Signora Silicani, la ringrazio di avere accettato questa intervista per il numero dedicato a suo Zio. Ci piacerebbe conoscere il “suo” Silvio, chi era per lei dal punto di vista umano e familiare. E inizierei proprio domandandole chi era la famiglia Ceccato.
I Ceccato erano originari di Vicenza. Solo da adulta ho avuto la maggior parte delle informazioni sulla mia famiglia, soprattutto sul nonno, che è morto prima che io nascessi. Il nonno Riccardo, padre di Silvio Ceccato, era avvocato a Vicenza ed era sicuramente un personaggio carismatico, di grande fascino e di grande convivialità: da lui certo avrà preso lo Zio che amava contornarsi di tutti i suoi discepoli ed amici, invitandoli nella sua casa a Vulcano, nelle Isole Eolie, per lunghi soggiorni in estate. Lì si respirava l’atmosfera degli otia latina, così proficua per filosofeggiare e cogliere nuove intuizioni da elaborare: era un cenacolo di menti aperte che si confrontavano in serenità ed allegria, alternando fantastici bagni a mare a navigate fra le isole che, allora, negli anni ’50, erano ancora incontaminate! Ritornando al nonno Riccardo, ogni mattina usciva da casa, nel centro città, in Piazza Castello; tutti i giorni, alle 11, percorreva Corso Palladio, il corso principale di Vicenza, si fermava dal fioraio, che aveva già preparato una singola gardenia bianca, che lui metteva sul risvolto della giacca, poi procedeva e arrivava fino alla drogheria Nardini, dove ordinava la sua Acqua di colonia personale: raffinatezze d’altri tempi…! Siamo all’inizio del ‘900 ed era un personaggio non certo usuale per la nostra città; sicuramente una grande personalità, che ha influenzato notevolmente tutti i suoi familiari.
Quando Riccardo Ceccato si è sposato nel 1910, aveva già 35 anni; era infatti nato nel 1875. Mia nonna era molto più giovane, una ragazzina. Era l’unica figlia femmina di una famiglia di industriali tessili di Thiene, i Ferrarin, composta da ben sette fratelli: a giudicare dalle foto era una donna di grande bellezza. Mio nonno era il loro legale. Si trattava di due mondi molto diversi: nella famiglia di mio nonno erano tutti uomini di legge, notai o avvocati, solo andando molto indietro verso la metà del 1600 compaiono dei medici. Mia nonna, invece, veniva da una realtà industriale molto attiva e in quegli anni il nome Ferrarin era agli onori della cronaca: suo fratello, infatti, era l’aviatore Arturo Ferrarin, che aveva compiuto nel 1920 il raid Roma-Tokyo. Un’impresa, per quell’epoca, di estremo ardimento e valore: si usavano aerei bi-posto con la navigazione a vista: pilota e meccanico.
Immaginiamo questi due mondi completamente diversi, questa giovane donna molto bella, che aveva studiato nel collegio di suore Dame Inglesi a Vicenza, e quest’uomo già vissuto, abituato ad andare alla Scala di Milano per sentire concerti e fare una vita molto mondana. Si sono sposati e hanno avuto tre figli in rapida successione: il più vecchio, Marco, nel 1912, dopo due anni è nato Silvio e nel 1916 mia madre. Il nonno ha continuato a fare la sua vita, la nonna è stata completamente relegata a Montecchio, ad occuparsi dei suoi figli. Anche loro vivevano un po’ in esilio dentro ai confini della proprietà paterna, godendo di ampi spazi dove crescere, giocare e studiare. Per i primi anni di scuola avevano un maestro che veniva a casa a dare le lezioni, come si usava allora, e mio Zio, mi hanno raccontato, aveva già iniziato da piccolino a sviluppare la sua grande curiosità per quello che lo circondava (bella una foto che lo ritrae con una grande costruzione del Meccano), e a porre e porsi domande critiche sugli insegnamenti che gli venivano impartiti, mettendo spesso in crisi i poveri insegnanti!! Diversissimi i due fratelli: il primo molto chiuso e introverso. Silvio, che sicuramente ha preso anche da sua madre, era invece un estroverso: sempre pieno di amici che portava in casa a Montecchio; da giovane, ragazzi di Vicenza, da adulto tutto il bel fervore intellettuale che frequentava a Milano e nel mondo. A questo proposito mi ricordo anch’io la preoccupazione di mia nonna, abituata a un’impeccabile formalità nel ricevere i suoi ospiti, quando lo Zio la avvertiva all’ultimo momento che sarebbe arrivato da Milano con personaggi più o meno noti, per un bel pranzo in campagna!!!
Mio Zio Silvio aveva un’adorazione totale per sua madre: ha rappresentato tantissimo per lui. Con suo padre, sempre dai racconti, c’era più un rapporto da uomo a uomo; inoltre, in famiglia, fra uomini – un po’ come era di uso a quei tempi – non si usavano tante manifestazioni esplicite di affetto. Di mia nonna, invece, lui aveva capito – forse più dei fratelli – quanto si sentiva sola in un paese piccolo e molto diverso da quello a cui era abituata; perciò per tutta la vita ha avuto questa tenerezza infinita verso di lei, la veniva a trovare spessissimo, arrivava apposta da Milano per passare con lei una o due giornate: pur avendo avuto molte donne, perché era un uomo dal grande fascino, non si è mai permesso di portarne a casa nessuna se non quelle che riteneva per lui più importanti, per rispetto verso sua madre!
Che ruolo hanno avuto i genitori nella formazione di Silvio e nelle sue scelte professionali?
I Ceccato erano una famiglia molto solida di principi: c’era la parola e il lavoro, c’era la stima che uno doveva meritarsi con quello che faceva. Vivevano assieme in questa casa di campagna dove ricevevano tantissima gente, tra cene e colazioni a cui partecipavano anche i ragazzi. Ho scoperto solo da poco che la carriera scolastica di mio Zio non è stata poi così brillante, come accade talvolta a chi è già oltre rispetto ai normali programmi scolastici: suo fratello era molto più bravo e studioso. Credo che Silvio si annoiasse durante le lezioni che, probabilmente, riteneva poco stimolanti. Dopo l’insegnamento privato è andato a studiare in paese nel Collegio dei Padri Giuseppini, poi al Liceo Classico Pigafetta a Vicenza, per finire i suoi studi liceali al Liceo classico Tito Livio a Padova.
Già da giovanissimo era più interessato alla musica che alle altre materie, e deve questo amore proprio a sua mamma: quando era piccolo lei suonava il pianoforte e lui si metteva a tirare delle righe su un quaderno, facendo finta di comporre. L’interesse per la musica è stato fondante per i suoi studi successivi.
Finito il liceo, quindi, voleva iscriversi al Conservatorio e non all’Università. Mio nonno, da bravo avvocato e padre di famiglia, gli disse che prima si doveva laureare in giurisprudenza e che poi facesse quello che voleva. Quando lo Zio manifestò la sua intenzione di andarsene da casa per studiare al Conservatorio di Milano e conseguire contemporaneamente la laurea in Giurisprudenza, mio nonno gli disse semplicemente (frase rimasta memorabile nei ricordi familiari ): “Mi me fido de ti“. Lo accompagnò alla stazione ferroviaria di Vicenza e lo salutò con questa breve frase che aveva però mille implicazioni. Di fatto lo Zio non tradì mai questa fiducia riposta in lui dallo stimatissimo padre e gli fu sempre molto riconoscente per questa liberalità che, per l’epoca, non era certo così frequente.
Mio Zio a Milano era del tutto solo: viveva in una pensione con altri studenti e doveva arrangiarsi da sé. Di suo padre ha avuto sempre grande considerazione. Secondo me lo riteneva lo stereotipo dell’uomo giusto, che aveva costruito qualcosa nella vita, pur apprezzandone i lati “divertenti “: possiamo dire, credo, che fu un modello di uomo che si sentiva di “ indossare “ su di sé. Dico questo perché in famiglia si rammentava che, per lungo tempo, lo Zio indossò veramente un vecchio pastrano nero col collo di pelliccia di persiano che era stato di suo padre! Me lo ricordo anch’io quel cappottone nero con cui arrivava da Milano, alto e fiero con un gran ribelle ciuffo argenteo di capelli.
A Milano ha frequentato in contemporanea il Conservatorio e l’Università; ad un certo punto ha capito che comporre musica non gli riusciva poi così spontaneamente e, inoltre, aveva problemi legati alle sinestesie: quindi, pur tenendosi nel cuore e nella mente la sua amata musica, ha incominciato a dedicarsi ad altri studi, anche se con un po’ di disorientamento. Già da subito aveva capito che avventurarsi nel campo della filosofia e del “pensare“ sarebbe stato un arduo cammino. Venendo da una famiglia che era radicata nel “concreto“ gli sembrava di fare tutto l’opposto, tanto è vero che quando è stato chiamato per il servizio militare è stato contentissimo perché finalmente aveva qualcosa di ben preciso da fare. Si sentiva come “quello che non fa niente di concreto“… mi immagino quello che gli avranno detto a casa.
Dopo il servizio militare è finito a Roma dove passava ore ed ore in Biblioteca a studiare di tutto e di più: da quel periodo credo derivi la sua cultura davvero enciclopedica (del resto questo livello impressionante di cultura, che metteva a disagio noi, componenti “ normali “ della famiglia, c’era anche nell’altro mio zio che, quando io ero al Liceo, mi aiutava traducendo a memoria la Satire di Orazio, per esempio, o recitando la Divina Commedia, nella sua interezza, completamente a memoria). Comunque, anche in questo caso, credo che la maggiore comprensione per questo “lavoro strano“ sia venuta da sua madre: è a lei che si deve il suo incontro, così proficuo nel suo percorso intellettuale, con von Glasersfeld. Si racconta, in famiglia, che durante una vacanza nella casa del Lago di Garda mia nonna avesse notato, incuriosendosi, un signore accampato in una piccola tenda canadese sulle rive del lago, poco distante dal nostro giardino, e che lo avesse avvicinato per conoscerlo. Appreso che era uno studioso di quelle “cose un po’ strane” che studiava il suo Silvio, quando lo Zio era venuto a trovarla glielo aveva presentato: da lì è nata una profondissima collaborazione nel corso degli anni, foriera di tante asseverazioni delle intuizioni di mio Zio.
Che tipo di persona era suo zio Silvio?
Era una persona molto frugale, senza lussi, non spendeva quasi niente e aveva pochissime esigenze materiali. Anche nel vestire, per l’epoca, aveva gusti – diciamo – stravaganti: negli anni ’60 andava a Thiene nel lanificio di sua madre e si sceglieva dei velluti a coste color senape o rosso scuro che abbinava con gran gusto ad altre semplici cose, sempre indossate col suo portamento inconfondibile e fiero: “pancia in dentro, petto in fuori”, sguardo attentissimo, occhi brillanti e acuti. Aveva cravatte bellissime, fatte di cotone intrecciato con colori sgargianti. Se devo andare ad altri ricordi familiari, l’ultima volta che ho passato dei giorni con lui nell’amatissima casa di Vulcano, ancora una volta manifestava il vezzo di usare abiti appartenuti a persone di casa: quell’estate se ne andava in giro per l’isola, dove tutti lo conoscevano e lo amavano, alto, alto, indossando come copri-costume una vecchissima giacca di spugna a righe coloratissima che era stata di mia madre: e al mio commento “ma Zio non ti pare un po’ strano?” mi rispondeva, senza un briciolo di incertezza: “ma come, è bellissima!”.
Amava mangiare bene e sono memorabili le sue venute a Vicenza quasi apposta per acquistare il baccalà alla vicentina dalla Salumeria Geremia, in centro città, che lui considerava il migliore al mondo! Pure un ricordo che a noi in famiglia divertiva molto è quello che riguardava un’altra tradizione culinaria di casa Ceccato tipicamente vicentina: i “bigoli con l’anara” che qualche sua fidanzata voleva preparargli per conquistarlo anche per la gola. La poveretta non riusciva mai a soddisfarlo perché, di fatto, per la buona riuscita del piatto occorrevano ingredienti che a Milano era sicuramente impossibile trovare ma su cui lui non transigeva!!!
Credo abbia fatto parte dell’Accademia della Cucina con il suo amico Veronelli e si portava a Milano il vino che producevamo in campagna, che non era poi così buono, ma che per lui aveva il profumo di casa, come pure l’olio del Garda che producevamo dai nostri olivi. Aveva sicuramente gusti speciali e non conformisti: mi ricordo quando è arrivato a Montecchio con un’auto BMW di colore arancio sgargiante e per di più spider!!! Buffissimo per lui una macchina così potente, visto che non amava assolutamente guidare! Era un cuor felice, gli piacevano la luce e i colori forti. Un’altra sua passione era quella che, colloquialmente, si chiama “il mal della pietra”: infatti per lui è stato un gran divertimento costruirsi sia la casa di Vulcano – che riecheggiava le case di Creta e Micene – sia una particolarissima casa a Lazise, sul Lago di Garda, che richiamava, invece, le torri piccionaie della Provenza francese: curava tutto nei minimi particolari e devo dire che l’effetto finale era sorprendente. Per esempio, nel patio della casa di Vulcano il tavolo da pranzo era di cemento a forma di un grande pianoforte a coda!
Questa casa nelle Eolie, costruita negli anni ’50, in cui stava tutta l’estate e che era il suo “buen retiro”, era una specie di cenacolo: chiamava a sé tutti i collaboratori e li ospitava in questa casa bellissima, antesignana per l’epoca, perché era fatta a “blocchi” e casette, in un enorme giardino. Man mano che passavano gli anni si ingrandiva e tutti questi studiosi, filosofi, ingegneri facevano qualcosa in cambio dell’ospitalità: essi lasciavano – chi pittore – affreschi e murales, bellissimi; chi, bravo in altri settori, una testimonianza della propria manualità. Ad esempio l’artista Pino Parini ha fatto degli affreschi, poi c’era chi gli faceva giardinaggio, chi gli metteva a posto la persiana…
Erano proprio degli otia alla latina. Silvio aveva i suoi orari per scrivere… doveva essere un’atmosfera bellissima e probabilmente là ha scritto parte dei suoi libri. Sono andati avanti così per tantissimi anni, fino a quando lui è morto. Sicuramente facevano una bella vita intellettuale: era tutto semplicissimo perché non c’era né acqua corrente né luce elettrica, non c’erano lussi, era proprio uno stare insieme, ragionare, navigare fra quelle isole magiche. Penso fossero delle vacanze davvero mentalmente “effervescenti“ che sono, infatti, rimaste ancora nel cuore di tutti coloro che le hanno vissute. Lo Zio lo diceva sempre: nelle Isole o nascevano grandi amori o grandi odi!
Mio Zio era una persona buonissima, generosissima e molto empatica: non parlava male di nessuno e accettava tutti. Soffriva se vedeva gli altri che stavano male. Amava la natura con un forte trasporto. Era molto “tenero”, soprattutto con i bambini: quand’ero piccola era fantastico anche con me, mi portava dei regali semplici ma talmente giusti! Ha fatto una lotta strenua con i miei genitori perché mi comprassero il motorino, lui mi lasciava la sua casa a Vulcano perché andassi con le mie amiche; anche con mio figlio si divertiva, giocava, chiacchierava.
Dal suo punto di vista come sono nati gli interessi di Silvio per la filosofia, per come si pensa, pur essendo cresciuto in una famiglia che dava molta più importanza agli aspetti “concreti”?
Beh, c’era molta propensione per il mondo culturale in tutta la famiglia, da generazioni, ma forse anche una certa dose di pragmatismo che lo aveva lasciato perplesso: indubbiamente era quello che noi diremmo uno spirito libero. Anche la famiglia di sua madre, la famiglia Ferrarin era, come dinastia industriale, all’avanguardia e, anche lì, si volava alto… in tutti i sensi, vedi il pilota Arturo che, per l’epoca, è stato indubbiamente un pioniere! Si vede che nel loro DNA c’era l’esigenza di uscire dagli schemi precostituiti. Nello specifico, il suo interesse per i temi della filosofia e della linguistica è però un po’ uno spot nella famiglia, è l’unico che ha preso quella strada e, anche se è stata una scelta tormentata, sentiva che solo nel filosofare o meglio nell’antifilosofare poteva trovare il suo ambiente di pensatore.
Come si usava una volta, mio nonno aveva riversato tutte le sue aspettative sul primogenito, Marco, il quale era il suo esatto opposto; Silvio, invece, somigliava di più al padre e probabilmente in famiglia era quello che più ne incarnava l’estroversione.
Forse ha contato anche il fatto che da ragazzini sono vissuti un po’ isolati, con tanto tempo per pensare, e se ci sei già portato… qualcosa ne esce fuori! Lui lo scrive, già alle elementari coglieva delle stranezze, delle ambiguità, delle imprecisioni in ciò che gli diceva la maestra, e si poneva delle domande. Poi ha avuto anche incontri fortunati, come Padre Gemelli all’ Università Cattolica di Milano che l’ha aiutato e spronato tantissimo a perseguire le sue ricerche, e tutto il bel cenacolo di menti illuminate che all’epoca circuitava a Milano, un universo di opportunità rispetto alla provincia. Secondo me c’era una buona base di partenza, favorita dalla sorte che gli ha fatto incontrare personaggi notevolissimi.
Mi pare che stia emergendo un filo rosso in famiglia, fatto di cultura ma anche di solitudine…
I miei zii erano di una cultura enciclopedica; mia mamma avrebbe voluto studiare all’Università ma non ha potuto: all’epoca non era frequente per le donne. Sin da giovane Silvio ha letto tantissimo, passava intere giornate nelle biblioteche. È stato fortunato, perché poteva permettersi di fare questo tipo di vita: da una parte non aveva molte esigenze, dall’altra, anche per il poco che gli bastava, non doveva venire a patti col mondo. Aveva deciso, con coraggio direi, di dedicarsi ai suoi studi; tuttavia non so quanto fosse felice interiormente. Un’altra cosa tipica della famiglia è che erano delle belle teste ma, emotivamente parlando, avevano delle problematiche che, a seconda della vita che ciascuno di loro si era scelto, si sono manifestate per uno con un’introversione totale, per l’altra col non voler ammettere a se stessa e al mondo alcuni sbagli nella scelte della sua vita, e per lo Zio con questa ricerca della felicità che riteneva fondante per il benessere mentale delle persone e foriera di spazi per allargare la propria mente. Tutto ciò dovuto forse a questi loro genitori un po’ particolari, se vogliamo, e così diversi fra loro due: uno molto anziano, che c’era e non c’era, e l’altra giovane e, sicuramente, non serena e soddisfatta nelle sue più intime aspettative ed esigenze emozionali. Da ragazzetti devono aver vissuto abbastanza la solitudine: con suo fratello erano due caratteri molto diversi e mia madre era piccola e… femmina, quindi abbastanza ininfluente.
E la solitudine nella vita credo che possa essere creatrice di due strade ben precise: o è produttiva e propositiva, o è distruttiva, a seconda di come uno riesce ad elaborarla, e i due fratelli sono stati proprio questo esempio. Silvio è riuscito a uscire da questa solitudine, probabilmente l’ha messa a frutto per quello di positivo che dà: la riflessione e il pensare. Invece suo fratello si è chiuso: non aveva un amico, non ha avuto una famiglia; leggeva mondi di giornali e libri, viveva da solo anche se stava con noi, dopo pranzo faceva mezz’ora di camminata e poi si ritirava in camera sua a leggere.
Quando è mancata mia madre per mio Zio Silvio è finita la famiglia, a tal punto che chiamava me col nome della sorella, Cecilia. Capivi che per lui la famiglia era donna; anche se ha vissuto per tutta la vita a Milano la sua famiglia è sempre stata un punto fondante.
Come vedevano in famiglia questo genio?
Da mia nonna era visto con un amore infinito ed un grande orgoglio, perché era il figlio “famoso”. Quando veniva invitato a qualche conferenza a Vicenza lei lievitava di orgoglio. Certo, le dispiaceva che non si fosse formato una famiglia tradizionale, con una moglie e dei figli, ma alla fine credo che lo Zio sia stato il figlio senz’altro più amato. Purtroppo mio nonno non ha fatto in tempo a vedere il successo di questo suo figlio un po’ fuori dalle righe.
Da suo fratello non credo di aver mai sentito nessun tipo di giudizio, per lui e per mia madre credo fosse un po’ un outsider perché, rispetto agli standard della nostra famiglia, era completamente diverso. Tutti rimanevano un po’ sconcertati da certe uscite dello zio magari molto ingegnose, ma fatte anche un po’ per provocare.
Lo Zio ha sempre delegato tutto il lato pratico della vita legato alla gestione economica del patrimonio di famiglia ai suoi fratelli: da una parte riponeva in loro una fiducia totale, dall’altra aveva pochissime esigenze. Del resto lui non si è mai “autoprodotto“, non si è mai voluto o saputo promuovere: quello che aveva da dire lo diceva, non ha cercato di far carriera o di guadagnare di più vendendosi bene; di sicuro non era un “canonico” e per questo si è fatto anche tanti nemici. Per questo, nonostante il valore indubbio dei suoi studi e le eccezionali intuizioni avute, una volta morto lui, si è steso un gran silenzio su Ceccato.
Sappiamo che il non essere un “canonico” gli ha creato dei problemi all’Università…
Enormi! Ad un certo punto gli hanno scritto che, siccome non era retribuito, non era etico mantenergli il posto; evidentemente non sapevano come dirglielo, lui ha capito subito e ha lasciato. Mi ricordo che gli dava fastidio quando avvertiva la gelosia e l’invidia nei suoi confronti; il lato economico e carrieristico per lui non esisteva ed è stato un errore, forse.
Quindi di fronte ad un attacco personale non si scomponeva…
No, ci rimaneva male perché pensava che l’interlocutore non avesse capito che il modo di relazionarsi non era quello. Rimaneva avvilito dal genere umano, lui pensava che si discute per arrivare a dei risultati, non per decidere chi è il migliore. Del mondo accademico pensava che si facessero le scarpe a vicenda. Però non l’ho mai sentito parlar male, tutt’al più li evitava, ma così purtroppo si è isolato.
Cos’è che ha dato fastidio all’Accademia?
Che i suoi assunti fossero così rivoluzionari e che mio Zio non scendesse a compromessi con nessuno. Questa è un’altra impronta familiare, tutta la famiglia Ceccato era così: tendenzialmente si consideravano un po’ al di sopra della media e non avevano timori reverenziali per nessuno, perché per loro l’unica categoria valida era quella mentale ed intellettuale. Pur essendo buonissimo non credo fosse molto diplomatico; in più era un innovatore, un precursore: spiazzava posizioni di secoli di storia della filosofia, avrebbe nuociuto alle posizioni di tanti.
Ad un certo punto anche con Costanzo, da cui per un periodo andava in trasmissione, ha avuto dei dissapori e, invece di fare un passo indietro, semplicemente non è più andato. Ma non credo che se ne crucciasse più di tanto, perché era totalmente focalizzato sui suoi studi, in cui credeva fortemente. Non era un carrierista, né un ambizioso: anche in casa non si è mai sfoggiato di inviti o di onori; però era un individualista. Io sto tentando in tutti i modi di riportare mio Zio alla conoscenza di tanti, perché dopo la sua morte si è creato un silenzio tombale su di lui: invece da quando ho intrapreso questa “missione” di riportare il suo nome alla ribalta non faccio che sentire persone che lo hanno conosciuto e che lo apprezzavano, felicissime di ritornare a ragionare sui suoi studi. Non faccio altro che scoprire, in giro per il mondo, studiosi di grande ed indiscussa levatura che ci dicono di considerarlo il pensatore più importante del XX secolo. Credo moltissimo nel mio progetto di diffondere nuovamente il suo pensiero, non solo per ribadirne la modernità, la complementarità con molte nuove ricerche, ma anche perché sono convinta che, chissà, da qualche parte del nostro grande mondo, ora così vicino e reso piccolo dai nuovi mezzi di comunicazione, ci sia qualcuno che – magari da solo – stia percorrendo un filone di ricerca che possa essere ampliato e confortato dalla conoscenza del pensiero di Ceccato.
Secondo lei a cosa è dovuto questo silenzio?
Penso che mio Zio non abbia mai voluto delegare a qualcuno del suo gruppo la carica di “erede ufficiale”: forse non gli interessava nemmeno: lui era lui e basta, e questo è stato, forse, un errore. Era proprio contrario al concetto di scuola, secondo me, perché pensava che quello che lui aveva intuito stava dentro la sua testa e difficilmente qualcun altro avrebbe potuto portarlo avanti come lui intendeva. Ad un certo punto ha capito che i suoi libri scientifici erano troppo difficili e ha scritto libri di più facile comprensione che hanno avuto un grande successo all’epoca, ma allora erano i primi saggi che apparivano su quegli argomenti. Oggi siamo invasi da soloni che ci spiegano i metodi per raggiungere la cosiddetta felicità: io penso che lui fosse un’altra cosa.
Lui era fondamentalmente un umanista, un metodologo, per cui dagli scienziati veniva visto con un po’ di spocchia, ma non era nemmeno un filosofo: istituzionalmente non era ben definibile. D’altra parte era molto onesto intellettualmente per cui riconosceva di avere dei dubbi su quello che aveva fatto: all’epoca non c’erano gli strumenti per verificare. Alla mia domanda se non ci fosse mai stata qualche applicazione pratica di quello che aveva pensato mio Zio, mi è stato risposto che in quel periodo la scienza e la tecnologia erano molto più indietro delle intuizioni che Silvio aveva avuto, per cui è mancato questo anello: non ha avuto la possibilità che la tecnologia concretizzasse quello che lui aveva scoperto. Un po’ per questo, un po’ perché sono mancati i finanziamenti che lui non ha cercato con molta determinazione, penso… È per questo che, ripeto, tengo tantissimo a che vengano riportate alla luce le sue scoperte e le sue idee, perché mi auguro ci siano altri studiosi che stanno sulla scia del suo pensiero ma che ignorano quello che ha scritto, anche perché dei suoi libri non si trova più niente.
Silvio non ha lasciato discepoli giovani dopo di lui, i suoi collaboratori hanno preso strade diverse. Erano un gruppo molto unito che ha vissuto un’epoca d’oro: sono arrivati a tante intuizioni, hanno prodotto tanto, e probabilmente alla morte di mio Zio si è chiuso un mondo che non riescono più a ripetere; forse non lo vogliono nemmeno. Quando mi sono messa in testa di creare questo Centro Studi intitolato a mio Zio ero convinta che avrei trovato tutti loro molto entusiasti, invece non è stato facile; anche perché si sarà pensato che non è che, perché io sono la nipote di Ceccato, io possa essere referenziale per portare avanti il suo discorso: obiezione perfetta! Difatti io cercavo disperatamente un aiuto autorevole e legittimato a portare avanti il suo percorso. Sono convinta che tutti coloro che hanno avuto la fortuna di incontrare mio Zio, di lavorare e collaborare con lui, a cominciare da me, hanno ricevuto moltissimo, umanamente e professionalmente, e che quindi sia nostro compito restituirgli quel riconoscimento e quella considerazione che, col tempo, sono completamente scomparsi.
Da cosa è nato il suo sogno di costruire un Centro Studi dedicato a suo Zio?
È nato proprio dal dispiacere enorme che mio Zio fosse stato completamente dimenticato. Pensi che a Vicenza proiettano sulla Basilica tutti i nomi dei cittadini illustri e non c’è il nome di mio Zio. L’Accademia Olimpica di Vicenza sta organizzando un’iniziativa per ricordarlo e di questo sono molto contenta ed onorata. Ma il mio sogno è che non si continui solo a commemorarlo, ma che qualcuno possa riprendere in mano i suoi studi per vedere se effettivamente hanno una strada e se si può arrivare a qualcosa di applicativo. Anche per dire che sono stati validi fino a un certo punto, ma non oltre, e motivarne i limiti. Solo così si potrebbe allora “concludere” un discorso Silvio Ceccato.
È stata una bella lotta ed ho avuto costanza, dal 2011 ad oggi. Spero che la coincidenza storica del centenario della sua nascita lo aiuti a tornare in voga e ringrazio anche voi della Rivista Italiana di Costruttivismo e l’Institute of Constructivist Psychology per le iniziative che state prendendo in merito: l’unione fa la forza!!!
La ringrazio, anche a nome di tutti coloro che stanno lavorando per il numero della rivista dedicato a suo Zio. A proposito, com’è nata la prima cerchia di collaboratori attorno a Silvio Ceccato?
È stato nei suoi anni milanesi e romani. Sono stati incontri anche casuali, ad esempio con Pino Parini: li ha messi in contatto Lucio Fontana, che conosceva mio Zio; loro due, insieme, hanno realizzato un percorso sull’arte. Dall’incontro con dei giovani ingegneri pieni di entusiasmo è nato un piccolo nucleo di persone con cui ha realizzato il famoso Adamo II. Uno dei suoi collaboratori più giovani, il Prof. Gianclaudio Lopez, ha ultimato un’approfondita biografia di Silvio Ceccato, di prossima pubblicazione, in cui racconta queste storie di incontri e di passioni condivise.
Ad esempio c’è un aneddoto che riguarda l’Ingegnere Enrico Maretti che, dopo aver parlato con mio Zio, è tornato a casa e tutta la notte si è messo ad elaborare meccanismi per attuare questa macchina che potesse “osservare e riconoscere una lattuga”. Che poi, cosa gli sarà venuto in mente di riconoscere la lattuga, che è una cosa difficilissima, con tutte quelle foglie e quella consistenza?
Mi ricordo da piccolina che mio Zio veniva a casa e mi diceva – perché faceva questi giochetti – “ma perché questa è una pera e perché dici che questa è una mela”? E mi stava ad ascoltar attento.
È stata anche lei “vittima” dei suoi lavori con i bambini…
Sì, lo ascoltavo con piacere quando veniva a casa con questi personaggi importanti. Si mettevano in giardino sotto la prima pianta, lui mi prendeva vicino e mi teneva lì; non emarginava nessuno, era una spugna che assorbiva input anche dall’uomo più semplice.
Quindi anche se era geniale non trattava nessuno con superiorità, e imparava tanto anche lui!
Era di un’umanità grandiosa; a Vulcano la gente del posto lo adorava e gli facevano tutti i piaceri del mondo, proprio perché era una bella persona. Credo che sia stato l’unico veneto che ha vissuto 60 anni a Milano mantenendo l’accento veneto e parlando dialetto, e ne era orgogliosissimo.
Lui aveva sempre questo atteggiamento, non era mai sussiegoso come colui che porta il verbo consacrato: discorreva, parlava e interagiva con chiunque. Motivo per cui gli piaceva tantissimo lavorare con i bambini: diceva che una mente è intatta finché non viene contaminata dalla conoscenza codificata ed era affascinato dai ragazzi proprio per questo.
Secondo lei, per quali aspetti si distingueva dagli altri educatori?
Sapeva interessare le persone: parlava e catalizzava l’attenzione, perché discuteva di argomenti difficilissimi in maniera semplice, comprensibile e gradevole. Sapeva parlare, aveva il senso delle pause, era un grande oratore. E poi perché credo che tutti noi amiamo essere “provocati” intellettualmente: lui con degli esempi semplicissimi ti poneva sempre di fronte a delle situazioni che ti facevano pensare. Diceva sempre che una delle gioie più grandi della vita è sentire la propria mente che si espande. Ti piace essere di fronte ad un problema intellettuale che ti fa lavorare il cervello, se uno te lo sa esporre in maniera accattivante, spronante. Infatti il Prof. Lopez, che ha applicato il metodo di mio Zio nella scuola, ha avuto dei successi straordinari con i ragazzi, anche quelli apparentemente più disinteressati e annoiati.
Aveva carisma personale…
Lui era un affascinatore, tra mimica, gestualità e oratoria; credo che, come lui, ci fosse solo lui. Mio Zio amava condividere le cose, nella mia piccola esperienza scolastica e universitaria non è stato facile trovare altrettanto. Tante volte uno può essere un pozzo di scienza ma non sa trasmettere la sua conoscenza, perché magari è noioso o dà per scontato che tu sappia delle cose. Mio Zio ti catturava, aveva questo transfert notevolissimo con le persone.
Signora Silicani, ci auguriamo che il caldo dipinto che ci ha regalato di suo Zio possa contribuire a far conoscere questo straordinario uomo e pensatore. C’è un sito internet attraverso cui possiamo restare aggiornati sulle sue prossime iniziative?
Sì, è www.villaceccato.it.
La ringrazio e le faccio i miei auguri per il suo progetto!
Grazie a lei.
- Ringrazio Riccarda Silicani e Bruna Zonta per la preziosa revisione. ↑