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Attraverso gli occhi di una figlia: uno sguardo sulla vita e sul lavoro di Gregory Bateson

Intervista a Nora Bateson

Through daughter’s eyes: a glance on life and work of Gregory Bateson

Interview to Nora Bateson

A cura di

Elena Bordin
ICP – Institute of Constructivist Psychology

 

e Carlo Capuzzo
CPTF – Centro Padovano di Terapia della Famiglia

Abstract

Nora Bateson è una media producer e un’insegnante. Il suo lavoro include documentari, rubriche e produzioni multimediali. Sviluppa inoltre piani formativi per studenti delle scuole primarie e secondarie. Nora, che attualmente vive a Vancouver, dedica la propria esperienza professionale per incoraggiare bambini e giovani adulti a notare e comprendere, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, le interconnessioni tra il mondo della natura e quello “dell’uomo”. Il suo lavoro è centrato sull’utilizzo dei media e della narrazione per incoraggiare l’apprendimento culturale, la giustizia sociale, la consapevolezza ambientale. In questo momento il progetto principale di Nora risulta essere sia la promozione del film Un’Ecologia della mente sia la stesura di un libro sui lavori non pubblicati di Gregory Bateson.

Nora Bateson is a media producer and educator. Her work includes documentaries, magazine columns and multimedia productions. She also develops curriculum for elementary and high school students. Nora, who currently lives in Vancouver, dedicates her expertise to encourage children and young adult to see and understand the interrelatedness of the natural world with that of the “human-made” world using all media. She is focused on utilizing media and storytelling to encourage cultural understanding, social justice, and environmental awareness. Actually, the main Nora project is to promote and accompany the film An Ecology of Mind as well as compiling a book of her father’s unpublished works.

Keywords:
Nora Bateson, Gregory Bateson, pensiero cybernetico, teoria sistemica, documentario, pensiero ecologico, Un’Ecologia della Mente | Nora Bateson, Gregory Bateson, cybernetic thinking, Systemic theory, documentary, ecologic though, An Ecology of Mind
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Questa intervista[1] è stata condotta a Padova durante il seminario “Verso un’ecologia della mente: il pensiero di Gregory Bateson”, 29 Novembre 2013[2].

 

Professoressa Bateson, la ringraziamo di aver accettato questa intervista per il quarto numero della Rivista Italiana di Costruttivismo.

Grazie a voi per l’invito.

 

Cosa le ha fatto decidere di produrre un film[3] su Gregory Bateson?

Nel 2004 abbiamo festeggiato il centenario della sua nascita con vari eventi di commemorazione, ed io, come film maker, ho contribuito con un documentario su di lui. Una volta iniziato, mi sono resa conto che Gregory Bateson era più della somma dei singoli fermo-immagine su cui stavo lavorando, e che essi non rendevano a pieno il suo carisma e la sua personalità. Inoltre, guardando i filmati delle sue lezioni, ho cominciato a pensare che molti dei suoi studenti non avessero colto gran parte delle sue articolate e complesse idee. Ma non solo, se si osserva l’epoca in cui viviamo, si incontrano crisi multiple e in svariati settori, da quello socio-economico e politico a quello intra-famigliare, e ho notato come la cultura separi tutti questi aspetti, limitando anche la nostra capacità di comprendere che anche noi siamo parte di questo sistema.

Proprio per questi motivi, riguardando le lezioni di mio padre, ho capito che c’era davvero la necessità di fare un film sul suo pensiero. Ma quando ho intrapreso questa avventura, molti registi me l’hanno sconsigliato, facendo riferimento ad un primo tentativo fallimentare degli anni ‘70; anche molti accademici esperti dell’opera di Bateson ne sostenevano l’impossibilità, in quanto si trattava di rappresentare idee non lineari in un formato molto lineare. Per me invece le sue idee non erano paroloni difficili appresi in qualche seminario accademico, ma insegnamenti che mi hanno accompagnata fin da bambina, facevano parte della mia giornata e della mia vita. Per me non era possibile pensare che qualcuno potesse non capire Gregory. Ero nella posizione migliore per fare un film su di lui, che potesse arrivare alle persone e favorire un’esperienza collettiva di apprendimento.

 

Quali sono state le sfide più grandi nel produrre il film?

Le sfide sono state numerose e su più livelli: prima fra tutte il fatto che l’editore con cui ho lavorato, David Sieuburg, non aveva mai sentito parlare di Gregory Bateson. Questo è stato stimolante perché mi ha spinta a cercare il modo più semplice, ma non semplificato, di introdurlo alle sue idee, muovendomi con il duplice intento sia di evitare l’utilizzo del linguaggio accademico sia di accennare alla teoria in modo sommario. Inoltre mi sono dovuta scontrare con il fatto che David ed io non avremmo potuto lavorare solo su un piano astratto ma avremmo dovuto anche illustrare il tutto. Così, insieme, siamo partiti dall’idea che nel mondo in cui viviamo ci sono solo sistemi in relazione tra loro; tuttavia la nostra lingua, l’istruzione, il contesto e il nostro background culturale, come un “velo” davanti ai nostri occhi, ci impediscono di vederli. Quindi ci siamo chiesti: come facciamo a togliere questo “velo” in modo che le relazioni passino in primo piano? Come facciamo poi verbalmente, visivamente, a livello musicale, intellettuale, a livello emotivo o anche attraverso la poesia, a rendere più accessibili i vari sistemi tra loro in relazione? Porsi queste domande e cercare le risposte sono state davvero una sfida!

 

Relativamente al rapporto con Gregory Bateson, com’è stato essere sua figlia?

Quando sono nata lui aveva 64 anni ed è morto quando io ne avevo 12. All’università non riuscivo a mantenere l’anonimato in quanto professori e colleghi si aspettavano che possedessi già molte conoscenze. Ma non era vero!

Ho deciso così di cambiare strada e di fare la regista. Avrei potuto viaggiare, imparare cose nuove, vedere posti diversi, e sarei stata in grado di esprimermi in maniera artistica. Sembrava perfetto! Ho deciso che mi sarei separata dal lavoro di mio padre e che sarei scappata il più lontano possibile, volevo essere una ribelle, una punk, così sono andata nell’Asia Sud Orientale per fare dei documentari.

Quando sono arrivata lì mi sono accorta che era proprio quello che aveva fatto mio padre, quando si ribellava contro suo padre… sembrava esserci una sorta di continuità.

E questo è l’aspetto più complesso con cui ancora oggi mi devo confrontare: “sto facendo il mio lavoro o il lavoro di mio padre?”, “sono il prolungamento del suo lavoro o sono me stessa?”.

Allo stesso tempo, durante una presentazione, un critico che conosceva il mio lavoro su Gregory Bateson, una volta mi disse: “spero tu capisca quante cose tuo padre ha imparato da te”. Questa è stata l’osservazione più profonda che qualcuno avesse detto sul film, e lui non l’aveva nemmeno visto. Posso dire che ciò che ho imparato su mio padre l’ho capito dai miei figli e questi aspetti inter-generazionali richiamano la relazione tra sistemi, di cui Gregory parlava. Penso che per me non sia possibile fare qualcosa che non sia influenzato da lui, ma allo stesso tempo se tornassi in Nuova Guinea e tentassi di fare il suo stesso lavoro, di sicuro non ci riuscirei.

Tutto è in relazione, il film parla di questo attraverso la storia di una relazione.

 

Parlando della relazione tra lei, figlia, e Bateson, padre, cosa i suoi occhi di bambina coglievano di lui?

All’epoca non potevo immaginare che gli altri bambini non vivessero le mie stesse esperienze. Ne ho avuto però un indizio, quando a scuola non mi piaceva il modo in cui gli adulti parlavano con me. Non mi piaceva a tal punto che dissi ai miei genitori che non ci volevo più tornare. Anche mio padre sembrava percepire questa differenza: la mattina egli veniva con me alla fermata dell’autobus, quando mi allontanavo lui mi salutava con la mano, una lacrima scendeva sulla sua guancia e diceva a mia madre: “le rovineranno la mente!” Ma non l’hanno fatto!

Per me questo gesto è stato molto significativo: lui sapeva che attraverso quell’esperienza avrei potuto perdere qualcosa, e mostrando la sua vulnerabilità in qualche modo mi stava proteggendo: quando si separa il mondo in pezzi, inevitabilmente si perde qualcosa.

 

Come si inserisce la figura di sua madre in questa storia?

La prima cosa da dire è che è stata proprio mia madre (Lois Cammack, N.d.R.) a raccontarmi la storia, quindi noi lo vediamo attraverso i suoi occhi. Lei proveniva da un contesto culturale più tradizionale rispetto alle origini di Gregory, basti pensare che non aveva avuto il beneficio di vivere a Bali o in Nuova Guinea con Margaret Mead, ed in un certo senso le era difficile lasciar andare i valori o le convenzioni tradizionali, certo non del tutto visto che ha sposato Gregory. Si può dire che entrambi hanno contribuito in egual misura a costruire la mia educazione, lei attraverso indicazioni maggiormente tradizionali (“devi essere brava, devi andare a scuola, devi fare questo e quello”), lui fornendo l’altra metà della narrazione attraverso il suo pensiero (“sì vai a scuola però non prenderla sul serio”). Credo che non saprò mai cosa avrebbe fatto Gregory se lei non avesse sostenuto l’altra parte della storia. Forse proprio perché lei credeva nel sistema, ha dato a lui la possibilità di metterlo in discussione, in modo da trovare un equilibrio.

 

Parlando di storia di relazioni, cosa ha scoperto di suo padre attraverso il progetto cinematografico?

Se si analizzasse la vita di Gregory si potrebbe dire che era un uomo senza una carriera precisa, con molte false partenze in vari settori, e che non fosse in grado di scegliere cosa voleva fare. Egli iniziò a studiare zoologia, poi antropologia, comunicazione, psicologia, ecologia, il sacro per poi finire a lavorare con i delfini. In realtà sapeva cosa stava facendo: si reinventava, ricominciava, senza appartenere a nessuna disciplina specifica. Per lui l’importante era guardare la vita attraverso diversi punti di vista, tentando di imparare il vocabolario di queste varie prospettive.

Inoltre durante le sue lezioni Gregory faceva impazzire i suoi studenti: iniziava dando l’impressione di arrivare velocemente al punto, ad esempio parlare dell’ecologia della mente, ma proprio quando gli studenti pensavano che stesse dicendo cos’è l’ecologia della mente, deviava completamente parlando di antropologia. Quasi al dunque, cambiava di nuovo argomento parlando di cacciatori in Inghilterra, e proprio alla fine della metafora iniziava a parlare di qualche teoria matematica astratta, concludendo poi con la descrizione del funzionamento di una famiglia di San Francisco.

Forse all’inizio sembrava di assistere ad una lezione del tutto disorganizzata ma era una lezione che riguardava il tutto, che non diceva quello che voleva dire, non arrivava al punto, ma cercava di creare uno spazio per mettere “quel punto”, per dare spazio alla vita e all’incertezza. Mirava alla comprensione delle relazioni dinamiche complesse della vita, come fossero una sorta di filigrana delicata, che non avrebbe mai calpestato. Questo è quello che io ho riscoperto di lui e che non volevo violare, egli sosteneva proprio questa inter-dipendenza e voleva che rimanesse intatta e con una propria dignità. Questo è totalmente diverso dai nostri schemi di comunicazione usuali e dalla nostra comprensione di ciò che è la conoscenza, e come si arriva alla conoscenza. Era un’idea davvero radicale e molto bella.

 

Parlando, invece, di Psicologia quali sono le idee di Bateson che potrebbero arricchirla?

Credo che l’aspetto più tralasciato fino ad ora sia l’intersezione tra contesti, e per questo io mi chiederei in che modo le sue idee possano fornire alla psicologia una visione diversa dei vari sistemi.

Al meeting dell’European Family Therapy ad Istanbul[4] ho partecipato ad un incontro sull’ambientalismo dove un famoso esperto di ecologia parlava dei reali problemi del riscaldamento globale, della difficoltà di far capire alle persone la sua reale gravità, e di come spesso nessuno se ne assuma la responsabilità. Quando gli ho chiesto se avesse mai notato che i pattern della crisi ecologica possono essere visibili anche in settori diversi come l’economia, l’istruzione o la vita di una ragazzina con un disturbo alimentare, lui mi ha risposto che preferiva non commentare in quanto questi elementi non appartenevano al suo campo di studi.

Ritengo che questa risposta sia la più grande crisi ecologica a cui si possa assistere!

Se non abbiamo la possibilità di parlare di diverse questioni in contesti differenti, rischiamo di non coltivare quella “leva mentale” che ci permette di vedere le cose in maniera sistemica. E spesso ci arrestiamo, in silenzio, di fronte all’autorità.

Il nostro compito è quello di superare i confini dei vari contesti, parlare magari senza competenze specifiche, quasi offendendo le autorità, tendendo però verso la possibilità di un apprendimento più grande e sistemico.

E dove sviluppiamo le nostre idee ad esempio sulla natura, su ciò che mangiamo, su ciò che diciamo, se non in famiglia? La famiglia sembra davvero il luogo dove tutto ciò si incontra, dove avviene questo scambio tra sistemi diversi. Possiamo organizzare seminari filosofici e specialistici per sempre, ma poi quello che conta succede in famiglia!

E credo che questo sia proprio l’aspetto fondamentale!

 

Relativamente al doppio vincolo, in che contesto pensa che suo padre possa averlo vissuto, se l’ha vissuto?

Nel film non c’è nessun riferimento al doppio vincolo perché secondo Gregory questa teoria era stata travisata, essendo vista unicamente come la causa della schizofrenia invece di un principio evolutivo, ed era molto difficile discuterne la natura uscendo da questo punto di vista.

Noi viviamo in una cultura in cui è molto complesso esplicitare quali sono i pattern della comunicazione e Gregory sperimentava proprio questa difficoltà: diceva cosa vedeva e quali erano, secondo lui, i pattern. Se non l’avesse fatto avrebbe contribuito allo sviluppo di pattern negativi ma, facendolo, non è stato capito.

Il modo in cui la teoria del doppio vincolo è venuta alla luce è un doppio vincolo a sua volta. La cultura voleva che il doppio vincolo fosse una causa, perché alla cultura piacciono le cause, ma il doppio vincolo non ha niente a che vedere con il rapporto causale.

 

Tornando alla teoria, quali sono i limiti del pensiero Batesoniano?

Molte persone pensano che le sue idee siano astratte e difficilmente utilizzabili nella realtà. Io, avendoci vissuto assieme, non sono d’accordo e penso che non siano una serie di concetti puramente teorici ma è più un modo di vivere, un modo di vedere la vita. Non possiamo pretendere di indossare, come un paio di occhiali, il pensiero di Bateson per lavorare e poi togliercelo quando torniamo a casa!

Un altro limite è che Bateson non ci ha dato dei ponti costruttivi per comprendere meglio il suo pensiero. Se leggete Mente e Natura[5] o Verso un’ecologia della Mente[6] non ci sono dei modi semplici per entrare in quel mondo e capirne il funzionamento. Lui ci entra direttamente e non è così facile seguirlo.

La teoria sistemica è un luogo culturale, ma a volte è molto facile utilizzare il suo linguaggio in modo non sistemico. Non c’è niente di sbagliato in questo, penso sia nella natura umana ragionare e comportarsi in maniera lineare. Siamo così abituati a vivere in un mondo dove la domanda è spesso “qual è il problema e come lo risolviamo?”, che non ci poniamo domande maggiormente sistemiche, come “qual è il pattern e come possiamo destabilizzarlo?”. L’idea alla base è che non sappiamo cosa succederebbe se si destabilizzasse il pattern ma quello che sappiamo è che quel pattern, così com’è, è tossico, patologico.

 

In che modo il pensiero cibernetico ha influenzato le relazioni personali e professionali di Gregory Bateson?

Bisogna fare attenzione, non è il pensiero sistemico che cambia le persone ma sono le persone che utilizzano il pensiero sistemico. Quando Gregory parlava con me bambina, quando giocava con un cane o quando teneva una conferenza, non voleva mettersi in cattedra ma aveva un interessamento profondo per quello che faceva, un’abilità interiore nel vedere e cercare la bontà di sistemi complessi o di un altro essere umano, lui teneva profondamente alle piccole cose che si interconnettono tra di loro e ci connettono alla vita.

 

Come lavorava suo padre e come si relazionava con le altre persone?

Posso raccontarvelo attraverso un episodio, anche se per molti risulterà piuttosto complesso. Negli anni ‘50 Gregory lavorava in un ospedale psichiatrico, é da ricordare che non era un medico e questo aveva un’implicazione importante: egli non poteva cambiare le regole dell’ospedale, e le regole dell’ospedale non si applicavano a lui, in quanto professionista esterno. Un giorno un uomo con diagnosi di schizofrenia entrò nel suo ufficio e Gregory gli offrì una sigaretta – negli anni ‘50 tutti fumavano ed era assolutamente normale – e successivamente i fiammiferi. L’offrire al paziente dei fiammiferi era un messaggio chiaro: “sappiamo tutti e due che è contro le regole, ma mi fido”. Quindi l’uomo accese la sigaretta, fece un paio di boccate e poi la gettò sulla moquette, che iniziò a prendere fuoco. Nessuno dei due si abbassò a prendere la sigaretta e rimasero seduti a guardarla. Alla fine Gregory condivise un’ipotesi con il paziente: “se fossi così arrabbiato con un altro uomo, glielo direi” ma lui non disse nulla, e la sigaretta rimase sul pavimento. Dopo un po’ il paziente si pronunciò dicendo: “l’uomo vorrebbe andare a fare una passeggiata”. Così Gregory lo accompagnò in giardino mentre la sigaretta rimaneva per terra. Usciti in giardino, Gregory decise di tornare in ufficio per spegnerla, perché qualcosa di terribile sarebbe potuto accadere.

All’incontro successivo, si verificò lo stesso gioco: sigaretta, fiammifero, un paio di boccate, sigaretta sulla moquette, l’osservazione di Gregory: “se fossi così arrabbiato con qualcuno glielo direi”, la replica del paziente: “l’uomo vorrebbe andare a fare una passeggiata”, in questo caso Gregory raccolse la sigaretta e la spense.

Al terzo incontro accadde la medesima dinamica: sigaretta, fiammifero, un paio di boccate, sigaretta sul pavimento, l’osservazione di Gregory e la replica dell’uomo. In questa occasione mentre stavano uscendo, Gregory senza farsi vedere raccolse la sigaretta e mostrandola all’uomo disse: “mi scusi signore, credo che questa sia sua” e l’uomo ebbe la grazia di sorridere – come era solito raccontare Gregory.

Quando l’uomo sorride, la comunicazione si conclude: è uno scherzo ed entrambi i partecipanti l’hanno compreso. Tuttavia sono serviti tre incontri per essere parte di questo scherzo.

Per molte persone è difficile comprendere cosa stia succedendo nella storia: in circostanze normali in primo luogo non sarebbero stati dati fiammiferi ai pazienti – primo gesto di fiducia – in secondo luogo al comportamento dell’uomo si sarebbe risposto in modo correttivo, non costruendolo come una richiesta di fiducia (ti fidi ancora di me se infrango le regole?).

Gregory non si è fatto distrarre da tutto questo, ha lasciato proseguire l’azione decidendo di comunicare con l’altro a livello di contesto, impegnandosi per capire cosa stava cercando di dire, e considerandolo come un essere umano, degno di essere tale. Considerare tutto quello che sarebbe potuto succedere per Gregory era una distrazione, e sapeva che se fosse intervenuto con un’azione diretta e correttiva, avrebbe sacrificato il tentativo di comprendere che l’uomo gli stava proponendo un tipo diverso di comunicazione, più complessa.

Un’altra storia per comprendere quello che Gregory vedeva negli altri e quanto fosse incline a porsi su un livello comunicativo differente con le persone è la seguente: a Gregory piaceva dare passaggi agli autostoppisti, una volta eravamo in macchina assieme e lui decise di far salire un giovane, con lo zaino, dall’aspetto hippy. Una volta ripreso il viaggio, il ragazzo estrasse un coltello ma Gregory nemmeno per un minuto fece sì che in macchina l’adrenalina salisse: guardò l’arma puntata sul suo fianco, esclamando: “Beh ciao! Cosa stiamo facendo qui?”. Sapendo che non c’era niente che avrebbe potuto fare se non decidere di avere una crisi di nervi o meno, Gregory iniziò a parlare con il ragazzo, a chiedergli del suo viaggio, della sua vita e delle condizioni del mondo, senza considerare minimamente il coltello che sentiva sul fianco. Molto presto il ragazzo mise via l’arma e iniziarono a chiacchierare. Arrivò poi la possibilità di accostare la macchina ma Gregory non si fermò e continuarono a parlare. Dopo circa mezz’ora, arrivati alla destinazione del giovane, ci fermammo. Gregory gli offrì dei soldi dicendo: “questi mi servono per la benzina, però quest’altri te li posso dare, sarei contento se li accettassi, e se hai bisogno di qualcosa non esitare a contattarmi”. Si strinsero la mano e il ragazzo scese.

 

Secondo lei cos’era importante per Gregory?

Lui non ha risposto al coltello, ha risposto all’essere umano, non ha risposto alla sigaretta ma ha comunicato con l’essere umano. Per lui era importante avere la consapevolezza di essere visti non come qualcosa di rotto ma come qualcosa di nobile e significativo. Tutto questo mi fa pensare a quanto male possa fare l’essere visti in modo sbagliato, o il non essere visti affatto, l’essere descritti in modo incongruente, o l’avere qualcuno che ti trasforma in qualcosa che non sei. Nel fare il mio lavoro (e il film su mio padre) era veramente importante pensare a cosa significa descrivere un altro essere umano e quanto possa fare male essere descritti in un modo in cui non siamo.

 

Quale aspetto del lavoro di Gregory Bateson potrebbe essere di ispirazione per chi lavora in ambito psicologico?

Il Gioco: durante le sue lezioni Gregory giocava, si divertiva e si divertiva nel partecipare a questo gioco; faceva esperimenti con il senso dello humor, e questo non escludeva il trattare anche la tragedia. Nel suo lavoro, Gregory osserva quanto il gioco sia una cosa seria e quanto esso possa offrire delle vie per trovare modalità d’azione alternative e vedere aspetti nuovi, sperimentando i limiti delle cornici in cui si opera.

 

Concludendo, cosa vorrebbe fosse ricordato di Gregory Bateson?

Vorrei che di lui si ricordasse il modo diverso che aveva di dare e ricevere rispetto. Spesso in quest’epoca chi è in una posizione di autorità non può sbagliare, deve essere rispettato, avere sempre ragione, mantenendo così la propria credibilità e l’autorità. Gregory invece era apertissimo ad avere torto, quando ero piccola mi mostrava in modo esplicito quando apprendeva qualcosa, c’era apertura nella sua autorità, io non dovevo dimostrare il mio valore ed ero autorizzata a dare un contributo significativo. In questo modo facevamo esperienza insieme: apprendevo ciò che lui stava apprendendo. Egli lo metteva in pratica sia nelle grandi sia nelle piccole cose: stava imparando e mi mostrava come.

Questo comportava che lui fosse una persona in grado di cambiare idea e nella nostra famiglia la cosa importante non era chi aveva torto o ragione ma ciò che si era appreso… una conversazione completamente diversa.

Pensando al futuro, spero che i miei figli possano vedere cosa succede quando qualcuno è aperto all’apprendimento, qualcuno che ha già tutta l’autorità possibile. È attraverso questo che si vede il rispetto per me.

 

Dr.ssa Bateson La ringraziamo per questo scorcio sulla vita e sul pensiero di Gregory Bateson e per aver condiviso il proprio lavoro con noi.

Grazie a voi.

 

Note

  1. Questo lavoro sarà pubblicato anche in Connessioni. Rivista di Consulenza e Ricerca sui Sistemi Umani, al Numero 34.
  2. L’evento è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra il Centro Padovano di Terapia della Famiglia (CPTF) e l’Institute of Constructivist Psychology (ICP).
  3. Bateson, N. (2011). An Ecology of Mind. Bullfrog Films
  4. EFTA – European Family Therapy Association – 24-27 Ottobre 2013.
  5. Bateson, G. (1984). Mente e Natura. Milano: Adelphi.
  6. Bateson, G. (1977). Verso un’ecologia della Mente. Milano: Adelphi.