1
Allorché a Vittorio Somenzi (1987) toccò di fare un bilancio della fase più creativa nell’elaborazione teorica della Scuola Operativa Italiana articolò i risultati raggiunti nei termini seguenti:
a. un “salto ‘magico’” fuori dalla tradizione conoscitiva
b. la decisione di assumere un punto di vista operativo nei confronti delle “cose nominate”
c. l’individuazione del rapporto semantico
d. l’individuazione dell’attività costitutiva e la distinzione di questa dall’attività “consecutiva”
e. l’analisi in “stati di attenzione” e loro combinatoria
f. l’analisi in termini di Paradigma-Differenza-Sanatura.
Ricostruisco ad uso di chi potrebbe rimanerne subito disorientato. La tradizione conoscitiva è quella che deriva dalla teoria della conoscenza così come diffusa dalla filosofia. Da questa tradizione è disceso un modello della mente statico – configurato in termini di entità – che, grazie all’assunzione di un punto di vista operativo, ha potuto esser sostituito da uno dinamico. Questo modello prevede l’analisi in stati di attenzione variamente combinati fra loro di ogni risultato mentale, sia esso designato o non designato dal linguaggio o, detto altrimenti, sia esso vincolato in un rapporto semantico o no. Questa attività – un’attività che specifica complessivamente un modello di funzione – è detta “costitutiva” e, fra il tanto che costituisce, c’è anche il processo che porta a mantenere un costituito come termine di confronto, a individuare uguaglianze o eventuali differenze e, nel caso, a sanare queste ultime.
Io aggiungerei, poi, un altro risultato – quello di aver individuato il “pensiero” come correlazione temporale di triadi di singoli costituiti – non senza però far notare che Somenzi – pur essendo stato con Silvio Ceccato e Giuseppe Vaccarino uno dei padri della Scuola Operativa Italiana (la paternità in fatto di cultura, si sa, lascia possibilità che la paternità in fatto di natura non concede) – tutti questi risultati, tutti tutti, non li avrebbe sottoscritti. Sulla necessità del costitutivo e sulla sua riconduzione a stati di attenzione nutriva i suoi dubbi e si sarebbe accontentato, per iniziare, di un’analisi in termini di operare “qualsiasi”, un operare in cui operazioni mentali e fisiche – costitutive e trasformative – non fossero chiaramente distinte (a la Bridgman, potrei anche dire)[1].
2
Comunque si voglia comporre l’insieme dei risultati raggiunti rimarrebbe aperta la questione relativa al nome da assegnargli.
In una sua nota autobiografica non firmata (Accame, 2014) laddove Ceccato ricorda lo scioglimento del Centro di Metodologia ed Analisi del Linguaggio – siamo nella seconda metà degli anni Quaranta del secolo scorso -, dice che questo fu “sostituito con un gruppo di studiosi più orientati verso una meta precisa, dovuta al tipo di lavoro svolto” e che “questo gruppo di studiosi si presenta con il nome di “Scuola Operativa Italiana’”. Ciò seguiva, a suo modo di vedere le cose anni dopo, all’”abbandono della metodologia”, “conseguenza della nuova consapevolezza raggiunta mediante le analisi in operazioni”. Infatti, si sarebbe “trovato” che “la metodologia altro non è che epistemologia, o teoria della conoscenza, con l’aggiunta di indagare nel conoscere pretendendo il possesso della conoscenza vera”. L’analisi in operazioni avrebbe mostrato che “il conoscere è un’insostenibile introduzione effettuata dai Greci per spiegare il rapporto fra le parole e le cose nominate” – e, una volta che sia “eliminato il presupposto conoscitivo, non ha più alcuna ragione di sussistere alcuna metodologia”.
Ecco perché, allora, il nome di “metodologia operativa” per designare la propria disciplina – o il punto di vista assunto definibile anche come nuova disciplina – è caduto in disgrazia e sostituito più volte. Laddove mette bene in chiaro che le operazioni costitutive di cui parla – l’oggetto della sua indagine – “non hanno alcuna localizzazione propria” – non perdete tempo a cercarle nel cervello, insomma -, facendo l’esempio del martello e dell’incudine – “localizzati e localizzabili”, loro sì, ma “non il battere” -, Ceccato (1958) stesso si concede una pausa in cui riflettere sul nome da assegnare alla propria disciplina e inizia con il dire che “si comprende” come “la ricerca in operazioni” “non possa avere già un suo nome”. “Quando la Scuola Operativa la introdusse”, dice, “la chiamò ‘tecnica operativa’, tenendo così a distinguerla sia dalla filosofia, sia dalla scienza, in quanto anche lo scienziato, atteggiandosi conoscitivamente, studia le cose in dati”. Secondo Ceccato (ibidem), nella tecnica “ciò che una volta è assunto come materiale, un’altra è assunto come prodotto, un’altra come strumento, o mezzo, e così si assicura una circolarità, anche se questa è quella della trasformazione”. Volendo rinunciare, allora, al nome “leggermente improprio” (lasciatemelo chiamare così) di “tecnica”, “una proposta è che le singole ricerche in operazioni conservino il nome delle ricerche in oggetti, con l’aggiunta di ‘operativo’” da cui una logica operativa, una matematica operativa o una fisica operativa. “Nei confronti della stessa ricerca in oggetti”, la nuova disciplina sarebbe “probabilmente destinata a prendere il posto delle attuali ricerche sui ‘fondamenti’, sulla ‘logica’, sulla ‘dottrina preliminare’, mentre, nei “confronti della ricerca scientifica in generale (…) è destinata probabilmente a prendere il posto della metodologia”. Se, poi, ci si volesse accontentare di riferirsi al “campo di maggior interesse per le analisi operative”, anche una designazione della disciplina come “ex-filosofia” o come “neo-psicologia” “potrebbe risultare appropriata” (ibidem). Preferibilmente, tuttavia – almeno fino a quando Ceccato ha ritenuto di poter ridurre le istruzioni per analizzare i costrutti mentali ad una tecnica –[2], la “metodologia operativa” originaria venne sostituita con “tecnica operativa”, poi con “terza cibernetica”, “logonica” e fin con “linguistica applicata”, a seconda degli ambiti applicativi che via via andava sperimentando. In certi contesti, fece anche ricorso al sintagma più modesto di “analisi in operazioni”. Fatti i pro e fatti i contro, tuttavia, considerando che non tutte le indagini che mirino alla “via” per giungere ad un risultato (ovvero quelle indagini che rispettino l’etimo di “metodo”) difettino sempre e comunque di cartesianesimo, personalmente continuo a ritenere “metodologia operativa” come il nome più idoneo alla proposta teorica di Ceccato: assumere l’impegno di ricondurre ad operazioni il proprio oggetto di studio e, più specificamente, ad operazioni mentali ogni risultato di percezione e di categorizzazione semantizzato o no che sia.
3
Il programma era chiaro: le analisi in operazioni avrebbero riguardato il costitutivo e non il consecutivo, ma in più occasioni Ceccato si è ben guardato dal rispettarlo. Ha debordato e debordato parecchio. Legittimando questa sua indagine, diciamo così, extravagante in virtù di almeno due argomentazioni.
La prima. Ne “La mente vista da un cibernetico” Ceccato asserisce, dunque, che la Scuola Operativa Italiana “distingue due tipi di operare, uno costitutivo dei propri oggetti, che è il mentale, e l’altro che è consecutivo, cioè dovuto a questi oggetti una volta costituiti, e che potrà pertanto essere fisico e psichico”. Resta inteso che la sua disciplina limita programmaticamente l’indagine all’operare mentale, o costitutivo”. Tanto per fugare ogni equivoco eventuale: “costitutivo è l’operare di chi percepisce il Sole, consecutivo quello del Sole nel suo riscaldare ed illuminare la Terra”, ma fisico e psichico sono comunque riconducibili, in quanto categorie, alle rispettive sequenze di operazioni. Per ottenere, infatti, “la fisicità occorre la ripetizione della percezione o della rappresentazione, la localizzazione spaziale dei percepiti o rappresentati e l’averli messi in rapporto”, mentre per ottenere “la psichicità occorre egualmente la ripetizione della percezione o della rappresentazione, la localizzazione temporale dei percepiti o rappresentati e l’averli messi in rapporto” (Ceccato, 1972). Con il che il territorio – tabù, peraltro – è individuato e delimitato.
La seconda argomentazione si basa su un’analogia. Quella tra il sistema attenzionale ed un sistema energetico. In grazia di ciò, l’attenzione “si può vedere anche in termini di energia attenzionale o nervosa”, “erogata da una fonte”, dal “sistema nervoso”. Questa energia “può espandersi o restringersi, rifluire o disperdersi, apprestarsi per una cosa e trovarne un’altra che la impegna di meno o di più del previsto, e infine può seguire vie in contrasto fra di loro”. Si espande nell’amore, si restringe nell’odio, la sua dispersione “si risolve in disorientamento o stanchezza”, la sua “destinazione alterata” si risolve in “sconcerto” – o delusione, o sorpresa. Dai percorsi in contrasto otteniamo “imbarazzi, conflitti e contraddizioni”. Ivi troverebbero origine gli stessi valori che, guidando i nostri comportamenti, assegniamo alle cose: positivi nell’espandersi dell’energia, negativi nel suo ritrarsi” – secondo questa logica: “quando il rapporto che poniamo fra due o più cose viene soddisfatto”, “noi ci espandiamo nel positivo” e, “quando il rapporto risulta insoddisfatto”, “ci ritraiamo dal negativo”.
Bontà sua – una bontà che non gli è solita -, Ceccato si concede fin una citazione – quella ovvia, con l’aria che tira, del povero Wilhelm Reich che, da fisicalista impenitente (pretendendo di captare orgoni e pure di farceli vedere), in queste certezze ha sguazzato quasi la sua vita intera.
Individuato e delimitato il territorio, e trovato anche il modo di sterrarlo questo territorio, Ceccato si sente legittimato ad occuparsi di un catalogo di tipologie umane non molto dissimile – per asistematicità – da quello dei vecchi frenologi settecenteschi: dirà la sua, pertanto, sugli arrabbiati e sugli odianti, sui furbi, i competitivi, e i seriosi (“padri dei complicatori”), sui ruffiani, i lamentosi, i seminatori, i seduttori, i molesti e, infine, sui maniacali.
E dirà la sua anche su se stesso. Nel 1991 analizza le cause di quella che definisce come la propria “nevrosi” – una nevrosi “da espansione”, “un bisogno, una necessità, un impulso a mettermi al posto dell’altro”, una nevrosi che lo fa partecipare alle “sofferenze altrui”, “in un modo molto forte”, anche quando “dall’altra parte, c’è la ‘luna’, un ‘cagnetto’, un ‘gattino’, una ‘pianta’”.
Le cause di questa nevrosi – piuttosto autocompiaciuta, direi, e più che accomodante: da “peccato non averla” – sono due suoi ricordi che avrebbero “determinato un po’” tutta la sua vita. Il primo è quello di “una fuga in una giornata d’inverno piena di nebbia con un camion, quando sembrava che i tedeschi invadessero il Veneto”. Suo padre era rimasto a Montecchio Maggiore e sua madre, con i tre figli – il fratello maggiore e la sorellina “piccola piccola” – andarono profughi a Lodi, “dove c’era un parente sottoprefetto”. Potrebbe essere – lo dice lui stesso – il suo “primo ricordo”.
Il secondo è un ricordo “curioso, ma preciso” che lo ha “accompagnato poi tutta la vita”. Allora: lui aveva “questo fratello” – “primogenito”, “molto apprezzato in casa” (più di lui, “perché forse volevano una bambina quando sono nato io”) -, un fratello che “riceveva già certi giocattoli” e che “alcune sere andava a letto prima di me”. Il giovane Silvio, allora, se ne approfittava per prendergli i giocattoli e “toccarli”. Ma, una volta, il fratello se ne accorse e lo riempì di botte (“come fanno i bambini”, “per carità (…) niente di male”) attirandosi, ovviamente, la punizione dei genitori “abbastanza severi”. “Il castigo che davano al bambino era di chiuderlo dentro un gabinetto, un cesso (…), che nelle vecchie case di campagna c’era sempre, a metà scala, e c’era anche una porta molto grossa, anche doppia” e, anche in questo caso, i genitori “volevano chiudere dentro mio fratello per rimproverarlo di quello che aveva fatto”. Il ricordo di Ceccato – il “fatto nevrotico”, nevrotico nel senso che se potesse farne a meno ne farebbe a meno, “psicotico” come tutto ciò di cui ci si vorrebbe sbarazzare senza riuscirci – è di se stesso che urlava “come un ossesso, buttato in terra davanti alla porta, perché non lo facessero”.
Lo ricordo qui, questo racconto, non certo per un suo preteso valore scientifico, ma perché credo che – per il modo in cui è formulato, per i rapporti che pone e per il risultato di autorappresentazione che ne consegue – dia un’idea abbastanza precisa dell’approccio di Ceccato a questo tipo di problemi[3].
4
Per approcciarmi a questo tipo di problemi – dico la mia – avrei scelto un’altra strada. Ritengo piuttosto convincente il modello di analisi del mentale proposto da Ceccato – l’idea di un’unità minima cui ridurre (provvisoriamente, in base agli scopi dell’analisi ed al suo livello di interazioni con altre metodologie analitiche) l’attività mentale la ritengo una buona idea; così come ritengo doverosa la distinzione tra attività mentale e pensiero e, in un modello di funzione (si noti: in un modello di funzione), la distinzione tra attività costitutiva e attività consecutiva. Ma non ritengo affatto necessario trovare un corrispettivo dell’attenzione – che, forse, sarebbe stato meglio non chiamare così in considerazione di quanto con altri compiti sia già presente nelle varie teorie psicologiche – in una misteriosa fisicità designata come “energia” – che, forse, sarebbe stato meglio non chiamare così in considerazione di quanto con altri compiti sia già presente nelle varie teorie fisiche. Ammesso e non concesso, poi, che la distinzione tra fisico, psichico e mentale sia corretta e necessaria ai fini dell’analisi del mentale – al di là del fatto che risultato di operare mentale sia il fisico quanto lo psichico e il mentale stesso -, riterrei che l’analisi del mentale sia sufficiente e che, dunque, il programma originario, così tassativamente delineato, andava rispettato. Ceccato – detto in altre parole – avrebbe avuto in mano già ottime carte per poter vincere qualche partita – non dico tutte – in quelli che, più che come giochi, individueremo come “ambiti di sofferenza” dell’esperienza umana.
Faccio qualche esempio.
In una lettera Honoré De Balzac scrive: “Se ho un posto sono perduto. Diventerei un commesso, una macchina, un cavallo da circo che fa trenta o quaranta giri, beve, mangia e dorme a date ore: sarei come tutto il mondo, e si chiama vivere questo rotolare da macina di mulino, questo ritorno perpetuo delle medesime cose?” (Zweig, 2013, p. 45). Evidentemente, il suo fuoco di fila di speculazioni andate a male, o lo stuolo di amanti che riusciva a procurarsi, non rientravano in ciò che, almeno in quella circostanza – una circostanza peraltro significativa, come quando si fa un bilancio di sé e dei propri rapporti con il mondo -, lui categorizzava come mutamento o mutevolezza. Balzac soffre della “ripetizione” delle cose. Ma, allora, è qui anche evidente l’oggetto di una denuncia reiteratamente presentata da Ceccato – quella relativa alla mancata consapevolezza circa la natura mentale di una categoria – in questo caso “stesso” e, di converso, “altro” – considerata come qualcosa di fisico. Un tipico residuato della teoria della conoscenza o, detto in altri termini ancora di Ceccato, del pensiero “teoretico-conoscitivo”. Questa “sedia” posta innanzi alla mia “scrivania” è la “stessa” di ieri e dell’altro ieri, nonostante si sia in grado da molto tempo di affermare che, da ieri a oggi, la sua struttura molecolare o “atomica” (mi sia concessa di metterla giù così, alla buona) è cambiata. Ci si intende – perlopiù: se si parla di “quark” e non di “sedie” si fa un po’ più di fatica ad intendersi – in virtù dell’applicazione di un criterio – considero questi elementi e non questi altri. La domanda è: se Balzac fosse consapevole della natura mentale delle categorie che costituiscono il perno della sua argomentazione, soffrirebbe di meno?
Che si tratti di una categoria “delicata” è facilmente documentabile. Non solo l’angosciato Kierkegaard (1945), scrisse un saggio dedicato a “La ripetizione” (positiva fino a due ma non di più), ma vorrei anche citare un caso ben più angosciante raccontato da Oliver Sacks in “Musicofilia” (2013, p. 245).
Discute il caso di un musicista che, a causa di un’encefalite erpetica, ha perso la memoria, riducendone la capacità all’inezia di una durata di pochi secondi. Dal diario della moglie, Deborah Wearing, Sacks ricava il seguente episodio: in uno dei lunghi e penosi giorni seguiti alla malattia, il marito teneva un cioccolatino nel palmo della mano e lo copriva e scopriva come fosse un prestidigitatore: “Guarda è nuovo”. Non riusciva a staccare gli occhi dalla mano. “È lo stesso di prima”, gli spiegava dolcemente la moglie. “No… guarda. È cambiato. Non era così prima”. Copriva e scopriva il cioccolatino, ogni due secondi circa, alzando la mano e guardandolo. “Ma è ancora diverso” si stupiva, chiedendosi “Come ci riescono?”.
Bene, Ceccato ha ricondotto ad analisi operativa alcune decine di categorie – fra queste, oltre a “stesso” e “altro”, “tutto” e “parte”, “oggetto” e “soggetto”, “singolare” e “plurale”, “inizio” e “fine”, “spazio” e “tempo”, “e” e “o”, “niente” e “ma”, etc.
Lui stesso si vantava di aver guarito – beh, magari proprio guarito no: diciamo, “temporaneamente, aver risolto il problema” – una persona sofferente di claustrofobia durante un viaggio aereo: gli si era seduto accanto e l’aveva invitata a guardare la lunetta vetrosa del suo orologio; ha catturato un raggio di sole dal finestrino e, poi, inclinando vieppiù il polso, ha indirizzato il raggio luminoso sulla volta della cabina, semantizzando al contempo: “Guardi, guardi come va lontano”.
La predicazione linguistica servì da guida percettiva e categorizzante a sua volta e la persona sofferente si trovò improvvisamente liberata da quel “vicino”, “troppo vicino”, che, incutendole timore, la costringeva in una sofferenza apparentemente priva di soluzione. In questo caso, si noti, la sconfitta della sofferenza non deriverebbe dalla consapevolezza del paziente – come nel caso di Balzac -, ma nella consapevolezza del terapeuta e nell’esecuzione di una categoria al posto di un’altra. In questo secondo caso, allora, ci sarebbe anche da chiedersi se il paziente, rendendosi consapevole della natura categoriale delle due designazioni, non andrebbe incontro al probabile fallimento della terapia risultando così più opportuno ai fini della guarigione l’inganno tipicamente filosofico del mentale spacciato in termini di fisicità. Questa “guarigione con inganno”, tuttavia, tradirebbe il significato politico del mutamento implicito nella proposta metodologico–operativa – significato che, da rivoluzionario che è (rinuncia all’ontologia, rinuncia all’autocontraddittoria fondazione della conoscenza e, in alternativa, consapevolezza del proprio operare mentale) si rivelerebbe un nuovo oppio dei popoli ad uso di un’oligarchia; il che, peraltro, nella prospettiva di Ceccato, come si vedrà, starebbe a pennello. Di solito – storia della filosofia e della scienza alla mano – questo processo di dirottamento di una teoria avviene per mano degli allievi, ma non sarebbe la prima volta che anche uno dei Maestri ci mette del suo.
Con un ulteriore esempio spero di mostrare un’opportunità anche leggermente diversa sempre in ordine alla terapeuticità della consapevolezza operativa. Al “ma” e alle altre avversative (“tuttavia”, “però”, “quantunque”) Ceccato ha dedicato numerose analisi. Per quel che concerne il “ma” emerge da queste analisi il semplice fatto che il pensiero “avversato” non è espresso dal parlante. “Marina, ragazza mora ma carina”, come si cantava molti anni or sono, implica una valorizzazione – la solita valorizzazione – delle bionde (Gli uomini preferiscono le bionde, scriveva nel 1926 Anita Loos senza aver fatto grandi studi sui testi di Darwin): Marina è carina nonostante sia mora, il “ma” si oppone all’assolutezza di una proposizione non detta che ratifica come carine solo le bionde – c’è almeno un caso di mora carina e questo caso è rappresentato da Marina. Facciamo finta che l’analisi sia sufficiente e chiediamoci, ora, se una consapevolezza relativa può comportare un miglioramento dell’umore del consapevolizzato. Presumibilmente sì, perché può darsi il caso in cui la proposizione non esplicitata fosse del tutto ignorata dal parlante – come se, ad un dato momento, qualcuno si scoprisse vittima di un pregiudizio. Ma non solo. L’esempio può indurre ad una riflessione che abbracci tutti i protagonisti della relazione comunicativa e non il solo parlante. Voglio dire che la consapevolezza relativa alla truffaldinità del “ma” – asseverare qualcosa senza pagare il pegno del farlo pubblicamente – può costituire il viatico per una relazione più onesta e ciò può andare a beneficio dell’intera vita sociale. Credo che per ogni parola dal contenuto categoriale e, altresì, per ogni parola in cui un contenuto categoriale viene ad ibridarsi con un riferimento empirico (se qualcuno “si precipita” da me, è diverso che se “corre” o se “viene” da me o se, più semplicemente, mi “raggiunge”) si possano fare ragionamenti analoghi[4].
5
Ritaglio alla bell’e meglio quattro contesti argomentativi che, a mio avviso, possono ingenerare infelicità nelle persone. Sotto il tallone di ferro di qualcuno nessuno si sente particolarmente bene, molti litigi fra persone dipendono da come percepiscono il loro potere nei confronti degli altri e quello degli altri su di sé. Una storia della coscienza di classe può insegnare parecchio in proposito. L’autoritarismo che governa la società trova un corrispettivo in quello che governa la famiglia. Uniformandosi spesso a modelli proprietari, il rapporto fra maschio e femmina ingenera spesso infelicità. L’amore stesso è spesso considerato dai protagonisti in meri termini di possesso reciproco. I viventi – uso appositamente della categoria più vasta – sono poi oppressi vita natural durante dalla consapevolezza relativa alla propria finitudine. Per gli esseri umani è così, ma – per quanto ne dicano i filosofi e tutti i ben provvisti di pelo sullo stomaco – dubito che per lo scarafaggio possa essere molto diverso. Da questa morte, infine, dovrebbe salvarci un Dio. Come non si sa, ma su questo Dio ci si interroga: nel caso lo si dia per assodato – cosa sempre difficile per chiunque -, comunque, spesso lo si teme.
Orbene, a ciascuno di questi contesti argomentativi Ceccato ha dedicato qualche analisi. Vediamo con che risultati.
Ambiti di sofferenza:
- L’asimmetria sociale
- L’amore – un caso particolare di asimmetria sociale
- La morte
- Dio
a.
Storia dell’umanità alla mano – con le sue rivoluzioni riuscite o tentate soltanto e non riuscite -, ritengo che l’asimmetria sociale possa ambire ad un posto di rilievo nel catalogo sterminato delle cause di sofferenza degli esseri umani. È ovvio che chi occupa una posizione subordinata nella gerarchia sociale subisca la volontà altrui e, prima o poi, possa escogitare qualche mezzo per ribaltare la gerarchia stessa o, perlomeno, per salire di qualche posizione in questa gerarchia. La storia della coscienza di classe è lì a ratificare le varie modalità del rapporto tra sofferenza e ribellione – sofferenza a causa del potere di qualcuno e ribellione nei confronti di questo qualcuno. Chi ha analizzato questo stato di cose e il suo svolgimento nei diversi contesti storici invitando esplicitamente o implicitamente alla ribellione ha anche individuato tra i mezzi coercitivi tutta una serie di apparati che potremmo definire “culturali” e, fra costoro, Ceccato non è da meno di molti altri.
Faccio un esempio determinante. Allorché si dica di qualcosa che “è questo o quello”, possiamo sia dire che il qualcosa è tale “in seguito a qualche caratteristica che già la costituisce”, e sia dire che il qualcosa è tale “in seguito a qualche attività che noi svolgiamo nei suoi confronti”. Con la confusione fra i due tipi di attribuzione si legalizza un “florido commercio” millenario – dice Ceccato andando dritto al cuore del problema -, “in quanto i risultati di un’attività svolta nei confronti della cosa che riceve l’attribuzione sono ridotti ai risultati di un’analisi delle proprietà costitutive della cosa che riceve l’attribuzione”. L’errore – il cosiddetto “errore filosofico” -, così, risulta funzionale alla logica dei rapporti sociali e della loro storia. Qualcuno che può guadagna dalla confusione nei confronti di chi non può – dove il potere dell’attribuire diventa il potere qualsivoglia o il potere in quanto tale. Invalidando l’attribuzione – o denunciando il vizio alla radice della sua validazione -, viene meno “la possibilità di pronunciare asserzioni, non importa in che campo e su che cosa, dando alle parole un valore universale e necessario” e ne viene indebolita “la forza di ogni imperativo”. L’errore, in altre parole, ratifica “tutta la filosofia quale sostegno e diffusione di valori assolutizzati, politici, religiosi, etc.”. Se Ceccato si fosse fermato a questo punto, avrebbe liberato Marx di una zavorra – l’aver individuato e denunciato la “miseria di una filosofia” ma non “la miseria della filosofia” – e avrebbe fatto compiere all’umanità sofferente un ulteriore passo avanti. Per dare ragione a coloro che prevedono il sistematico tradimento della teoria da parte della pratica, purtroppo, anche Ceccato – pronube l’esigenza di mantenere i propri privilegi di classe – ha ritenuto di dover scendere a patti con quella filosofia da cui avrebbe voluto esentarsi e, conseguentemente, con i suoi valori.
Allorché si tratta di trovare una soluzione che possa configurare una progettazione sociale qualsiasi, infatti, ecco che in Ceccato salta fuori il peggio del modello borghese. Un caso evidente di ciò è quello della giustificazione della figura sociale di un “tecnico” che dovrebbe “apprestare i mezzi per realizzare il programma liberale” – parla del programma politico, ovviamente – tenendo conto, tuttavia, “della situazione umana quale essa è divenuta”, ovvero senza metterne in discussione i valori e i processi dai quali questi risultano. Su questa strada giunge a spunti involontariamente umoristici, come allorquando individua la tipologia di un “liberale anarchico” che, sostituendo “la libertà sociale con la libertà personale”, compierebbe “azioni fra quelle vietate” non allo scopo di “modificare il quadro costituito delle individuazioni e ripartizioni dei comportamenti”, ma, bensì, di “distruggerlo”.
Questo “tecnico” salvifico, d’altronde, nel pensiero di Ceccato rappresenta il principio costitutivo dell’oligarchia, ovvero del governo dei “saggi” cui converrebbe affidare le sorti del mondo e dell’umanità che su questo mondo vorrebbe continuare a spadroneggiare allegramente. Un illuminismo kantiano non più in nome di un imperativo categorico – che “indebolito” com’è non sarebbe più in grado di imporre alcunché -, ma in nome delle differenze di classe – come a dire che se al mondo le cose sono sempre andate così è bene che continuino ad andare sempre così – dimenticando il dato di fondo – un dato di fondo inalienabilmente tutto suo -, ovvero la denuncia del sistema di idee che, giustificando l’andazzo, l’ha promosso. A proposito di tale autocontraddittoria superficialità, in altre circostanze, ho parlato di un “qualunquismo fascista” che, coerentemente quanto inevitabilmente, guida Ceccato alla percezione del sociale. Alla domanda su “che cosa può restare della lotta di classe?”, infatti, eludendone la sua stessa lettera, risponde che “io la trovo sbagliata”, ma nell’analisi susseguente si contraddice contestandone una e una sola risposta – con argomentazioni a dir poco imbarazzanti e risibili sul piano strettamente scientifico: “forse poteva valere una volta, per differenza, come diceva Huxley, di odori. Ma oggi non c’è più neanche questa, grazie ai deodoranti”. La “storia umana”, per lui, sarebbe “fatta da 300, 3000 persone” e il suo modello di organizzazione della società – scontatagli la puzza al naso in più – non si discosta di molto da quello di Henri-Claude conte di Saint-Simon, che sognava una società universale governata dai suoi “50 primi fisici, 50 primi chimici, 50 primi fisiologisti, 50 primi banchieri, 200 primi commercianti, 600 primi agricoltori, 50 primi setaioli, etc.”[5].
b.
Un bel po’ di delitti – classificati come tali o come “idilliaca vita di coppia” – vengono commessi in nome dell’amore. La trasgressione di codici scritti e non scritti soprattutto da maschi implica spesso grida pubbliche e private al tradimento, all’offesa lavabile solo con il sangue e alla ricategorizzazione della persona amata che, da un attimo all’altro, perde tutto il suo corredo di valorizzazioni positive per ritrovarsi invischiata in una negatività onninvasiva che comincia dal corpo per finire nell’anima. Con le conseguenze individuali e relazionali che ben sappiamo.
Il costruttivista radicale Ernst von Glasersfeld – che dell’avventura umana e intellettuale di Ceccato e della Scuola Operativa Italiana ha condiviso non poco e, comunque, tutto l’indispensabile – ha espresso i suoi “pensieri razionali sull’amore” in un saggio significativamente intitolato “Prima si deve essere in due” (2004, pp. 51-61). Ivi, Glasersfeld individua “la condizione sine qua non dell’amore” nella “costituzione concettuale o” – come preferisce dire – nella “costruzione di una persona autonoma che viene considerata indipendente dalla propria”. “Dal punto di vista costruttivistico”, dice Glasersfeld, “ho bisogno dell’altro perché soltanto attraverso l’altro si crea quella intersoggettività che mi permette di costruire una realtà più stabile di quella che mi costruirei da solo”. L’altra persona – le altre persone -, insomma, sarebbe necessità di ciascuno “per ricevere conferma della nostra visione del mondo, almeno per alcuni aspetti”, ma – e qui sta il punto – “una conferma non ha validità alcuna se non è data volontariamente” e, pertanto, va da sé che si debba concedere al partner “autonomia, libertà di pensiero e di azione”. Glasersfeld dice di non aver “niente a che fare con la psicoterapia”, ma aggiunge che, avendo osservato “la convivenza di persone in paesi diversi”, è arrivato alla conclusione che “esiste un’illusione molto diffusa per la quale si crede che sia impossibile che un amore perduri nel tempo” ed essendo questa illusione figlia della concezione secondo cui “l’amore funziona da sé come una magia che viene da fuori, e si crea e si conserva da solo” ecco che i guai d’amore – se non tutti in buona parte – sono ricondotti all’ampio quadro istruttorio contro la concezione passivista del mondo, ovvero al realismo.
“L’amore è un’arte” – Glasersfeld pensa di dover citare Ovidio – che “deve essere costruita giorno dopo giorno” e che “richiede attenzione, prudenza e riflessione”. Incluso in questa costruzione, ovviamente, resta anche il partner – una persona “costruita da noi” e che, come tale, “suscita aspettative in noi”. “Se queste aspettative non si avverano siamo delusi e tendiamo a dare la colpa all’altro”, ma, così facendo, “dimentichiamo che in fondo siamo noi stessi a essere responsabili di ciò che pensiamo del partner – perché ciò che fa o dice è sempre suscettibile di interpretazioni molto diverse. Ciò che distrugge l’armonia molto spesso è l’impressione che una determinata interpretazione sia l’unica giusta” e la conclusione – inno ad un relativismo di cui mai Glasersfeld ha voluto disfarsi – è che “convivendo con un’altra persona, non si dovrebbe mai dimenticare che si può interpretare tutto ciò che fa o dice in innumerevoli modi”. Come, peraltro, in uno di questi “innumerevoli modi” sembrerebbe interpretabile la citazione di Publio Ovidio Nasone, visto e considerato che, nell’”Ars amatoria”, non solo afferma perentoriamente ed esplicitamente – e poco costruttivisticamente – che “ciò che io canto è il vero”, ma perché suggerisce, in amore, il più bieco dei pragmatismi maschilisti (le femmine, per lui, sono “testoline leggere” alle quali, pur di raggiungere lo scopo, si deve raccontar balle e alle quali, di converso, conviene render la pariglia fingendo orgasmi che non si provano).
Pur indulgente verso un relativismo che, ingenuamente, ritiene alleato, Glasersfeld dal proprio costruttivismo secerne comunque una ricetta che, rivoluzionando la tipologia di rapporti umani di cui si sta parlando, effettivamente sembra prometterne quel maggior equilibrio da cui è lecito attendersi minor sofferenza per tutti. Non così Ceccato che, dal suo “punto di vista” più o meno senza nome, sembrerebbe spremere in proposito soltanto vecchi palliativi utili a tranquillizzare pazienti inconsapevolmente complici.
Con qualche metafora semplificatoria, l’amore, secondo Ceccato (1989, pp.145-148, p. 158) nascerebbe in virtù di un unico meccanismo mentale: “si va verso una cosa giudicandola positivamente, attendendosene un piacere”, ma – sia ben inteso – che è una “trappola”. Questo primo valore positivo, infatti, “si espande e invade” – invade l’”ospite” intero, tanto è vero che “il platonico bello, buono e vero sopravvive ai secoli nei secoli, nonostante il buio delle tante esperienze”, laddove per queste ultime ha da intendersi “esperienze contrarie” – come a dire: l’amore è cieco, ti fa vedere lucciole per lanterne, l’amore non è affatto eterno, in amore non tutto è rose e fiori.
Un esempio: “Un tradimento dopo vent’anni d’amore può uccidere quell’amore, sulla bilancia dei sentimenti peserà ben più di vent’anni di fedeltà”. Ed in effetti “quando si ama il rapporto si fa subito difficile”; “lo scontro fra i desiderata e la realtà” – una “realtà” che, purtroppo, sembrerebbe figlia dell’errore teoretico-conoscitivo – è “inevitabile”; “il sogno romantico (…) va in frantumi quasi subito”. Nulla può ostare, allora, alla ricetta salvifica: se “il fiore reciso e portato a casa ha il difetto di appassire e marcire, tanto vale seguire il poeta e lasciare le rose dove stanno, meglio allora rimpiangere il profumo non colto”. Che, nel corso della propria esistenza, Ceccato si sia ben guardato dall’utilizzarla per sé, questa ricetta, è fin ovvio – di sinestetici profumi “non colti”, buon per lui, Ceccato ne ha dovuto rimpiangere ben pochi. L’iniezione di letterarietà ha il potere di trasformare il metodologo operativo in un postino del cuore, ma senza mai sconfiggerne quella spiccata verve misogina che, prima o poi, nel pensiero di Ceccato, emerge. Allorché analizza il “sistema” costituito dall’uomo e dalla donna nello “scambio sessuale” – faccio un esempio già fatto -, parte dal principio che è la seconda ad averlo “anticamente alterato” rendendosi “meno disponibile” – diventando così, come in un salotto nobiliare illuminista, la “parte impreziosita”, dove è implicito che questa impreziosita sia parte di un tutto che è il maschio[6].
c.
In almeno due circostanze Ceccato ha detto la sua sulla morte. Nella prima – siamo nel 1984 – premette che “forse” lui, di paura della morte, non ne ha mai avuta “molta”, ma che “da un certo giorno in poi” questa paura “è davvero diminuita sino a dissolversi”. Una premessa, dunque, che sembrerebbe una promessa di un rimedio davvero efficace che, tuttavia – sospettare sempre allorché le soluzioni sono troppe – si rivela subito essere molteplice.
La prima di queste “ricette” sarebbe quella di “non pensarci”, ma, forse rendendosi conto che come ricetta non è un granché, forse davvero vestendo i panni altrui, Ceccato ammette che, siccome alcuni di noi soffrono di “ossessioni, di compulsioni, di un pensiero che si annida e si ripete spiacevole nelle nostre teste”, sorge – e urge, direi – la necessità di “esorcizzarlo”. Uno dei mezzi più antichi è quello di Epicuro, il quale “faceva notare come una paura della morte sia contradditoria” (“ci si immagina morti da vivi e vivi da morti”). A lui – a lui Ceccato -, poi, è stato “utile” pensarsi “non come individuo, con la sua nascita e morte, la sua isolatezza, ma come specie, cioè come l’anello di una specie che almeno in un momento e posto è quindi compresente con l’anello precedente e quello successivo”. “La specie non muore” – “il padre vorrebbe essere rispecchiato nel figlio, e comunque si prolunga in questo”. Si innesterebbe qui la plausibilità di un’investitura categoriale particolarmente proficua: “un pensiero antico”, dice Ceccato, quello che i latini dicevano “finis coronat opus”. Si tratterebbe di “un pensiero complesso che, in estrema sintesi, si può riferire a quel senso di riposo, di soddisfazione, del lavoro portato a termine”; “il valore (…) che è già contenuto nel ‘fatto’”; “la giornata spesa bene” – rendendosi conto che “lo speso bene si può proiettare anche nel futuro, pensando a qualcosa di positivo che sia uscito dalla nostra testa, dalle nostre opere con una positività che si vive pensando trasferita su altri, su altro”: “saremo ricordati” “i figli sono stati sistemati”, “la moglie avrà di che vivere” (la parte impreziosita, si sa, una volta vedova, è già tanto se se la cava) – “è un bene esteso a ciò che ci sopravvive”.
Un’altra “ricetta” – e qui si torna nel clima di quei rimedi che, oltre a non guarirne dalla malattia, fanno sentire sbeffeggiato il malato – sarebbe, poi, quella di godersi quel “briciolo di tranquillità” che ci verrebbe “dalla riflessione che, paura o no, tanto muoriamo lo stesso”. Infine, a Ceccato rimangono solo due soluzioni: la prima, tuttavia, gli “spiace” perfino “ricordarlo”, mentre la seconda, già per sua stessa ammissione, sarebbe la ricetta “più brutta”. La prima è quella cantata da Metastasio: “non è ver che sia la morte/ il peggior di tutti i mali./ È un sollievo pei mortali/ che son stanchi di soffrir” – e consiste, detto in parole meno poetiche, nel considerare la morte come sollievo. La seconda sarebbe quella di “immaginarsi sorgente di sofferenza per chi resta, la gioia del cattivo” che conterebbe “sul senso di colpa della persona che vuole bene, e che avrà poi sempre l’impressione di non aver fatto abbastanza” – un piacere, peraltro molto dubbio, di morire sapendo che l’ineluttabilità della propria morte avrà un corrispettivo nell’ineluttabilità della sofferenza altrui.
Nel 1989, quando torna sull’argomento, Ceccato (1989, p. 202), è più parco e si accontenta della tesi che potremmo chiamare della “prosecuzione di sé”. Nessuno dovrebbe aver paura di morire perché “tutti (hanno) la possibilità di amare qualcuno che li prosegua. Perché, se amore c’è stato, non può che restare qualcosa di noi”.
Facendone il bilancio, di queste soluzioni solo una sembra aver direttamente a che fare con l’assunzione del punto di vista operativo – quella che definirei della “morte come compimento” o “coronamento” -, implicando l’applicazione di una categoria carica di positività laddove la situazione è fortemente caratterizzata in negativo. La soluzione che Ceccato sembra preferire – quella che selezionerà successivamente tra le tante – cadrebbe, anzi sprofonderebbe, a fronte degli strumenti analitici di Ceccato stesso, in quanto palesemente metaforica – il soggetto che “prosegue” (o che “si prolunga”) è ovviamente diverso dal soggetto che “non prosegue” ed è proprio da questa differenza che nasce il dramma, anche perché se questa differenza venisse riconsiderata come uguaglianza lo si farebbe solo al costo di contraddire l’assunto di partenza, ovvero che qualcun altro, un secondo, “prosegue” al posto del primo. Senza contare che si finge innumerevole un passaggio che innumerevole non è. Che Ceccato – anche in questa occasione – dimentichi i propri strumenti, temo che possa dipendere dallo scopo prefissatosi – l’ambiziosissimo e dichiarato scopo di rendere felici gli altri sacrificando checchessia alla gratificazione di sé in quanto artefice-demiurgo di questa felicità[7].
d.
Tematizzato correlativamente alla “morte”, spesso – se non sempre – è “Dio” – il Dio che giudica, il Dio che salva o che non salva l’anima di chi muore, o il Dio indifferente.
Recensendo “L’existence de Dieu” di Michele Federico Sciacca (1951), Ceccato (1951) prova a ipotizzare la sequenza operativa del simbolizzato “Dio”. Si tratterebbe di una ricetta, a suo dire, riscontrabile nel pensiero di Sant’Agostino. Essa, dice Ceccato “può venir condensata in cinque mosse: 1) si prendano cose qualsiasi, almeno una, e si usino come termini di confronto: ottenendo cose sottratte al cangiamento, perché ogni differenza viene attribuita alle cose confrontate; (i prodotti di questo uso sono semantizzati impiegando l’articolo determinativo davanti al nome delle cose, o mediante i suffissi ‘ità’, ‘ezza’, etc., dei cosiddetti astratti, aggiunti ai loro nomi); 2) le cose usate come termini di confronto si usino anche come oggetti conosciuti e come prodotti; 3) in quanto usate in questi tre modi, queste cose si semantizzano ‘idee’, ‘principi’, ‘verità’; 4) si appresti il conoscente e produttore della verità; 5) lo si semantizzi ‘Dio’; 6) ogni cosa, ‘uomo’ compreso, quando non sia usata come termine di confronto o come produttore della verità, venga stessizzata almeno come un’altra cosa; ottenendo il suo cangiamento, il suo passare, nascere e morire, un processo; (le nostre lingue semantizzano i prodotti della stessizzazione con verbi). Quest’ultima operazione non è indispensabile per produrre ‘Dio’, ma lo è per impedire all’uomo, anche se conoscitivizzato nel posto di soggetto conoscente, di essere Dio, perché, cangiando, non potrebbe essere il costruttore di ciò che non cangia”.
Prendiamola pure per buona, anche perché – a differenza di altre ricette di incerto statuto e dunque corrette più volte – è l’unica di cui disponiamo. Non credo che possa essere particolarmente rilevante ai fini di questa discussione la correttezza o meno dell’analisi di questa categoria mentale; credo, invece, che rilevante – pur in quella sua ovvietà che consegue agli assunti iniziali – sia il fatto che “Dio” venga ricondotto alle operazioni mentali che in quanto designato lo costituiscono fermo restando che queste operazioni mentali potrebbero essere anche altre rispetto a quelle diligentemente elencate da Ceccato. Di rilevante – detto in altre parole – c’è che, considerandola una parola come le altre – democraticamente, senza concederle alcun privilegio, senza assegnarle alcuno statuto speciale -, Ceccato analizza la categoria “Dio” e, così facendo, ne ricompone una sorta di genealogia, ignorando – va da sé – tutte le questioni sorte nella storia del pensiero dall’aver assunto un punto di vista teoretico-conoscitivo (e, dunque, le domande circa la sua “esistenza”, le sue “proprietà” o “caratteristiche”, il suo rapporto con noi, e via attingendo al repertorio dei teologi più e meno misticheggianti. Il Dio di cui si occupa Ceccato è – e non può che essere – il risultato della libera creazione di categorie, così come il designato di una “e”, o di “unicorno”, o di “vol au vent”. Il Dio di cui si occupa Ceccato, però – va anche fatto notare – non è diverso da quello di cui si occupa chiunque e da quello di cui si può legittimamente occupare chiunque, sia esso il mio abituale fornitore di vino, il Papa della Chiesa Cattolica o lo stregone del villaggio.
Orbene, se, una volta che tutto sia stato chiarito, ci chiedessimo in che misura questo fatto sia in grado di lenire del tutto eventuali sofferenze umane ad esso connesse, presumibilmente ci ritroveremmo negli stessi guai di prima.
Avremmo liberato Dio da ogni ritualità istituzionale, lo avremmo liberato dalle burocrazie storiche che, in quanto categoria mentale, lo hanno amministrato e somministrato in termini di ontologia realista – e da ciò un minimo di benessere diffuso ne potrebbe anche conseguire -, ma non credo che il problema di chi si interroghi in proposito – negli stessi termini, se vogliamo, in cui Glasersfeld dice che “prima bisogna essere in due” – possa darsi per risolto.
Rappresenterei la situazione venutasi a creare con un’analogia che traggo da “La trama del matrimonio” di Jeffrey Eugenides (2013, p. 103). C’è un momento in cui, agli occhi piangenti di una Madeleine che si è lasciata con il suo Leonard – alcuni dei suoi protagonisti -, “Frammenti di un discorso amoroso” di Roland Barthes appare come la “cura perfetta per il mal d’amore”, il “manuale per riparare il cuore” che mostra come “l’unico attrezzo” sia la “mente”. “Se ammettevi che essere ‘innamorati’”, suggerisce Eugenides insediatosi nella testa di Madeleine, “era soltanto un’idea” – traduciamolo con “un insieme di operazioni mentali” – “potevi affrancarti dalla sua tirannia”. E, tuttavia, Madeleine “poteva leggere Barthes che decostruiva l’amore tutto il giorno senza che per questo il suo amore per Leonard diminuisse anche solo di una minima percentuale. Più leggeva i Frammenti e più si sentiva innamorata”[8].
6
La metodologia operativa può essere ridotta ad un impegno abbastanza semplice da dirsi: considerare qualcosa come risultato e interrogarsi sulla sequenza di operazioni che l’hanno reso tale. Ovviamente, allorché il “qualcosa” appartiene al dominio delle “sedie” o delle “penne a sfera” il compito è facilmente – facilmente, entro certi limiti – eseguibile, ma allorché il “qualcosa” appartiene al dominio della percezione delle “sedie” o delle “penne a sfera”, il compito si fa arduo. Difficilissimo, poi, allorché si tirano in ballo risultati come “stesso” e “diverso”, o una “e” o un “di”.
Tuttavia, queste difficoltà non possono far dimenticare che questa assunzione del punto di vista metodologico-operativo ha i suoi bei vantaggi:
- Sfugge al problema insolubile del confrontare la copia che ci facciamo noi con l’originale che sta per i fatti suoi, ovvero sfugge alle teorie della conoscenza.
- Pur rimanendo un “punto di vista” fra i tanti, implicitamente si propone come quello più vantaggioso. Riconosce che non possiamo parlare se non di ciò cui abbiamo collaborato noi stessi, ovvero che non possiamo parlare di qualcosa se non passando attraverso i risultati di una nostra attività – se non utilizzando i risultati di una nostra attività. Che qualsiasi cosa sia detta è pur detta da qualcuno. Etc. Tutto un repertorio, cioè, di modestia e di umiltà che all’umanità non può fare che bene.
- Sposta il piano dei confronti. Non più sul “come stanno le cose”, ma sul modo con cui ce le siamo costituite – e, così facendo, assegna finalmente una responsabilità a ciascuno. Non c’è più nulla che, in una qualche misura, non dipenda da noi.
- Porta inevitabilmente ad una riflessione di ordine storico. Le cose non sono mai andate così. Dominante è sempre stato l’altro pensiero – quello pencolante tra realismo e idealismo, due forme di autorità e di ripiego della trascendenza. Spiega, allora, il ruolo del sapere – del sapere impregnato di teoria della conoscenza e tramite questa asseverato – nel mantenere l’ordine delle cose: dall’ordine sociale (coppia inclusa) ad un orizzonte che neppure finisce con la vita e che, dunque, include la paura della morte e di un Dio rancoroso, vendicativo e castigamatti.
- In quest’ambito, spiega anche il ruolo del sapere nell’espropriare le persone dei propri valori facendoglieli passare per imperativi indipendenti dalla volontà di qualcuno – come qualcosa che ci trascende o che ci sarebbe imposto da misteriose e impenetrabili volontà di natura.
Mi soffermerò brevemente su quest’ultimo vantaggio, perché i nostri comportamenti dipendono da questi valori e perché tramite i nostri comportamenti, ingenerando sofferenza o benessere, vincoliamo la vita altrui.
Nel ricondurre il valore all’operare mentale che lo costituisce Ceccato (1972, pp. 83-87; 1985, p. 65) è chiaro: “un valore si costituisce dal porre una cosa in un rapporto, per la sua possibilità o meno di soddisfarlo”.
Di un’incognita aritmetica – è l’esempio – asseriamo che “vale 3”, “nell’uguaglianza, per il numero di unità: x + 5 = 8”. Qualsiasi cosa può dunque essere sottoposta ad un processo di valorizzazione: l’acqua perché messa in rapporto alla sete, la penna allo scrivere, l’oro al denaro, il denaro alla merce, e così via. La sua imperatività, dice ancora Ceccato (ibidem) , “dipende (…) dal volere la situazione di cui esso rappresenta un elemento”, ma – ammonisce – “chi nella vita non è mai riuscito a separare la cosa valutata dall’unico valore attribuitole, difficilmente riuscirà ad accettare una differente posizione, l’opinione altrui”. Il che ci porta ad una riflessione doverosa: liberissimi nel porre rapporti e, dunque, nel valorizzare checchessia, ma anche vincolatissimi nel porre rapporti che possano coesistere con i rapporti posti dall’altro: entro certi limiti – limiti tutti da verificare caso per caso, limiti da forzare un po’ qui e un po’ là -, i valori dell’uno non possono confliggere troppo con i valori dell’altro, pena esclusioni, emarginazione, anatemi e fin eliminazione (o autoeliminazione) fisica.
Dalla consapevolezza operativa – a maggior ragione da quella relativa ai valori – discende il rifiuto di qualsiasi diktat su “come stanno le cose”. Non è ancora un’etica – si badi -, è una consapevolezza che si estende al rapporto tra il pretendere di sapere “come stanno le cose” e le asimmetrie e le sofferenze che caratterizzano la storia umana. Dalla consapevolezza non si torna indietro, o, meglio, si torna indietro soltanto contraddicendosi. Dirsi che è “giusto” intervenire per cambiare – per impedire lo svolgersi automatico del rapporto tra la pretesa di sapere come stanno le cose e le sue tristi conseguenze – è un’opzione ulteriore – implica l’averne fatto un’etica – ma ritrarsi nella consapevolezza inoperosa – neutrale – equivale a negare la propria disponibilità relazionale onesta. È complicità nei crimini di cui si è imparato a comprendere la genesi per assistervi e soltanto per assistervi – come un turista (“Felice, nella vita sii sempre turista”, mi diceva Ceccato – ed a me ne seguiva un senso di rabbia e di frustrazione).
A mio avviso dalla metodologia operativa di Ceccato e dal pensiero complessivo espresso dalla Scuola Operativa Italiana si può ricavare qualcosa di meglio di quanto, costretto nelle catene della propria educazione e del quadro valoriale nel quale è cresciuto, abbia saputo fare Ceccato; soprattutto, si può ricavare qualcosa di meno umiliante per la parte storicamente e socialmente più debole del rapporto fra il sé e le varie autorità immanenti o trascendenti che pretendono di soggiogarlo. Detto in parole povere: Ceccato non fa un gran servizio a se stesso nell’estendere le basi rivoluzionarie del proprio pensiero. Consapevolmente e inconsapevolmente, le spunta, ne smussa gli spigoli, le disarma, le anestetizza; nonostante la loro forza liberatoria – la sua analisi del valore è la premessa più efficace per innescare un processo di riappropriazione sociale di quanto sottratto e destinato d’autorità al consumo passivo -, finisce con il confezionarle nella prospettiva di un quieto vivere e di una felicità smemorata e funzionale quanto può essere il risultato dell’ingegneria[9].
7
A dimostrazione ulteriore della plausibilità di un utilizzo della metodologia operativa ai fini di un miglioramento delle relazioni umane, porterò ad esempio due argomentazioni cruciali del suo assetto teorico. La prima è quella relativa all’impegno semantico.
Nel momento in cui si pone un particolare rapporto tra un qualcosa di pubblico (un grafema, una sequenza di fonemi, una disposizione di sassolini, un vaso di fiori sul davanzale di una finestra, etc.) e un qualcosa di privato (una sequenza di operazioni mentali) poniamo quello che Ceccato definisce come rapporto semantico. Se manteniamo questo rapporto nel tempo e se questo diventa un patrimonio comune a più persone possiamo dire che questo diventa un impegno. Ogni lingua possiamo considerarla come l’insieme di vari impegni semantici, ovvero di rapporti condivisi tra designanti e designati.
Tuttavia, questo insieme muta nel tempo senza che ci sia alcun arbitro che ne decida legittimità e ritmi – un confronto fra due dizionari della stessa lingua compilati in epoche diverse dimostra il fenomeno in quattro e quattr’otto. Non essendo fissate regole in proposito – o, quand’anche fossero fissate dai puristi di turno, non essendo rispettate regole in proposito -, può darsi il caso in cui l’impegno non venga mantenuto e ciò può capitare perfino nella medesima unità argomentativa: qualcuno parla e, nella stessa frase che sta pronunciando, una volta usa una parola in un senso e una seconda volta usa la stessa parola in tutt’altro senso. Non è necessario essere ubriache “mosche da bar”, la cosa può capitare – e capita spesso – anche in libri di scienza: se dovessimo dar retta alla Masterman (1976, pp. 129-161), se non vado errato, dovremmo ammettere che Kuhn, nel suo libro sulla “Struttura delle rivoluzioni scientifiche”, ha usato la parola “paradigma” (cruciale per la sua argomentazione complessiva) in una ventina di accezioni diverse. Marco Minucio Felice e il suo “Ottavio” (1957, p. 43) – per ricorrere ad un esempio più classico mi si lasci citare questa sorta di dialogo ferreamente orientato a far emergere i pregi del cristianesimo a tutto danno del cosiddetto paganesimo e dell’ateismo che si vorrebbe quasi ivi implicito – impone di “non cercare di dare un nome a Dio”, perché “il suo nome è Dio”, ma, così dicendo, gli dà per l’appunto un nome, giustificandolo poi con la pretesa constatazione che “Dio” sarebbe “il solo della propria specie”.
Bene. Punto primo: va da sé che, a fronte di queste modalità comunicative, le relazioni umane non possano che deteriorarsi.
Fra i motori del mutamento linguistico – fra i più potenti – c’è la metafora. In virtù di un confronto con uguaglianza tra due elementi individuati in due costituiti diversi il designante dell’uno può essere usato per designare il secondo. Se io dico che il tale è “una pizza” significa che ho rilevato un’analogia tra ciò che dice e il modo in cui lo dice o il tempo che impiega a dirlo e alcune caratteristiche attribuite in determinate circostanze al prodotto gastronomico (per esempio, il tempo che occorre per mangiarla tutta e, proporzionalmente, il progressivo venir meno delle sue qualità organolettiche).
Ceccato distingue due tipologie di metafore: quelle riducibili a operazioni mentali e quelle irriducibili a operazioni mentali senza pervenire – prima o poi, nel corso della riduzione – ad una contraddizione. Fermo restando che se si tratta di metafora o meno, con un minimo di certezza, lo sa solo il parlante (è vero che “le gambe del tavolo” si può definire una “metafora morta” perché la maggior parte di chi la usa non compie le operazioni di confronto, ma è sempre ipotizzabile un parlante che approcci per la prima volta con la designazione e, dunque, sia costretto – pena il non intendersi – a compiere quelle operazioni), va detto che a questa seconda tipologia appartengono metafore come “conoscenza” (nel senso teoretico-conoscitivo di garanzia di uguaglianza della copia interna con la corrispondente copia esterna), “punto immateriale”, “vuoto quantico” o “atomo”. Se parlassimo di una retta che “giace” su un piano, per esempio – ferme restando le definizioni di “retta” e di “piano” – ci troveremmo già in un’irrimediabile autocontraddizione. Così per il “punto infinitamente piccolo” e molteplici altre invenzioni filosofiche, come il “nulla”.
Orbene, Ceccato a proposito di queste metafore rileva i veri e propri stati di sofferenza che ingenerano, essendo esse costituite di stati di attenzione terminali non focalizzati – sospesi, come se ci si provasse a costituire categorie mentali ma se ne dovesse sopportare lo stato di incompletezza.
Punto secondo, allora. Va da sé che a fronte del fardello culturale che ci portiamo appresso – un fardello dove nessuno sa discriminare fra metafore fertili e metafore letali – gli esseri umani siano destinati all’angoscia, ovvero al male di vivere per la morte, dopo aver subìto vita natural durante – triste vita natural durante – il potere di chi gestisce l’armamento delle metafore irriducibili per ridurlo in una subalternità culturale ben poco dissimile dalla schiavitù[10].
8
Non mi rimane che un’ultima avvertenza. Le discipline psicoterapeutiche stesse possono essere considerate in quanto capaci di generare sofferenza. Quando Jan Hacking (1996, pp. 15-33) sottolinea l’interattività della diagnosi vuole riferirsi a questa questione indicandone il meccanismo metodologico fondamentale. Una volta che una tipologia psichiatrica sia stata inventata – sia essa “isteria”, “drapetomania”, “personalità multipla” o “schizofrenia” – e applicata a qualcuno, è possibile che questo qualcuno si comporti e continui a comportarsi come la tipologia prescrive. E non solo: anche chi ha applicato la tipologia potrebbe essere portato a constatare nel comportamento del qualcuno ciò che la tipologia prescrive, ovvero a ricategorizzare come sintomo tipico quanto gli basta del comportamento altrui per autoconfermarsi – e confermare – la diagnosi. Nella misura in cui ci si narrativizza per se stessi o per qualcun altro – nella misura in cui si aspira all’accettazione sociale -, il discorso vale anche per le tipologie psicologiche – da “egoista” a “estroverso”, da “solare” a “dolce”, da “bulimico” (metaforizzato) a “intuitivo”.
Riducendola all’opposizione tra consapevolezza del proprio operare e inconsapevolezza, e riducendo l’analisi relativa all’attività costitutiva, la metodologia operativa dovrebbe potersi esentare da tale problematica. Fermo restando che per quanta felicità possa portare la consapevolezza è da questa stessa fonte che ci proviene la massima infelicità o, volendola mettere altrimenti – in termini più fiduciosi -, la massima difficoltà nell’acquisirla.
Se Ceccato, preso dall’urgenza terapeutica, finisce con il tipologizzare anche lui, è perché ha ceduto alla tentazione non tanto di “cambiare programma” ma di arricchirlo anche a costo di snaturare i propri mezzi architettati per raggiungere il risultato. Nella vita – in una vita che si vorrebbe coronare con un successo – può capitare. Che il successo sia costoso – molto, troppo, in termini di coerenza – lo si sa[11].
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Sitografia
Note sull’autore
Felice Accame
Società di Cultura Metodologico-Operativa
Nato a Varese nel 1945, è presidente della Società di Cultura Metodologico-Operativa e insegna Teoria della Comunicazione presso il Settore Tecnico della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Dal 1987 dirige “Methodologia – Pensiero Linguaggio Modelli” (www.methodologia.it).
Note
- La sintesi di Somenzi è tratta da “La ‘Scuola Operativa Italiana’”, relazione presentata al Congresso del Centro Studi di Filosofia Italiana, a Fiuggi, nel novembre del 1986 e pubblicata in Methodologia, 1, 1987. Per il rapporto fra Somenzi e Ceccato, cfr. la mia Prefazione a Come non detto, in Working Papers della Società di Cultura Metodologico-operativa, in www.methodologia.it. Per un’analisi critica del modello di Ceccato, cfr. i miei L’individuazione e la designazione dell’attività mentale, Espansione, Roma 1994 e La funzione ideologica delle teorie della conoscenza, Spirali, Milano 2002. Per farsi un’idea precisa dell’operazionismo di Percy W. Bridgman, cfr. Come stanno le cose, Odradek, Roma 2012. ↑
- La “nota autobiografica non firmata” è riprodotta in F. Accame, I fioretti metodologico-operativi, ovvero la lieta novella da Montecchio Maggiore, La Vita Felice, Milano 2014. Per una discussione più approfondita della questione del nome, cfr. F. Accame, L’individuazione e la designazione dell’attività mentale, cit., pag. 45, nota 101 e, soprattutto, F. Accame e C. Oliva, Prefazione alla Antologia di Methodos, in Pensiero e Linguaggio in operazioni, II, 7-8, 1971 e in Nuovo 75 – Metodologia Scienze Sociali Tecnica Operativa, 8, 1973; rielaborata poi in F. Accame e C. Oliva, Prefazione a Methodos. Un’antologia, Odradek, Roma 2009. La riflessione di Ceccato è tratta da Tappe nello studio dell’uomo – Dalla filosofia alla tecnica, Quaderni di Methodos, 1, 1958, pagg. 72-78. ↑
- Per la definizione dello psichico, cfr. S. Ceccato, La mente vista da un cibernetico, Eri, Torino 1972, pag. 29, 51 e 66. Per le analisi debordanti nel consecutivo, cfr. S. Ceccato, L’ingegneria della felicità, Rizzoli, Milano 1985 e S. Ceccato, Contentezza e intelligenza, Rizzoli, Milano 1989, in specie pagg. 16-17 e 189 da cui ho tratto le citazioni. Altri esempi possono essere trovati negli articoli pubblicati da Ceccato – tra il 1884 e il 1990 – sulle pagine della rivista “Bioenergia”. Il racconto di Ceccato – una sorta di “Io ti salverò” alla veneta – è pubblicato in “Il Giorno” del 5 maggio 1991 e faceva parte di un volume di “confessioni” di “26 personaggi contemporanei” a cura di Luigi Vaccari. ↑
- La citazione di Balzac è tratta dalla biografia di Stefan Zweig, Balzac Il romanzo della sua vita, Castelvecchi, Roma 2013, pag. 45. Il caso neurologico raccontato da Oliver Sacks è in Musicofilia, Adelphi, Milano 2013, pag. 245. Per Soren Kierkegaard e la sua tesi (ovviamente misticheggiante), cfr. La ripetizione, Fratelli Bocca, Roma-Milano 1945.A proposito delle categorie di “vicino” e “lontano”, molti anni or sono, utilizzavo l’esempio della trattoria: si entra e si constata che ci sono parecchi avventori. Il padrone fa notare che è rimasto libero un tavolino da due attaccato ad altri due che stanno già pranzando, ma noi si storce il naso per l’imbarazzo – ci sentiamo intrusivi nell’intimità altrui e sentiamo gli altri come intrusi nella nostra. Niente paura: il padrone sistema tutto, sposta di un paio di centimetri il tavolo libero da quello occupato e crea uno iato tutto mentale – perché un centimetro in più o in meno di distanza poco importa sul piano strettamente fisico – che è sufficiente a farci sentire meglio. Soprassiedo qui alla distinzione effettuata da Ceccato tra categorie “pure” e categorie “applicate” – per la presente argomentazione non mi sembra indispensabile. ↑
- Cfr. S. Ceccato, Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff, Hermann & C., Paris 1951, pag. 100; Ideologia liberale, in Posizione ideologica dei movimenti cattolico – liberale – marxista nella realtà politica italiana, Atti del Convegno, Milano giugno 1964 e Mille tipi di bello, a cura di G. Lopez, Nuovi Equilibri, Viterbo 1995, in particolare pag. 50. ↑
- Il saggio di Ernst von Glasersfeld, Prima si deve essere in due – Pensieri razionali sull’amore è pubblicato in A. A. Bogdanov, Quattro dialoghi su scienza e filosofia, Odradek, Roma 2004, pagg. 51-61. Per Ovidio, cfr. Ars amatoria, cfr. I, 44; I, 233; I, 215-216; I, 223; I, 329-330; I, 338-339; III, 1192-1201. (Rizzoli, Milano 1958). Per Ceccato e l’amore, cfr. Contentezza e intelligenza, pag. 145-148 e pag. 158. Ho fatto l’esempio della parte impreziosita ne La funzione ideologica delle teorie della conoscenza, Spirali, Milano 2002, pag. 139. L’articolo di riferimento è stato pubblicato in Il Fiorino, 16 aprile 1978. ↑
- Cfr. S. Ceccato, Lettere al Corriere, in “Corriere della Sera”, 17 ottobre 1984 e Contentezza & intelligenza, Rizzoli, Milano 1989, pag. 202. ↑
- La recensione di Ceccato a L’existence de Dieu di Michele Federico Sciacca (Aubier, Paris 1951) è apparsa in Methodos, III, 11, 1951. Per la funzione dei frammenti di un discorso amoroso di Roland Barche, cfr. J. Eugenides, La trama del matrimonio, Mondadori, Milano 2013, pag. 103. ↑
- Per l’analisi del valore e di alcuni valori portanti dell’assetto sociale, cfr. S. Ceccato, La mente vista da un cibernetico, Eri, Torino 1972, pagg. 83-87 e Ingegneria della felicità, Rizzoli, Milano 1985, pag. 65. ↑
- Cfr. S. Ceccato, Sulla metafora, in Methodologia, 5, 1989 e Mastermann M., La natura di un paradigma, in AAVV, Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976, pagg. 129-161. Per la trasgressione dell’impegno semantico in Marco Minucio Felice, cfr. Ottavio, Rizzoli, Milano 1957, pag. 43. ↑
- Cfr. J. Hacking, La riscoperta dell’anima, Feltrinelli, Milano 1996, in particolare pagg. 15-33. ↑
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