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Silvio Ceccato, dal linguaggio al pensiero e ritorno

Nasceva un secolo fa il nuovo Prometeo[1]

Silvio Ceccato, from language to thinking and return

One century ago the new Prometheus was born

di

Pier Luigi Amietta

Scuola Operativa Italiana

Abstract

È appena trascorso, il 25 gennaio 2014, il centenario della nascita di Silvio Ceccato, il geniale creatore dell’Adamo Secondo, il padre della Terza Cibernetica, senza che l”’intellighenzia” abbia dato segno di essersene accorta. È una vergogna. Questo contributo, ospitato con gli altri in una rivista di Costruttivismo (Ceccato era operazionista), vuol avere il significato di una piccola rivalsa per colui che Walter Fornasa ha definito “il più grande rimosso della cultura italiana”. Nel contributo si mettono in luce sia i fondamentali del pensiero di questo speleologo della mente, sia le ragioni per le quali Ceccato è sì un Titano caduto, ma è anche colui la cui limpida ricerca ha liberato il pensiero dalle nebbie della metafisica e ha aperto la strada a una nuova andragogia.

The centennial anniversary of the birth of Silvio Ceccato has just occurred, on January 25th, 2014, recalling the genius of the creator of “Adam II”, and father of the Third Cybernetics, without any acknowledgment by the intellectual establishment. It is shameful. This contribution, included among the others in a Constructivist journal (Ceccato was an operationist), is meant to be a small revenge for someone who Walter Fornasa has defined “the greatest removed of italian culture”. This contribution is highlighting both the fundamental elements of the vision of this mind spelaeologist and the reasons explaining why Ceccato is a fallen Titan, but also someone whose bright research freed human thinking from metaphysical fogs and has opened the way to a new andragogy.

Keywords:
Linguaggio, mente, comunicare, significato, libertà | language, mind, communication, meaning, freedom
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1. Dare significato: una scoperta o una decisione?

In un libro recente, scritto insieme ad alcuni specialisti di scienze cognitive e filosofi del linguaggio (Amietta et al., 2012), il mio contributo s’intitola “Dare significato” ed è tanto importante nelle implicazioni e nelle conseguenze quanto semplice e leggero, quasi banale nella sua enunciazione, che è la seguente: i significati si attribuiscono, non si trovano già fatti. Non sto enunciando alcuna verità rivelata, ma solo un punto di vista, un modo di guardare al problema del comunicare; e in particolare del “comunicare per apprendere” (è anche il titolo di un altro mio libro, mi scuso per l’autocitazione) (Amietta, 2001). È tuttavia un punto di vista maturato – lo dico sommessamente – in cinquant’anni di riflessioni sul tema.

Vorrei precisare che il punto di vista dal quale guardo il problema è il punto di vista operazionale[2]. Il quale si può sintetizzare così: tutto ciò che ci è mentalmente presente non si riferisce a una “realtà” che ci si imporrebbe dall’esterno già cosiffatta e a noi non resterebbe che riflettere passivamente, come se la nostra mente fosse un semplice specchio, ma si riferisce a una nostra attività, a un nostro operare. Ossia, si riferisce a nostre – ed esclusivamente nostre – operazioni: che non sono operazioni bancarie, non sono operazioni chirurgiche, non sono operazioni matematiche ma sono operazioni mentali. Di più: questo approccio implica che quando facciamo un’operazione bancaria, un’operazione chirurgica, un’operazione matematica, facciamo contestualmente e necessariamente centinaia di operazioni mentali. Che è come dire le cellule staminali di qualsiasi apprendimento.

L’importante è capire che qualsiasi cosa ci sia presente, in qualsiasi momento noi siamo presenti a noi stessi, in quel preciso momento si è messo in moto un nostro operare mentale: siamo noi che stiamo facendo qualcosa. Non solo quando riconosciamo un oggetto, ma soprattutto quando il nostro “dare significato” equivale a porre un segno, positivo o negativo, su ciò che osserviamo; e soprattutto, ancora, quando ciò cui applichiamo quel segno non è di tipo osservativo ma è di tipo categoriale: quando, in termini più semplici, diamo un giudizio di valore, positivo o negativo, quei giudizi positivi o negativi sono il risultato di nostre operazioni, sono nostre attribuzioni di significato e non scoperte di qualità o caratteristiche di qualcosa che sussisterebbe in essa cosa già così fatta, con quel segno incorporato.

 

2. Un’implicazione e un antidoto

Qual è la prima e più importante implicazione di questa consapevolezza? É che, di qualsiasi cosa si tratti, io posso fare quelle operazioni, farne altre o non farne nessuna, il che vuol dire conquistare subito due gradi di libertà in più, rispetto al credere che quel giudizio, soprattutto se è un giudizio di valore, appartenga alle cose nominate come una caratteristica loro propria, alla stessa stregua dei giudizi che diamo alle cose fisiche, alle cose di tipo osservativo. Così, se quel giudizio riguarda, per esempio, le persone, allora ci diventa subito chiaro che le persone sono amabili perché sono amate e odiose perché sono odiate. E non viceversa. Ciò costituisce, anzitutto, la premessa e il più efficace catalizzatore di ogni buona comunicazione: una comunicazione, intendo, che non mette un pensiero contro un altro, ma comunichi realmente, nel senso proprio del termine di ”mettere in comune” due pensieri, secondo la vecchia sentenza che se ci si scambia una moneta si resta ciascuno con una moneta, ma se ci si scambia un pensiero, ci restano due pensieri. Certo, può essere – e capita spesso – che due comunicanti non facciano le stesse operazioni, non siano congeniali su uno o più punti del loro discorrere; che insomma, in termini semplici, la pensino diversamente. Niente di male: vorrà dire che saranno congeniali su altro, e su quello potranno sempre trovare un accordo.

Accettare questo punto di vista non solo vuol dire possedere due gradi di libertà in più, ma soprattutto possedere un importante antidoto contro i due peggiori nemici del pensiero: il dogmatismo e lo scetticismo: il dogmatismo, che vede e ci presenta sempre una sola alternativa come necessaria e inoppugnabile, una “verità” come universale e necessaria, è padre di tutti gli assolutismi, integralismi e fanatismi, in campo politico e religioso ma anche scientifico e artistico. Lo scetticismo, che non vede alcuna alternativa, è padre del cinismo, del fatalismo e della disperazione. Questa consapevolezza è un

antidoto formidabile, non solo perché favorisce la buona comunicazione ma perché apre la strada alla speranza. Infatti, se in qualsiasi comunicazione abbiamo la consapevolezza di operare in modo diverso, di vedere le cose in altro modo (che è in ogni caso consapevolezza di libertà mentale) riusciremo sempre a dare – non “trovare”! – un significato diverso, a prospettarci una diversa alternativa, così che la comunicazione non si rompa, ma proceda su altri percorsi. Dare un significato, ossia un “segno” di valore diverso a ciò che stiamo facendo, conta anche per ciascuno di noi, a livello strettamente individuale, perché ci consente di assumere un atteggiamento diverso nel momento in cui l’atteggiamento attuale non ci soddisfa. Lo si può verificare sperimentalmente: se sono un consulente e come tale ho da vendere soltanto tempo, è del tutto normale che valuti il mio tempo in atteggiamento economico. Ma, essendo un consulente milanese che ha lavorato una giornata a Lecce e avendo perduto il solo treno o l’aereo che mi doveva riportare a Milano in serata (e di conseguenza avendo perduto la giornata di lavoro seguente), se considerassi l’evento esclusivamente in chiave economica, passerei una serata e una notte di pessimo umore. Ma se, avendo treni solo nel pomeriggio, dedicassi la mattina successiva, in atteggiamento turistico ed estetico, ad ammirare il barocco leccese, che è tra i più belli del mondo, sarei riuscito ad aumentarmi sensibilmente la qualità della vita, avendo scambiato la perdita di un giorno di lavoro con il guadagno di un giorno di piacevolezza. Sarei riuscito, intendo, a essere una persona a più dimensioni e non a una sola dimensione (qualunque essa sia), che è sicura caparra d’infelicità.

 

3. Dal linguaggio al pensiero e ritorno

Ecco allora che se pensare è un’attività e non una passività; se si tratta, insomma, di operazioni nostre, la cosa più importante dopo questa consapevolezza diventa capire in che cosa consistono queste operazioni: come minimo individuarle e come massimo analizzarle e descriverle. Compito tanto più entusiasmante, posso testimoniarlo in prima persona, quanto più si svolge su un terreno finora pressoché inesplorato e che riguarda ogni aspetto, ogni linguaggio del comunicare umano e aiuta a capire la cosa più importante: che quanto credevamo accadesse nel mondo accade nella nostra testa; a capire qual è il diverso pensiero che sta realmente dietro le parole e perché, invece, certe parole sono davvero l’evidente veste pubblica del pensiero reale. La ricerca, dunque, non può che partire dal linguaggio, anzi dai linguaggi, per arrivare al pensiero.

Dico “linguaggi”, per intendere che la ricerca non riguarda solo la lingua, ma dalla lingua certamente prende le mosse più significative. L’aspetto più intrigante della metodologia operativa è che spesso funziona quindi in due direzioni, di cui la seconda può validare i risultati della prima.

 

4. Capire ciò che si dice, come lo si dice e anche come lo si tace

Da un termine qualsiasi, da una qualsiasi parte del discorso che costituisce il mattone semplice di quell’immensa costruzione che è la lingua, si possono ricavare sperimentalmente le operazioni mentali che la compongono. La ricerca non porta mai a statuizioni di tipo apodittico, ma quanto meno – grazie agli innumerevoli esempi che per fortuna la lingua fornisce e che è sempre possibile fare per verificare o falsificare i primi risultati – ha sempre valore fortemente probabilistico.

È il caso delle particelle (preposizioni, congiunzioni, prefissi, infissi, suffissi): quelle che dagli antichi linguisti – ma anche da qualcuno dei modernissimi – erano considerate di per sé come semplici flatus vocis, suoni senza significato se non in un dato contesto linguistico. La linguistica operativa mostra sperimentalmente che ciascuna di esse corrisponde a determinate operazioni, sempre le stesse, in qualunque contesto linguistico si trovino. Si prenda il caso di un con e di un e, che le grammatiche tradizionalmente etichettano come “preposizione” e rispettivamente “congiunzione”: riprendendo un classico esempio ceccatiano, è facile ricavare che la prima corrisponde in operazioni a due “oggetti” visti prima uniti e separati poi (es. “bottiglia con tappo”), la seconda agli stessi oggetti visti dapprima separati ma uniti poi (“bottiglia e tappo”). Ciascun operare mentale corrispondente alle due particelle rimane sempre lo stesso, a prescindere da “quali” oggetti si tratti: nel caso del “con”, potrebbe essere “fissare con la colla”, “cantare con Caruso” o “alzarsi con l’alba”, al mutare degli “oggetti” non muta l’operare mentale corrispondente al “con”. Si tratterà sempre di due “oggetti” visti mentalmente prima uniti e poi distinti. Lo stesso nel caso di “e”: si tratterà sempre di due “oggetti” visti prima distinti e uniti poi. Le grammatiche, ovviamente, propongono sempre esempi che vadano d’accordo con la regola, quindi esemplificano la “e” congiunzione con esempi come “mele e pere”: ma si pensi la “e” in una frase come “attenti a fidarsi: ci sono uomini e uomini”, nella quale all’ipotetica congiunzione grammaticale si contrappone una violenta separazione mentale. Eccetera.

Viceversa, c’è qualche ragione per supporre che in molte lingue, al momento di coniare un termine, ci sia stata una sorta di “sensibilità operativa” ante litteram, che ha guidato l’antico linguista. Ciò è chiaro fino all’evidenza nelle parole onomatopeiche, ma è meno trasparente in altri termini ed è curioso, per esempio, nella parola “oggetto”. Questa, sia esplorata nella sua etimologia latina (ob-jectus), sia ricercata in altre lingue come il tedesco (Gegen-stand), ripropone invariabilmente, quasi descrivendolo, l’operare mentale costitutivo della parola, che è effettivamente un “gettare contro”. Senza entrare qui nella specifica metodologia operazionale – ossia nel meccanismo tecnico che si basa sulla combinatoria di stati attenzionali – l’analisi operativa ha individuato per la parola “oggetto” uno stato d’attenzione sospesa, seguito dalla categoria di “cosa”: proprio come un “qualcosa” che ci venga contro. In realtà, sarebbe più corretto dire qualcosa contro la quale l’attenzione si proietta: dico “più corretto” perché occorre subito precisare, che anche quella embrionale sensibilità operativa non è sfuggita al fatale errore fisicalista. Quel “gettare contro”, infatti, sembra alludere a un qualcosa che dall’esterno finisca in un nostro interno, non diversamente da un bruscolo che portato dal vento ci finisca in un occhio. Ma nel caso della nostra percezione e della relativa costituzione mentale dell’“oggetto”, quale “vento” ce lo porterebbe nella testa? Tragitto misterioso, destinato a restare del tutto magico. Infatti, quell’“esterno” e quell’“interno” non sono di tipo fisico, bensì di natura categoriale per cui, usati in simili contesti si riducono a metafore, del tutto irriducibili a significato proprio e positivo; ma su questo problema, assolutamente cruciale, dovrò tornare.

 

5. Si opera mentalmente in ogni forma espressiva del comunicare umano

La ricerca può riguardare nomi, aggettivi, verbi, particelle (come preposizioni, prefissi, infissi, suffissi); insomma tutto ciò che si dice. Ma anche come lo si dice: si pensi alle inflessioni, alle intonazioni; si pensi alla “punteggiatura”, che è il modo di evidenziare con la voce l’uno o l’altro termine all’interno di una frase, che ne può cambiare anche radicalmente il significato (da non confondersi, con l’interpunzione, che riguarda solo la scrittura); si pensi ai silenzi, ossia al significato mentale dei diversi tipi di pause.

Particolarmente importante è l’operare mentale nei meccanismi di attribuzione delle cause, ossia il modo come diamo spiegazione ad un qualsiasi evento; il quale, secondo il modo di operare di chi spiega, può essere dato come oggettivamente determinato, o probabile, o fatale, mentre è soltanto visto come tale: inutile aggiungere quanto ciò sia rilevante per le sue implicazioni e conseguenze sulla vita di relazione.

L’abituarsi, a risalire dal linguaggio al pensiero; l’allenarsi anche solo a cercare di individuare le operazioni che hanno generato l’una o l’altra delle espressioni pubbliche del comunicare può essere per chiunque e di per sé un esercizio affascinante.

La “SOI – Scuola Operativa Italiana”[3], oltre ai numerosi risultati sperimentali raggiunti nell’individuazione, analisi e descrizione delle operazioni mentali, ha proseguito queste ricerche in vari filoni, di cui cito quelli di cui ho più diretta conoscenza, senza pregiudizio per studiosi come Felice Accame, Mauro Mistroni, Carlo Oliva, Renzo Beltrame e molti altri:

  1. un primo filone, condotto da un gruppo di ricerca finanziato dalla Nato e guidato dallo stesso Silvio Ceccato, del quale facevano parte, tra gli altri, personaggi del calibro di Vittorio Somenzi e di Ernst von Glasersfeld. L’obiettivo era di produrre un traduttore automatico con uscita in quattro lingue. I primi risultati sembravano promettenti, ma i tempi lunghi di quella ricerca (come di tutte le ricerche scientifiche miranti a risultati realmente innovativi) furono ritenuti eccessivi dal Committente, che aveva scopi più pragmatico-strumentali che scientifici, per cui i finanziamenti cessarono e la ricerca si esaurì al punto in cui era giunta;
  2. uno successivo, generoso e utopistico, intrapreso dal siciliano filosofo della scienza Giuseppe Vaccarino, che si proponeva di giungere a una vera e propria grammatica del pensiero e dar vita, attraverso l’analisi minuziosa delle operazioni mentali, addirittura a formule algoritmiche tali da costituire una autentica “chimica della mente” (Vaccarino, 1977). La ricerca si inaridì, sia per la sostanziale intrasmissibilità delle formule, risultate troppo criptiche, sia per l’insanabile dissidio tra il carattere probabilistico delle operazioni mentali, sempre sostenuto da Ceccato e la pretesa di farne un corpus immutabile, di natura algebrica. Dissidio che, negli ultimi anni, era divenuto tale anche tra Vaccarino e Ceccato il quale, ben consapevole, della potenziale variabilità interpretativa delle formule in cui le singole operazioni mentali erano espresse, aveva da tempo abbandonato il suo primitivo sogno prometeico di costruire un artefatto meccanico che riproducesse le attività superiori dell’uomo. E l’aveva accantonato per queste ma soprattutto per le ragioni di cui dirò più avanti;
  3. uno di analisi operativa della musica, condotto dal musicista Gastone Zotto, che fu a lungo direttore del Conservatorio di Vicenza, del quale ci rimangono interessanti pubblicazioni specifiche, mirate a questo ambito di ricerca (Ceccato et al., 1980; Zotto & Baghin, 1981; Zotto, 1983);
  4. uno di natura estetica, molto fecondo, aperto dal pittore e ricercatore logonico riminese, Pino Parini, fondato sulle evidenze percettive delle operazioni mentali applicate alle opere d’arte. Di queste ricerche, condotte da Parini inizialmente con Maurizio Calvesi e poi autonomamente, anche sul terreno didattico, ci rimangono ammirevoli pubblicazioni (Parini & Calvesi, 1974);
  5. un altro, cui si è dedicato particolarmente lo scrivente, riguarda la teoria degli atteggiamenti. Da questa ricerca, già felicemente avviata da Ceccato fin dai primi anni Settanta (Ceccato, 1972c), sono nate varie pubblicazioni (Amietta, 1990; Amietta & Magnani, 1998) e altre sono in preparazione.

 

6. Le ragioni di una rinuncia e il filone più fecondo: una felice deriva didattica

Già a cura del Ceccato “antifilosofo” e nemico dell’errore “teoretico-conoscitivo” (Ceccato, 1949; Vaccarino, 1974) gli studi di linguistica operativa avevano imboccato un altro sentiero, forse il più fecondo, quando si erano rivolti alla sperimentazione didattica nelle scuole elementari, diretta ad allievi del secondo ciclo (quarta e quinta elementare). Ceccato aveva intuito lucidamente la capacità di menti “vergini”, sgombre da pregiudizi filosofici, di cogliere direttamente le effettive operazioni mentali sottese sia alle parti del discorso sia a “concetti” correnti – ossificati in stereotipi cognitivi, etici e sociali, vere e proprie “ernie del pensiero”, per usare un’espressione cara a Ceccato – riguardanti categorie solo apparentemente fuori dalla portata di bimbi di nove o dieci anni, come potere e comando, scienza, tecnica e magia, ma anche l’infinito, l’universo e molte altre. In realtà, i risultati didattici superarono ogni aspettativa e la sensibilità operativa dei bambini sorprendeva ogni volta lo stesso Maestro Inverosimile (Ceccato, 1972b; Ceccato, 1980; Ceccato & Amietta, 2008).

Parlo di “deriva” didattica, sicuramente felice ma determinata dalla decisione di Ceccato, giunta già all’inizio degli anni Settanta, di rinunciare al progetto prometeico di costruire la macchina pensante, anche se non rinunciò mai, in seguito, e in tutta la sua vita, a studiare e a cercare di capire ciò che accade in un cervello umano che pensa.

Ma è opportuno dar conto di questo obiettivo mancato, il primo che Ceccato si era posto con pionieristica tenacia: riprodurre su una macchina il pensiero umano. Opportuno come lo è sempre conoscere di ogni grande impresa non solo l’esito ma, tanto più se il traguardo non si è raggiunto, perché non si è raggiunto e come è stata condotta la battaglia.

Sappiamo, ed è quasi un’ovvietà, che il primo ineliminabile presupposto per copiare qualsiasi cosa su un modello che sia fedele è conoscere esattamente l’originale. Ci è riuscita la prima Cibernetica (o robotica, o Cibernetica degli automi) che, potendo studiare a fondo in campo fisico le minute operazioni che fanno muovere una mano, un braccio o una gamba, ha potuto costruire arti artificiali di sorprendente perfezione; ci è riuscita anche la seconda Cibernetica (o bionica) che, studiando le nostre funzioni in campo bio-fisiologico ha potuto riprodurle su macchine che sostituiscono mirabilmente organi interni, a cominciare dal cuore. La terza Cibernetica (o logonica) si era posta inizialmente il compito di costruire la macchina pensante: non quella che la spocchia scientifica dei primi costruttori di computer aveva subito denominato “cervello artificiale”, ma un artefatto che riproducesse effettivamente le attività superiori dell’uomo, il suo pensiero, ossia il vero cervello artificiale. Il problema restava lo stesso delle prime due cibernetiche: studiare e capire l’originale per poterlo riprodurre fedelmente su un modello: la ricerca iniziale si era concentrata sullo studio del cervello e della mente posti nel rapporto organo-funzione.

Il fatto che la Terza Cibernetica non abbia raggiunto il suo primo obiettivo (la macchina pensante) non risale ad alcuna impossibilità di principio: impossibili sono soltanto i progetti contraddittori, quelli cioè che nascono su una contraddizione insanabile (come il cerchio quadrato o il moto perpetuo), ma l’uomo nella sua interezza, come ricordava sempre Ceccato, non è un progetto contraddittorio: è un progetto realizzato, e come tale dev’essere realizzabile. Il mancato raggiungimento dell’obiettivo di costruire una macchina che pensi proprio come noi riposa su almeno cinque ordini di motivi:

  1. l’ipotesi era stata formulata a partire dall’“errore filosofico”, una critica serrata alla tradizione filosofica, segnatamente sul terreno della gnoseologia e della teoria della percezione. Si trattava dell’intuizione che la funzione pensante fosse costituita dall’attivarsi di energia nervosa che si articolava in una combinatoria di stati d’attenzione (le famose “operazioni mentali”) e che tutto il pensiero fosse costituito da un aprire e chiudere correlazioni, dalla correlazione più semplice[4] fino a una rete correlazionale di complessità illimitata. Questa intuizione, sicuramente geniale, portò Ceccato fino alla costruzione, aiutato dall’ing. Enrico Maretti, di due prototipi di macchine “pensanti”, un Cronista meccanico e l’Adamo Secondo (quest’ultimo, forse anche per la suggestione del nome, gli dette un’incredibile se pur effimera notorietà anche tra i non addetti ai lavori): si trattava di macchine elementari, nelle quali le “operazioni mentali” erano simulate da collegamenti elettrici: una sommaria descrizione se ne trova in calce al volume “Corso di linguistica operativa”, già citato (Ceccato, 1972a). All’impresa si palesò presto il primo importate ostacolo: non si riusciva a collegare in modo preciso le operazioni al loro substrato anatomo-funzionale. In altri termini, non si riusciva a far corrispondere con certezza la singola operazione a un attivarsi di questo o quel distretto neuronale, né tanto meno a un singolo neurone. E Ceccato era ben consapevole di quanti “collegamenti” sarebbero stati necessari per simulare le potenziali connessioni sinaptiche tra le decine di miliardi di neuroni del nostro cervello! Sottolineo, in ogni caso, che i mezzi tecnologici di allora (siamo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta) erano distanti anni luce da quelli a disposizione dei ricercatori di oggi;
  2. oggi la ricerca neurofisiologica è riuscita a constatare con sufficiente certezza l’attivarsi di determinati gruppi di neuroni al compiersi di determinate funzioni cognitive (per esempio la memorizzazione o il calcolo computazionale) ma, come allora, non si è giunti a capire perché e come ciò avviene in quel distretto neuronale e non in altri. Ossia, se si dovessero riprodurre su una macchina le operazioni ipotizzate da Ceccato, l’attivazione neuronale, non sarebbe sufficientemente differenziata da poterla attribuire con certezza a quella e solo a quella operazione. Infatti, al crescere della complessità combinatoria, fu presto evidente che molte delle combinatorie attenzionali ipotizzate per una determinata operazione erano ragionevolmente ipotizzabili anche per altre operazioni. Di qui la convinzione che la ricerca operativa potesse portare a risultati solo probabilistici.
  3. Inoltre, a complicare il quadro, non è affatto chiaro, nemmeno oggi, in quali rapporti stiano le singole parti del cervello tra loro: non è chiaro, per esempio – non certo al punto da poterlo riprodurre su una macchina – il meccanismo per cui determinate parti dell’encefalo assumono funzione vicariante di altre danneggiate o distrutte e perché tale funzione viene assunta proprio da quelle parti;
  4. la difficoltà di costruire una macchina “intelligente”, dandole una mente pensante uguale alla nostra, è moltiplicata dalla difficoltà di darle un corpo come il nostro. Infatti le nostre funzioni cognitive sono attivate e integrate in larga misura anche dalle nostre cinque funzioni organolettiche, ossia le funzioni percettive sensoriali. Si prenda l’olfatto: qualsiasi cane sarebbe in grado di distinguere istantaneamente un osso di gomma da uno vero, e come tale sarebbe “più intelligente” della macchina;
  5. una macchina pensante, infine, dovrebbe essere anche una macchina intelligente nel senso etimologico del termine, in grado cioè di “intelligere”, di capire. Il problema è che noi capiamo per un terzo da ciò che si dice, per un terzo da ciò che si sa, e per un terzo da ciò che si tace. Di fatto, occorrerebbe poter immettere preventivamente nella macchina almeno il sapere di un ragazzo di circa dodici anni, in grado di capire non solo ciò che è grammaticalmente corretto, ma ciò che è noto da un sapere corrente, in un contesto dato. Noi intendiamo correttamente metafore come “intingere la penna nel curaro” solo da ciò che già sappiamo delle penne, dei giornalisti e dei veleni, o frasi come “mi si stringe il cuore” o “mi hanno ridotto in pezzi”, non certo dal loro significato letterale; cose che la macchina non capirebbe mai. A rendere estremamente ardua la costruzione di una macchina pensante, dunque, non è solo che, oltre alla mente, sarebbe necessario darle anche un corpo, ma che occorrerebbe darle anche una storia. Il che equivarrebbe a darle una memoria. Convince la definizione di memoria, proposta dalla Linguistica operativa, come “capacità di rifare le operazioni già fatte”: ma, al di là di una esauriente classificazione dei vari tipi di memoria, come avvenga questo “rifare” non si è mai potuto accertare; la memoria, che rimane a tutt’oggi uno dei problemi insoluti delle neuroscienze, ha dato origine a una colluvie di metafore irriducibili, che nulla dicono dei suoi meccanismi costitutivi (magazzino e registratore sono quelle più correnti). Il problema è stato ben evidenziato e lucidamente esposto da Dreyfus (1988);
  6. in ogni caso, laddove si riuscissero a superare tutte queste difficoltà, resterebbe il problema iniziale: per arrivare al pensiero, in attesa dell’avvento di una generazione di telepatici, non possiamo partire che dal linguaggio. Ricordavo il valore probabilistico delle operazioni mentali individuate. Ciò è dovuto a una triplice difficoltà: anzitutto, giungere dalla cosa nominata a una operazione che sia ad essa e solo ad essa riferibile con sicurezza e raggiungere la certezza che, per tutti i parlanti una lingua, alla stessa parola corrisponda la stessa operazione mentale. Spesso è solo la conoscenza della persona o tutto il contesto (linguistico o situazionale) che consentono di intuire, per esempio, se a un “voglio rimanere qui” o un “voglio restare qui” corrisponda realmente un operare diacronico (primo caso) o sincronico (secondo caso).

 

Poi, seconda difficoltà, il fatto che la lingua è colma di espressioni negative, tautologiche, irriducibilmente metaforiche (spesso usate ad arte dai manipolatori di professione).

Infine, terza e più grave difficoltà, il fatto che la lingua che abbiamo imparato con naturalezza, per imitazione, dai nostri genitori e poi dai nostri insegnanti e infine da tutta la rete relazionale pubblica e privata nella quale siamo involti è farcita di valori i cui criteri non sono denunciati e di parole che rimandano a categorie mentali usate inconsapevolmente come se fossero riferibili a fenomeni di tipo fisico-osservativo.

 

7. L’antidoto più importante

Ma a questo punto sorge spontanea una domanda. Che cosa è più importante: costruire una macchina che pensa (e ben difficilmente, anche riuscendoci, ne uscirebbe un altro Einstein) o diventare il più possibile consapevoli di tutta la nostra vita mentale? Personalmente non avrei dubbi sulla seconda alternativa, ed è la stessa opzione seguita da Ceccato nei secondi quarant’anni della sua vita.

Ho detto dei gradi libertà in più che questa consapevolezza ci concede e di come essa possa costituire un valido antidoto contro dogmatismo e scetticismo. Credo anche, sinceramente, che essa possa costituire un antidoto ulteriore, forse il più importante: quello contro la manipolazione. Ossia contro chi, attraverso le parole, vuole manovrarci.

Intuisco la possibile obiezione: che queste consapevolezze siano un’arma a doppio taglio, nel senso che possano sì costituire antidoti per difendersi dalla manipolazione, ma anche strumenti per attuarla.

Difficile negarlo, perché è stato detto “chi comanda alle parole, comanda agli uomini”. La mia convinzione è che manovrare le persone sia male, se non altro perché toglie gradi di libertà all’interlocutore; ma se sono il manovratore, credo indispensabile almeno sapere che cosa sto facendo.

Penso anche, forse un po’ utopisticamente, che quando tutti avessero gli strumenti per difendersi dalla manipolazione, nessuno avrebbe più alcun motivo di usarla come strumento offensivo. Ma se rischio c’è, vale in ogni caso la pena di correrlo, se tutto questo può servire a fare della nostra mente qualcosa che dominiamo e dalla quale non siamo dominati. Non c’è bisogno di sottolineare quanto sia importante un atteggiamento e una consapevolezza del genere per un insegnante o per un formatore: per chiunque, insomma dovrebbe sentire come dovere – professionalmente, prima ancora che eticamente – non di far passare su un altro i propri valori, ma di aiutare lui a realizzare i suoi.

Che è esattamente la differenza tra propaganda ed educazione.

E, dato che tutto ciò avviene quasi sempre in buona fede ma non è affatto casuale, credo che valga la pena di qualche riflessione specifica sulle lontane origini di questi problemi.

 

8. Come è potuto succedere? Le lunghe conseguenze di un errore iniziale

Perché è successo tutto questo? Perché ci siamo costruiti queste trappole mentali che poi hanno trovato le loro puntuali espressioni linguistiche? Per un errore vecchio di 2500 anni, consolidatosi nella Grecia dei presocratici e prima ancora: da quando i physiologoi, ossia i primi scienziati, i naturalisti osservatori dei fenomeni della natura (physis), hanno cominciato a riflettere sullo strumento stesso dell’osservazione, ossia, sulla percezione e sul pensiero; da quando, cioè, i physiologoi, sono diventati phylosophoi. Gli osservatori della natura mettevano correttamente in rapporto di causa-effetto i vari fenomeni osservati: il fuoco che scaldava l’acqua, il sole che faceva crescere le piante e tutto ciò che ai loro occhi appariva, appunto, come de rerum natura. Cominciando a riflettere sulla percezione, avevano mantenuto lo stesso metodo che usavano per osservare le cose fisiche, quelle di tipo osservativo e lo avevano applicato anche a tutto ciò che fisico non era, ma era di tipo categoriale. Hanno pensato che tra l’aver presente “qui” (negli occhi) quel cavallo che era ”là” ci fosse lo stesso tipo di rapporto che c’era tra il sole che era “là” e faceva maturare sulla pianta il frutto che era “qua”; si sono chiesti in che modo quel suono che era “là”, poteva essere anche “qua” (nelle orecchie), dando vita così a quel tipico “raddoppio del percepito” impossibile da spiegare se non in chiave magica.

Era una domanda giustificabile, forse inevitabile; un errore “intelligente” se si passa l’ossimoro, ma pur sempre un errore (Ceccato, 1972a; Vaccarino, 1974). E come tutte le domande intelligenti ma sbagliate non poteva avere alcuna risposta plausibile, come non potevano averla altre domande simili, che allargavano il problema dai cavalli e dai suoni all’intero universo, da cui le famose “domande fondamentali” che suonavano: “Che senso ha la vita?”, ”Che cosa siamo chiamati a fare nel mondo?”, “Qual è il destino dell’uomo?” eccetera. Ovviamente la risposta era sempre insoddisfacente ed era giustificata con la solenne affermazione di una “philosophia perennis”, tanto profonda che mai se ne potrebbe vedere il fondo. In realtà sono le acque torbide quelle di cui non si vede il fondo, quelle davvero profonde solitamente sono limpide. Fuori metafora, è curioso che non trovando risposte sensate a queste domande non sia mai venuto il dubbio che a non essere sensate fossero le domande e non si sia mai tentato di cambiarle, chiedendosi per esempio, se quelle giuste non fossero: “che senso do io alla vita?” o almeno “che senso voglio dare io alla mia vita?”. Poiché sembra evidente, almeno alla data odierna, che siamo i soli “datori di senso” dell’universo mondo, dovrebbe sembrarci anche una vera stranezza che le cose, materiali e immateriali, che abitano il nostro pensiero abbiano un senso di per sé, se non siamo noi ad averglielo dato.

Poi, si sa, gli errori non percepiti come tali e non corretti dall’inizio, tendono a crescere su se stessi, a perpetuarsi e, naturalmente, ad autogiustificarsi: tutta la storia della filosofia può essere letta come il tentativo, talvolta risibile, talaltra eroico di dare una risposta accettabile a domande come queste. La prima e più grave conseguenza è che la lingua, sola veste pubblica del pensiero[5] si è costruita nel tempo sulla base di quell’errore: così si parla di parte e di tutto, di semplice e di complesso, di lungo e di corto, di presto e di tardi come se si trattasse di constatare qualcosa di fisico, di oggettivamente osservabile, come se si trattasse di datità. Così si parla di cause e di effetti non come un modo nostro di considerare non importa che cosa come causa o come effetto; non come un modo nostro – sempre legittimo per quanto soggettivo e opinabile – di fermare il giudizio a uno qualsiasi dei possibili innumerevoli anelli della catena causale, ma come se qualcosa potesse essere di per sé, per proprio carattere e qualità, causa o effetto.

Si capisce allora perché si possano trovare locuzioni come “causa senza effetto” o viceversa: proprio perché, inconsapevolmente, si ritengono perfettamente equivalenti – quasi appartenessero alla stessa classe concettuale – a frasi come “ombrello senza manico” o “cornice senza quadro”.

E queste non sono ubbie da cruscanti in ritardo: sono problemi quotidiani e vere e proprie trappole quotidiane, nelle quali cadono quotidianamente anche comunicatori di professione e persino legislatori e magistrati, dal cui linguaggio può dipendere la qualità della vita o addirittura la libertà degli altri.

E proprio sui quotidiani, organi di stampa che raramente sono letti con attenzione critica alle trappole del linguaggio, si può trovare che “esistono cause senza effetti”.

Il problema non sono queste frasi in sé: è la mancata consapevolezza del meccanismo mentale sotteso. Concepire, infatti, un “effetto senza causa” è sempre possibile, a patto di rendersi conto che si è passati dall’atteggiamento scientifico (che una volta considerato qualcosa come effetto, per definizione presuppone sempre una causa, comunque e quandunque individuabile) all’atteggiamento magico. Quest’ultimo, per definizione, dato un effetto nega la possibile esistenza di una qualsiasi causa movente: dopo la formula “Sesamo, apriti!” (Galland, 1966, p.624), non c’è, perché non si vuole che ci sia, alcuna causa, alcuna spiegazione all’aprirsi della rupe. Nel momento stesso in cui ci proponessimo di spiegare il fenomeno, chiedendoci perché e come la roccia si fosse aperta, avremmo per ciò stesso abbandonato l’atteggiamento magico per assumere quello scientifico; oggi, probabilmente, parleremmo di “apertura elettronica a comando vocale” o qualcosa di simile. Ma ciò che conta è la consapevolezza (sia che si consideri una causa o la si neghi) che si tratta sempre e in ogni caso di una presenza o di un’assenza di natura esclusivamente mentale.

Ceccato può essere visto come si vuole: uno scienziato del pensiero, un geniale utopista, un Ulisse della mente, un Prometeo moderno; considerando la portata degli obiettivi che si era posto, lo si potrebbe paragonare a un Titano che, al pari degli altri giganti della mitologia, alla fine è caduto ma che, nel cadere, ha sbarbato le montagne.

Sicuramente, dopo gli scossoni di Kant, è stato il solo, nel secolo Ventesimo, ad assestare il colpo decisivo alle illusioni teoretico-conoscitive dei metafisici che, ovviamente, non glielo hanno mai perdonato, ripagandolo con la congiura del silenzio. Ma in ogni caso ha lasciato a tutti coloro che lo hanno capito (sicuramente lo ha lasciato a me) un dono inestimabile, il più grande che un uomo possa lasciare a un altro uomo: quello della libertà.

La libertà del pensiero, intendo. Ma ne esiste un’altra?

 

Bibliografia

Amietta, P. L., Fabbri, D., Munari, A., & Trupia, P. (2012). I destini cresciuti – quattro percorsi nell’apprendere adulto. Milano: F. Angeli.

Amietta, P. L., & Ceccato, S. (2008). La linea e la striscia – il testamento pedagogico del Maestro Inverosimile. Milano: F. Angeli.

Amietta, P. L. (2001). Comunicare per apprendere: dall’ impresa-organizzazione all’impresa-comunicazione. Milano: F. Angeli.

Amietta, P. L., & Magnani, S. (1998). Dal gesto al pensiero – il linguaggio del corpo alle frontiere della mente. Milano: F. Angeli.

Amietta, P. L. (1990). La creatività come necessità. Milano: Etas.

Ceccato, S. (1980). Il Punto (2 vol.). Milano: Ipsoa.

Ceccato, S., Zotto, G., & Porzionato, G. (1980). Dalla Cibernetica all’Arte musicale. Padova: Zanibon.

Ceccato, S. (1972a). Corso di linguistica operativa. Milano: Longanesi.

Ceccato, S. (1972b). Il Maestro inverosimile, sussidiario del Duemila per gli educatori d’oggi. Milano: Bompiani.

Ceccato, S. (1972c). La mente vista da un cibernetico. Torino: Quaderni ERI, Rai.

Ceccato, S. (1949). Il gioco del Teocono. Milano: Methodos.

Dreyfus, H. L. (1988). Che cosa non possono fare i computer – i limiti dell’intelligenza artificiale. Roma: Armando.

Galland, A. (a cura di). (1996). Storia di Alì Babà e dei quaranta ladri. In Gallard, A. (Ed.), Le mille e una notte, racconti arabi raccolti da Antoine Galland (vol.2; p.624). Milano: CDE, lic. De Agostini.

Parini, G., & Calvesi, M. (1974). L’immagine, corso di educazione artistica (2 vol.). Bologna: La Nuova Italia.

Vaccarino, G. (1977). La chimica della mente, Messina: D’Anna.

Vaccarino, G. (1974). L’errore dei filosofi, Firenze-Messina: D’Anna.

Zotto, G., & Baghin, M. (1981). Pensare in musica. Bologna: Edizioni Pàtron.

Zotto, G. (1983). Il suono intelligenteesperienze e proposte di psicodidattica musicale con traccia didattica; il suono dalla cronaca alla musica. Padova: Zanibon.

 

Note sull’autore

 

Pier Luigi Amietta

Scuola Operativa Italiana

amietta1@virgilio.it

Laureato in giurisprudenza, diplomato in R. P.- Programmazione, e in Marketing. Formatore Certificato per meriti e fama, di Aif – Associazione Italiana formatori, di cui è stato presidente nazionale. Ha insegnato comunicazione e organizzazione all’Università di Pisa. Ha collaborato a lungo con Silvio Ceccato e ha partecipato alle sperimentazioni di linguistica operativa presso la Scuola Elementare “E Muzio”, di Milano. Da questa esperienza è nato il testo, fondamentale esempio di didattica operativa: S. Ceccato – P.L. Amietta: La Linea e la Striscia – il testamento pedagogico del Maestro Inverosimile (F. Angeli, 2008). Da molti anni si dedica a ricerche sui rapporti tra pensiero e linguaggio, sviluppando in particolare la teoria degli atteggiamenti. Nelle aule manageriali e in tutti i suoi libri ha messo a frutto le sue esperienze di Linguistica Operativa, a partire da La creatività come necessità (Etas, 1990). Tra i più recenti, per F. Angeli: P. Amietta e S. Magnani: Dal gesto al pensiero – il linguaggio del corpo alle frontiere della mente (1998); Dare significato, in: P. L. Amietta., D. Fabbri, A. Munari, P. Trupia: I destini cresciuti – quattro percorsi nell’apprendere adulto (2011).

 

Note

  1. Fonte: Persone&Conoscenze, Este, Milano n.94, marzo 2014. Ringraziamo l’Editore “Este” per aver gentilmente autorizzato la pubblicazione sulla “Rivista Italiana di Costruttivismo”.
  2. L’approccio è noto come linguistica operativa e altrimenti definito come terza cibernetica o logonica. In Italia il suo massimo esponente è stato Silvio Ceccato (Montecchio Maggiore, 25 gennaio 1914 – Milano, 2 dicembre 1997).
  3. Uso questa espressione tra virgolette, unicamente per identificare quel particolare settore dell’operazionismo linguistico che ha avuto tra i suoi massimi esponenti Hugo Dingler e, in Italia, Silvio Ceccato, noto come Terza Cibernetica o Logonica (per analogia con la prima, robotica e la seconda, bionica). Ceccato, tuttavia, fedele al suo ideale di massima libertà mentale per chiunque, non si era mai voluto porre a capo di qualsiasi movimento di pensiero, o Scuola, compresa quella Operativa, così definita da quel gruppo di studiosi che, fruendo di tale libertà, della linguistica operativa hanno aperto vari e differenziati filoni di ricerca, con maggiore o minore successo.
  4. Per es., “cane e gatto” dove cane = 1° correlato, gatto = 2° correlato, e = correlatore esplicito; o anche “sotto – scala”, dove sotto = 1° correlato, scala = 2° correlato, e = correlatore implicito.
  5. Prescindo, qui, da tutto il cospicuo tema dei movimenti corporei, gestualità e mimica, ossia dal cosiddetto “non verbale”, cui ho dedicato un discorso a parte in: Amietta, P. L., & Magnani, S. (1998). Dal gesto al pensiero – il linguaggio del corpo alle frontiere della mente. Milano: F. Angeli (cit.).