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Giocare socialità in musica: una carovana musicale per l’inclusione sociale

Playing sociality in music: A musical caravan for social inclusion

di

Corinna Venturini

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

Questo lavoro mira a rielaborare l’esperienza personale vissuta con la carovana musicale “Alla ricerca di Simurg”, con l’obiettivo di riflettere sull’utilità della musica come strumento di conoscenza tra persone in un contesto multietnico.

Partendo dalle premesse costitutive del Coro Voci dal Mondo e del progetto “Alla ricerca di Simurg”, proverò a far emergere come le modalità di conduzione musicale abbiano favorito la conoscenza dell’altro attraverso le canzoni e come, a partire da queste, i membri abbiano giocato socialità nella co-costruzione di una nuova versione delle stesse, in cui le diverse sonorità coesistono e suonano insieme senza prevalere sulle altre.

This work aims to re-elaborate my personal experience with the musical caravan “In search of Simurg”, with the objective of reflecting on the usefulness of music as tool of knowledge between people in a multi-ethnic context.

Starting from the constitutive premises of the Voci dal Mondo Choir and the project “In search of Simurg”, I will try to highlight how the musical conducting methods have encouraged the mutual knowledge through songs and how, starting from these, the members have played sociality in the co-construction of a new version of the same, in which the different sounds coexist and play together without predominating over each others.

Keywords:
Musica, migrazioni, sviluppo di comunità, creatività, accoglienza | Music, migrations, community development, creativity, welcoming

1. Introduzione

La musica e l’attivismo politico sono sempre state delle mie grandi passioni. La prima esperienza significativa all’interno di un progetto musicale condiviso, i Pharmakos, mi ha dato la possibilità di sperimentarmi come musicista e giovane donna in diverse realtà e contesti. Dopo diversi anni, questa esperienza si è conclusa ed ho iniziato ad investire in un nuovo progetto: il duo StorieStorte.

Il progetto è nato dalla visione condivisa della musica, al cui centro vi è il valore politico e sociale della canzone, uno strumento attraverso il quale raccontare storie di persone considerate spesso ai margini e rivendicare diritti negati. Seguendo questa idea della musica, come StorieStorte, abbiamo preso parte a diverse situazioni di attivismo politico e nell’ultimo anno abbiamo collaborato con il Coro Voci dal Mondo nel progetto “Alla ricerca di Simurg”, una carovana della musica.

Con questa carovana, dopo diverse tappe tra Veneto e Friuli, ad agosto 2022 sono andata a Sarajevo e nel campo profughi di Ušivak, in Bosnia Erzegovina, anticipando la possibilità di utilizzare la musica nello sviluppo e nell’implementazione di pratiche di accoglienza dei migranti e di poter sperimentare inclusione sociale attraverso gli strumenti musicali. La musica è sempre stata, per me, uno strumento per la socializzazione e l’incontro, un modo per condividere interessi e conoscenze, uno strumento utile nell’interazione con le persone che parlano lingue diverse o provengono da diverse culture.

Anticipavo che garantire uno spazio protetto, in cui aprirsi all’ascolto reciproco attraverso la musica, potesse essere uno strumento utile per facilitare il raccontare e il raccontarsi. Anticipavo, inoltre, che la possibilità di co-costruire la musica, in una relazione paritaria e senza asimmetrie di potere, potesse offrire alle persone maggiore libertà di sperimentarsi e di entrare in relazione in modo più autentico con le altre persone.

In un periodo storico e in un territorio in cui la paura dell’altro viene fomentata e la narrazione mainstream riguardante le persone migranti è fortemente disumanizzante, credo sia fondamentale implementare le occasioni di conoscenza e di relazione, in linea con l’esperienza etica di riconoscere l’altro come persona, diversa e contemporaneamente uguale a me (Distaso, 2019).

Proverò qui a rileggere quanto avvenuto durante la carovana musicale “Alla ricerca di Simurg” attraverso la lente della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) (Kelly, 1991).

 

2. Il Coro Voci dal Mondo

Nel 2008 Mestre, città della terraferma veneziana, stava vivendo un importante e rapido cambiamento. Vi erano, infatti, molteplici situazioni di scontro tra diverse culture che si trovavano ad abitare uno stesso luogo, una forte marginalizzazione dei nuovi residenti e un sentimento di paura da parte di molti cittadini. Nello specifico la zona di via Piave, centro d’interesse per la cronaca locale, veniva rappresentata come area particolarmente critica (Francesconi, 2014). In risposta a questa rappresentazione, alcuni cittadini, sostenuti dal servizio Etam[1], hanno costituito un gruppo stabile di lavoro per lo sviluppo di comunità “Gruppo di lavoro di via Piave”. Queste realtà hanno collaborato per promuovere l’avvio di un coro multietnico, il Coro Voci dal Mondo, cercando di rispondere al bisogno di sviluppare il senso di appartenenza ad una nuova comunità e mediare i conflitti.

A partire dalla sua fondazione, il coro si ritrova con cadenza settimanale per le prove nelle sale comunali del centro civico nel quartiere adiacente alla stazione e sono aperte a chiunque voglia prenderne parte; alcuni coristi partecipano alle attività del coro assiduamente, altri invece partecipano in modo più sporadico. In questi anni il coro, sviluppando diversi progetti artistico-sociali, è diventato un punto di riferimento per la città proponendosi come uno spazio sociale, un posto sicuro, fisico e metaforico, dove potersi conoscere, ri-conoscere e dove sperimentare inclusività.

Nel cercare di raggiungere questo obiettivo, la direttrice ha proposto una modalità di lavoro che si discosta dagli approcci maggiormente presenti in letteratura circa l’utilizzo della musica e la musicoterapia con le persone migranti, il cui presupposto è quello che “esista una particolare narrazione del trauma associata all’identità di rifugiato […] e che quindi tutti i rifugiati […] abbiano bisogni simili” (Comte, 2016).

Casarin, invece, ha favorito un autentico interesse verso le persone e le loro storie, guidando i membri del coro senza negare la loro soggettività, fossero essi rifugiati, richiedenti asilo, italiani o provenienti da altre parti del mondo.

Viene promossa una costruzione di “rifugiato”, così come di “richiedente asilo” e di “migrante”, di tipo proposizionale, non veicolando quindi “alcuna implicazione riguardo all’appartenenza dei suoi elementi ad altri domini” (Kelly, 1991, p. 6). Non viene fatta alcuna distinzione né in senso discriminatorio-razzista, né in senso “paternalistico”, in cui la persona migrante viene vista come persona da salvare, come vittima sofferente. Quest’ultimo approccio è spesso riscontrabile nei servizi di accoglienza e di volontariato, derivante anche dalla richiesta del sistema legislativo della comunità ospitante ai richiedenti asilo e rifugiati di dover aderire ad una strutturazione, polo di contrasto della costruzione, che comporta la lettura delle loro scelte e dei loro comportamenti senza provare a costruirne i processi di costruzione[2] (Kelly,1991).

La persona che richiede asilo[3] o rifugiata[4], per essere accettata nel nuovo contesto deve aderire a dei “criteri che definiscono una vittima ideale” (Beneduce, 2015, p. 4) e che prevedono la possibilità di esistere solo in quanto “vittima” (Michelon & Storato, 2019). Il costrutto “rifugiato come vittima” nel sistema d’accoglienza, quindi, spesso diventa prelativo[5], il rifugiato è visto solo in quanto membro del gruppo “rifugiati bisognosi” e non viene riconosciuta la sua soggettività. Descrivere le persone esclusivamente come “vittime” rischia di bloccarle in questo ruolo, conferendo loro un’identità di vittima che ha degli effetti duraturi e nocivi (Papadopoulos, 2022).

Emmanuel Pedro Duru, musicista e membro del coro, raccontando la sua esperienza, afferma che le persone credono nelle storie drammatiche ma se la tua storia è meno drammatica non ci credono, non vieni accolto. Non mi piace che le persone pensino che siccome siamo africani non siamo capaci di fare le cose” (E. P. Duru, comunicazione personale, 28 settembre, 2023).

 

3. La carovana musicale “Alla ricerca di Simurg”

Con l’avvento della pandemia da Covid-19, nel 2020, durante il periodo del lockdown, il Coro Voci dal Mondo ha seguito un lavoro di mantenimento delle relazioni attraverso degli incontri settimanali online in cui diverse persone sono state invitate a parlare delle loro storie. In uno di questi incontri, Diego Saccora[6], dell’associazione “Lungo la rotta balcanica – Along the Balkan Route”, ha raccontato l’emergenza umanitaria che si stava verificando nei Balcani in quei giorni, e che si verifica tutt’oggi, lungo il percorso che dalla Bosnia porta in Europa. La rotta balcanica è un insieme di percorsi attraverso Turchia, Grecia, Albania, Macedonia, Kosovo, Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Ungheria, Romania, Croazia e Italia che cambia continuamente in base alle politiche in vigore in materia di immigrazione dei paesi coinvolti. Il tentativo di passare la frontiera lungo la rotta balcanica è chiamato The game. Un game (gioco, per l’appunto), in cui si ha chiaro l’obiettivo finale, cioé raggiungere l’Europa, ma i tentativi per raggiungerlo sono spesso numerosi e rischiosi e i respingimenti alla frontiera implicano il ricominciare dallo stato precedente. I respingimenti, infatti, sono pratiche coercitive che mirano ad impedire l’ingresso nel territorio di uno stato a chi non ne ha avuto il permesso o a rimandare i migranti verso lo stato confinante qualora avessero già varcato il confine. Questi push-backs spesso sono violenti, viene esercitata violenza fisica, le persone vengono denudate, private dei telefoni e di tutti gli averi così da rendere più difficile il successivo tentativo di varcare il confine (Bernabò, 2023). Spesso le persone che hanno attraversato la rotta balcanica raccontano di essere state oggetto di respingimenti a catena, in cui anche l’Italia gioca un ruolo da protagonista con le riammissioni informali in Slovenia (Facchini, 2023).

La presa di coscienza della drammatica situazione lungo la rotta balcanica ha spinto i coristi a domandarsi cosa potessero fare per non rimanere indifferenti davanti alla tragicità degli eventi che avvengono alle porte dell’Europa. Il coro, a questa domanda, ha deciso di rispondere con il canto e ha dato il via al progetto “Alla ricerca di Simurg”, coinvolgendo il Coro delle Cicale, il Coro Canto Spontaneo di Spilimbergo, la musicista Roberta Pestalozza, la musicista e regista Sandra Mangini, la scrittrice Susanna Bissoli, lo scrittore Fawad E. Raufi, l’etno-musicologa Luciana Manca e il mio duo StorieStorte.

Il progetto “Alla ricerca di Simurg” nasce dall’intenzione del Coro Voci dal Mondo e della sua direttrice, Giuseppina Casarin, di farsi tutti e tutte promotori di accoglienza e di sviluppo di comunità. “Alla ricerca di Simurg” è un viaggio metaforico e fisico lungo la rotta balcanica, viaggio di incontro con e tra umanità in cui la musica è lo strumento facilitatore di conoscenza. Una carovana della musica composta da diversi cori, persone provenienti da diverse regioni italiane ed europee, migranti giunti in Italia attraverso la rotta mediterranea o arrivati in Italia da altre parti del mondo, persone di diverse età e provenienti da contesti molto diversi, che hanno lavorato sia nelle proprie sedi sia in sessioni di prove plenarie con il coinvolgimento di un centinaio di persone.

 

4. L’esperienza musicale

Il Coro Voci dal Mondo non è pensato come servizio dedicato ai migranti offerto dalla comunità accogliente, bensì come uno spazio di co-costruzione, dove tutti e tutte possono sperimentare e sperimentarsi, in una dimensione paritaria e partecipativa, liberi dai vincoli di potere che hanno un peso molto rilevante nel “definire fino a che punto possiamo impegnarci nell’elaborazione attiva dei nostri costrutti” (Procter, 2009, p. 29). Per perseguire la visione del coro come spazio di sperimentazione attiva e inclusiva, Giuseppina Casarin, direttrice del coro, propone delle tecniche informali di gioco e di confronto libero in cui possano emergere racconti, storie o proposte in un dialogo musicale o verbale (Haddad, 2020).

Casarin utilizza un approccio che rispetta e tiene in considerazione tutti i membri e le loro modalità espressive. Durante le prove, tutti e tutte sono invitati a portare la propria musica e ad esprimerla nella modalità desiderata, chi cantando, chi suonando e chi ballando. Il corista, con le modalità e i tempi che preferisce, rappresenta agli altri il proprio canto. Attraverso la propria interpretazione del brano, l’utilizzo della voce e degli strumenti musicali racconta, così, il suo specifico modo di sentire la musica, i significati che attribuisce alla canzone e alla cultura da cui proviene.

In questo contesto di facile coinvolgimento e partecipazione al canto, anche le persone appena entrate nel coro si sentono libere di poter scegliere il momento in cui portare qualcosa di sé e raccontarsi attraverso il canto.

Haddad (ibidem) citando Casarin dice:

Chi lo desidera canta e tutti gli altri ascoltano, è attraverso questa apertura di spazi dove chi vuole canta o suona che nascono le cosiddette scalette e le persone scelgono il momento preciso in cui raccontarsi attraverso il canto e quando si offrono nasce la magia, c’è un silenzio sacro attorno alla persona che decide di far sentire la propria voce.

Continua Duru, “una cosa che mi piace del coro è che non ti modificano. Tu vieni e porti quello che hai, quello che sei e poi ci lavoriamo insieme. Il coro non ti impone nulla” (E. P. Duru, comunicazione personale, 28 settembre, 2023). La persona è sempre considerata l’esperta della canzone, nonostante la maggior parte dei membri del coro non abbia una formazione tecnica e teorica della musica. Vi è un approccio credulo (Kelly, 1991), in cui non viene messa in discussione o giudicata l’importanza o la modalità espressiva del pezzo.

 

5. Musica e identità culturale

Sebbene la persona sia libera di scegliere[7], di fatto la condizione socioeconomica, i legami storici, la cultura e il potere limitano il range di scelta del migrante. Poiché nel confrontarsi con la comunità d’accoglienza spesso egli non trova il modo di negoziare un significato condiviso, e quindi la sua scelta ricade tra accettare le costruzioni degli altri o mantenere con ostilità[8] le proprie costruzioni (Scheer, 2003), il garantire uno spazio musicale dove mettere alla prova i propri costrutti ed essere riconosciuto come persona può essere un’utile modalità di supporto alla persona. I materiali musicali, infatti, fornisconotermini e modelli per elaborare l’identità di sé (DeNora, 1999).

Duru afferma che l’esperire la musica all’interno del coro abbia contribuito a far emergere nuovi costrutti di se stesso, in cui la parte più “tenera” e “morbida” ha trovato una validazione “nonostante le difficoltà del mondo”. La musica “makes me light” (E. P. Duru, comunicazione personale, 28 settembre, 2023).

Un ulteriore aspetto che viene tenuto in considerazione è quello dei generi musicali utilizzati (Vougioukalou, Dow, Bradshaw, & Pallant, 2019). In questo percorso la direttrice predilige i canti di tradizione popolare perché, grazie alla loro semplicità, offrono possibilità di partecipazione a tutte e tutti, senza dover essere dei cantanti professionisti; la vocalità utilizzata è quella naturale e non ci sono estensioni di particolare difficoltà, che richiederebbero maggiore studio e tecnica. Il canto di tradizione popolare “porta con sé anche dei modi di cantare insieme, di mettere insieme le persone e farle sentire gruppo, avvicinandole in modo semplice alla musica, al canto e allo stare insieme attraverso il canto” (G. Casarin, comunicazione personale, 31 gennaio, 2023).

In linea con il pensiero di Casarin, la maggior parte dei repertori portati dai ragazzi e dalle ragazze giunti in Italia attraverso la rotta mediterranea sono canti di tradizione orale del paese di origine, canti liturgici, preghiere, ringraziamenti a dio che mantengono i modi musicali tradizionali delle diverse culture.

Il coro, nel percorso intrapreso con la direttrice, sceglie di mantenere l’identità culturale delle proposte musicali, il modo musicale di ogni cultura, con l’anticipazione che questo possa promuovere l’espressione e la rappresentazione dello specifico sistema di costrutti dei diversi membri[9] non in senso divisivo ma per supportare le autorappresentazioni dei membri e la conoscenza tra le diverse culture. Dalla letteratura nel campo dei migration studies emerge l’importanza che il mantenere il modo musicale possa rappresentare “un ponte tra il paese d’origine e il paese in cui si vive una determinata fase della propria esperienza migratoria attingendo ad un bacino di parole, suoni ed eventi attraverso i quali comunicare” (Haddad, 2020).

In un’ottica costruttivista tutti possono essere artisti, in quanto l’arte è una modalità per dare senso alla propria esperienza, per costruire nuovi significati. Sperimentare attraverso l’arte permette di “attingere all’immaginazione e di rompere con ciò che è presumibilmente fisso […]. Possiamo imparare a vedere oltre ciò che è dato per scontato come esperienza normale […]. Possiamo anche ritagliarci «nuovi percorsi concettuali» attraverso territori precedentemente inesplorati” (Diamond, 2006, p. 201-202).

L’ascolto musicale, così come la sua esecuzione o composizione, inoltre, non è mai un processo passivo ma sempre di costruzione attiva; durante l’esecuzione si è “immersi” in un processo anticipatorio che, nell’andamento della melodia, viene validato o invalidato (Button, 2006); la persona anticipa costantemente il movimento della melodia e del ritmo, anticipazione che viene messa a verifica nella prosecuzione dell’ascolto musicale.

All’interno del coro la musica è utilizzata, grazie alla sua possibilità di essere un’utile modalità di costruzione di significati e di comunicazione degli stessi, come strumento per aprire nuove possibilità, nuovi cicli d’esperienza, generare nuovi costrutti che sia i migranti che la comunità d’accoglienza provano a mettere a verifica. L’esperire nuovi cicli dell’esperienza in ambito musicale non solo può validare o invalidare l’anticipazione melodica o ritmica, bensì può giocare un ruolo importante nel validare la propria identità, le credenze, i valori, in termini kelliani i propri costrutti nucleari (ibidem), fornendo così l’occasione per una importantissima esperienza di riconoscimento.

Button (ibidem) afferma inoltre che la musica può essere uno strumento fondamentale quando parlare di sé in modo diretto può essere troppo minaccioso[10] o quando c’è una difficoltà di comunicazione legata ad esempio alla lingua. Il/la corista, quindi, può sperimentare la validità delle proprie anticipazioni, legate sia all’esecuzione musicale sia ai significati culturali e personali espressi attraverso la stessa, in un nuovo contesto, avendo però la possibilità di preservare i suoi costrutti nucleari.

Emmanuel Pedro Duru crede che la musica possa essere “uno strumento tramite cui liberarmi, dire quello che sento dentro, quello che voglio dire. Credo anche che dirlo tramite la musica possa anche proteggere dall’essere etichettati ad esempio come sofferenti, poveri, bisognosi di pietà […]. Io devo ancora raccontare tante cose della mia storia. Ma quando la racconto non voglio sentire pietà perché io sto vivendo la mia vita. Devo ancora dire tante cose che non ho detto, la musica può essere un modo per raccontare queste parti anche senza esprimerle a parole” (E. P. Duru, comunicazione personale, 28 settembre, 2023).

 

6. Musica come processo sociale

Da un punto di vista sociale, la musica offre la possibilità di costruire i processi di costruzione di un’altra persona e di giocare quindi un ruolo nel suo processo sociale, può essere usata per provare a costruire l’esperienza dell’altro ed entrare in relazione. Credo che proprio questo sia il punto fondamentale della musica d’insieme. Per poter suonare insieme si deve costruire i processi di costruzione dell’altro, capire il modo in cui costruisce, solo in questo modo si può suonare insieme e giocare quindi un ruolo sociale. Giocare socialità con l’altro può essere limitato al modo in cui questo costruisce la canzone ma, come abbiamo visto, la musica è uno strumento di espressione di significati non limitati all’ambito musicale; quindi, è ragionevole pensare che possa toccare e raccontare anche alcune dimensioni nucleari della persona.

Così come l’antica tragedia greca permetteva l’avvicinarsi in modo accessibile ai fenomeni dolorosi e complessi grazie alla rappresentazione drammatica, la condivisione della sofferenza e lo sviluppo di un atteggiamento riflessivo, allo stesso modo anche la musica e il canto possono essere strumenti facilitanti la “trasmutazione di quell’intenso coinvolgimento in un’esperienza trasformativa e illuminante” (Papadopoulos, 2022).

La musica potrebbe facilmente essere usata nei contesti sociali invitando i partecipanti a scoprire l’esperienza musicale degli altri, ad esempio la loro canzone preferita, i suoni utilizzati o la voce; ascoltare il canto di una persona può aiutare a comprenderla (Button, 2006), costruire i suoi processi di costruzione.

Il momento della prima comunicazione di un canto è un “momento magico del lavoro con il coro multietnico, perché cantare in un gruppo una canzone significa parlare di sé” (G. Casarin, comunicazione personale, 31 gennaio, 2023), raccontare la propria storia. Dice Duru: “quando siamo alle prove abbiamo il microfono libero, quando uno lancia una canzone, sceglie di comunicare quello che vuole. Quando canto rappresento il mio dialetto, la mia canzone, quello a cui credo, chi sono. Con la musica riesco a comunicare tante cose […] la musica mi ha aiutato perché la musica fa parte di me” (E. P. Duru, comunicazione personale, 28 settembre, 2023).

 

7. Il ciclo della creatività

La direttrice, dopo una prima condivisione del canto da parte di qualche membro del coro, guida il gruppo attraverso un ciclo della creatività (Epting, 1990), che prevede l’alternarsi delle fasi di allentamento e restringimento, grazie al quale vengono proposte nuove modalità di costruire il canto. Un esempio a mio avviso rappresentativo del lavoro svolto con il progetto “Alla ricerca di Simurg” è la co-costruzione della canzone “Sant’Isepo” (Simonedeux, 2022).

Si tratta di una canzone di tradizione orale, un canto di lavoro dei batipai[11] veneziani che aiutava il gruppo a muoversi insieme, a stare sulla stessa onda ritmica. Il movimento e l’utilizzo della forza dei corpi erano guidati dalle voci, dall’energia musicale e dall’andamento ritmico delle strofe.

Questa canzone è stata proposta dalla direttrice del coro e cantata durante le prove dal Coro delle Cicale che hanno offerto una loro costruzione del canto, poco ritmata e con un’armonizzazione importante delle voci, con una tonalità molto alta e acuta, tipica del canto popolare femminile. La direttrice e i membri del progetto “Alla ricerca di Simurg” hanno ascoltato e accolto la costruzione della canzone del Coro delle Cicale e costruito il modo di costruire delle coriste in questione. In seguito, tutta la carovana della musica è stata coinvolta in un processo creativo di allentamento e restringimento (Kelly, 1991) della costruzione del canto “Sant’Isepo del Coro delle Cicale”.

Il gruppo è stato lasciato libero di provare a costruire ed intervenire nella canzone, in un momento di allentamento-improvvisazione. Sonorità e stili molto diversi si sono mescolati e sono emerse diverse possibili costruzioni di questo brano musicale.

Così, alla canzone dal sapore antico, con l’avanzare della melodia e delle prove, si sono aggiunti i bongos e i tamburi africani, le voci ritmate e la danza del coro, le chitarre e le tastiere reggae.

Questo ritmo ha lasciato la libertà a chi voleva di cantare, di entrare con la propria musica e condividerla. Il lavoro che è stato fatto nel gruppo è stato quello di evocare anche un altro tipo di viaggio, da quello in barca dei batipai veneziani a quello dei migranti che attraversano il Mediterraneo, seguendo l’andamento ritmato ed ondulatorio della melodia. Le giovani voci calde di alcuni ragazzi di origine nigeriana si sono inserite in questo spazio musicale introducendo una loro proposta musicale, un’improvvisazione vocale, nello stile che loro definiscono afrobeat, in lingua Edo, lingua nigeriana.

Dopo diverse prove, succedute per diversi mesi, dal processo di improvvisazione-allentamento la direttrice ha guidato il gruppo verso un restringimento, dando una struttura definitiva alla canzone.

Da questo ciclo creativo è emerso, quindi, un nuovo modo di costruire la canzone, un modo co-costruito, in cui le diverse sonorità e i modi di costruire il canto delle diverse persone e culture coesistono e suonano insieme senza prevalere gli uni sugli altri.

 

8. La pratica di Comunità Musicale

Giuseppina Casarin, lavorando con il Coro Voci dal Mondo, ha sviluppato la Pratica di Comunità Musicale; una modalità di lavoro musicale volta a promuovere “il canto e la musica come territorio di incontro e scambio tra persone con provenienze culturali, tradizioni, religioni ed età diverse” (Casarin, 2022), un laboratorio in cui vi è un “lavoro di conoscenza di sé, di sé in relazione a chi sta vicino, di sé e il gruppo e il sé e questo orizzonte comune a tutti: l’intento di portare questa voce collettiva a tutto il mondo” (ibidem). La pratica di Comunità Musicale è quindi anche uno spazio di co-costruzione e negoziazione di nuove forme espressive e comunicative, sia verbali che non verbali, utili anche a testimoniare la possibilità di costruire nuovi modelli di accoglienza, dove la soggettività e la competenza delle persone sono al centro, dove vengono riconosciute le capacità e la possibilità di scelta a tutti i membri.

L’accento è posto sulla comunità, sul fatto che “la comunità è musicale e in questa comunità musicale co-esistono diverse identità musicali(G. Casarin, comunicazione personale, 31 gennaio, 2023). La direttrice, nella sua definizione, sottolinea la competenza musicale di ogni persona e dichiara che il lavoro nel coro è quello di “trovare i percorsi che permettano alle persone di «tirare fuori» questa musicalità, la musicalità di ciascuno e quindi mettersi in relazione anche con il proprio modo musicale (ibidem).

Nella pratica di Comunità Musicale, Casarin predilige i canti di tradizione popolare perché, oltre alle ragioni illustrate precedentemente, propongono e raccontano delle tematiche che “sono la storia dell’umanità da sempre” come la migrazione, il lavoro e le lotte di classe (ibidem).

 

9. Il viaggio lungo la rotta balcanica

In questi anni, mentre assistiamo all’emergenza umanitaria e alle morti nel Mediterraneo, sta avvenendo un’altra emergenza lungo la rotta balcanica, pur nell’indifferenza dei paesi europei.

Per non rimanere indifferenti, i coristi e le coriste del Coro Voci dal Mondo hanno deciso di provare a richiamare l’attenzione sul tema e portare, per quanto possibile, un supporto concreto ai migranti bloccati nei campi in Bosnia Erzegovina.

L’intento di “portare questa voce collettiva” (Casarin, 2022), questa diversa e possibile modalità di accoglienza, ha trovato forma in una Carovana della Musica, composta dai diversi cori, musicisti e musiciste, studiose, scrittori e scrittrici, che tra il 2021 e il 2022 ha realizzato un concerto a tappe, raccogliendo strumenti musicali da donare ai migranti e portando all’attenzione del pubblico la drammaticità di ciò che sta avvenendo alle porte dell’Europa.

Il viaggio nei Balcani vede tutti i membri della carovana come attori attivi in prima persona; ognuno, secondo le proprie capacità e disponibilità, cerca di portare un aiuto concreto alla riuscita del progetto. Vengono viste le capacità, così come le difficoltà, di ogni partecipante. Viene riconosciuta nell’altro una persona. Ecco, quindi, che viene riconosciuta la possibilità di uscire dalla strutturazione che vede bloccati prelativamente nella condizione di vittime i coristi provenienti dalla rotta mediterranea.

Passando insieme le frontiere che separano l’Italia dalla Bosnia, è stato perturbato anche il confine identitario, offrendo la possibilità di ampliarlo, di includere nuovi elementi al suo interno.

Dal dialogo con alcuni membri della carovana è emerso che l’essere andati incontro ai migranti della rotta balcanica, ignorati dalla comunità italiana ed europea, ha fatto sì che il non conosciuto diventasse conosciuto, permettendo anche di sperimentare compassione (Giliberto, 2017).

L’esperienza all’interno del campo di Ušivak, campo riservato alle famiglie e ai minori, è stata costruita e concepita in un continuum con il lavoro svolto all’interno del coro, basato sul riconoscimento della persona e delle sue competenze, con un approccio di apertura all’ascolto e alla conoscenza reciproca.

Siamo entrate con discrezione, a piccoli passi, nella loro casa, nella loro intimità, utilizzando la musica come territorio di incontro, strumento che facilita l’avvicinamento delle persone, proponendoci non come esperte ma come persone aperte al dialogo (musicale) con altre. Alla base c’era la consapevolezza di non andare ad insegnare qualcosa o coinvolgere le persone in qualche attività diretta da noi, bensì porsi in ascolto delle persone che in quel momento vivevano all’interno del campo.

Abbiamo iniziato a suonare, mettendo a disposizione di chi volesse alcuni strumenti musicali. Le persone, e in particolare modo i bambini e le bambine, dopo un primo momento di conoscenza, si sono aperti ad un dialogo in musica. Hanno scelto di suonare insieme, di co-costruire canzoni e di raccontarsi attraverso qualche strofa di alcune canzoni del paese d’origine. È stato, per come io l’ho costruito, un momento di scambio e co-costruzione, reso possibile dalla condizione di estremo ascolto reciproco, un ascolto aperto alla diversità, dove venivano accolti i diversi modi di costruire, di stare nella musica e nella relazione.

 

10. La forza della carovana

La Carovana della Musica è stata per me “un’esperienza ponte” (ibidem) in cui la musica è stata un terreno di incontro e di socialità, di costruzione dei processi di costruzione dell’altro e giocare quindi un ruolo nella sua esperienza. I diversi partecipanti hanno avuto la possibilità di sperimentarsi come agenti attivi di un cambiamento, anche se piccolo. La musica è stata lo strumento di “un’azione artistica di solidarietà” (G. Casarin, comunicazione personale, 31 gennaio, 2023) in cui tutti hanno avuto la possibilità di esprimersi, di conoscere e di andare incontro alla situazione di emergenza umanitaria che stava avvenendo lungo la rotta balcanica.

La carovana musicale è stata anche un luogo, fisico e metaforico, dove poter sperimentare nuovi costrutti e giocare socialità con gli altri attraverso la musica. Ha permesso, inoltre, di allargare il campo di pertinenza del costrutto “persona” e garantire questa posizione di attivo sperimentatore a tutti e tutte. L’aver mantenuto il costrutto “migrante” come proposizionale durante tutte le fasi del progetto ha permesso di non strutturare l’altro, sia che provenisse dalla rotta mediterranea e vivesse in Italia sia che fosse ancora bloccato alle porte dell’Europa lungo la rotta balcanica; in questo modo è stato rispettato l’imperativo etico di non privare l’altro della propria soggettività, di non strutturare l’altro in un costrutto prelativo di “migrante=vittima”.

Sicuramente l’insostenibile situazione delle persone in viaggio o bloccate nel percorso migratorio non è cambiata grazie a questo progetto, ma ha permesso una maggiore conoscenza e consapevolezza dei percorsi migratori e delle persone in viaggio a tutti i membri della carovana.

L’esperienza della carovana “Alla ricerca di Simurg” è stata strumento di incontro tra persone, in musica; un’esperienza conoscitiva musicale che ha permesso di sperimentare nuovi cicli dell’esperienza e conoscere l’altro.

Dedicando del tempo all’ascolto, dell’altro e di sé stessi, e riconoscendo la musicalità di tutti e tutte, il progetto “Alla ricerca di Simurg” è stato un contenitore dove potersi sperimentare preservando la soggettività di ognuno. La mia costruzione di questa esperienza vede la carovana come una rete di legami inclusivi, un diverso modello di accoglienza verso l’altro, indipendentemente dalle sue origini o dal suo status.

Nella carovana della musica l’azione politica ed etica di conoscenza ed inclusione sociale si sono incarnate nel canto della comunità musicale, un canto co-costruito giocando socialità con le altre persone.

L’aver preso parte a questo progetto mi ha permesso di aprirmi alla musicalità mia e delle altre persone incontrate, invalidando, in parte, la mia anticipazione in cui la musica rappresentava uno strumento acquisito, una competenza da mettere in campo per l’inclusione sociale, mettendo in discussione “il presupposto che le conoscenze in nostro possesso [in materia di musicoterapia] siano rilevanti per la popolazione dei rifugiati e, forse, trovare il modo di portare queste persone nel discorso, chiedendogli cosa sia significativo e rilevante per loro” (Comte, 2016).

L’esperire l’ascolto della musicalità di ognuno, espressioni autentiche della storia delle persone, mi ha dato la possibilità di validare la mia anticipazione che l’ascolto e la co-costruzione della musica potessero essere uno strumento per raccontarsi ed entrare in relazione con le altre persone. Sono tornata da questo viaggio, condiviso con la carovana de “Alla ricerca di Simurg”, con la voglia di andare incontro a nuovi cicli di esperienza musicale, nella speranza di continuare a tracciare alcune linee comuni tra il lavoro sociale, la PCP e la musica.

 

Bibliografia

Beneduce, R. (2015). The moral economy of lying: Subjectcraft, narrative capital and uncertainty in the politics of asylum. Medical Anthropology, 34(6), 551-571. doi:10.1080/01459740.2015.1074576

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Note sull’autrice

 

Corinna Venturini

Institute of Constructivist Psychology

corinnaventurini.psicologa@gmail.com

Psicologa e specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova.

Laureata in Psicologia di comunità, promozione del benessere e del cambiamento sociale a Padova, lavora nei servizi dedicati all’infanzia e l’adolescenza, prevalentemente attraverso l’animazione di strada.

 

Note

  1. Servizio di animazione di comunità e territorio delle Politiche sociali del Comune di Venezia.
  2. Si fa qui riferimento al corollario della Socialità: “nella misura in cui una persona costruisce i processi di costruzione di un’altra, può giocare un ruolo in un processo sociale che coinvolge l’altra persona” (Kelly, 1991; p. 66).
  3. Richiedente asilo è “colui che è fuori dal proprio paese e inoltra, in un altro stato, una domanda di asilo per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo (asylumseeker)” (UNHCR, 2020).
  4. La Convenzione di Ginevra del 1951 definisce il rifugiato come “chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato” (Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, 1951).
  5. Un costrutto prelativo “considera di sua esclusiva appartenenza gli elementi del suo dominio. Si tratta di una costruzione del tipo nient’altro che” (Kelly, 1991, p. 107).
  6. Autore insieme ad Anna Clementi del libro “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella storia dell’umanità del nostro tempo”, a cui rimando per ulteriori approfondimenti riguardo la rotta balcanica.
  7. Si fa riferimento al corollario della scelta: “una persona sceglie per sé quell’alternativa in un costrutto dicotomizzato per mezzo della quale anticipa la maggior possibilità di elaborazione del proprio sistema” (Kelly,1991, p. 45).
  8. Ostilità: “sforzo continuo di estorcere prove validazionali a favore di un tipo di previsione sociale che è già stata riconosciuta come un insuccesso” (Kelly, 1991, p. 375).
  9. Corollario dell’individualità: “Le persone differiscono l’una dall’altra nella loro costruzione degli eventi” (Kelly, 1991, p. 38).
  10. Con minaccia si intende la “consapevolezza di un imminente ed ampio cambiamento nelle strutture nucleari” (Kelly, 1991). Le persone si sentono minacciate dalle situazioni in cui anticipano di poter cambiare e diventare radicalmente differenti da come sono in quel momento (Epting, 1990).
  11. Operai dediti all’attività di palificazione; hanno edificato le fondamenta su cui poggia Venezia e impiantato briccole, paline e pontili, utili alla navigazione.