Tempo di lettura stimato: 33 minuti
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In principio era il ritmo

Primo abbozzo, spunti

In the beginning it was the rhythm

First draft, ideas

di

Silvio Ceccato

Abstract

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Lo stato della ricerca

In questo breve saggio si affronta la catena dei passaggi operativi che porta a riconoscere come musica un fenomeno acustico.

La situazione attuale di questi studi consiglia tuttavia di premettere all’indagine un quadro generale dello stato della ricerca.

Di solito ci si intende bene. Migliaia e migliaia di produzioni acustiche sono riconosciute in comune quali opere musicali, tutt’al più mutano i giudizi, di belle, brutte, indifferenti. L’accordo è anche più ampio: un valzer fa volteggiare, una marcia dei bersaglieri, di Radetzky, porta a muovere le gambe o a pestare i piedi in quel certo modo, la preghiera di una vergine, commuove etc. Si riconosce che c’è una musica allegra, gioiosa, una musica triste, dolente etc.

Tuttavia la catena che collega il fenomeno acustico con questi riconoscimenti è ben povera di anelli, non tanto perché manchi una sua analisi in termini di tecnica musicale, melodia, armonia, ritmo, forma etc., ma per descrivere che cosa avvenga nel nostro organismo affinché si pronuncino quelle parole, che cosa vi accada di fisico, di mentale, di psichico. Perché allegra? Perché triste? Bastano le note rapide, le note lente? Forse siamo un po’ pessimisti, ma ci si chieda quale sia lo stato del nostro sapere rivolgendoci alcune domande anche su un materiale acustico povero come questo:

Potremmo parlarne come di “uno” o “due rumori”, “suoni”, “note”, un “intervallo”, un “salto”, un ”tema”, una “monodia” o anche “polifonia”, se alle due note fanno riscontro due pause di eguale valore.

Che cosa fa la nostra testa? Un’espressione come “prima” o “seconda” nota, già turberebbe, oltre che del musicista, anche i sogni del matematico. Lo studioso che cosa avrebbe da suggerire ad un cibernetico incapricciato nella costruzione di una macchina musicale e parlante? Il richiamo alla macchina non è incidentale. Oltre ad essere un po’ la mia storia di cibernetico, la costruzione dell’artefatto a nostra immagine e somiglianza è la prova di quello che sappiamo su di noi, senza illusioni, senza magie, cioè

senza ricorrere a espressioni irriducibilmente metaforiche, negative e contraddittorie, destinate alla mistificazione.

Naturalmente, per rispondere si può provare. Per esempio data la stessa stimolazione acustica, che cosa succede di differente, interpretandola come rumore o come suono? Si nota che nel rumore, si rompe il silenzio, che viene “mentalmente” lasciato, mentre nel suono, esso viene “mentalmente” conservato e per costituirne un rapporto. Ciò che avviene anche nel passaggio fra “tinta” e “colore”. Ma che cosa vuol dire quel “mentalmente” che si aggiunge all’orecchio? Che cosa si è inteso facendo appello ad un “un terzo orecchio”? (vedi Mario Delli Ponti) E si potrebbe parlare di un “terzo occhio”?

 

L’errore

Nel corso dei miei studi, anche di estetica musicale (Ceccato, 1987), sono giunto alla convinzione che un’indagine in questa direzione trovi un ostacolo, non solo in certe carenze di anatomo-fisiologia, di biochimica e biofisica e simili, ma proprio di principio. In breve, le scienze fisiche andrebbero bene finché si rimane nel loro ambito, ma quando se ne esce, e qui bisogna uscirne, molto si offusca. Mi provo a raccontare che cosa può essere accaduto. La curiosità per uno studio globale dell’uomo e le sue difficoltà sono state ufficializzate almeno venticinque secoli fa, sia in Grecia che in India.

Presumibilmente, questo è avvenuto per la concorrenza di vari motivi, una vera e propria congiura (Ceccato, 1988).

Basterà accennare al più influente: una fortunata e sfortunata coincidenza fra la percezione ottica e quella tattile.

L’uomo dispone infatti di organi che, come la vista, fanno collocare il risultato della percezione a distanza dal corpo di chi osserva; e di organi che, come il tatto, fanno collocare il risultato a contatto.

Nella vista viene oltrepassata l’aria, o anche l’acqua, trasparenti, per fermare lo sguardo sull’opaco; nel tatto, viene attraversata egualmente l’aria, od anche l’acqua, molli e fendibili, per fermare la mano sul duro, resistente. Eliminata è sempre l’aria, la stessa aria che circonda i percepiti, sicché di solito i risultati dei due organi, vista e tatto, coincidono nella forma, dimensioni, collocazione spaziale e temporale e in rapporto agli altri oggetti percepiti. (Rari sono sia l’opaco molle e fendibile, per esempio, della nebbia, del fumo, sia il trasparente duro e resistente, per esempio, del vetro).

Ne proviene una tentazione fortissima (anche senza tener conto delle altre tentazioni): che il percepito visto lontano, preesista siffatto al tatto, a chi si muove per toccarlo, a chi si accinge ad afferrarlo, e lo farà (quale “concreto” che, appunto, si vede e si tocca, quale “reale” nel percepito confermato, e quale “astratto” nel caso che la vista non sia sostenuta dal tatto). Tutto bene, una circostanza fortunata che permette all’animale di afferrare gli oggetti a colpo sicuro, di muoversi veloce senza sbattervi contro. Tutto bene, però, finché non si rifletta sulla situazione.

1) L’oggetto visto lontano, fuori dal corpo di chi osserva, staccato, va trasferito al nostro interno per farne quel contenuto mentale che tutti avvertono in sé. Come può avvenire? Anche perché il percepito resta al suo posto, esso va sdoppiato, ed i due debbono coincidere. La fantasia si sbriglia. Si cerca un aiuto nel riflesso dell’acqua, nell’eco dei suoni, negli effluvi, negli eidola per le figure. Essi prendono la via di qualche orifizio del corpo, si invertono i sensi mutuati dalla sensibilità e trasformati in canali che li portino al cervello. Si immaginano anche raggi che escono dagli occhi per cogliere gli oggetti lontani, a guisa di manine. Si ricorre al raddoppio proprio della convenzione informatica e comunicativa.

2) Ma come effettuare un confronto fra la cosa esterna “incognita” e quella interna, la sola “cognita”? Nell’eco i suoni sono due, non uno, confrontabili, e così le figure nei riflessi. L’informazione avviene attraverso una convenzione, un codice, stabilito in precedenza alla presenza delle due cose etc. Si ricorre alla “conoscenza”. Ma la conoscenza comporta una ripetizione nel tempo di una cosa già stata presente (si conosce Parigi ove si è abitato, il francese che si è studiato), non una ripetizione nello spazio, fra una cognita ed un’incognita. Che “conoscenza” potrebbe essere questa? Ci si affida persino ad un buon Dio che garantisca la coincidenza, la adaequatio. O si dota l’uomo di una speciale facoltà. Ma, in caso di disaccordo? Anche perché quel “raddoppio conoscitivo” permette di asserire qualsiasi cosa di qualsiasi cosa come vera o falsa, come reale o apparente; e la parola acquista così un peso enorme non solo sui pensieri, ma sulla stessa percezione.

3) Un’altra difficoltà è sollevata dall’inevitabile fisicità della cosa esterna. Bisogna toglierla, perché la testa è già piena di una sostanza fisica sua, il cervello, e non supera certe dimensioni. Come inserirvi una casa, un albero? Nella testa, il percepito non potrà comparire quale attività perché vi giunge già fatto, compiuto; sarà quindi un “ente”. E non sarà mai “concreto”, perché, togliendogli la fisicità, se n’ è fatto un “astratto”: sono le famose “entità astratte”, le “idee”, i “concetti”. Le due cose, esterna ed interna, devono così essere insieme eguali e differenti fra loro.

 

L’uomo spaccato

L’uomo si trovò così rotto in due parti irriconciliabili: a) il suo corpo o soma, fisico, spaziale, la “materia”, e b) la mente e psiche, lo “spirito”, collezione delle “entità astratte”, non misconoscibili ma sfuggenti. Erano raggiungibili soltanto con la mediazione della parola, i nomi portati per natura dalle cose od erano identificate brutalmente con qualche parte del corpo, la ghiandola pineale per lo spirito, i muscoli per la volontà, i tendini per la passività, i bottoni sinaptici per il libero arbitrio. La ricerca sarebbe stata inconcludibile. Giusto chiamarla philosophia, amore del sapere, ma purtroppo inconcludente, perennis.

 

Una revisione radicale

Per superare la difficoltà, tolto l’errore del raddoppio del percepito, della panfisicalizzazione, dell’astrazione etc., bisognava ricominciare da capo, sì, proprio dalla percezione. Già Kant aveva notato come non tutto provenga dalla percezione. Ma allora, quest’altra parte, da che cosa proviene? Come si costituisce? Tuttavia, proprio nel vivere quotidiano, si trovava la risposta, la “rivelazione”. Di guida erano soprattutto due constatazioni.

A) La prima era offerta dalla varietà delle risposte suscitate da una stessa cosa fisica, o meglio, i tanti modi di vederla e di parlarne. Un esempio è già stato dato con i due suoni:

Due note? Un tema? Un intervallo, un salto? Etc.

Un tracciato:

era subito immerso in questa ricchezza. Che cosa vi si vede? Un rombo, un quadrato, un parallelogramma, una figura, una forma, un quadrilatero, un quadrangolo, un aquilone, una finestra, nero e bianco, carta e inchiostro, etc. Risposte tutte giuste, ma anche tutte a conclusione di nostre operazioni mentali avvertite ben differenti.

Nel rombo, per esempio, lo sguardo separa prima l’angolo a sinistra, passa poi a quello di destra, viene effettuato un confronto fra i due etc.

Nel parallelogramma, sono confrontate per la parallelità i lati opposti:

Alle operazioni differenti seguiranno quelle parole differenti. A loro volta, quelle parole, faranno eseguire quelle operazioni. Del tracciato niente veniva modificato, ed al cessare dell’operare niente gli poteva restare di quei risultati, di quegli apporti, di quelle investiture. Dunque, l’uomo dispone di due modi di operare opposti: con uno modifica le cose, le trova in un modo e le lascia in un altro; con l’altro le costituisce, le pone in essere ed i risultati spariscono con lo stesso operare.

B) Ora si doveva individuare di quale attività si trattasse, e se legata quale funzione ad un organo, di quale organo si trattasse. Ad un certo momento sentiamo in bocca il sapore di un cibo ingerito forse anche tempo prima. Sì, ho bevuto un caffè, me n’ero dimenticato; ma ora il suo sapore è ben presente. Ecco la pressione fra piedi e scarpe. Le indosso da stamane, del tutto dimentico, ma ora tu vi hai richiamato l’attenzione. Chi sente sedendo il contatto e peso del suo sedere sulla sedia? Distratto dalla lettura, sino a questo momento, non percepivo il rumore di fondo che giunge dalla strada.

Dunque, un organo può funzionare, ma il suo funzionamento può sia passare inosservato, sia esser fatto presente, naturalmente non quel funzionamento quale osservato, ma assieme alla presa attenzionale che ne fa un contenuto mentale. A quel funzionamento è stata applicata un’altra attività: l’attenzione. Se l’attenzione si stacca, esso torna a sparire.

L’attenzione! Essa si ottiene in risposta ad un: “Attento!” che “svuota” la mente. Essa è ora pronta ad applicarsi a qualsiasi cosa, appunto già in risposta alla parola “cosa”: “Che cosa è …?” Questa “cosa” non corrisponde a nessun particolare percepito, di necessità deve quindi applicarsi a se stessa, cioè lo stato di attenzione deve combinarsi con un altro stato di attenzione.

La scoperta era preziosa. L’attenzione veniva non solo individuata, stanata, ma anche riconosciuta quale prius della vita mentale. Se non era accaduto prima era perché, supponendo trasferite al nostro interno tutte le cose di per sé già fatte essa poteva comparire nei loro confronti soltanto come un posterius. Per esempio, precederle quale vigilanza, o seguirle nel dirigersi-su, applicarsi-a etc. in risposta a: “Sta all’erta”, “Bada allo scalino”, “Non distrarti” etc. Inoltre, gli stati di attenzione dovevano essere più di uno, cioè discreti, e doveva quindi trattarsi di un’attività pulsante, bistabile. Se ne potevano calcolare persino le durate, circa un secondo, con stati da un decimo di secondo al secondo e mezzo – due. L’altra scoperta era che al variare di queste durate, superando i limiti “normali”, se ne avvertiva una ripercussione sui circoli del respiro e del sangue, sentita come “psichica”. Ultima sorpresa. Fra i percepiti l’uno era sostituibile da un altro, ma la percezione non poteva mai offrire un non percepito, solo l’attenzione nello staccarsi ne provocava la sua negazione.

La negazione, quindi, aveva origine mentale, ed era possibile solo in quanto un sistema attenzionale si fosse staccato da un sistema sensoriale (il sistema nervoso centrale e quello periferico divenuti indipendenti ed interdipendenti?).

Mente, soma e psiche ritrovano così un’unità perduta, avvertita, cercata.

La spaccatura dell’uomo, nata con l’originario errore dell’indebito raddoppio del percepito sarebbe stata sanata.

Ora si potevano tener distinte per esempio le lacrime originate da un dolore proveniente dal pensiero, da quelle della cipolla tagliata, il riso del comico da quello del solletico, la bocca aperta dalla meraviglia e quella aperta dallo sbadiglio, l’atto sessuale nella sua meccanica fisica e l’espansione amorosa.

 

L’atomo di attenzione ed i moduli combinatori

Individuato nello stato di attenzione l’atomo della vita mentale, si trattava ora di vedere come si combinavano fra di loro questi stati e con quali risultati.

Veniva in aiuto la meccanica. L’attenzione poteva venir identificata, dalla parte dell’organo, con qualsiasi attività bistabile, per esempio il circuito elettrico, pneumatico, idraulico etc.

Essi possono venir alimentati separatamente, come circuiti paralleli, l’uno attraverso l’altro, come circuiti in serie (anche le catene neuroniche aperte e chiuse sembrano collegarsi in questi modi).

Una volta, poi, ottenuti separatamente i due stati, essi possono A) sia essere conservati tali nella combinazione, B) sia fatti confluire: a) il primo sul secondo, b) il secondo sul primo, o c) entrambi su un terzo.

Un totale di cinque moduli combinatori.

Seguire queste combinazioni attenzionali, tuttavia, è davvero difficile quando non si disponga di un’apposita scrittura.

Per indicare l’atomo, il singolo stato di attenzione, si scelse la sua iniziale, la S. La combinazione degli stati venne segnata sovrapponendo loro delle sbarre orizzontali indicanti, dal basso verso l’alto, l’ordine di ingresso nella combinazione degli elementi.

Ecco i cinque moduli combinatori.

Il primo modulo: S/S nella successione degli stati, la loro separazione, e quindi, per esempio, la virgola.

Il secondo modulo, S-S, per il primo stato mantenuto presente all’aggiunta del secondo. Nome corrente, “cosa”. Prende il posto, nel mentale, del percepito-rappresentato.

Il terzo modulo, S S per il trasferimento del primo stato sul secondo, contiene l’impulso, la spinta in avanti.

Il quarto modulo, S S per il trasferimento del secondo sul primo, il riprendere, la “coscienza”.

 

Il quinto modulo, S+S per l’arresto, il punto fermo. Già nel mondo dei numeri dovevano essere ben noti:

S / S nell’ 1 , 1

S – S nell’ 1 , 2

S S nell’ 1 + 1, il primo sul secondo addendo

S S nell’ 1 + 1, il secondo sul primo addendo

S + S nell’ 1 + 1 = 2

 

Una scrittura per la combinazione del mentale con l’operato di altri organi si avvale dell’O.

 

Florilegio combinatorio

Le combinazioni di stati attenzionali, a parte la difficoltà, o impossibilità, di identificarne la natura, non erano certo sfuggite ad alcuni pensatori, che ne avevano avvertito qualcosa di diverso dai risultati d’osservazione. La distinzione era già presente in Pitagora, lo fu in Hume, comparve nettamente in Kant, con le sue categorie (ed in omaggio a lui le combinazioni attenzionali si possono chiamare “categorie”). Il numero delle combinazioni, con 12 stati di attenzione ed i 5 moduli, diventa enorme, miliardi, e questo prescindendo dalle loro durate, intensità e fusioni con l’operato di altri organi:

 

STATI COMBINAZIONI

2 5

3 75

4 1.370

5 28.100

6 616.000

7 14.100.000

8 334.000.000

9 8.120.000.000

10 201.000.000.000

11 5. 070. 000.000.000

12 129.000.000.000.000

Quelle adoperate, riconosciute e designate sono nell’ordine delle migliaia. Esemplifichiamo con le più semplici.

Si sono visti i due stati:

S-S

per la “cosa”.

La struttura

___

S/S-S

costituisce l’oggetto. Si pensi di entrare in una stanza al buio, affidando al braccio-mano l’attenzione vuota, sospesa, in attesa di un eventuale incontro, di un toccare. Avremo un

___

S S-S

che al toccare resta

___

S/S-S

l’oggetto “puro” è “sentito” nella percezione.

Un passo ulteriore si ha nel vedere una cosa come singolare, plurale o collettivo: fogli-a, fogli-e, fogli-ame, alber-o, alber-i, alber-ame.

Si noterà che la foglia, l’albero, viene isolato premettendovi e facendovi seguire lo stato di attenzione:

___

S/S-S/S

Nel plurale avviene il contrario, la “cosa”, è seguita dallo stato di attenzione, S, seguito a sua volta dalla “cosa”, sicché lo stato di attenzione ne ottiene la separazione:

___ ___

S-S / S / S-S

Se il plurale viene ripreso come singolare si ha il collettivo, se il singolare viene ripreso come plurale, si ha l’elemento, rispettivamente,

collettivo:

elemento:

È interessante far vedere l’effetto del categoriale sulla percezione. Ecco la situazione che può aver dato origine al plurale, “cas-e”:

Anche se le cas-e si presentano attaccate, l’attenzione ora le separa:

*

Si ottiene 1’1 numerico con la ripetizione del singolare (essendo il “numero” ottenuto appunto, dal singolare ripetuto; e la ripetizione proviene dall’eguale visto nella pluralità).

Dal singolare si ottiene anche l’”unità”, con la ripetizione della “cosa” fra gli stati di attenzione.

Si poteva ora assistere alla nascita del “tempo” e dello “spazio”. Il primo da una pluralità ripresa come unità; ed il secondo da un’unità ripresa come pluralità. Si pensi alle gocce d’acqua sentite unitamente, e quindi entrambe presenti in quell’unità, e la singola goccia, spartita è compresente con le parti. Uno il gocciolare e più le gocce, più i passi e uno il camminare.

La cosa inserita nel tempo, temporizzata, viene “attivizzata”, ciò che è designato con i suffissi dei nostri verbi, “-are”, “-ere”, “-ire”, la “verbità” (come direbbe Giuseppe Vaccarino).

Non è comunque questa l’occasione per descrivere le tante e tante combinazioni di stati attenzionali. Accenneremo soltanto ad alcune di maggiore interesse per la musica. Certamente compaiono il “tenere” ed il “lasciare” mentali:

tenere

lasciare

Le due combinazioni entrano infatti a comporre l’”avanti” e l’”indietro”, il “su” ed il “giù”, la “destra”, e “la sinistra”, l’”alto” ed il “basso”. Per l’esperienza, si provi ad appoggiare una mano sul polso spostandola poi alla spalla. E si pensi una volta di andare avanti, ed una volta di andare indietro. Nel primo caso la mano si continua a vedere-sentire anche sul polso; nel secondo caso la mano si stacca dal polso, lo lascia.

Si osservi questo disegno, una volta come sole che nasce ed una come sole che muore:

Tenere e lasciare, mentali, si accompagnano con varie manifestazioni fisiche, per esempio i suoni che salgono e scendono, i numeri aggiunti e tolti, i vestiti indossati e spogliati, gli elementi introdotti ed evacuati, vomitati, la vertigine da vuoto, da agorafobia, e la compressione da folla etc. C’è soprattutto l’aria inspirata con i polmoni che si gonfiano e quella espirata con i polmoni che si sgonfiano.

Un aggancio con il cuore si rivela nelle due funzioni della pompa, premente e aspirante, ed un attento ascoltarsi fa avvertire ora più la sistole, ora più la diastole.

Indubbiamente il tenere e lasciare entrano a comporre il coraggio e la paura. Un’attenzione arrestata,

S + S

tenuta e scavalcata nel coraggio, e lasciata e ritratta nella paura. Si pensi alla pronuncia già delle due parole: un “coraggio”, che si espande, “coraggio-o”, ed una “paura”, che si ritrae, “pau-ura”, “pauraa…”. Un petto in avanti nel coraggio per il pittore e scultore, un petto ritratto, incurvato all’indietro nella paura. Ma forse l’antitesi più forte ottenuta con il tenere e lasciare è presente nel considerare una cosa come “la stessa”, “una stessa”, e come “l’altra”, “un’altra”.

Nel primo caso, ciò che si incontra viene continuato,

nel secondo, viene lasciato,

Per un’esperienza si sfiori con un dito la superficie di un tavolo e ad un certo momento si pensi di toccare la stessa superficie o un’altra.

La situazione diventa minacciosa se l’introduzione dell’alterità trascina quella dei valori, e l’altro diventa non ciò che si aggiunge di eguale dopo aver lasciato il precedente, ma il differente. Il male dell’altro diventa il mio bene.

Due combinazioni attenzionali usate ampiamente nella musica sono il “con” e l’”insieme”.

Nel “con” una cosa vista prima unitariamente viene divisa, e nell’”insieme” una cosa vista prima pluralisticamente viene unita. Le due direzioni si avvertono bene partendo da un disegno

pensando a Mario “con” Maria, ed a Mario “assieme” a Maria. Rispettivamente:

e

Il “con” è presente nella melodia, o canto, e accompagnamento. In generale la melodia è affidata alle note più alte, verso le quali si dirige l’attenzione, e l’accompagnamento alle più basse, dalle quali l’attenzione si stacca, l’aria espirata. Per ottenere il contrario si deve ricorrere all’intensità.

Quando nella parte inferiore la pressione del ritmo è accentuata mentre è alleggerita nella parte superiore, spesso, si dà vita alla musica “leggera”.

Il “con” si trova per la consonanza e dissonanza, nell’accordo e disaccordo, consenso e dissenso etc. Interviene qui la combinazione dell’”eguale” e del “differente”, ovviamente applicabile, perché mentale, a qualsiasi tipo di cose. Sicché di caso in caso non può essere senza il criterio per le cose fisiche e psichiche (a meno che non sia sottinteso).

Si ottiene l’”eguaglianza” quando due o più cose al confronto, cioè le une sulle altre (termine di confronto e confrontato) sono viste nella singolarità (per esempio un solo suono, un solo colore) e si ottiene la “differenza” se sono viste nella pluralità (nel caso del suono, per esempio, i battimenti).

La spiacevolezza nasce dall’antitesi fra la singolarità attesa e la pluralità rimasta e quindi un costrutto attenzionalmente sospeso. La dissonanza può divenire così una sollecitazione per risolverla.

Nell’accordo interviene l’“insieme”.

Nel contrappunto i suoni trovano un reciproco arresto,

Nell’armonia il rapporto avviene con un sistema di riferimento, nella tradizione classica per esempio, con una scala. L’antitesi attenzionale si ripresenta nel “vicino” e nel “lontano”. Fra le due cose va introdotto un lasso, una separazione, cioè S/S, un’attenzione che si stacca. Ma la sua posizione muta nei due casi. Nel “vicino” esso è legato al primo (per esempio alla persona che osserva) nel secondo al secondo:

vicino

lontano

Si provino le combinazioni con qualsiasi oggetto che si abbia davanti o si immagini. Per esempio il libro, che diventa vicino o lontano, ma anche Pekino, la Luna.

Nel vivere quotidiano le due combinazioni sono adoperate spesso per le persone, nel costituire il “prossimo” e l’”estraneo”, l’”escluso”. Per il tempo si provi a collocare vicino o lontano un ricordo (“Come? Solo un mese fa?” Oppure: “Come? Già un mese fa?”).

L’avvicinare e l’allontanare entrano nel costituire così i valori positivi e negativi, come l’andare verso, il chiamare a sé dei positivi, e l’allontanarsi, l’allontanare, il respingere, dei negativi, l’aspetto personale del bello e del brutto: mi attrae o mi respinge.

Si può rispondere alla domanda posta con l’esempio iniziale:

Che cosa si fa per sentire nei due suoni un intervallo od un salto?

Nell’”intervallo”, l’ S/S si trova egualmente staccata dai due suoni, nel “salto” essa è legata al secondo, è vista “superata “.

Le combinazioni del tenere e del lasciare sono state presumibilmente staccate da situazioni percettive di rumori più o meno intensi e di figure in prospettiva, il lontano più flebile, smorto, o più piccolo. Compariranno quindi rispettivamente nel desiderio e bisogno, bramosia, con l’intensità crescente e ciò che la sostenga di respiro e di cuore, e nella rinuncia, malinconia, nostalgia.

Un cenno al “tema”. Fa parte della combinazione cui dobbiamo anche il più generale soggetto sintattico. Una cosa è mentalmente mantenuta presente quando viene inserita nel tempo. Negli eventi fisici e psichici una cosa ci resta dinanzi o sparisce senza toccare questa presenza mentale. Che una persona dia o prenda schiaffi, sembri morta o finga di esserlo, cioè faccia o non faccia l’azione, lascia inalterata la soggettività.

Varia invece ciò che le accade nel tempo. Abbiamo per esempio il più semplice:

“fare”

l‘”agire” (presente nell’agitato)

l’”operare” (aritmetica, chirurgia, polizia)

lo “svolgere” (tema e svolgimento)

il “sostare” (pausa, riposo)

Ripeto che non è questa l’occasione per un ricco elenco di analisi. L’esposizione continua invece per il passaggio dalla microunità dei singoli costrutti mentali alla più ampia combinazione che li vede riuniti in triadi, nel modulo sostitutivo del pensiero ed in quello sommativo del ritmo.

 

Pensiero e ritmo

L’uomo non si limita a comporre i singoli contenuti mentali, puri o legati alla percezione o rappresentazione, ma li connette, ponendoli in rapporto fra di essi.

Si aprono qui tre possibilità: A) Il rapporto è posto fra i due termini; B) il rapporto è posto alla fine dei due termini, congiungendoli quindi dopo la loro presenza, del primo prolungamento sul secondo; C) il rapporto è posto prima dei due termini.

Il rapporto posto fra i due termini (A), dà luogo al pensiero: non già al parlare di “pensiero”, ma al pensiero effettivo.

La combinazione designata “pensiero” è:

Per esempio: “Il mio pensiero è corto”.

Ecco un esempio di correlazione del pensiero, quello dell’ “e”:

“bottiglia e tappo”

ove il rapporto è posto tenendo mentalmente presente, ma con separazione, il primo termine all’aggiunta del secondo:

Od anche: “bottiglia con tappo”

Od anche: “bottiglia a tappo”

Questi rapporti sono qualche decina, rappresentati per lo più dalle preposizioni, congiunzioni, suffissi, posizione assegnata ai nomi dei termini.

Il rapporto posto alla fine dei termini (B), dà luogo al ritmo, con il termine precedente, appunto, trasferito sul successivo: non già al parlare di “ritmo” ma del ritmo effettivo.

La combinazione designata “ritmo” è:

“Con ritmo pari rapido”.

Il ritmo rappresenta l’elemento costitutivo, originalizzante dell’Arte, ciò che il produttore infonde e ciò che il fruitore riceve.

Cogliere il ritmo è facile, se si parte da una situazione di cronaca corrente, per esempio dal fluire del pensiero-discorso.

Bisogna anche liberarsi della convinzione aristotelica, fisicalista, sempre quale conseguenza dell’indebito raddoppio del percepito, che il ritmo consista in una ripetizione di intervalli spaziali e temporali eguali fra di loro, che ne ostacola la consapevolezza operativa.

Un esempio di guida può essere il contare, 1, 2, 3, 4 etc., od una serie di plac, plac, plac, plac etc.

Se questi suoni devono essere usati come sostegno di un ritmo, in una marcia, si ha, non il loro seguito uniforme, di pari intensità, ma l’ l – 2, un “battere” ed un “levare”, ove l’ 1 è più marcato del 2, 1 – 2, e cosi si espande e perdura in questo. Se poi i tempi non sono due, ma quattro si ha il doppio trasferimento:

1 – 2 – 3 – 4

 

_____

 

In un ritmo ternario, come avviene nel valzer, si ha un

1 – 2 – 3

un forte e due deboli; un battere e due levare.

Si può rispondere anche ad una vecchia curiosità. Perché il ritmo binario spinge avanti e quello ternario può portare a girare e comunque a sentirsi leggero.

Nei ritmi binari si è semplicemente portati avanti, il forte scaricato sul debole, mentre nei ternari, la congiunzione del terzo con il primo fa tornare indietro per ricevere pariteticamente al secondo la forza di questo. Quindi si ruota, e si può avere il volteggiare per esempio appunto del valzer, quale mimesi spaziale dell’attività mentale.

Non diversamente nelle volte ad ogiva.

Se invece il seguito è attuato senza il ritorno, si ha soltanto l’impressione della leggerezza.

Si continui l’esperienza con la varietà dell’accentuazione ritmica applicabile ad un seguito di palline, ove il raggruppare è indicato con un anello ed il primo elemento viene quindi accentuato e mantenuto presente:

e così via. L’ultimo, una specie di fermaglio nella collana.

Nella rotazione si aggiunge una forza centrifuga, che accentua l’espansione dell’energia nervosa, si tende ad alzarsi da terra, ad avvitarsi nell’aria. Onde la tristezza generata per esempio dal valzer se questa spinta viene contrastata, mentalmente ostacolata: il valzer offensivo.

La leggerezza è dovuta, nella musica, nella pittura, nei versi etc. dal numero maggiore degli stati di attenzione staccati, al levare, in rapporto a quelli applicati, al battere, come nella struttura attenzionale del “vuoto” in rapporto a quella del “pieno”:

 

vuoto pieno

Si pensi alla gravezza del decasillabo, con i suoi tre accenti su dieci sillabe, ed al quinario con un accento su cinque sillabe.

Si contrappongano le sottili e alte colonne separate da ampi archi, e le colonne basse, tozze e ravvicinate del mausoleo della cripta. Con il ritmo, le durate degli stati di attenzione sì accompagnano con le pulsazioni cardiache respiratorie.

Questo straordinario gioco polifonico si intreccia nell’arco melodico con cui Stravinskij invita al volo delle rondini:

L’arresto, la pausa, nel punto del ritorno, segna il passaggio dall’aria inspirata a quella espirata sino a chiudere il giro.

Un’analisi utile potrebbe venire dall’antitetica costituzione del moto e della figura o forma. Nel moto si lascia ciò da cui si parte, si sposta la sedia, si sposta la data etc. Nella figura, o forma, ciò da cui si parte rimane mentalmente presente. Se ne faccia l’esperienza ruotando un braccio e pensando di spostarlo e poi pensando di tracciare un cerchio, di effettuare una curva. Fra figura e forma, la distinzione nasce dal costituire la prima dall’interno (per esempio la croce come figura di Cristo) e la seconda dall’esterno (le forme disciolte dai veli, fra i veli).

Un’altra analisi utile per il musicista può essere legata al confronto, con i risultati di eguaglianza e differenza, in particolare se il termine di confronto è stato assimilato, incorporato, ciò che lo rende poi pronto ad entrare in azione.

Come pur si è visto, nel primo caso le due parti si rafforzano reciprocamente; nel secondo l’attenzione rimane spiacevolmente sospesa. Quale esempio ci si avvalga di una scacchiera sulla quale un pezzo sia rimasto fra due caselle di appartenenza. Si tende ad aggiustarne la posizione come si tende a raddrizzare il quadro che appeso alla parete “irregolarmente” dà fastidio.

La scala musicale è un sistema di riferimento apprestato e confermato nei secoli, quegli intervalli fra le note, quell’inizio, quella fine, il ritorno alla nota di partenza. Il sistema di riferimento può avere una base fisico-acustica o no, ma in ogni caso per agire deve essere stato incorporato (come gli imperativi invalsi nell’etica, che ne rendono spiacevole la disobbedienza, quale morso della coscienza, rimorso ).

Avvenuta in occidente l’assunzione della serie di suoni in quell’ordine riesce difficile ad uno di noi non concludere un do-re-mi-fa-sol-la-si con un “do”. Si ricordi l’“O terra addio” nell’Aida: arrivo all’ottava dopo la settima (e ritorno nell’“Addio”).

Il ritmo entra a rafforzare tutto questo, con i suoi schemi, i tempi, nella misura come nella metrica nel verseggiare, la cornice del tempo vuoto premesso e fatto seguire ad ogni verso, l’andare a capo prima della fine della pagina.

È così possibile introdurre nella musica la figura ritmica nota come la “sincope” (impossibile nel gregoriano). Ciò che viene assegnato ad un tempo debole, di attenzione staccata, viene trasferito su un tempo forte, di attenzione applicata e l’attenzione sospesa frena respiro e sangue.

Si rimane senza “fiato”; nello stupore, nella meraviglia, nel boccheggiare si richiede un supplemento di energia nervosa, di aria per “far posto” all’inaspettato.

La terza possibilità, (C), di porre il rapporto prima di presentare i due termini, corrisponde ad imporre subito il rapporto designato.

Si trova in espressioni come “e bello e buono”, “o bello o buono”, nell’annunciare i tempi della musica. Si trova nelle indicazioni agogiche, come il punto di domanda ed esclamativo che nello spagnolo precedono le frasi.

È l’assunzione di un atteggiamento prima di trovarvi un contenuto, spesso rappresentata da un titolo, un’indicazione appunto agogica di ciò che seguirà: “allegro”, “largo”, “con brio” etc., spesso aggiunto all’indicazione del metronomo.

 

La designazione del pensiero e del ritmo

L’operare interno della mente, sia nel pensiero che nel ritmo, con le sue triadi, abbisogna per essere reso pubblico, espresso in una verbalizzazione o scrittura, di sei informazioni per ogni triade: tre per indicare le tre particolari cose messe in combinazione, e questo è il lessico della lingua; e tre per indicare le tre funzioni ad esse assegnate, di correlato primo o secondo o di correlatore, e questa è la sintassi della lingua.

Per la scrittura si è convenuto di adottare uno schema di ispirazione topologico-musicale:

Le informazioni sintattiche sono però riducibili a due perché una volta stabilito il posto di due delle cose, il terzo rimane implicitamente fissato. Un’ulteriore riduzione a quattro è possibile se le designazioni vengono suddivise in due ordini: quelle che non possono fungere da correlatori e quelle che lo possono, e di solito lo sono, come le preposizioni, congiunzioni, suffissi etc.

Naturalmente, l’uomo non limita le sue composizioni mentali alle singole triadi. Maturando, le sviluppa, le allarga, sino a farne reti di 5-7 secondi, ed allora, condensando il già compiuto in unità di circa mezzo secondo, riapre altre reti.

Si hanno così sia pensieri che opere d’Arte dal “respiro” molto ampio (distinguerei, per un musicista, due tipi di espansione: quella che trae origine da un unico nucleo propulsivo, per esempio Wagner, e quella che elabora gli elementi successivi traendoli dai precedenti, per esempio Debussy).

Si parla così di periodi, in musica composti e scomposti in semiperiodi, questi in colonne, le ben note otto misure etc.; e si conosce la composizione e scomposizione pure in periodi, frasi principali, secondarie etc. nel pensiero-discorso correnti.

Spesso la designazione è parecchio carente; e chi comunica supplisce con il suo sapere diffuso, cioè con un operare consecutivo, che si aggiunge a quello costitutivo del rapporto semantico.

L’operare consecutivo è molto ampio, soprattutto se le persone che comunicano sono adulte e colte. Si pensi del resto alla lettura personale del quadro, all’apporto interpretativo dell’esecutore o del direttore d’orchestra. Solo nei linguaggi “simbolici” questo viene evitato, irrigidendo i significati a quelli e solo a quelli. Vale infatti forse per un 12 e 14, ma già un 13 pur prelevato dai numeri, può venire accolto con timori e speranze che non si spiegano con nessun “furor mathematicus“.

L’uomo trascina con sé un flusso operativo, dopo le sue esperienze fisiche, mentali e psichiche. Queste vengono ripetute in modo consapevole ed inconsapevole in vari modi. Solo per ricordare i principali si trova la ripetizione tal quale, dell'”imparare a memoria”, ma più spesso la ripetizione in forma selettiva, riduttiva, associativa, e se le due forme sono congiunte, con forza polarizzante, si hanno ripetizioni condensative, riassuntive, espansive, propulsive, elaborative, di mantenimento di presenza etc.

Quando la ripetizione è consapevolizzata, se il riferimento è spostato nel passato, si ha la “memoria”, se è spostato nel futuro, si ha la “volontà”, la “scelta e la libertà”, la “progettualità”, l'”intenzionalità”. È così che l’uomo cambia per il suo stesso operare.

 

Vita e ritmo

Il ritmo può venire costituito dalla mente in modo relativamente autonomo, quando è presente come “ritmo interno”, ma anche esprimersi nell’attività motoria, nel modo di adoperare gambe, piedi, fianchi, movimenti del collo-testa. Può venire sostenuto e reso sostenente con il battito delle mani, un tamburo etc. Si può intrecciare con ogni nostra attività, a cominciare dal pensiero-discorso, che vengono artisticizzati, nella pittura, scultura, danza etc. Si ricordi il “recitar cantando”. Il ritmo è tonificante, grazie al modulo attenzionale sommativo.

Per questo i lavori pesanti od anche soltanto lunghi e noiosi hanno spesso ricevuto un aiuto dal canto: vogatori, mondine, vignaioli etc. Il “Canta che ti passa” racchiude tutto questo. Sia il pensiero che il ritmo hanno origine mentale. Forse la base organica riposa in parte su organi diversi (emisfero sinistro, emisfero destro, corteccia e talamo, ipotalamo?). Soppressa l’attività attenzionale comunque non sono possibili né il pensiero né il ritmo.

Quanto alla frammentazione attenzionale percettiva, non deve essere inferiore o superiore ad una certa durata.

Per questo è fornita soprattutto dagli occhi e dalle orecchie, ma non dagli odori e dai sapori lunghi a costituirsi e lunghi a sostituirsi, a sparire.

 

Il bello ed il brutto

Cominciava a prendere “veste meccanica” anche l’espansione attenzionale, riconosciuta positiva, verso la piacevolezza; e l’arresto, la ritrazione, riconosciuta negativa, verso la spiacevolezza. Si rintracciano nei valori, in particolare il bello e brutto, buono e cattivo, vero e falso, giusto ed ingiusto etc. Si spiega in termini di “meccanica” pure la soddisfazione accresciuta allorché un’ attenzione arrestata viene liberata, nel comico e nel meraviglioso.

Un aiuto veniva anche dal ricordo di studi (naturalmente altrui) di anatomo-fisiologia, nei quali il piacere era cercato in una sincronia di conduzione delle fibre nervose ed il dolore, la sofferenza, in una desincronia.

Un altro aiuto era offerto dall’acustica, come il risuonare delle corde per “simpatia”, ed altre branche della fisica, per esempio i due pendoli che si influenzano. Innumerevoli esperienze positive del sentirsi sostenuti, nel consenso, raddoppiati nell’amico, la sicurezza riposante nell’obbedienza all’imperativo, la soddisfazione nel rispondere all’interrogativo.

Si sa anche che i movimenti altrui, attraverso la vista, si comunicano ai nostri (cani e cavalli si mettono al passo in una corsa). Si sbadiglia sullo sbadiglio, una curiosità è subito diffusa (basta che uno guardi l’orologio). Il dondolio della testa segna il dondolio delle note ascendenti e discendenti mediate dal tenere e lasciare attenzionali. Così si comunica il riso. Quanto al sorriso, esso porta verso l’altra persona e la chiama a sé. Si ricordi l’espansione attenzionale nella tenerezza, propria del “tenero” nel quale si penetra, trattenendosi nell’avanzare fisico, arresto che si tramuta in commozione.

Fondamentale è sempre la mediazione dell’attenzione. Anche chi nell’opera d’Arte cerca la verosimiglianza cerca un sostegno nel confronto: il paesaggio, mare, monte, pianura, figura umana, vegetale o animale, e l’esclamazione che ne segue: “Sembra vero!”

Si capisce così come per lo più la negazione sia avvertita spiacevole, proprio per la sua costituzione attenzionale: di un lasciare, abbandonare, staccare, che impediscono il flusso, l’espansione attenzionale:

È la sofferenza ed il vuoto di chi, dinanzi ad ogni cosa, opera prospettandosi un’alterità (“Sì, ma i miei interessi sono altri” un altro che non si preciserà mai; od anche “Ma questo non basta” ). Il fastidio del verso poetico che non ricalca una metrica nota o ne ricalca una diversa da quella introdotta. Ci si diverte rompendo con un sorriso la situazione spiacevole:

Rataplan e s’andava alla guerra

Come al ballo cantando si va.

Rataplan, rataplan(plan), rataplà.

Dunque, si poteva adoperare, almeno come ipotesi di lavoro, che la positività dei valori consista in un fluire attenzionale, sostenuto, impresso etc. e che la negatività consista in questo flusso negato respinto.

Come provocare, sbloccare con la musica questi arresti attenzionali?

 

Vita ed Arte: i generi

Da tempi presumibilmente molto lontani si sono costituiti nel nostro vivere episodi, eventi distinti in lieti e tristi, ilari e rassegnati, drammatici e tragici, poetici e lirici, amorevoli ed indignati, eroici, comici, funerei, agitati, ansiosi, distesi etc.

In essi deve essere presente una combinazione attenzionale che li caratterizza, una cellula, un nucleo.

Aggiungendo il ritmo, fissando i raggruppamenti e le durate degli stati, la loro intensità, si sono avute altrettante opere d’Arte nelle quali si sono espansi ed arricchiti.

Si tratta di millenni di maturazione; ed ora ne dovremmo rintracciare i primitivi nuclei attenzionali.

Qui ne faremmo un cenno, come invito a continuare l’indagine.

Già Aristotele parlava per la tragedia, di una “catarsi”, di un vuoto, di una cessazione, di una liberazione. In seguito all’errore del raddoppio del percepito egli individuava però questo vuoto, questa liberazione, non in un gioco attenzionale, ma in certi contenuti di cronaca, come la morte di una persona, una distruzione etc.

Oggi possiamo capire perché le cose non stiano cosi.

All’artista basta una sola parola, se pronunciata in quel modo, a suggerire l’atteggiamento voluto.

Per la tragedia, basta quel “Notte…!” all’inizio dell’Oreste alfieriano: i puntini grafici per l’attenzione ritratta ed il punto esclamativo per una forza, intensità improvvisamente fatta cessare:

Voce che risuona nella piazza buia e vuota.

Nel dramma, questa combinazione attenzionale viene rovesciata. L’evento non si è ancora compiuto, è solo temuto, e nella paura l’attenzione è ritratta, sospesa:

Quante volte ricorre, per esempio nel Tristano e Isotta!

Nel poetico l’attenzione non si stacca da un punto di partenza, vi si espande senza interruzione. Il poetico è immobilizzante. Si torni a quel “Notte”, per sentirlo poeticamente. Nella perduranza poetica è possibile che essa risulti segnata e sfumata dalle pulsazioni, quattro o cinque, del cuore.

Si controlli questa impressione cercando di vedere la poeticità della notte attraverso uno spiraglio alzando gli occhi in una calle veneziana. Per vedere come poetico un mare agitato bisogna lasciare le creste, le increspature.

All’opposto si possono assegnare all’attenzione brevi unità, sul mezzo secondo. La percezione si stacca, si sposta, come avviene nel grande arazzo od affresco, od anche musiche di scene di caccia, di vita nei campi e simili. È un mondo vivo, ma non trovo un termine tecnico per questo genere. Le unità attenzionali lunghe, della durata del secondo e più, danno invece origine al lirismo che canta, dei suoni che invitano al canto.

C’è l’episodio eroico, c’è la manifestazione del coraggio come quello della paura.

Le due combinazioni attenzionali, per il coraggio e per la paura, hanno in comune, come si è visto, un arresto dell’attenzione però con due opposte conclusioni: l’attenzione che scavalca l’arresto e l’attenzione che retrocede, rispettivamente:

Naturalmente lo specifico apporto semantico può esserci o non esserci.

Promana dalla Cavalcata delle Walchirie. Come promana dal Proemio della Nave. In questo, assieme al ritmo, lo scavalcamento è imposto con violenza dalle rime baciate:

Ma l’espressione semantica, appunto, si può trovare esplicita: “Ho paura, … ho paura, … che mai sarà di noi Romeo?”

Forse soltanto una convinzione suggestiva portò i Greci a connettere gli atteggiamenti con i vari “modi” delle loro scale (fino a quello che assicurava la fedeltà del coniuge). Ma non c’è dubbio che il gioco attenzionale provenga dalla vita e vi ritorni agganciando l’intero organismo.

 

Materiale per la musica

Dopo la costituzione del ritmo il materiale più significativo per l’artisticità del fenomeno acustico è affidato a quel tenere e lasciare attenzionali, già visti. Il tenere porta verso l’alto, il lasciare verso il basso, e compaiono i legami con la respirazione, i battiti cardiaci, il battere e il levare dei tempi, i suoni ed i silenzi (ricordo una conoscente il cui polso accelerava sino a cento-centodieci pulsazioni alla voce del tenore Fleta. Perché Fleta e non per esempio Gigli?).

Tempi, anticipazioni, ritardi, sincopi portano ad approfondire l’analisi del tempo.

Se ne è vista la costituzione, una pluralità vissuta quale unità:

Al tempo, per ottenere il “momento”, si aggiunge il singolare che, ripetuto, dà luogo all’istante; per la “durata” al momento si aggiunge il plurale.

Di maggior interesse, tuttavia sono le posizioni assunte nel tempo, cioè passato, presente e futuro e le loro combinazioni.

Nel presente, due cose (momenti) sono combinate, con il modulo del mantenimento:

Per il passato e per il futuro viene introdotto fra le due un intervallo,

S/S

combinato con ciò che segue per il futuro e con ciò che precede per il passato:

e

entrambe le combinazioni con le due possibilità, che l’intervallo sia assegnato alla prima per il futuro prossimo, che sia assegnato alla seconda per il futuro venturo, e nel caso del passato si hanno il passato remoto e il passato prossimo. Altre combinazioni sono il futuro anteriore ottenuto dal futuro assieme al passato, e l’imperfetto ottenuto dal passato assieme al presente.

Come portare tutto questo nella musica? Come è stato portato?

 

Il terapeuta e gli atteggiamenti

L’interesse del terapeuta per gli atteggiamenti è molteplice. Si ricordi, fra l’altro, che l’atteggiamento non è soltanto un modo di reagire alle cose, di rispondere agli stimoli, ma anche, e soprattutto, un modo di andare in cerca di cose provviste di certe caratteristiche; e pertanto l’atteggiamento è la principale molla che, non trovandole già fatte, spinge a produrle, ad apprestarsele.

L’atteggiamento estetico porta alle opere d’Arte prodotte, fruite, a visitare i luoghi d’Arte.

L’interesse del terapeuta, e già del didatta, è di introdurre l’uomo fra gli atteggiamenti e gli atteggiamenti nell’uomo, controllandone il dosaggio. L’uomo monovalente avrà facilmente un gusto solo, sarà ossessivo e se l’atteggiamento lo lascia insoddisfatto, facilmente si disinteresserà di ogni cosa, rapporti sociali, la sua stessa vita.

La stoltizia di chi ride di tutto non discende dal suo senso del comico, ma dall’introdurlo a scapito di tutti gli altri.

Va curato un contrasto fra gli atteggiamenti perseguiti, affinché non si ostacolino a vicenda, generando per esempio sensi di colpa, fra egoismo e socialità, fra sessualità ed etica e simili.

Il terapeuta si provi a consapevolizzare l’uno e l’altro atteggiamento nel paziente. Sarà più difficile che questi metta in atto una difesa, una resistenza.

Un pericolo alla terapia può essere l’assuefazione al rimedio. Come in altre medicine, dopo un po’ l’organismo si abitua e non risponde più. Saturati di musica, si ha l’impressione che essa ci circondi e ci sfiori come “l’acqua sui sassi”.

Wagner, come può essere sentito quale amico e quale nemico? Intervengono forse i suoi lunghi archi di memoria, cioè fra i modi di ripetere, quello di mantenimento di condensazione e di propulsione? Io devo una confessione. Non ho alcun dubbio che il mondo wagneriano per certi aspetti si opponga al mio, che tante volte sono attratto dalle soluzioni di un Rimski Korsakoff. Per questo, forse non sento il bisogno di un’esecuzione wagneriana. Tuttavia, colto da questa musica, almeno da certe pagine, trovo difficile staccarmene. Guarirò? Dovrei guarire?

Vediamo un caso particolare. Una persona soffre di solitudine, di nostalgia, di malinconia, infine di disperazione. Con la musica si può fare qualcosa? Anche perché qualcuno potrebbe risponderci che alla musica non riesce a partecipare, che la musica lo infastidisce. Non certo limitarsi a presentargli i vari Grieg, o Dvorak, o Chopin. A proposito della solitudine, sappiamo che proviene da un’attenzione tenuta sospesa. Un semplice esempio è fornito da chi guarda una piazza nella quale si aggiri un cane, parcheggi un’automobile. Quanti cani? Quante automobili? Il “quanto” porta alla ripetizione dell’eguaglianza. Lo sguardo resta sospeso e dopo un paio di secondi, ecco il “solo”, un cane solo, un’automobile sola.

Questo vuoto, , va sostituito con il pieno, .

Sollecitato come? Non certo dai suoni che si perdono, svaniscono, eccitati dal contrasto di un salire rallentato ed indebolito. Potrebbe servire allora un’intensità crescente, di suoni bassi prolungati gli uni sugli altri, con un continuo ritorno alla base, eventualmente con l’aiuto di un tempo ternario.

Come comporre musicalmente un desiderio? L’inconfondibile desiderio inappagato di Chopin.

Si aggiungerà la parola per far sentire il Bolero di Ravel: “VI” eccitante sino all’orgasmo, o “caduta dell’Occidente”.

Si tratta di analisi naturalmente non di tipo filologico storico, erudito, ma di richiamo all’attenzione, al respiro, al cuore.

Nessuno, forse aveva mai avuto dubbi su questa alleanza. Chi non comprende una frase: “Perché mi batte cosi forte il cuore?” proprio dell’amore nascente, o “Cuore non mi lasciare, non mi abbandonare” proprio dello sconforto?

Moribondo in una clinica, più di una volta mi affioravano i modestissimi versi:

“Chi aspettando sa che muore

conta l’ore e le giornate

con i battiti del cuore”,

toc, toc, toc, …

Chi non si è accorto di trattenere il fiato non solo nel timore e nella paura ma in attesa che si concluda la cadenza nel concerto?

Un bambino chiede stupito: “Papà, perché quando guardo le calze (pubblicità della Omsa in televisione) mi si ingrossa il pisello?”. Quanto si spiegherebbe del rapporto fra osservazione e chiamata-risposta amorosa se riuscissimo a legarle meccanicamente?

Tuttavia, con l’attenzione ed il ritmo tornati fra di noi oggi si comincia a comprendere perché anche il brutto, riuscito in Arte, sia bello.

Fabbrichiamoci gli occhi per guardare. Poi, generosamente, attribuiremo il “bello” alla cosa guardata, ascoltata, o più umilmente ed egoisticamente, lo terremo per noi nel “mi piace”. (La sfumatura fra oggettivo e soggettivo nell’attribuzione di valori si trova, almeno in italiano, già anteponendo o postponendo l’aggettivo: rispettivamente, bella musica, bell’uomo, bella donna, e musica bella, uomo bello, donna bella. Il giudizio attribuito ed il giudizio meritato).

Chiudiamo con un cenno alla ninna-nanna. Come si distinguono, nel gioco attenzionale il sonno e la veglia? Nel sonno, l’attenzione e quindi la coscienza sembra abbandonarci. Respiro e cuore rallentano e pulsano in accordo: due battiti per un respiro completo, intorno al secondo. L’attenzione segue un filo suo, ininterrotto: S-S-S-S-S-S… Cade quindi anche la distinzione fra percezione e rappresentazione, perché nella percezione come si è visto, ciò che è stato fatto presente viene in parte tenuto ma in parte lasciato, e in quanto la categoria di oggetto segue quella presenza; nella rappresentazione l’ordine è invertito. Così nel sogno tutto diventa possibile.

Ecco la ninna-nanna che prepara per il sonno. Un salire e scendere di suoni e voce, con l’attenzione portata in alto per riportarla in basso, ma la stessa congiunta e presente alla fine e all’inizio dei due inviti. Gli autori si chiameranno Grieg o Stravinski; ma ne è improntato ogni canto popolare. Ecco addirittura lo sbadiglio in una ninna-nanna abruzzese:

Alla ninna-nanna si accosta la carezza con il suo potere distensivo. Contiene la ripetizione affinché un movimento faccia attendere il suo contrario, che lo soddisfa perché è atteso.

Nella sveglia la situazione si rovescia perché salita e discesa sono staccate nel vertice, con un vuoto lasciato affinché siamo noi a riempirlo. Splendido esempio nel risveglio della città, in Giulietta e Romeo di Prokofíev.

 

Commiato

Si dovranno incontrare tre pompe: dell’aria, del sangue e dell’attenzione applicata e staccata, tenuta e lasciata. Il ritmo, ritrovato il suo posto nella mente, richiamato dal forzato esilio nei polmoni e nel cuore, offrirà i suoi tesori anche per la teoria. (In pratica, quando una cosa è sbagliata, evviva gli ignoranti che non se ne erano accorti.)

 

Che questa Triplice Alleanza abbia fortuna.

 

Silvio Ceccato, Milano 1991

 

P.S. Ogni intervento di correzione delle analisi è il benvenuto.

 

Bibliografia

Ceccato S. (1987). La fabbrica del bello. Milano, Rizzoli Editore.

Ceccato S. (1988). Il perfetto filosofo. Bari, Laterza Editore