialogo con lui, anche se dapprima si è iniziato a parlare con lui di tutt’altro, di necessità egli ci trascina incessantemente in un discorso che presenta ogni specie di giri, di deviazioni, di tortuosità, finché non si giunga a dover rendere conto di sé, sia quanto al modo in cui si vive attualmente che a quello in cui è vissuta la propria esistenza passata. Quando si è arrivati a questo punto, Socrate non vi lascerà prima di avere sottoposto tutto ciò alla prova del suo controllo, ben bene e a fondo. (Platone, Lachete, 187e-188a)

E Socrate stesso afferma: “ho cercato di persuadere ognuno di voi di non curarsi di alcuna delle proprie cose prima che della propria persona, del modo di diventare il più possibile buono e saggio” (Platone, Apologia di Socrate, 36c).

L’invito pressante di Socrate nei confronti dei suoi contemporanei è a prendersi cura di sé e ciò si traduce, dal suo punto di vista, nel sottoporsi al continuo esame della propria condotta per verificare quanto essa sia coerente e ben fondata. Egli chiede agli ateniesi di rendere conto di ciò che dicono ma soprattutto di ciò che fanno e di essere consapevoli e responsabili delle ragioni che danno una direzione al loro agire. L’imperativo delfico “Conosci te stesso” è lo strumento principale di questa radicale ricerca di coerenza. Socrate lo incarna quando interroga i suoi concittadini e li invita all’esame di coscienza ed all’attenzione a sé, ma ciò avviene solo attraverso il dialogo e nel dialogo. “Un dialogo è un itinerario del pensiero la cui via è tracciata dall’accordo, costantemente mantenuto, tra una persona che interroga ed una che risponde” (Hadot, 2002/2005, p. 47).

Hadot sottolinea come nella concezione socratico-platonica sia essenziale la dimensione dell’interlocutore:

Quando due amici, come tu ed io, hanno voglia di discutere, occorre farlo in maniera meno aspra e più dialettica. E mi pare che ‘più dialettica’ significhi che non solo si danno risposte vere, ma che si fonda la propria risposta su ciò che l’interlocutore riconosce di sapere egli stesso. (Platone, Menone, 75 c-d)

Socrate adatta la sua comunicazione all’interlocutore e procede per piccoli passi monitorando costantemente la comprensione dell’altro. L’obiettivo non è quello di ‘dire qualcosa’, l’esposizione non è mai dogmatica o puramente teorica. Il dialogo è un esercizio in cui Socrate fa lo sforzo di costruire la mossa discorsiva più utile ad accompagnare il corso del pensiero di chi dialoga con lui che, a sua volta, accetta di farsi condurre là dove non avrebbe mai immaginato di poter andare. “Ciò che conta non è la soluzione di un problema particolare, è il cammino percorso per raggiungerla, cammino dove l’interlocutore, il discepolo, il lettore formano il loro pensiero, lo rendono più atto a scoprire da solo la verità” (Hadot, 2002/2005, p. 48). In questo, forse, il metodo (dialogico) conta ancor più dei contenuti espressi, della verità “scoperta”, poiché in questo modo, attraverso l’esperienza vissuta del dialogo, attraverso lo sforzo condiviso della costruzione di significato, la comprensione di sé cui il dialogante giunge non è una mera comprensione intellettuale ma “una comprensione che costituisce il movimento e la conversione fondamentale di tutto il nostro essere umano, vale a dire, verso ciò che per l’essere umano è più fondamentale” (Patocka, 1947/2003, p. 375).

Dal punto di vista di Socrate maestro, quindi, l’intento non è quello di parlare con l’allievo per trasmettergli una sua verità, ma quello di dialogare, inter-agire con lui, perché egli possa trovare la propria verità ed al contempo imparare un metodo per la ricerca della verità, poiché il dialogo con il maestro è solo l’esempio di quel che sarà poi il dialogo del filosofo con se stesso. Hadot sottolinea come

questa intima connessione fra il dialogo con altri ed il dialogo con sé ha un significato profondo. Solo colui che è capace di un vero incontro con gli altri è capace di un autentico incontro con se stesso, e l’inverso è ugualmente vero. (Hadot, 2002/2005, p. 46)

In maniera molto simile a quanto Socrate fa nella conversazione con il suo interlocutore, il didatta in psicoterapia deve conoscere e comprendere l’allievo e costruire la sua didattica sulla base di questa conoscenza e di questa comprensione, in un processo comunicativo in cui il modo della comunicazione stessa è al contempo il veicolo ed il “veicolato” dell’insegnamento.

Come la formazione filosofica anche la formazione psicoterapica non è una lezione che si fa allo studente ma un’esperienza che didatta ed allievo fanno assieme nel qui ed ora della relazione educativa. È un cammino trasformativo per l’allievo ed un impegno sempre nuovo e diverso per il didatta che, nell’incontro con persone sempre diverse, sceglie di rimettere in discussione sé e la teoria che come insegnante incarna.

Il dialogo è poi lo strumento per eccellenza della psicoterapia e gli psicoterapeuti non possono che formarsi ed auto-formarsi attraverso la ‘dialettica’ con i propri maestri, i colleghi e se stessi. Nel corso della formazione devono imparare anche a costruire una comunicazione autentica con il paziente in cui essi, come supervisori alla ricerca – rimanendo all’interno della metafora kelliana dell’uomo come ricercatore (Kelly, 1955/1991) – accompagnano il paziente stesso alla costruzione di sé, della sua ‘verità’, attraverso un’esperienza di profondo contatto e coinvolgimento umano reciproco, dove non c’è nulla da imparare né da insegnare.

Le peculiarità di Socrate come maestro tuttavia non si limitano all’uso del metodo dialogico. Il Socrate che conosciamo attraverso i dialoghi di Platone è anche il maestro dell’ironia (eijrwneiva), un artista della dissimulazione e della maschera. Ed è proprio nel dialogo che l’ironia socratica si realizza.

Se esaminiamo i testi di Platone, di Aristotele e di Teofrasto, in cui compare il termine eijrwneiva, ne possiamo inferire che l’ironia è un atteggiamento psicologico secondo cui l’individuo cerca di parere inferiore a quello che è si svaluta da solo. Nell’uso e nell’arte del discorso, questa disposizione si manifesta come una tendenza a fingere di dare ragione all’interlocutore, a fingere di adottare il punto di vista dell’avversario. (Hadot, 2002/2005, pp. 93-94)

Ma la finzione di Socrate è una finzione del tutto particolare. Come ha evidenziato Otto Apelt (1912), il meccanismo dell’ironia socratica si basa su scissione e sdoppiamento. Socrate si sdoppia perché da un lato conduce il colloquio come chi sa già dove la discussione andrà a parare ma dall’altro accetta di percorrere tutto il cammino assieme al suo interlocutore a partire dalla conoscenza iniziale di questi che, alla fine della conversazione, si trova scisso fra il se stesso di prima ed il se stesso di dopo il dialogo. Tipicamente egli si trova a riconoscere di non sapere davvero quel che inizialmente era certo di sapere e lo fa grazie all’interrogare magistrale di Socrate, che asserendo di non sapere, chiede conto al suo interlocutore dei fondamenti del suo proprio “sapere”. Quindi, alla fine della conversazione, questi non solo non ha appreso nulla ma anzi non è più nemmeno certo di quanto sapeva prima, e “nel corso di tutta la discussione ha sperimentato cosa sia l’attività dello spirito, anzi è stato egli stesso Socrate, ossia l’interrogazione, il mettere in questione, il distacco da se stesso. […] Tale è il senso profondo della maieutica socratica” (Hadot, 2002/2005, p. 96).

Come è noto, Socrate nel Teeteto paragona la sua arte a quella della levatrice (come era sua madre):

perché, sotto questo aspetto, io sono davvero nella stessa situazione delle levatrici: non genero sapienza. Ed è vero ciò che molti ormai mi hanno rimproverato: che, pur interrogando gli altri, non mi pronuncio mai riguardo a nulla, con la motivazione che non sono affatto sapiente. È a causa di tutto ciò che il dio mi spinge ad esercitare l’arte maieutica, ma mi ha impedito di generare. Io, di conseguenza, non sono sapiente in nulla, né mai una scoperta geniale ha visto la luce, come un figlio nella mia anima: tuttavia, di quelli che mi frequentano, all’inizio, alcuni almeno sembrano davvero ignoranti. Poi però, con l’aumentare della confidenza, tutti quelli a cui il dio lo conceda raggiungono risultati così stupefacenti che se ne rendono conto sia loro sia gli altri. Ed è evidente che ciò avviene senza che loro abbiano imparato assolutamente nulla da me: è da se stessi che hanno tratto i molti splendidi pensieri che partoriscono. (Platone, Teeteto, 150c-d)

Come ha sottolineato Kierkegaard, la maieutica socratica rovescia i rapporti fra maestro e discepolo:

Poiché essere un maestro non significa dire: ‘È così’, non significa neanche impartire lezioni, e simili; no: essere un maestro significa, in verità, essere discepolo. L’insegnamento comincia quando tu, maestro, impari dal discepolo, ti trasferisci in ciò che ha compreso e nel modo in cui ha compreso. (Kierkegaard, 1951, p. 40)

Lo sdoppiamento di Socrate non può non essere quello del didatta in psicoterapia (così come non può non essere in parte quello del terapeuta stesso). Il didatta ha un obiettivo e, comprendendo il suo allievo, sa dove il percorso formativo metterà alle corde il suo sistema personale; come Socrate, quindi, sa già anticipare “il punto di crisi” dell’allievo e, come Socrate, accetta di compiere tutto il cammino che porterà quell’allievo alla messa in discussione dei suoi presupposti di partenza – a partire proprio da quei presupposti – trasferendosi, come afferma Kierkegaard, momento per momento “in ciò che ha compreso e nel modo in cui ha compreso”. Ed ancora, analogamente a Socrate, il didatta, nel momento della crisi, si fa carico della situazione di turbamento (ansia, minaccia, colpa) dell’allievo, facendosi garante in prima persona della possibilità di costruire una via d’uscita per lo spaesamento e la confusione, senza tuttavia proporre o imporre alcuna soluzione preconfezionata. Il ruolo del maestro nel processo trasformativo che ha l’allievo come protagonista è infatti di prendersi “cura della cura che di se stesso può avere chi egli guida”, poiché è maestro non chi “si preoccupa di insegnare […] delle attitudini o delle capacità, come sarebbe se gli insegnasse a parlare. Il maestro è invece chi si prende cura della cura che il soggetto ha di sé stesso” (Foucault, 2001/2003, p. 54). E di quale cura si tratti i questo contesto ci può essere suggerito da Heidegger:

i modi positivi dell’aver cura hanno due possibilità estreme. L’aver cura può in un certo modo sollevare gli altri dalla loro ‘cura’, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto. Questo aver cura assume, per conto dell’altro, il prendersi cura che gli appartiene in proprio. Gli altri risultano allora espulsi dal loro posto, retrocessi, per ricevere, a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendevano cura, risultandone del tutto sgravati. […] Opposta a questa è quella possibilità di aver cura che, anziché porsi al riparo degli altri, li presuppone nel loro essere umano estensivo, non già per sottrar loro la ‘Cura’, ma per inserirli automaticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza degli altri e non qualcosa di cui essi si prendano cura, aiuta gli altri a divenire consapevoli e liberi per la propria cura. (Heidegger, 1927/1990, pp. 157-158)

 

5. Epilogo

Vi è un ultimo aspetto della saggezza socratica che considero importante evidenziare: Socrate, il filosofo che, come maestro, appunto nel dialogo, e quindi nell’uso del linguaggio, giocava non poche delle sue carte migliori, era tuttavia estremamente consapevole dei limiti di questo strumento. Nei Memorabili Senofonte immagina che Ippia dica a Socrate: anziché interrogare sempre sulla giustizia, sarebbe meglio dirci una buona volta che cosa essa sia. E Socrate risponde: “Ma come, o Ippia? Non capisci che io non smetto mai di mostrare quello che a me pare essere giusto?” e precisa: “Se non con le parole, con i fatti, però, lo dimostro; o non ti pare che il fatto abbia valore probante maggiore delle parole?” (Senofonte, I memorabili, IV; 4, 36, corsivi miei).

Cosa significa questo? Significa che colui che non sa niente in realtà ‘sa’ qualcosa ma non ce la vuole dire? O forse non significa invece che, per usare le parole della celeberrima proposizione di Wittgenstein, “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” (Tractatus Logico-philosophicus, prop. N° 7)? Wittgenstein sosteneva che ci sono alcune realtà della vita umana che le parole non possono definire, che non possono essere espresse con il linguaggio. Non è qui il luogo per addentrarci nel pensiero del filosofo austriaco, quel che mi preme è sottolineare come egli sostenesse che esistono cose che trascendono il linguaggio ed il pensiero, nel senso che ne costituiscono il presupposto ed il limite, come la logica e l’etica. La logica dal linguaggio può essere solo mostrata. Dell’etica, che ha a che fare con ciò che ha valore assoluto, si può avere un “sentimento”, ma non vi possono essere proposizioni dell’etica: “l’etico non si può insegnare. Se io potessi spiegare a un altro per il solo tramite di una teoria l’essenza dell’etico, allora l’etico non avrebbe proprio alcun valore” (Wittgenstein, 1965/1967, p. 24).

Hadot sottolinea che:

Socrate, è vero, è appassionato della parola, del discorso orale e del dialogo. Ma sta di fatto che non meno appassionatamente vuole mostrare i limiti del linguaggio. Non capirà mai la giustizia chi non la viva. (Hadot, 2002/2005, p. 97)

Come maestro quindi, sembra voler comunicare Socrate, scelgo di insegnarvi la giustizia attraverso il mio sforzo di essere giusto ed invito voi, allievi, ad imparare cosa sia la giustizia cercando di essere giusti. Ma Socrate non sa niente e non ha nulla da insegnare e forse non sta facendo un’eccezione solo per la giustizia perché si tratta di qualcosa di speciale. Se è così, allora le sue risposte ad Ippia possono voler dire che tutto ciò che egli ‘sa’ ce lo fa vedere attraverso ciò che fa. Allora tutto ciò che Socrate sa è ciò che Socrate fa ed è ciò che Socrate è.

In questo modo la ricerca di Socrate, la sua interrogazione scendono al più profondo delle scelte esistenziali dell’interlocutore mettendolo di fronte alla necessità di ‘essere’ prima di ‘sapere’, di ‘scegliere’ prima di ‘dire’, di ‘fare’ e non di ‘delegare’. Come filosofo Socrate sembra volerci dire che non c’è sapere, non c’è conoscenza che non sia anche essere, che non sia agire.

Inutile forse dire quanto questo sia in estrema consonanza con la concezione della conoscenza e dell’azione nell’ambito costruttivista – a partire da Piaget (1948/1991) e Kelly (1955/1991) fino ad arrivare alla teoria dell’autopoiesi di Maturana e Varela (1984/1999) ed alla teoria dell’enazione di Varela (1991/1992) – ed inutile dire quanto questa equivalenza fra conoscenza ed azione sia il cuore dell’essere psicoterapeuta costruttivista e quindi non possa che essere anche ciò che il didatta in psicoterapia “in mancanza di parole” fa “vedere con le sue azioni” ai suoi psicoterapeuti in erba.

Si può imparare a conoscere gli uomini? Sì, qualcuno può farlo. Non però attraverso un corso d’insegnamento, ma attraverso l”esperienza‘. Può un uomo insegnarlo ad un altro? Certo. Di quando in quando può dargli il suggerimento giusto. – Questo è l’aspetto, qui, dell”insegnare’ e dell”imparare’. – Ciò che si impara non è una tecnica; si imparano giudizi corretti. Esistono anche regole, ma non formano un sistema e solo l’esperto può applicarle correttamente. A differenza delle regole di calcolo. (Wittgenstein, 1953/1967, p. 297)

 

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Note sull’autore

 

Francesca Del Rizzo

Institute of Constructivist Psychology

francesca.delrizzo@tin.it

Laureata in Psicologia Generale e Sperimentale presso l’Università di Trieste, specializzata in Psicoterapia ad orientamento Costruttivista con Gabriele Chiari presso il CESIPc di Firenze, Master in Psicologia dello Sport e Master Universitario di II Livello in Psiconcologia, iscritta al 3° anno della Laurea Triennale in Filosofia dell’Università di Venezia, operatore certificato ANIRE, Didatta in Psicoterapia presso l’ICP.