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Freud oggi: considerazioni di indole metodologica

Freud today: methodological considerations

di

Silvio Ceccato

Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche, Università di Milano

Abstract

Nota introduttiva a cura della Redazione: Questo articolo, solo in parte dedicato al dibattito psicoanalitico, ben si presta ad introdurre un numero monografico su Silvio Ceccato. Nel testo, infatti, egli presenta di suo pugno, con un linguaggio puntuale ed accessibile, i capisaldi della terza cibernetica e il suo oggetto, l’attività mentale, illuminando la comprensione degli articoli successivi.

Editor’s introductory note: This article, only in part dedicated to psychoanalytic debate, is well suitable for introducing a monographic number about Silvio Ceccato. Indeed, in the text he presents the cornerstones of third cybernetic and its object, the mental activity; using a precise and accessible language – in his own writing –  he enlightens the understanding of following articles.

Keywords:
Metodologia psicoanalitica, conoscitivismo, dualismo mente-corpo, analisi operativa, attenzione | psychoanalytic method, conoscitivism, mind-body dualism, operative analysis, attention
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Il normale recuperato alla medicina

In un “Freud oggi” le considerazioni metodologiche che può permettersi una persona come me, che non è psichiatra e nemmeno medico generico, né può avvalersi di anni di teoria e pratica psicoanalitica, non concernono certo l’apporto di Freud quale terapeuta, cioè i metodi con cui egli si è rivolto ai malati di mente, né i risultati ottenuti con questi, bensì soltanto la via che egli ha seguito per dar forma alla sua disciplina, cioè come egli stesso si esprime, “i principi fondamentali della psicoanalisi”.

Tutt’al più, a cappello di questo esame metodologico, ricorderò il suo innegabile merito di aver recuperato alla medicina un gran numero di osservazioni quotidiane rimaste sino ad allora marginali, rapsodiche, magari svilite nelle interpretazioni salottiere, anzi in certi ambienti oggetto di riso (come i sogni, i lapsus, le maldestrità, ecc.), od oggetto di riprovazione morale (come le curiosità e le pratiche sessuali dei bambini). Tanto più che questo recupero non era certo facile. Si tratta infatti di eventi che sono appunto quotidiani, vale a dire che capitano più o meno a tutti, attraverso i quali siamo passati tutti; ma senza ripercussioni, se non eccezionalmente, sulla vita mentale, psichica e fisica dei singoli, cioè senza alterarne in modo sensibile lo schema avvalso per la sua normalità. Per esempio, quanti hanno rinunciato, una volta o l’altra, alla soddisfazione di desideri sessuali? Quanti hanno avuto esperienze emotive spiacevoli e quanti, consapevoli od inconsapevoli, hanno cercato di dimenticarsene, di buttarsele, come si dice, dietro alle spalle? E tuttavia, non per questo sono diventati isterici.

In questa situazione lo scienziato, come si sa, cercherà la spiegazione di ciò che esce dallo schema della normalità, cioè la malattia, in qualcosa che sia a sua volta eccezionale; mentre ciò che appartiene alla stragrande maggioranza degli uomini viene lasciato ad altri atteggiamenti, come quello ludico, comico, etico, giuridico, ecc.

Né Freud poteva scavalcare l’ostacolo dell’avvertita gratuità esplicativa e predittiva rifacendosi con una tecnica a colpo sicuro nel momento della pratica. Con il trattamento psicoanalitico qualcuno guarisce e qualcuno no; come d’altra parte è sempre avvenuto con i trattamenti più disparati.

Nell’occuparsi della via che Freud ha percorso nel dar forma alla psicoanalisi, credo che il primo passo da compiere sia di presentare un quadro della mente fra i più aggiornati e controllati, cioè quello che da una decina d’anni comincia a delinearsi ad opera della cibernetica della mente.

Questa cibernetica, infatti, può avanzare i suoi progetti di realizzazione di un modello della mente, di macchine sia percettive che linguistiche, solo a condizione di disporre di una descrizione della vita mentale in termini esclusivamente di operazioni e per di più senza mai dover ricorrere ad espressioni che siano irriducibilmente metaforiche o negative. Basta un po’ di familiarità con gli studi sulla mente, e non solo del filosofo, per sapere che sinora queste condizioni non erano mai state soddisfatte.

Inoltre, le operazioni mentali devono venire individuate ed analizzate in modo minutissimo, affinché sia possibile farle eseguire da organi costruibili con la tecnica attuale, cioè per esempio da organi elettrici che cambino di stato. Il ricorso ad un materiale che, essendo tale, “pensi lui ad operare nel modo giusto”, purtroppo non è possibile, sia perché, per individuare quale sia il pezzo anatomico che svolge in noi quelle certe funzioni, dobbiamo prima possedere una descrizione di queste funzioni, sia perché anche disponendone ben difficilmente riusciremmo ad apprestarci con la tecnica attuale il materiale desiderato, dovendo cosi ricorrere ad un materiale differente.

Quanto al controllo dei risultati di queste analisi della vita mentale, se ne comprende subito la portata.

Anzitutto, se la descrizione contenesse espressioni irriducibilmente metaforiche o negative, essa non servirebbe da criterio costruttivo per le cose di cui si parla, come del resto non è mai servita per il riconoscimento.

Inoltre, se la descrizione conclude lo studio di qualcosa che già esiste ed opera di per sé, di qualcosa cioè di naturale, anche se la descrizione fosse incompleta o addirittura sbagliata, questo continuerebbe ad operare egualmente bene. Ma se partendo da essa devo invece costruire qualcosa, si incaricherà l’artefatto, con il suo funzionamento differente da quello desiderato, di dimostrarne l’inadoperabilità. Si pensi ad una teoria aerodinamica errata, quando sia applicata al volo di un uccello, che continuerà a volare imperturbato, e quando sia applicata nella costruzione di un aeromobile, che non si alzerà o cadrà.

D’altra parte, se una descrizione della mente in termini di operazioni sinora era sempre mancata, questo non è dipeso soltanto da una tecnica analitica semplicemente troppo rozza per fornire i risultati della finezza desiderata; bensì, come si vedrà, da un errore, del resto del tutto plausibile, compiuto ai primissimi inizi dell’indagine sul mentale. In breve, il mentale fu scambiato per qualcosa di fisico, da trovarsi per negazione di questo: e l’errore fu poi sempre mantenuto dal filosofo, diventò un errore sistematico delle analisi del mentale e pesò deviante non solo sulla filosofia, ma su ogni disciplina che, avendo per oggetto principale o secondario la mente vi si ispirasse.

 

L’errore filosofico

Per rispondere ai nostri bisogni pratici quotidiani, ed anche nella ricerca scientifica e tecnica di tipo naturalistico fisico, noi procediamo osservando quali rapporti sussistano fra le cose che ci interessano, percepite e localizzate spazialmente, o fra i momenti di una di queste cose. Per esempio dobbiamo sapere che l’acqua spegne il fuoco e disseta, che il fuoco scalda l’acqua e brucia, che l’acqua d’inverno ghiaccia, che il mare contiene il sale, e simili. Nello svolgimento di questa attività, nel soddisfacimento questi bisogni ed interessi, l’uomo compie dunque diverse operazioni oltre al percepire, quali il localizzare spazialmente, il considerare i risultati come più cose o come una stessa cosa, come momenti di uno svolgimento o come qualcosa di isolato (rispettivamente, per esempio, uno scaldare o raffreddare, ed un freddo e caldo). Ma queste attività non diventano oggetto dell’indagine, bensì ne rimangono lo strumento, il mezzo, e così potrebbero anche svolgersi del tutto inconsapevoli, lasciando credere che i loro risultati sussistano già in sé e per sé, senza alcun nostro intervento.

Né diventa oggetto dell’indagine proprio la percezione, in quanto la ricerca sulle cose fisiche comincia attraverso la percezione, cioè quando essa ha già svolto la sua funzione, anzi è stata adoperata almeno due volte.

Così, per esempio chi si occupa di suoni e di corde e di vibrazioni, per esaminarne i rapporti parte dal suono, che ha già udito, dalla corda, che ha già visto, anzi visto in almeno due posizioni, per poterla considerare vibrante, ecc.; ma se tale è il suo interesse, non ha motivo di chiedersi come egli oda il suono o veda la corda.

È così da attendersi che quando la curiosità si estenda dai rapporti fra le cose fisiche, e quindi dai percepiti localizzati spazialmente, alla percezione stessa, l’abitudine e la capacità acquisite in quella millenaria ricerca e tuttora quotidianamente esercitate suggeriscano di considerare alla stessa stregua anche i singoli percepiti, per esempio la corda quale oggetto di percezione come se si trattasse della corda per i suoi rapporti con il suono o con i suoi supporti.

In rapporto spaziale con che cosa si dovrà allora trovare questa cosa assunta di per sé localizzata spazialmente. Poiché in effetti, quale singolo percepito non si trova in rapporto spaziale con nient’altro, altrimenti le percezioni e le localizzazioni sarebbe almeno due, essa viene messa in rapporto con qualcos’altro che non si vede, ma che si troverebbe dentro il corpo del percipiente.

Altri motivi, del resto, favoriscono questa svista.

Una buona parte dei verbi transitivi indicano attività di modificazione del loro oggetto, che deve quindi preesistere all’esercizio dell’attività, sicché, per esempio, “percepisco il tavolo” diventa eguale a “coloro il tavolo”.

Le attività di tipo percettivo sono funzioni di organi il cui funzionamento non si vede, sia pure per difficoltà tecniche contingenti; sono iniziate e familiarizzate nella primissima infanzia, e quindi senza alcuna possibile consapevolezza; non sono avvertite attraverso fatica e sforzi sensibili, sono svolte rapidamente, sicché potrebbero apparire istantanee, annullandosi così come attività.

Porta fuori strada anche la coincidenza spaziale e temporale di molti percepiti ottici e tattili, in quanto certe differenze di colore, di opacità, trasparenza, ecc., si accompagnano con certe differenze tattili, di essere duro o molle, ecc. Ne consegue infatti che dopo le prime esperienze, un oggetto ad una certa distanza, per il più comune fenomeno della memoria, ce lo si rappresenta anche tattilmente, cioè come se lo si toccasse; così quando poi avvicinandoglisi lo si tocca, e lo si trova come è stato da noi rappresentato, cioè tattile, con quella durezza, quella forma, in quel posto, ecc., siamo portati a concludere che esso si trovasse là e siffatto, cioè tattile, prima di essere toccato.

Infine, nella stessa errata direzione spingono l’esigenza e la prassi di realtà e di verità, che sono i risultati di un controllo eseguito sui risultati di un precedente operare; quando l’uomo, passivo spettatore della realtà, la coglie veramente.

Con il raddoppio del percepito, uno collocato all’esterno del corpo percipiente e l’altro all’interno, naturalmente comincia tutta una serie di insolubili difficoltà, che possono venire tacitate di volta in volta soltanto con il ricorso ad espressioni che sono irriducibilmente metaforiche o negative.

Basterebbe considerare quell’”esterno” e quell’”interno” al corpo del percipiente. Anche se fosse così, andrebbe bene supponiamo per la percezione dell’albero o del cavallo; ma come potrebbe la gamba del percipiente essere esterna al suo corpo? E quando egli si ascolta battere il cuore come potrebbe essere quel cuore al suo esterno? Quell’”esterno” ed “interno” sono quindi destinati ad un uso irriducibilmente metaforico.

Inoltre, chi apre il corpo dell’uomo vi trova ben poco di quanto percepisce al suo esterno. Dov’è finito l’albero ed il cavallo? Come farebbero ad esserci contenuti? La fantasia deve sbizzarrirsi e fra le prime proposte giunge quella di scomporre tutte le cose in elementi, per esempio acqua, terra, fuoco, aria, considerandoli poi presenti sia fuori che dentro il corpo del percipiente. Ma se potrebbe andar bene per l’acqua e l’aria è più difficile per la terra ed il fuoco. E poi, se questi elementi sono sempre presenti come va che non tutte le cose percepite sono sempre tutte presenti? Si propone allora di scomporre tutte le cose in elementi molto piccoli e viaggianti, che possano raggiungere il corpo del percipiente e penetrarvi: siano essi mandati da queste cose o provenienti da altro e rimandati: per esempio i corpuscoli, gli eidola, le onde, ecc., che poi troverebbero sulla pelle le aperture dei pori oppure le terminazioni nervose dei sensi, e simili.

Tuttavia, come si fa a sapere se ciò che si trova all’interno corrisponde a ciò che si trova all’esterno? Anzi come fare a sapere di questo raddoppio se la presenza del primo avviene sempre e soltanto attraverso la presenza del secondo?

Infine, già con i primi progressi dell’anatomia, il cervello, che è stato fatto la sede dei raddoppi interni al corpo, si rivela pieno di cose che nulla hanno a che fare con quelle esterne, costituito di un materiale suo, di una fisicità sua, sicché i percepiti esterni, per trovarvi posto, comunque vi sian portati, da corpuscoli, eidola,

onde, sensi, ecc. devono supporsi smaterializzati, defisicizzati. Ma quale ne sarà allora la natura, quando non sia vista soltanto in termini di negazione del materiale, del fisico, del corporeo, ed in quali rapporti si troverà con questo, al di fuori sempre di quella negazione e del metaforico interno?

Rimane anche da spiegare come ci siano presenti anche cose che non dispongono di un loro corrispettivo esterno al corpo, cioè di tutte le cose che non siano fisiche.

I più grossi ingegni della storia si sono cimentati con queste insolubili difficoltà. C’è stato persino chi ha ritenuto inevitabile rivolgersi al buon Dio, affinché stabilisse egli la corrispondenza delle cose esterne con le interne, cioè dell’ordo rerum con l’ordo idearum; chi ha dotato l’uomo di facoltà speciali affinché, lasciando fuori di noi le cose “concrete” se ne potesse avere all’interno le corrispondenti cose “astratte”, o concetti, ecc.

L’intera storia della filosofia e della filosofia della scienza si è trovata al cuore l’insolubile problema.

Intanto l’uomo si trovò rotto in due incompatibili metà: da una parte la mente, quale insieme delle “entità astratte”, non dinamiche, in quanto entità, e non fisiche, in quanto astratte; e dall’altra il corpo, quale insieme di organi, fisici, e di funzionamenti e funzioni, dinamici. Due metà, appunto, senza possibili rapporti. La psiche fu identificata od avvicinata alla mente in nome della non fisicità dell’operare psichico.

Occorreva comunque trovare la parola che designasse il presunto raddoppio all’interno delle cose fisiche esterne, e questa fu trovata nel “conoscere”, che da tanti secoli circola dunque ormai con due significati uno proprio, quando indica la possibilità di operare una seconda volta con riferimento a quanto si è già fatto e ricordato (cosi, si “conosce Parigi, il francese, il signor Massimo Toffoletti, ecc.”, in quanto la si è visitata, lo si è studiato, ci è stato presentato, ecc.), e l’altro metaforico, quando indica appunto la presenza nel metaforico interno di quanto si troverebbe nel metaforico esterno. Nell’uso proprio, la ripetizione di ciò che si conosce avviene nel tempo e può contare sulla memoria, nell’uso improprio essa avviene nello spazio, e non può contare su nulla, se non nell’intervento del buon Dio o della memoria del mito platonico delle anime che abitavano presso gli Dei.

 

Il quadro operativo della mente

La svista che ha portato al raddoppio del percepito è avvenuta quando i “physiologoi“, e comunque i naturalisti, si sono rivolti alla mente, assumendo del resto il nome nuovo di “philosophoi“. Di qui il nostro parlarne come dell’errore filosofico. La difficoltà ad uscirne nasce da una specie di autoprotezione, di autodifesa, dell’errore. Quando non si raggiungono con la ricerca risultati soddisfacenti, essendo questa ricerca condotta in modo conoscitivistico, cioè secondo quell’indebito raddoppio del percepito, si ritiene che essa non sia stata conoscitivistica abbastanza; in breve che non sia stata condotta abbastanza secondo i procedimenti e gli oggetti della ricerca fisica. Persino il rovesciamento della situazione da parte degli idealisti, degli attualisti, ha conservato alla ricerca almeno un punto in comune nel vedere il percepito non come il risultato di operazioni costitutive, bensì, ricorrendo ad un altro termine adoperato in modo irriducibilmente metaforico, creativo.

L’uscita da questo errore è stata dovuta quindi più ad un caso fortunato che non ad un ragionamento le cui premesse sarebbero state comunque di tipo conoscitivistico, realistico, empiristico, razionalistico, o idealistico. Era accaduto di notare come alcune parole, e precisamente “parte”, “tutto” e “resto” non designassero niente di fisico, in quanto esse possono venir applicate a tutte le cose fisiche, per quanto differenti fra loro, non solo, ma indifferentemente alla stessa cosa fisica, per esempio tre dita di liquore in una bottiglia (“una parte del liquore che mi hai dato”, “tutto il liquore che mi hai dato”, “il resto del liquore che mi hai dato”, e simili).

Se ne deduceva che almeno alcune parole non designano niente di fisico, bensì il risultato di qualcosa che noi facciamo nei suoi confronti. Si mosse così alla caccia di queste parole e delle operazioni che esse avrebbero indicato. Tali parole sono per esempio “inizio” e “fine”, “semplice” e “complesso”, “causa” ed “effetto”, ecc., davvero centinaia, anzi migliaia di parole.

Nel corso di questa ricerca ci si allenò intanto ad analizzare l’operare di tipo costitutivo ed a distinguerlo da quello di tipo consecutivo, cioè l’operare di cui siano momenti, o soggetti, od oggetti cose già percepite e localizzate, o nello spazio, cioè cose fisiche, o nel tempo, cioè cose psichiche; ed ecco che le stesse situazioni fisiche e psichiche, benché non avessero più natura costitutiva mentale, tuttavia ne rivelavano questi elementi una volta scomposte sino a vederle in percepiti, localizzazioni, rapporti fra i percepiti.

La svista millenaria veniva corretta; purché, naturalmente, all’analisi in operazioni cedessero anche i percepiti, e non già per scomporli in altri percepiti, perché allora si rimarrebbe sul piano fisico, se il percepito è fisico, o psichico, se il percepito è psichico, senza mai raggiungere il livello mentale, dell’operare costitutivo.

Intanto, che i percepiti non si impongano da sé, già ritagliati in quel certo modo come noi di volta in volta li vediamo, basterebbe a dimostrarlo qualche figura di quelle cosiddette alternanti, per esempio, fra le più note, il vaso o due profili che si guardano:

 

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e i pesci o uccelli:

 

Immagine che contiene tessuto, vestiti, modello, Motivo Descrizione generata automaticamente

 

Dipende infatti dalla direzione dell’attenzione, se si posa rispettivamente sul bianco o sul nero.

 

Né occorrono due colori per agevolare la presa alternante, come può mostrare la figura seguente, tutta nera, che si può vedere una volta come un flacone con il suo coperchio ed un’altra come una freccia ascendente:

 

Immagine che contiene vestiti, schizzo, arte, moda Descrizione generata automaticamente

 

Qui la differenza risulta infatti soltanto dal modo diverso in cui il disegno viene scomposto e ricomposto, cioè articolato, ad opera sempre, come si vedrà, dell’attenzione.

 

Ecco ora un quadro, anche se del tutto schematico, delle principali attività mentali.

Tutto ciò che noi abbiamo presente mentalmente dipende in parte od esclusivamente dal funzionamento di tre sistemi o meccanismi: quello dell’attenzione, quello della memoria e quello della correlazione.

Gli apparati ottico, acustico, tattile, ecc. funzionerebbero inutilmente per la mente, se non intervenisse il meccanismo attenzionale. Basta un piccolo esempio a convincercene. In questo momento le mani di chi legge stanno pur facendo qualcosa, tengono il libro, sono appoggiate sul tavolo, sui braccioli della poltrona, ecc. Ma forse era questo un nostro pensiero, od anche semplicemente una nostra percezione, finché l’attenzione non è stata rivolta, in seguito alle mie parole, al funzionamento dell’apparato tattile? Certo, una pressione, uno scambio di temperatura, ecc., avvenivano lo stesso, ma non costituivano alcun fatto mentale.

Ecco dunque un primo modo di funzionare dell’attenzione. Essa fa presente il funzionamento di altri organi, ne fa, come potremmo dire, un “presenziato”, non solo, ma lo frammenta, e questi frammenti, questi semplici presenziati, hanno durate che vanno pressappoco dal decimo secondo al secondo e mezzo. In questa sua funzione di far presente e frammentare, il meccanismo attenzionale ricorda il fonografo. In entrambi intervengono tre elementi: il disco che ruota che può corrispondere al funzionamento di un qualche organo; il braccio con la puntina che può corrispondere all’attenzione; e l’elemento cui si deve se il braccio e la puntina sono o meno a contatto con il disco, che può corrispondere ad un applicatore dell’attenzione al funzionamento degli altri organi.

Oltre al funzionamento di altri organi, l’attenzione si applica però anche a se stessa. La troviamo infatti sia come attenzione pura, vuota, lo stato in cui ci si mette se qualcuno ci dice “attento!”, “guarda!”, e simili; sia come attenzione che si riempie di sé, si focalizza su di sé, secondo un passaggio costruttivo facilmente eseguibile se dopo quell’”attento!” qualcuno ci dice per esempio “ecco!”, quando il primo stato di attenzione non viene abbandonato bensì fatto perdurare all’aggiungersi del secondo.

Questa possibilità di mantenere qualcosa di già fatto e di aggiungervi altre cose è del resto fra le più adoperate da noi. Basti pensare alla polifonia; anzi a ciò che ci succede se, premuto un tasto del pianoforte, senza alzare il dito vi sovrapponiamo un altro dito, quando anche senza produrre alcun nuovo suono sentiamo appunto che un secondo suono si aggiunge eguale al primo.

L’importanza della possibilità di combinare gli stati attenzionali si comprende facilmente tenendo presente come in questo modo ci apprestiamo costrutti sovrapponibili, cioè applicabili, al funzionamento degli altri organi, con il risultato di arricchirli modellandoli, cioè dando ad essi una struttura, sia quando si assumono isolatamente o fondendoli in unità temporali o spaziali, sia quando si riuniscono additandone un rapporto. Ed in effetti, nel corso dei millenni, gli uomini si sono apprestati questi calchi, o categorie mentali, subito riconosciuti individuandone i notissimi nomi, come il singolare e plurale, il nome ed il verbo, ecc., oppure, per i rapporti, l’”e”, l’”o”, il “con”, l’”a”, il “per”, ecc.

Dobbiamo proprio a questi ultimi costrutti mentali rapportativi se l’uomo dispone della sua attività più preziosa, il pensiero. Esso risulta infatti dall’inserimento in una struttura correlazionale dei costrutti mentali forniti dagli altri organi, strutture formate ognuna dai due termini di un rapporto, primo e secondo, e da questo rapporto, o loro correlatore, che è appunto sempre un gioco attenzionale. Precisamente, il correlato primo è mantenuto in presenza del correlatore, e questo è a sua volta mantenuto sinché il correlato primo non sia sostituito con il correlato secondo; sicché in una scrittura musicale i tre elementi si trovano distribuiti nel tempo nel modo seguente:

 

 

Per esempio, visti come un solo percepito ecco la struttura di pensiero che indica separatamente i due correlati ed il rapporto: “bottiglia” (1° correlato) con (correlatore) “tappo” (2° correlato)

 

Immagine che contiene schizzo, disegno, tavolo, arredo Descrizione generata automaticamente

 

e visti subito separatamente la struttura è “bottiglia e tappo”

Immagine che contiene schizzo, disegno, arredo, illustrazione Descrizione generata automaticamente

 

Anche la memoria, come l’attenzione, svolge più di una funzione nella vita mentale. 1) Può mantenere presente ciò che è appena stato fatto, cioè la memoria come continuazione di presenza; 2) può rifare presente ciò che è rimasto assente, cioè la memoria come ripresa. Sul passato essa non opera però solo passivamente, bensì anche 3) selettivamente e 4) associativamente, cioè la memoria come elaborazione, e proprio 5) modifica l’elemento ripreso. Ma soprattutto essa opera sul passato 6) condensandolo riassumendolo. Inoltre essa ne fa 7) una forza propulsiva, cioè lo fa agente sull’operare in corso. Infine la memoria può far presente non soltanto ciò che l’attenzione abbia a suo tempo fatto presente, ma anche, sia pure in forma minore, l’operato di altri organi che sia passato inavvertito.

Per quanto riguarda il pensiero, il meccanismo della memoria interviene soprattutto nella funzione di ripresa riassuntiva. Le singole correlazioni possono entrare, e molto spesso nel pensiero dell’adulto entrano, a costituire, come unità, correlazioni più ampie, come avviene per esempio nel pensiero “Mario e Luigi” (una correlazione) “corrono” (secondo correlato della correlazione più ampia, il cui primo correlato e rappresenti appunto dalla correlazione “Mario e Luigi” ed il correlatore da una combinazione di stati di attenzione che serve a mantenere presente questo correlato all’aggiungersi del secondo, ciò che ne fa il soggetto, cioè lo fa subiacere).

Tuttavia, questa rete correlazionale non può estendersi per più di pochi secondi, diciamo un 5-7, e la possibilità di svolgere un pensiero unitario più lungo è dovuta alla ripresa riassuntiva della memoria che, condensando il pensiero svolto in quei secondi, ne ottiene un elemento, della durata di circa un secondo, da inserire in una correlazione del pensiero che cosi prolunga, continua, il primo. Questa ripresa riassuntiva è designata di solito dai pronomi: “Mario e Luigi corrono contenti sulle fiammanti biciclette. Essi…”.

Ancora due parole sul percepito.

Nella percezione l’attenzione non solo fa presente e frammenta il funzionamento di altri organi, acustico, tattile, visivo, ecc., ma lo isola con un’operazione per cui ciò che è stato presenziato viene in parte tenuto dando luogo al percepito vero e proprio, ed in parte lasciato, scartato. Basti pensare alla pubblicazione che abbiamo davanti, isolata dall’aria, nell’aria, od anche alle lettere dell’alfabeto, o parole, isolate dal bianco della carta, e simili.

Questo tenere e lasciare avviene con l’applicazione della categoria di oggetto, composta facendo seguire allo stato di attenzione pura la combinazione di due stati di attenzione (che corrisponde all’”ecco”, alla categoria di “cosa”), e si capisce come la sua applicazione abbia questo risultato. Seguendo la linea di demarcazione fra tenuto e lasciato, sempre l’attenzione, spostandosi, può aggiungere a ciò che è tenuto una figura, una forma (come è avvenuto con il vaso-profili e con i pesci-uccelli). Nella rappresentazione, e questo spiega certe antitesi fra percezione e rappresentazione avvertiti da molto tempo, l’ordine di costruzione è rovesciato; prima la categoria di oggetto, poi la figura, se questa deve esserci, ed in fine il presenziato che questa volta compare solo in concomitanza con la combinazione dei due stati di attenzione, sicché nella rappresentazione non si perde niente.

Ancora due parole anche sullo psichico ed il fisico.

Essi presuppongono, come si è detto, il mentale, ma lo attraversano per lasciarlo; sicché gli eventi psichici e fisici non potranno più, senza che ci si contraddica, venire attribuiti alla mente, come loro soggetto (errore dell’idealismo), ma andranno ormai “per i fatti loro” (pur essendo legati alla mente sotto l’aspetto percettivo: ciò che sfuggì nell’errore del naturalismo, empiristico, positivistico, realistico, fisicalistico, ecc.). Se un generico soggetto poi si vuole dare agli eventi psichici e fisici, si mantenga pure per essi la natura, ed ai costrutti mentali si dia pure la mente; ma ricordando come anche questa natura sia invece un costrutto mentale, e quindi né rossa o verde, né pesante o leggera, né tonda o quadrata, ecc.

 

Freud eredita dai filosofi

Ovviamente, quando Freud agli inizi del secolo si accingeva a dare forma alla disciplina che gli stava a cuore, non incontrava certo questo quadro operativo della mente, bensì la tradizione filosofica, quella del raddoppio del percepito, della mente concepita come insieme di entità astratte, dell’uomo rotto in due parti, l’una raffigurata soltanto come la negazione dell’altra, ecc.; né su questa tradizione, in quanto non filosofo di professione, si era soffermato abbastanza per sapere quanto fosse traballante, come potesse essere criticabile e comunque ingannevole appellarsi per esempio ad una realtà esterna con i relativi sensi e realtà interna, e simili. Nei suoi scritti, infatti, una disamina filosofica vera e propria, cui per esempio si contrappongano realismo ed idealismo, non compare neppure.

D’altra parte, la situazione trasmessa dal filosofo alletta lo studio della mente con molte illusioni, per esempio quella di credere di aver risolto tutti i problemi in quanto una descrizione in termini irriducibilmente metaforici o negativi va bene per tutto; ed ancor più questa situazione può affascinare il terapeuta che di fronte al malato mentale è di necessità impaziente. Freud non è stato certo il primo né sarà l’ultimo psichiatra ad affidarsi ad un sistema filosofico.

L’operato mentale non ricondotto a pochi elementi e ad alcune regole di combinazione rimane inevitabilmente definito in modo rozzo, grossolano; ma per chi vuole illudersi od ha fretta, tanto meglio. Sarà infatti facile stabilire fra questi operati le connessioni desiderate, che spiegheranno tutto anche se prediranno ben poco.

Infine, lo studioso della mente trova nella situazione trasmessa dal filosofo un pericoloso alibi a stabilire più stretti rapporti con le ricerche di anatomo-fisiologia, subendone le difficoltà e magari segnando il passo con esse. Da una mente, come insieme di entità astratte, non vi è infatti alcun passaggio per giungere ad individuare i suoi organi; e fra l’altro, che organi potrebbe mai avere? Non si tratta cioè soltanto dell’impossibilità di individuare un organo per sola via fisica, vale a dire per la presenza od assenza di una caratteristica fisica, come l’avere un certo colore o peso o struttura chimica o fisica, cioè senza aver prima descritta la funzione di cui intende individuare l’organo, e nemmeno di attendere i progressi di una tecnica ispettiva naturalistica fisica ancora insufficiente una volta descritta la funzione. La difficoltà diventa di principio. Appunto, in quale senso si potrebbe parlare di un organo di una entità astratta come la concepisce il filosofo?

Anche lo psicologo o lo psichiatra inconsapevole della necessità di iniziare un esame per l’individuazione della base organica della vita mentale con una analisi e descrizione delle funzioni di questa in termini di operazioni minutissime e senza mai il ricorso alle metafore od alle negazioni, ed anche l’anatomo-fisiologo convinto che ogni indagine inizi e finisca e si svolga sul piano naturalistico fisico, avvertono che non c’è passaggio, aggancio fra quel modo di concepire la vita mentale e lo studio di una sua base organica. E fra l’altro non rimangono allora alternative che non siano cervellotiche, come la chiamata in causa, cui si è accennato, del buon Dio che ponga la corrispondenza fra i due incompatibili ordini di cose, o quella più recente e assurda dell’attribuire il mentale, il “logos“, per esempio la logica, allo stesso biologico incorporato nei neuroni e catene, ed infine quella non meno assurda di negare al mentale un substrato fisico, almeno nel patologico, che sarebbe soltanto funzionale.

Freud, del resto, avverte la difficoltà e parla a questo proposito di “paradosso”. È anche comprensibile come egli cerchi di uscirne mantenendo le sue spiegazioni sul piano del mentale e dello psichico, fra l’altro da lui spesso identificati. Introduce infatti quale causa delle manifestazioni patologiche sia mentali che psichiche e fisiche i “meccanismi mentali inconsci”. Il passo ulteriore discende logicamente da questo: per trovarli inconsci egli risale a qualcosa che sia occorso ai soggetti nella prima infanzia o che i soggetti abbiano dimenticato. Anche la terapia si delinea di conseguenza: bisogna rendere consci i meccanismi mentali inconsci, cioè bisogna farli ricordare, farli sfociare in un discorso, discorrerne.

Ripeto che non compete a me giudicare questa posizione freudiana sul piano terapeutico. Fra l’altro è di comune esperienza che noi si riesca a modificarci continuamente attraverso i nostri ragionamenti, e così a modificare gli altri come ad essere modificati dagli altri. A quei certi pensieri corrisponde quel certo funzionamento di quei certi organi; non solo qualcosa ne può sempre restare di modificato, ma attraverso la comune fisicità degli organi niente esclude che indirettamente vengano toccati anche gli organi delle attività psichiche e fisiche: dal placebo alla pubblicità ed all’assimilazione di un’etica o di una ideologia ne abbiamo esempi quotidiani.

Né è certo imputabile a Freud di non aver condotte analisi di biochimica e di biofisica incompatibili con il quadro della mente accettato dai filosofi e che del resto nessuno ha eseguite a tutt’oggi. Sarebbe come se si trovasse da ridire perché l’uomo non è ancora giunto su Marte. Ci si arriverà.

Tuttavia, dovendo esaminare gli aspetti metodologici del sistema freudiano, metterei fortemente in guardia contro il ricorso accentuato che egli ha fatto di un procedimento di pretta marca filosofica. Freud intende offrire una visione dinamica della vita mentale e psichica a un terapeuta e deve supporre non solo questo dinamismo ma anche una sua modificabilità. Senonché la tradizione filosofica gli impedisce di procedere secondo la strada ovvia e maestra, di analizzare in operazioni la vita mentale e psichica studiandone i rapporti. Quella tradizione, ricordiamo, rappresenta un uomo rotto nelle due metà, che si sono viste: quella fisica, cioè il corpo, che può si venire suddiviso in quante altre si vogliono cose fisiche, ed al quale e alle sue parti è attribuibile ogni dinamismo, di cui sia considerato soggetto, od oggetto, od organo, ecc.; e la metà mentale e psichica, definita attraverso la privazione della fisicità ed entizzata, almeno per quanto riguarda la mente, nei “riflessi all’interno di una realtà esistente di per sé all’esterno”, incompatibile con un dinamismo suo proprio.

In queste condizioni, cioè essendo stato eliminato il dinamismo delle operazioni, se si vuole che i risultati siano legati ad un dinamismo, questo deve venire devoluto ad uno o più soggetti; e naturalmente, l’attività di questi soggetti deve restare magica, e comunque descritta in termini irriducibilmente metaforici o negativi, né questo o questi soggetti potrebbero mai render conto del dinamismo che differenzia l’uno dall’altro dei tanti risultati. È quanto è successo con l’idealismo ed il suo e “io”, od i suoi due “io”, il puro, l’Io, e l’empirico, l’io; o quanto è successo con il realismo, empirismo, positivismo, o proprio il sensismo, con i suoi “sensi”. Che può voler dire quel “creare” dell’idealista? In qual modo quel suo Io crea una volta la pera ed un’altra la mela, una l’essere ed un’altra il divenire, una la bontà e l’altra la cattiveria? Ed i sensi? Che può voler dire quell’”essere impressionati”, quel “sentire”? Forse l’essere impressionati di chi imprime lo stampo sulla ceralacca?

Chi poi desideri introdurre differenze nei modi di operare, soppresse le operazioni, deve moltiplicare i loro soggetti, o per fame la testa dei dinamismi differenziati, o per servirsene di rincalzo, di motivazione ai primi. Le più celebri introduzioni sono state forse quelle della facoltà dell’anima viste sia attive che passive,

sia superiori (intelligenza, ragione, memoria, fantasia, volontà, ecc.) che inferiori (sensazioni, istinti, desideri corporei, ecc.), e simili; e destinate ad essere tanto numerose quanto i modi di operare differenziati, ed al limite, per sembrare di render conto delle differenze in termini di operazioni costitutive di tutte le cose costituite, tanto numerose quanto queste cose.

Come si sa, il ridicolo finì con il colpire l’introduzione di questi soggetti, accusati di rappresentare delle pseudospiegazioni, e non promuoventi, ma arrestanti l’analisi; né si sarebbe mai riusciti a capire come essi intrattengano i rapporti di dipendenza ed interdipendenza che i risultati delle operazioni costitutive mostrano quotidianamente fra di loro. Tuttavia questa critica non poteva certo togliere all’analisi delle operazioni il suo errore di fondo, cioè il raddoppio del percepito, la fisicalizzazione del mentale; sicché l’alternativa restava pur sempre la stessa: o rinunciare ad interessarsi delle differenze fra i modi di operare costitutivi ed i loro risultati lasciando sussistere la più larga generalità, per esempio quella dell’Io o dello Spirito, o dell’Atto, o dei Sensi, e simili; oppure ricadere nella stessa soluzione, tutt’al più cambiando i nomi dei soggetti introdotti.

Freud si rimette per quest’ultima strada; ed al posto delle facoltà dell’anima ci presenta, assieme all’Io, un Es ed un Super-Io, circondati da un certo numero di istinti, come Amore o Eros, o di Vita e Morte, di complessi, come Edipo ed Elettra, il tutto sostenuto da una Forza Vitale, la famosissima Libido.

A parte la terminologia, anche l’uomo della strada, con il suo ingenuo filosofare, ha proceduto e continua a

procedere in questo modo, ed i soggetti servono a raggruppare certe operazioni, per esempio appunto quelle mentali, quelle psichiche e quelle fisiche; ma è una sistematica che si ferma qui, e non avanzando pretese di descrizione esauriente e tanto meno di spiegazione esauriente del campo, non suscita nemmeno l’impressione che il determinato sia mescolato con il gratuito, il meccanico con il deus ex machina. Tanto più forte sarà poi questa impressione se invece di procedere nella costruzione del sistema freudiano raccogliendone gli elementi come essi si trovano sparsi nelle molte opere voluminose e fra le sottilizzate analisi, ci si avvale della sua stessa stesura del quadro sistematico, come compare in qualche pagina del Sommario di Psicanalisi, che, pubblicato nel 1940, “riassume in modo per così dire dogmatico i principi fondamentali della psicoanalisi”.

Ecco queste pagine, ai cui paragrafi faccio seguire alcuni commenti in chiave operativa.

 

L’apparato psichico

La psicoanalisi pone una premessa fondamentale la cui discussione resta riservata al pensiero filosofico e la cui giustificazione sta nei risultati. Di ciò che chiamiamo la nostra psiche (o vita mentale), due cose ci sono note; da una parte il suo organo fisico e la sua scena: il cervello (o sistema nervoso), dall’altra i nostri atti di coscienza, che sono dati immediati e non ci possono essere resi più chiari da nessuna descrizione. Tutto ciò che è in mezzo ai due, ci è sconosciuto: una relazione diretta tra i due punti terminali del nostro sapere non esiste. Se esistesse, fornirebbe tutt’al più una localizzazione precisa dei processi di coscienza e non contribuirebbe in alcun modo a farli comprendere.

Traspare come la posizione di Freud discenda dalla tradizione filosofica. Rotto l’uomo nelle due parti, l’una definita con la negazione dell’altra e mente e psiche identificate in nome di questa negazione, cioè della non fisicità, e quindi anche non-localizzazione spaziale, se non con il criterio dei metaforici interno ed esterno, qualsiasi loro rapporto diventa inconcepibile in termini propri e positivi.

Il cosciente, poi, assunto come un dato immediato e non come un risultato dell’operare attenzionale, ovviamente sfugge ad ogni analisi-descrizione. Questo cosciente, fra l’altro, apparirà sempre al plurale, cioè “gli atti di coscienza”, in quanto l’eliminazione del dinamismo categoriale ha portato ad entizzare il singolare ed il plurale, sicché gli atti di coscienza riflettono la pluralità di per sé delle cose. Si comprende anche come nessun progresso della anatomia e fisiologia, della biochimica e biofisica potrebbe mai indicare un rapporto, per esempio di funzione ed organo, fra questi dati immediati ed il cervello: come “salterebbero fuori” da qualcosa di fisico? Anche la supposta “localizzazione precisa dei processi di coscienza” è puramente fantastica e contraddittoria. Localizzati sarebbero soltanto pezzi anatomici assunti come organi e attraverso di questi il loro funzionamento, non mai l’attività mentale o psichica che ne sia funzione.

Freud avverte l’inevitabilità del rapporto di organo e funzione, come comune nella vita quotidiana e così indispensabile al medico di ogni specialità; ed infatti lo pone, ma esso deve suonargli davvero magico, dato il modo in cui si immagina la funzione di questo organo, anzi questo organo stesso.

Le nostre ipotesi partono da questi punti terminali e iniziali del nostro sapere. La prima riguarda la localizzazione. Supponiamo che la vita psichica sia la funzione di un apparato composto di più pezzi, che noi ci immaginiamo quindi simile ad un cannocchiale, a un microscopio e a cose del genere. L’elaborazione coerente di una tale idea è, malgrado certi tentativi recenti, una novità scientifica.

Il ricorso ad uno strumento d’osservazione, come il telescopio od il microscopio o “cose del genere”, riuscirebbe davvero curioso, se non suggerisse la tradizione filosofica con il suo raddoppio del percepito e quei metaforici esterno ed interno. Costretto ad uno sviluppo coerente di quella tesi, uno psicologo finiva con il confessare che bisognava ammettere, dentro alla testa di ognuno di noi, un omino che se ne stesse seduto a guardare fuori.

Siamo giunti alla conoscenza di questo apparato psichico attraverso lo studio dello sviluppo individuale della natura umana. Chiamiamo la più vecchia di queste zone o istanze psichiche, l’Es; il suo contenuto è tutto ciò che è stato ereditato o che ci accompagna fin dalla nascita, ed è stabilito per costituzione: innanzi tutto gli istinti derivanti dall’organizzazione fisica, che qui trovano una prima espressione psichica, a noi sconosciuti nelle loro forme.

Indubbiamente è possibile stabilire nello svolgersi della nostra vita individuale, e persino della specie, tanti momenti o periodi, per esempio dalla cellula germinale ad uno sviluppo di un mese, all’uscita dal grembo materno, da questo neonato al bambino di due anni, al giovanotto di venti, e via dicendo, ma tutto quello che accade potrà sempre essere visto in dipendenza, perché questo è lo schema interpretativo scelto, sia di una costituzione fisica, cioè di come siamo fatti, sia degli eventi incontrati, dell’ambiente. Niente esclude, naturalmente che certe manifestazioni, e non altre siano legate soltanto alla costituzione, se si intende cercare la spiegazione in quella direzione; ma anche allora l’introduzione degli istinti, come causa di ciò che si è stabilito vada in quel certo modo, è del tutto superflua: sarebbe come introdurre una causa, forza o istinto per spiegare perché i corpi siano dotati di moto rettilineo uniforme, una volta che si appresta per loro questo paradigma.

Sotto l’influsso del mondo reale esterno che ci circonda, una parte dell’Es ha avuto uno sviluppo speciale. Originariamente, sotto forma di strato corticale, munito di organi per la recezione degli stimoli e di apparati di difesa contro gli stimoli, si è formata un’organizzazione speciale, che d’ora in poi si fa mediatrice tra l’Es e il mondo esterno. A questa regione della nostra vita psichica lasciamo il nome di Io.

La tesi di un mondo reale esterno, che striminzisce od annulla l’operato della mente, dei suoi sistemi, attenzionale, mnemonico e correlazionale è avanzata qui da Freud con tutta franchezza ed ingenuità. Tutto il resto naturalmente consegue. Attivo sarà di per sé questo mondo esterno, ed ecco che appare sotto la categoria mentale dello stimolo, anzi degli stimoli, essendo stata entizzata, come si è visto, anche la categoria del plurale. Ed occorre poi chi riceva gli stimoli, li subisca. Freud suddivide l’Es, moltiplicando, come pure si è visto, i soggetti, i personaggi, staccandovi per esempio l’Io, che a sua volta verrà suddiviso, tripartito per la recezione degli stimoli, la difesa dagli stimoli, la mediazione fra l’Es ed il mondo reale esterno.

Questo modo di procedere non può non suscitare l’impressione del fabbricato ad hoc, del gratuito, e fra l’altro si dovrebbe trasferire tal quale almeno ad ogni vivente, animale o vegetale, perché ognuno vive fra “stimoli” e se non li riceve e se ne difende non sopravviverebbe. L’impressione del gratuito si accentua seguendo i compiti che Freud assegna all’Io:

I caratteri principali dell’Io. In seguito alla relazione preformata tra percezione sensoriale e azione muscolare, l’Io dispone di movimenti volontari. Esso ha il compito dell’autoaffermazione e vi adempie imparando a conoscere, verso l’esterno, gli stimoli, immagazzinando (nella memoria) esperienze su di essi; evitando (con la fuga) gli stimoli eccessivamente forti; affrontando (con l’adattamento) stimoli moderati; e finalmente imparando a cambiare a suo vantaggio il mondo esterno in modo razionale. Lo stesso compito dell’autoaffermazione, l’Io lo adempie internamente verso l’Es, acquistando il dominio sulle esigenze degli istinti; decidendo se essi debbano essere ammessi per il soddisfacimento rimandando questo soddisfacimento a circostanze favorevoli nel mondo esterno, o sopprimendo del tutto i loro eccitamenti.

Escluso l’operare costitutivo su cui effettuare la distinzione, Freud si trova costretto ad attribuire al suo Io, contro l’uso corrente, certe attività e non certe altre. Noi infatti diciamo indifferentemente “io cammino, digerisco, soffro, godo, penso, voglio, posso, devo, ecc.”. Egli vi riserva invece l’operare volontario, quello di controllo, di adattamento, di giudizio o ragione, ecc., cioè un gruppetto di “facoltà dell’anima”, tentando con ciò di originarizzarli. In tal modo però l’individuazione ed analisi di quelle attività si arresta e addirittura fuorviante diventa il richiamo fisicalistico alle percezioni sensoriali ed alle azioni muscolari per il volere. Come ci si troverebbe se quale attività volontaria, “volessimo immaginare il profumo di un fiore, il sapore di una pietanza, e simili”. A quali muscoli ci si rivolgerebbe?

L’analisi in operazioni mentali mostra infatti che volere, potere, dovere, essere-liberi-di, avere-la-capacità-di, ecc. provengono da una famiglia di combinazioni delle categorie di soggetto e svolgimento: per esempio per il volere si ha un soggetto unico di due svolgimenti eguali fra loro successivi nel tempo; per il potere, un soggetto unico e due scioglimenti differenti fra loro e contemporanei; ecc.

Più articolata dinamicamente e meno fisicalistica è la posizione di Freud nei confronti del piacere e del dispiacere, nello stesso paragrafo:

Nella sua attività l’Io è guidato in quanto obbedisce alle tensioni degli stimoli, che in esso esistono e che vi vengono registrate. Il loro aumento è generalmente sentito come dispiacere, la loro diminuzione come piacere. Ma probabilmente non sono i livelli assoluti di questa tensione degli stimoli, ma è qualcosa nel ritmo del loro cambiamento che è sentito come piacere e dispiacere; l’Io tende al piacere, vuole schivare il dispiacere. Ad un aumento aspettato e previsto di dispiacere, si risponde con il segnale di angoscia. La sua causa, venga essa dal di fuori o dal di dentro, si chiama pericolo.

L’analisi del dispiacere di origine mentale, se condotta in operazioni fa supporre che esso risulti da una alterazione dei tempi di presenza normali degli stati attenzionali. Si è visto che questi stati, sia puri che applicati, sia isolati che in combinazione, non vanno al di sotto di un certo intervallo né lo superano, se non entrando in una situazione che potremmo chiamare critica.

Chi si metta nello stato di attenzione pura, non focalizzata, e provi a prolungarlo al di là del secondo e mezzo, facilmente ne avvertirà ripercussioni spiacevoli sul circolo del respiro; e cosi se esso viene accorciato al di sotto del decimo di secondo. Si potrebbe supporre che questa fosse anche la ragione del malessere suscitato da alcune percezioni svolte in situazioni eccezionali, per la maggior durata che in essa viene ad avere lo stato di attenzione che funge da primo elemento nella categoria di oggetto costitutiva appunto della percezione.

Un caso se ne può trovare quando si guardi verso il basso o verso l’alto oggetti da riconoscere ad una distanza ben superiore di quella usuale, di pochi metri, per esempio dalla montagna spaccata il fondo valle, dalla cima del campanile la piazza, e viceversa. Nell’attraversare-superare la distanza entra in gioco lo stato di attenzione pura, che sarà sostituito nel formare la categoria di oggetto dalla combinazione dei due stati di attenzione della categoria di cosa, sicché esso sarà prolungato e cosi il tempo di combinazione. Ebbene, l’operare risulta spiacevole, anche senza giungere all’impressione di vertigine.

Un altro caso se ne ha quando all’opposto si cerchi di percepire e distinguere, anche senza doverli afferrare,

oggetti che si muovano troppo veloci in rapporto alle usuali condizioni di percezione, perché allora lo stato di attenzione pura si trova accorciato oltre misura. L’adulto ha imparato a rinunciare all’impresa, ma il bambino manifesta la sua sofferenza agitandosi, arrabbiandosi.

Può essere significativo anche il notare come in molti pensieri spiacevoli compaiano le categorie di “niente”, “senza”, “vuoto”, “non più”, e simili, che presentano uno stato di attenzione quale ultimo loro elemento costitutivo. Si pensi per esempio al “niente”, ottenuto dal confronto fra categoria di cosa, usata come termine di confronto, e questo stato di attenzione pura (“Che cosa c’è?”, “Niente”): ed a questo proposito valgano le testimonianze di un Kierkegaard o di un Heidegger divenuti i filosofi dell’angoscia attestandosi al di là del dovuto su categorie di quel tipo.

Anche la forza dinamica, motivazionale dei valori troverebbe qui una spiegazione. “Valore” è ciò che soddisfa, se positivo, o non soddisfa, se negativo, un certo rapporto. La mancanza, la carenza della cosa, avvertita come “vuoto”, come “senza”, equivale a mettere in gioco categorie, appunto, che si chiudono con uno stato di attenzione pura, tenuto sospeso, prolungato, e quindi sentito come spiacevole, con la conseguenza di spingere a procurarsi ciò che soddisfi la situazione.

Probabilmente si tratta, oltre che di durate eccezionali degli stati di attenzione anche di una desincronia e sincronia di questi stati con altre operazioni, la prima per il dispiacere e la seconda per il piacere. Se ne avrebbe una conferma dall’estetica. L’analisi in operazioni dell’atteggiamento estetico rivela come esso sia dovuto ad una frammentazione attenzionale ritmica (circa 8 pulsazioni ogni 5 secondi) dell’operato degli altri organi, nella percezione, rappresentazione, categorizzazione, pensiero, ecc. Questa frammentazione attenzionale può accordarsi o meno con altre articolazioni, proprie degli organi il cui operato viene ritmato.

Naturalmente, questo è soltanto un primo ed approssimativo sondaggio operativo sul dispiacere e piacere.

Mi sembra tuttavia interessante sia perché conferma la giustezza del richiamo freudiano ad un fenomeno temporale, ad un ritmo, sia perché in aggiunta all’intuizione freudiana apre la via ad una indagine anatomo-fisiologica, basterebbe ricordare una recente ipotesi di R. Melzack e P. D. Wall[2].

Il sistema responsabile del dolore entra in azione quando l’output delle cellule della prima trasmissione centrale, o cellule T, raggiunge od eccede un livello critico. Questo livello critico di scarica è determinato dallo sbarramento afferente che in quel momento colpisce le cellule T ed ha già subito la modulazione da parte della sostanza gelatinosa.

Gli effetti dello sbarramento sono determinati a) dal numero totale delle fibre attive e dalle frequenze degli

impulsi nervosi che esse trasmettono, e b) dal rapporto variabile dell’attività delle fibre di diametro grande e piccolo. Per questo l’output delle cellule T può differire dall’input totale che converge su di esse dalle fibre periferiche.

Quanto alla sostanza gelatinosa, essa funziona come un sistema di controllo di entrata, che modula i patterns afferenti prima che essi influenzino le cellule T. I patterns afferenti nel sistema della colonna dorsale, almeno in parte, agiscono come un evocatore di controllo centrale che attiva i processi selettivi di pensiero influenzanti le proprietà modulatrici del sistema di controllo di entrata. Infine, le cellule T eccitano i meccanismi nervosi che comprendono il sistema responsabile della risposta percettiva e motoria.

Sul sistema di controllo di entrata agiscono non soltanto le stimolazioni periferiche, ma anche attività centrali.

Forse un accostamento di risultati dell’anatomia e fisiologia con una analisi degli stati attenzionali, loro tempi e combinazioni, è prematuro; ma si può ben capire come le strade diventino convergenti, e non rimangano in termini fra loro incompatibili. In ogni modo nel caso di dolore e piacere sia fisici che mentali si esce dalla descrizione tautologica in cui tutt’al più si spiegano quelli specifici con quelli generici o viceversa.

Freud chiude questo paragrafo alludendo ad una metaforica attività dell’Io, che passerebbe dalla veglia al sonno quando “scioglie il suo legame con il mondo esterno e si ritira nel sonno”:

Ogni tanto l’Io scioglie il suo legame con il mondo esterno e si ritira nel sonno, cambiando considerevolmente la sua organizzazione. Dallo stato sonno è da dedurre che questa organizzazione consista in una distribuzione particolare dell’energia psichica.

Non che tutto ciò che Freud ha detto del sonno-sogni stia qui, naturalmente! E fra le sue mille e mille osservazioni particolari al proposito, parecchie sono, come tutti sanno, pertinenti ed illuminanti. Tuttavia, l’asserzione schematica mostra come manchi una piattaforma da cui muovere già per distinguere una attività di pensiero di veglia ed una di sonno-sogno. Come si accennò, già per il confronto fra situazioni di pensiero, quelle usate come termine di confronto dovrebbero venire prima scomposte in elementi per individuare le differenze nella presenza od assenza di questi e nelle diverse regole di combinazione. Un semplice gioco fra “Io” e “mondo esterno” non basta di sicuro; e quanto all’organizzazione bisogna altrimenti limitarsi a parlare tautologicamente di “particolarità”.

Come deposito del lungo periodo dell’infanzia, durante il quale l’uomo in formazione vive in dipendenza dei suoi genitori, si crea nel suo Io una istanza speciale, nella quale questa influenza dei genitori si continua. Essa è stata denominata Super-Io. In quanto il Super-Io si stacca dall’Io e gli si oppone, esso è una terza potenza di cui l’Io deve tener conto.

Un’azione dell’Io è corretta se soddisfa contemporaneamente le esigenze dell’Io, del Super-Io e della realtà, se cioè sa conciliare queste esigenze.

I soggetti, i personaggi, come si è detto, sono destinati ad aumentare di numero, man mano che Freud si propone di dare una sistemazione alle diverse attività, ai diversi modi di operare, ai diversi atteggiamenti. Ecco così l’”istanza speciale” e la “terza potenza” che dovrebbero assicurarsi della presenza del Super-Io. In tal modo però una indagine sulle premesse e conseguenze per esempio del nostro “senso del dovere”, ed ancor più sulle operazioni che lo costituiscono e sui loro organi viene più chiusa che aperta, più deviata che indirizzata. Non ci si soffermerà più per esempio sui valori, sugli imperativi la cui obbedienza sia quel certo operare invece di un altro, sugli effetti della disobbedienza all’imperativo, ecc. Il testo di Freud potrebbe continuare ma non ci rivelerebbe niente di nuovo a proposito dell’impalcatura del suo sistema, o meglio della via seguita nell’elevarla, quella cioè di una filosofia che è per sua natura anti-dinamica, una filosofia che egli, fra l’altro, riprende dalle sue forme più ingenue. Di questo, comunque, non si può certo rivolgere a Freud una critica, e tanto meno un’accusa. Prima di lui e con lui e dopo di lui troppe ne sono state le vittime. Il filosofo si salva in quanto è responsabile di una disciplina non applicata, se non proprio nell’entizzare i valori, in una tecnica persuasiva, in un modo che si mantiene fra le parole; e può sempre essere un preparato professionista quando fa la storia della sua disciplina, dal di dentro, naturalmente, o quando, più sottilmente, se ne fa il problematizzatore, sempre dal di dentro, naturalmente.

A merito di Freud, ripeto, rimane l’aver attirato l’attenzione su aspetti della vita mentale e psichica che restavano marginali. Le sue analisi al proposito vanno, fortunatamente, al di là del sistema interpretativo, dei suoi Es, Io e Super-Io, dei suoi complessi, dei suoi istinti, ecc. In questa direzione, comunque, Freud ha svolto la sua parte di lavoro: che altri la continuino, come del resto hanno fatto.

Tuttavia, sarebbe a mio avviso grave se si ripetesse nei suoi confronti la pigrizia dell’Ipse dixit, e non si renderebbe forse un buon servizio, non solo alla psicologia ed alla psicoterapia, ma nemmeno a lui. Fra l’altro, in seguito a quella intelaiatura filosofica che abbandona le analisi più al sottile e geniale intuito che all’applicazione di un metodo, appunto, inapplicabile, per le irriducibili metafore e negazioni in cui prende forma. In queste condizioni c’è anche il pericolo che chi riprende la dottrina freudiana sia portato, non fosse che per bisogno di originalità, a rompere quel suo certo equilibrio fra i soggetti, fra i personaggi, per ingigantirne uno; ed anche questo del resto è avvenuto, nelle psicoanalisi dissidenti. Chi imita, si accolla più facilmente i difetti che non i pregi del modello.

 

Note sull’autore

 

Silvio Ceccato

(Montecchio maggiore, 1914 – Milano, 1997)

Dopo gli studi di giurisprudenza e di composizione musicale, si è dedicato a ricerche sulla mente, intesa come l’insieme delle attività che l’uomo svolge per costituire i significati. In Italia è stato tra i pionieri della cibernetica e dell’intelligenza artificiale. Docente di linguistica nell’Istituto Universitario di Lingue Moderne di Milano, insieme a Vittorio Somenzi e Giuseppe Vaccarino ha fondato ed animato la “Scuola Operativa Italiana”, il cui patrimonio di pensiero è tuttora oggetto di studio e ricerca, sia in Italia che all’estero. È autore di vari volumi tra cui Un tecnico fra i filosofi, Corso di linguistica operativa, Il maestro inverosimile, Cibernetica per tutti, Il Punto, Il perfetto filosofo, Il linguista inverosimile, Ingegneria della felicità, La fabbrica del bello, C’era una volta la filosofia.

 

Note

  1. Articolo originale pubblicato su Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria, XXXI (1970) pp. 330-351. Ringraziamo l’Editore “Vita e Pensiero” per aver gentilmente autorizzato la pubblicazione sulla “Rivista Italiana di Costruttivismo”.
  2. Psicologo il primo e biologo il secondo, nel loro saggio su Pain Mechanisms: A New Theory in Science, 1965, vol. 150, 3699, pp. 97-98.