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Costruttivismo e strategia d’impresa

Constructivism and business strategy

di

Annalisa Anni

Institute of Constructivist Psychology, Padova

Abstract

Il lavoro si propone di analizzare alcuni dei processi aziendali implicati nella creazione e gestione di imprese mediante gli strumenti offerti dalla Teoria dei Costrutti Personali. Particolare attenzione verrà data alle strategie di posizionamento aziendale e ad alcuni dei rischi di fallimento imprenditoriale più comuni con l’intenzione di individuare, all’interno della cornice PCP, alcune indicazioni per la costruzione e il mantenimento di un’azienda efficace e produttiva.

The work aims to analyze some of the business processes involved in the creation and management of companies through the instruments provided by the Personal Construct Theory. Particular attention will be given to business positioning strategies and to some of the most common risks of business failure with the intention of identify, within the PCP framework, some possible guidelines for building and maintaining an effective and productive company.

Keywords:
Costruttivismo, strategia d’impresa, posizionamento, leadership, competizione | constructivism, business strategy, positioning, leadership, competition

Avviare un’impresa, di qualsiasi tipo essa sia, non è certamente cosa facile. Tale sforzo può essere considerato e studiato da molteplici punti di vista, compreso quello psicologico. I due premi Nobel per l’economia Herbert Simon e Daniel Kahneman sono una testimonianza della fertilità di uno sguardo psicologico al mondo dell’economia e a ciò che vi gravita intorno. La liason tra i due campi di studio ha inizio nel 1881 ma è negli ultimi trent’anni che è cresciuta maggiormente (Earl, 2005). Tra i vari approcci che hanno fornito uno spunto di riflessione all’economia troviamo anche l’applicazione della teoria dei costrutti personali (Earl, 1990; 2005). Poco tuttavia si trova circa la descrizione dei processi psicologici e operativi implicati nella creazione e nell’avvio di una nuova impresa.

 

1. Creazione di un’impresa: fra visione e strategia

Entriamo nel vivo della questione. Supponiamo di essere un aspirante imprenditore. La prima cosa che ci serve è un’idea che ci permetta di porci concretamente sul mercato e di avviare la nostra azienda con un certo profitto. Prendendo spunto da Kelly (1955), anche l’aspirante imprenditore può essere definito come uno scienziato che, sulla base della propria esperienza, crea delle teorie e cerca di testarle. L’imprenditore ha una certa costruzione del mondo e del mercato e inizia ad intravedere delle opportunità per poter fare del profitto. Questa sua capacità è, secondo Kirzner (1973), la caratteristica essenziale dell’essere imprenditore. Ma come avviene questo processo? La mia proposta è quella di considerarlo come un’esperienza creativa. Per poter intravedere nuove opportunità è necessario infatti passare attraverso una fase di allentamento, una fase in cui si sospende ciò che si sa e si dà per certo navigando viceversa nell’incertezza, una fase in cui si mette in discussione l’ovvietà della realtà che ci circonda. In questo modo iniziano a emergere degli insight, delle domande cui prima non si era pensato, delle opportunità. È un momento di break-down. Gli schemi con i quali si leggeva la realtà si allentano a sufficienza da poter inserire elementi originali, dapprima non contemplati. L’allentamento in questo caso può essere utile a dilatare e permeabilizzare il sistema rendendolo più disponibile ad accogliere una più ampia varietà di materiale (Epting, 1984). Una volta che allentiamo un costrutto, inoltre, sperimentiamo un allineamento variabile di più elementi, tra i quali l’individuo può iniziare a sperimentare parzialmente ciascuna variazione (Kelly, 1955). Tali elementi ancora però non sono chiaramente anticipabili alla luce di quel costrutto. È un processo quindi che implica una certa dose di ansia, ovvero “la consapevolezza che gli eventi che ci troviamo di fronte giacciono per lo più al di fuori del campo di pertinenza del nostro sistema di costrutti” (Kelly, 1955, p. 495). Naturalmente, una volta che l’aspirante imprenditore si sia lasciato sorprendere dalle opportunità, dovrà operare una seconda fase di restringimento per poter declinare questo insight in una visione più operativa e concretizzabile (Waldock, Kelly-Rawat, 2004), consolidandola e sottoponendola ad una verifica più accurata (Kelly, 1955). Questa seconda fase di restringimento può corrispondere alla fase di pianificazione e organizzazione strategica (stategic positioning), una fase che può essere caratterizzata da una certa quota di aggressività intesa come “un’attiva elaborazione del campo percettivo” (Kelly, 1955, p. 508). Nella fase di restringimento l’imprenditore deve colmare il gap tra realtà e visione (Waldock & Kelly-Rawat, 2004) e lo fa cercando di verificare attivamente la validità delle sue costruzioni, mettendo alla prova ciò che era solo una visione sfumata, declinandolo in strategie operative.

 

Nella figura sottostante si riassume il processo finora delineato.

 

Figura 1: Processo di creazione delle opportunità imprenditoriali.

 

Abbiamo dunque visto come il ciclo della creatività possa fornire una descrizione del processo di formazione delle cosiddette opportunità imprenditoriali, nondimeno concordo con quanto scrive Woods (2006), ovvero di considerare le opportunità come elementi che si generano attraverso un processo di esperienza del mercato, processo che sottende una certa interazione tra l’aspirante imprenditore e l’ambiente in cui è inserito o in cui cerca di inserirsi. A mio avviso è possibile leggere in questo processo una declinazione pragmatica del corollario della socialità[1] (Kelly, 1955). In buona sostanza, tanto meglio riesco a costruire le costruzioni dei miei possibili consumatori (customer value), tanto meglio potrò farvi fronte fornendo un prodotto che possa essere rispondente a queste caratteristiche; tanto più raffinata sarà la mia analisi del contesto in cui mi trovo (environmental analysis[2]), tante più chances avrò di muovermi nel mercato con una certa destrezza; tanto più riuscirò a focalizzare chi sono i miei possibili rivali (competitors analysis[3]) e a sviluppare una costruzione sufficientemente chiara delle strategie con le quali si stanno muovendo, tanto meglio potrò costruire una strategia d’azienda che mi consenta di pormi sul mercato con un certo vantaggio competitivo, portando avanti un’idea sostenibile. Maggiore sarà la mia capacità di anticipazione rispetto al movimento che regola e nutre il settore in cui mi voglio inserire tanto meglio riuscirò a giocare un ruolo in questo mercato (Harris et al., 2010). Non si tratta quindi di rispondere passivamente a un mercato che ci rotea intorno, quanto piuttosto di anticiparlo, costruendone i processi di costruzione per potervi giocare un ruolo attivo e non reattivo.

Un ulteriore elemento che caratterizza questa delicata fase è quello della condivisione. Waldock e Kelly-Ravat (2004) sottolineano l’importanza di condividere la visione del leader, in questo caso dell’imprenditore, con il team o l’organizzazione di cui è a capo. Potrebbe sembrare, apparentemente, una questione da poco ma è un passo fondamentale per riportare la propria visione e costruzione alla “prova della realtà”. In questo senso condividere ha una duplice funzione. In primo luogo la condivisione permette il confronto della prospettiva del leader con quelle degli altri componenti del gruppo di lavoro. Ciò permette non solo di “testare” l’idea e di verificare, attraverso il confronto, la sua effettiva percorribilità ma anche di arricchirla di ulteriori dettagli. Integrare i vari punti di vista sulla questione permette, tra le altre cose, anche di evitare un atteggiamento ostile dell’imprenditore che, come vedremo, può continuare a sostenere il suo progetto nonostante abbia già dimostrato un certo grado di insuccesso. In secondo luogo la condivisione della prospettiva dell’imprenditore col gruppo di lavoro permette la costruzione di un’area di comunanza su cui l’intero gruppo può iniziare concretamente a lavorare. Se può dirsi vero infatti che la costruzione del mondo è soggettiva e differente da persona a persona (corollario dell’individualità[4], Kelly, 1955), può dirsi altrettanto vero che esistono delle somiglianze nei processi di costruzione delle persone (corollario della comunanza[5], Kelly, 1955). Pur essendo quindi la nostra visione dell’esperienza squisitamente soggettiva, ci sono elementi che condividiamo con gli altri, in quanto ne abbiamo una costruzione per alcuni aspetti simile. Se pensiamo inoltre che la visione imprenditoriale ha come obiettivo la creazione di profitto e presuppone quindi che vi sia uno scambio con l’altro (prodotto in cambio di denaro) è indispensabile avere una visione che non sia solipsistica ma che contempli l’altro come parte integrante del progetto e che sia pertanto, co-costruita, risultando così percorribile non solo per l’imprenditore ma per l’intera organizzazione e spendibile sul mercato.

 

2. Un mercato incerto

Dal momento in cui l’imprenditore individua l’opportunità che intende perseguire, ciò che lui prima riteneva una solida “realtà” su cui poggiare i piedi inizia a vacillare: ora è tutto incerto (quella che in gergo viene chiamata “tolerance/intolerance for ambiguity”, Bochner, 1965), tutto da costruire, tutto in divenire. Non c’è modo di sapere per certo che effetto avranno le sue scelte, l’unico modo che ha per muoversi con qualche criterio nella costruzione della sua nuova impresa è la sua capacità di anticipazione. Così come Kelly descrive nel suo postulato fondamentale[6], possiamo dire che anche i processi psicologici dell’imprenditore sono canalizzati dal modo in cui egli anticipa gli eventi. Tale postulato implica una realtà in continuo mutamento, ben lontana dall’immagine predominante del senso comune che la vuole solida, ampiamente prevedibile e regolata da leggi causa-effetto. Kelly descrive un mondo in cui l’uomo non reagisce al passato ma si estende verso il futuro, cercando di anticiparlo e di attribuirvi un senso, verificando di volta in volta la bontà di questa comprensione del mondo, comprensione che sarà sempre una delle costruzioni e delle anticipazioni possibili. Essendo l’esperienza continuamente cangiante, si troverà spesso di fronte ad alternative tra cui dovrà giocoforza scegliere, spesso non avendo a disposizione né un ampio numero di informazioni né grandi quantità di tempo che gli consentano di procurarsene altre. Insomma, si trova su un terreno in cui ci sono ben poche certezze e in cui, come se non bastasse, lo scenario si evolve e muta continuamente, nuove imprese entrano ed escono, le leggi cambiano così come gli assetti economici, politici e sociali. Eppure deve cavalcare quest’incertezza, deve saper anticipare la direzione di questi cambiamenti e, a fronte di quest’anticipazione, dovrà generare e scegliere l’alternativa che gli appare e che egli costruisce come maggiormente percorribile, o, per dirla in altri termini, come più elaborativa. Anche in questo caso trovo opportuno rifarmi a un altro corollario della teoria dei costrutti personali, quello della scelta, che così recita: “una persona sceglie per sé quell’alternativa in un costrutto dicotomizzato per mezzo della quale anticipa la maggiore possibilità di elaborazione del suo sistema” (Kelly, 1955, p. 64). In buona sostanza deve valutare l’assetto politico, economico, sociale ed imprenditoriale che lo circonda e scegliere in che direzione andare. La scelta avviene sempre a partire dalla sua costruzione di tale scenario. Ad esempio alcuni imprenditori possono assumere anche grandi rischi per le loro aziende, altri invece non solo non li assumono ma magari nemmeno contemplano quel tipo di scelte. La domanda allora è: come costruisce l’imprenditore l’assetto entro cui si muove e si posiziona? Che tipo di anticipazioni ha? La scelta è possibile solo entro la dicotomia dei costrutti utilizzati per leggere la realtà che egli ha di fronte e la scelta della direzione va verso quella che costruisce come più elaborativa nei termini di aumento delle possibilità di azione e di movimento. In particolare le scelte dell’imprenditore andranno generalmente nella direzione che nei suoi termini consente il mantenimento e lo sviluppo del progetto aziendale e quindi la sopravvivenza del sistema-azienda di cui è il riferimento.

 

3. L’impresa incontra il mercato: il ciclo dell’esperienza

L’imprenditore è così riuscito, una volta individuata la visione da cui partire e una volta compresa e stabilita la strategia con cui muoversi, a dare avvio alla sua impresa. Possiamo leggere questi sforzi attraverso il ciclo dell’esperienza[7] di Kelly (1955) e rappresentarli graficamente nella figura sottostante, che possiamo quindi ribattezzare “ciclo dell’esperienza aziendale”.

 

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Figura 2: Ciclo dell’esperienza aziendale.

 

È possibile descrivere la fase creativa di cui si è discusso in precedenza considerandola una prima fase di anticipazione, cui segue la fase di investimento, in cui l’imprenditore si prepara psicologicamente e materialmente alla “prova del nove”, ovvero all’incontro vero e proprio con il mercato. È ad ogni modo nella fase successiva che, a mio parere, si compiono i processi più interessanti e anche più rischiosi. Il duro lavoro preparatorio è stato fatto, le anticipazioni da cui partivano l’imprenditore e il suo team sono state corroborate durante la fase di investimento da movimenti propedeutici al lancio del prodotto sul mercato. Il prodotto, quindi, è finalmente sul mercato e ci è arrivato grazie ad un complesso apparato di decisioni strategiche che hanno consentito che arrivasse fino a lì seguendo un certo percorso (ad esempio, mediante una determinata campagna di advertising, grazie a partnership con altre aziende o fornitori, eccetera). Giungiamo così ad una fase delicatissima che può presentare alcuni tra i maggiori rischi cui l’imprenditore può andare incontro: l’overconfidence e la representativness. Partiamo dal primo, generalmente definito come bias di valutazione circa il grado di fiducia nelle proprie capacità di giudizio e nelle proprie abilità e limiti (Kahneman & Tversky, 1977). Peccano, per così dire, di overconfidence i manager che sovrastimano le proprie possibilità o performances e che tendono a perseguire il proprio progetto strategico così come pensato inizialmente, spesso sull’onda di un’ottimistica previsione, poco attenti alla “prova dei fatti” (Weinstein, 1980). Ciò che Weinstein considerava un “errore cognitivo di valutazione” può a tutti gli effetti essere letto come forma di ostilità se attribuiamo la scelta di non considerare le invalidazioni ricevute non tanto ad una “incapacità cognitiva” quanto piuttosto all’impossibilità dell’imprenditore di rinunciare alla propria idea originaria. Può capitare, infatti, che nonostante il mercato non abbia risposto così come sperato l’imprenditore consideri questa scarsa risposta un “deficit” del mercato stesso ed eviti di considerare dei posizionamenti alternativi, aspettando, spesso invano, che prima o poi il mercato gli dia ragione. Se consideriamo l’ostilità come “lo sforzo continuo di estorcere prove validazionali a favore di un tipo di previsione sociale che è già stata riconosciuta come un insuccesso” (Kelly, 1955, p. 510) possiamo descrivere la difficoltà della persona ad aprirsi a nuove alternative alla luce di ciò che significherebbe per lei riconoscere come invalidata la sua anticipazione, considerando anche l’investimento che su di essa è stato posto e che, nel caso di avvio di imprese di questo genere, è spesso decisamente consistente.

Immaginiamo ad esempio un piccolo imprenditore, diciamo il proprietario di un bar in un piccolo paesino. Ha investito molto per aprirlo: si è licenziato dal precedente lavoro, ha dovuto seguire una serie di corsi, ottenere le licenze, affittare un lotto, chiedere un prestito per i macchinari, etc… Nonostante fosse già presente un bar concorrente nella stessa zona, grazie ai suoi sforzi e alle sue capacità è riuscito comunque a garantirsi un discreto numero di clienti. Sfortunatamente per lui nel giro di un paio d’anni altri due bar hanno aperto nella sua zona, offrendo qualcosa di leggermente diverso: uno ospita anche un piccolo angolo pasticceria e l’altro offre puntualmente degustazioni particolari. Questo ha fatto sì che buona parte della clientela, specialmente quella più giovane, si spostasse verso questi due nuovi bar. Ora, il nostro imprenditore ha sostanzialmente due scelte davanti a sé: riconoscere che il proprio locale non sia più così appetibile e reinventarsi almeno parzialmente per recuperare parte della clientela oppure continuare imperterrito nella sua attività, convincendosi che la novità dei locali concorrenti scemerà presto e che i clienti torneranno da lui, perché sostanzialmente da sempre soddisfatti dei suoi servizi e degli sforzi che ha dovuto fare per garantirglieli. Un’alternativa che consente di “prevenire” le conseguenze derivanti da un atteggiamento ostile di overconfidence è suggerita dal corollario della socialità e, come accennato in precedenza, da quello della comunanza. Aprirsi dunque al costruire i processi di costruzione degli altri, siano essi fornitori o consumatori, colleghi o rivali, consente di poter rivedere le proprie decisioni e posizioni strategiche per adottarne alcune più funzionali (pivoting, vedi Coleman & Papp, 2006). Chiedersi quindi se si è fatta una buona analisi dell’ambiente, del mercato, dei rivali e dei bisogni dei consumatori può essere una strategia per ovviare ad una visione ostile che tenda a confermare unicamente quelle che sono costruzioni piuttosto fallimentari sull’argomento, ovvero costruzioni scarsamente percorribili dal punto di vista funzionale. Di pari passo può essere utile chiedersi se tale costruzione sia condivisibile anche da altri e se ve ne possa essere una alternativa e maggiormente funzionale. Non bisogna infatti dimenticare che per interagire col mercato bisogna poter declinare la propria visione all’interno di una più ampia che comprenda anche quelle altrui. Il secondo rischio di questa fase è quello della representativness, cioè la classificazione di un caso sulla base della somiglianza con un caso tipico, o per dirla in altri termini, il fare di tutta un’erba un fascio. È possibile considerare questa euristica come un fallimento della socialità: anziché vagliare le molteplici costruzioni dell’altro facendosene un’idea, l’imprenditore sovrascrive le proprie costruzioni a quelle altrui. Può altresì essere considerata come una posizione estremamente prelativa, in cui si ragiona in termini “nient’altro che” piuttosto che in termini proposizionali e quindi “non solo, ma anche”. Quando si parla di prelazione e proposizionalità, si discute in merito al grado di controllo che un costrutto mostra sugli elementi di sua pertinenza, pertanto un costrutto prelativo considera di sua esclusiva pertinenza gli elementi del suo dominio, mentre un costrutto proposizionale considera l’appartenenza dei suoi elementi anche ad altri domini (Kelly, 1955). Così, ad esempio, possiamo considerare i nostri clienti unicamente all’interno del costrutto utilizzatori di PC vs non utilizzatori di PC. In questo caso, se considerati prelativamente, riterremo che i nostri consumatori non possano essere nient’altro che utilizzatori di PC, non considerando che anche se non sono grandi utilizzatori di PC potrebbero essere ascoltatori di musica o utilizzatori di telefoni cellulari. Come esempio possiamo citare l’azienda Apple. Dapprima impegnata unicamente sul fronte della tecnologia per computer, sull’orlo del fallimento ha adoperato una revisione massiccia ampliando la sua costruzione dei potenziali consumatori, dando così inizio alla produzione di lettori MP3 e poi spostandosi sui celebri IPhone, Ipad e via dicendo (Shontell, 2010). Se la Apple si fosse ostinata ad una considerazione prelativa dei suoi consumatori non avrebbe raggiunto le quote di mercato che attualmente possiede.

Socialità e proposizionalità possono essere considerati processi in grado di favorire una revisione (pivoting), e in ultima analisi possono aiutare l’imprenditore e l’azienda ad evitare di assumere una posizione ostile. Inutile dire che un’azienda “ostile” ha generalmente vita breve, per cui il rischio di non andare a revisione è uno dei maggiori rischi con i quali l’imprenditore si deve confrontare. La revisione dovrebbe sempre essere una costante in quanto, come ben sanno gli imprenditori di successo, il pivoting è essenziale per cavalcare ogni movimento del mercato e rimanere in sella. Come già detto in precedenza, infatti, il mercato non è un’entità stabile ma in continuo movimento e l’imprenditore di successo deve saper plasmare la sua azienda sulla scorta dei cambiamenti che ravvisa nel mercato stesso. In questo senso il ciclo dell’esperienza può rappresentare un utile strumento attraverso il quale leggere i continui processi di cambiamento cui un’azienda può andare incontro e ancor di più può essere utile nell’aiutare a leggere alcune delle difficoltà che si possono presentare favorendo nell’imprenditore e nel suo team l’emergere di alternative con le quali sia possibile farvi fronte.

Nel paragrafo successivo tratteremo invece di un delicato aspetto che può determinare in larga misura le possibilità di successo o insuccesso di una impresa: le relazioni che essa intrattiene con fornitori e consumatori.

 

4. Dipendenza

Nell’immaginario comune siamo abituati a pensare che il raggiungimento dell’indipendenza sia tra i più auspicabili traguardi cui tendere. Ebbene, questo, per un imprenditore e per il futuro della sua impresa, è tra gli scenari più improponibili, non solo perché, come già visto, il mercato economico è per definizione interdipendente ma anche perché un adeguato posizionamento rispetto alle dinamiche di reciproca interdipendenza tra aziende può costituire un vantaggio strategico non di poco conto.

Per meglio chiarire di cosa stiamo parlando riprendiamo il concetto di dipendenza così come proposto da Kelly (1955). Secondo Kelly i costrutti di dipendenza sarebbero tra i primi a formarsi ontogeneticamente dal momento che mettono in relazione un bisogno ad una persona garantendo così al neonato la sopravvivenza. Se dapprima tali costrutti tendono a essere piuttosto impermeabili, con l’esperienza il bambino tende a discriminare maggiormente le persone su cui può distribuire la sua dipendenza, permeabilizzandoli e rendendoli meno prelativi (Kelly, 1955, vol. II, pag.79). In buona sostanza con l’esperienza impara che la madre non è l’unica fonte in grado di rispondere al suo bisogno di cibo e che, dal canto suo, non è unicamente destinata a provvedere al cibo ma può assolvere anche altri ruoli. Kelly supera il concetto di dipendente vs indipendente, in quanto teorizza che l’indipendenza non sia praticabile, preferendo parlare di maggiore o minore dispersione della stessa. La dipendenza è maggiormente distribuita quando l’individuo può contare su un numero maggiore di persone su cui fare affidamento per rispondere ai propri bisogni. Secondo Kelly una maggiore distribuzione della dipendenza è maggiormente funzionale in quanto consente all’individuo di essere meno vulnerabile quando deve affrontare dei cambiamenti (Walker, 2003).

Come strumento per poter mappare la dispersione della dipendenza mette a punto il “Situational Resources Repertory Test” (Kelly, 1955, Vol.I, pag 233-238), oggi meglio noto come Griglia di Dipendenza. Il test è così composto: in colonna si indicano i nomi delle persone significative (il soggetto stesso, i familiari, gli amici, il vicino di casa, etc…), in riga si riportano invece alcuni tra i problemi che più comunemente ci si può trovare ad affrontare nella vita (finanziari, familiari, di salute, etc…). Si chiede così al soggetto di pensare, per ogni ordine di problema, su chi immagina di poter fare affidamento tra le persone indicate. Ad ogni persona indicata come potenziale risorsa si fa un segno sulla casella corrispondente. Già al completamento del test è visivamente possibile notare il grado di dispersione della dipendenza, sebbene per misurazioni più precise sia stato messo a punto l’Indice di Dispersione della Dipendenza (Walker, 1997).

 

4.1 Dipendenza all’interno dell’azienda

Abbiamo visto quali possono essere i soggetti sui quali il singolo individuo può contare per rispondere ai propri bisogni ma quali sono gli attori su cui un’azienda può distribuire la dipendenza? Micheal Porter, professore ad Harvard e tra i principiali studiosi di strategia applicata alle aziende, teorizza cinque forze che possono decretare il successo o l’ insuccesso di una strategia aziendale (Porter, 1998). Le cinque forze teorizzate da Porter sono (Porter, 2008; Harris et al, 2010):

  1. Rivalità: ogni azienda deve fare i conti con i competitors del mercato in cui opera. Per guadagnare fette di mercato importanti dovrà anticipare e reagire alle azioni dei suoi diretti concorrenti.
  2. Minaccia dei nuovi entranti: spesso le nuove aziende che si approcciano sul mercato applicano prezzi molto competitivi per piazzarsi e ottenere così la loro fetta di ricavi. Questo contribuisce a creare una pressione non indifferente sulle aziende che sono già sul mercato da diverso tempo.
  3. Sostituti e complementari: ogni azienda dovrà prestare particolare attenzione a tutti quei marchi che propongono prodotti sostitutivi ai propri, ovvero prodotti che sono funzionalmente simili, cioè permettono di raggiungere lo stesso scopo, ma che sono tecnicamente diversi. Un esempio potrebbe essere costituito dai servizi forniti da un counselor rispetto a uno psicologo. L’esistenza di questo tipo di sostituti spesso porta a un calo della domanda e quindi a un corrispondente calo nei prezzi e nei profitti. Al contrario dei prodotti sostitutivi, i prodotti complementari costituiscono una potenziale opportunità per l’industria perché ne ampliano la portata e l’appetibilità. Un esempio ne è iTunes, originariamente pensato come complemento per iPod, ora divenuto complemento anche per iPhone, iPad e simili.
  4. Potere dei fornitori: per fornitori si intendono coloro che soddisfano la richiesta di risorse dell’azienda. Tali risorse possono consistere in materiali, finanziamenti, servizi di vario genere. Più è ampio il potere dei fornitori maggiore sarà la loro capacità di negoziazione sui prezzi. In questo modo i fornitori non solo detengono un maggior controllo sui propri margini di profitto ma determinano anche quelli dell’azienda e dei consumatori.
  5. Potere dei compratori: per compratori non si intendono solo gli acquirenti ultimi del prodotto ma anche grandi distributori o altri intermediari. Così come i fornitori anche i compratori possono avere più o meno potere determinando così i costi del prodotto stesso. Un esempio pratico e concreto è costituito dai GAS, Gruppi di Acquisto Solidale. Unendosi in gruppi di acquisto e saltando alcuni intermediari nella catena di distribuzione, come ad esempio i grandi magazzini, i compratori riescono ad avere un potere di negoziazione maggiore riuscendo a diminuire il prezzo finale della merce.

Tra gli aspetti analizzati da Porter vorrei concentrarmi sul potere di fornitori e compratori considerandoli in termini di dipendenza, così come suggerito da Kelly. Va da sé, infatti, che all’interno delle forze che regolano l’andamento di un mercato aziendale due grosse voci siano proprio i rapporti tra l’azienda e questi ultimi, tuttavia poco si pensa al forte peso che queste due voci possono avere per decretare il successo dell’impresa stessa. Occupiamoci dapprima del potere dei fornitori.

 

4.2 Dipendenza dai fornitori

Ogni impresa dipende in qualche misura da un certo numero di fornitori. In questa frase ci sono due concetti chiave: “in qualche misura” e “certo numero”. Vediamoli nel dettaglio. Prendiamo esempio da una famosa e proficua azienda, che nel 2013 ha visto un ricavo totale di 28,5 bilioni di euro: Ikea. Ikea produce pochissimi prodotti internamente affidandosi quasi totalmente alla propria imponente rete di fornitori; basti pensare che nel 2013 poteva contare su 1.046 fornitori in 52 paesi (Ikea Group, 2014). Generalmente sceglie aziende rivenditrici di piccola o media grandezza specializzate in una singola area come ad esempio il vetro, la metallurgia, la tappezzeria e via discorrendo (liveinikea.tumblr.com, 2014). Ikea è talmente ben consapevole del suo ruolo privilegiato che ha stilato alcune linee guida, “IWAY”, che le aziende devono rispettare per poter diventare fornitrici del colosso (Ikea, 2014). Perché un’azienda così imponente, con 303 negozi in 26 paesi del mondo, si appoggia a moltissime piccole o medie imprese? Perché non mantiene rapporti con poche aziende che possano esserle utili per una più vasta gamma di bisogni? La risposta è abbastanza semplice se consideriamo questa scelta in termini di distribuzione della dipendenza: cosa succederebbe se Ikea intrattenesse rapporti con poche e grandi firme? Cosa succederebbe se ciascuna di queste aziende fosse quasi interamente responsabile della soddisfazione di uno o più degli specifici bisogni di Ikea? Facciamo un piccolo esempio tracciando un’immaginaria griglia di dipendenza dei fornitori di Ikea secondo lo scenario appena delineato (Tabella 1).

 

Azienda

Bisogni

Azienda A Azienda B Azienda C
Vetro X
Carta X
Metallo X
Tessile X
Legno X

Tabella 1: Griglia di dipendenza: scarsa distribuzione.

 

Come possiamo vedere i bisogni dell’azienda sarebbero soddisfatti da pochi fornitori. Se questi fornitori decidessero di cambiare le condizioni contrattuali con Ikea, ad esempio proponendo un aumento dei prezzi, l’azienda sarebbe soggetta a un grosso rischio: il suo potere di negoziazione sarebbe bassissimo, in quanto estremamente dipendente dai propri fornitori. Nel caso dell’Azienda B infatti Ikea potrebbe rischiare di perdere il suo unico fornitore di metallo e vetro. Dal canto loro queste aziende saprebbero che Ikea è dipendente da loro per un largo numero di prodotti e un considerevole volume di merce, pertanto sarebbero altrettanto consapevoli di poter giocare con lei un ruolo di maggior potere al tavolo di negoziazione. Osserviamo invece ora cosa accade effettivamente a Ikea, proponendo un’altra griglia immaginaria e semplificata, utile solo a scopo illustrativo (Tabella 2).

 

Azienda

Bisogni

Azienda D Azienda E Azienda F Azienda G Azienda H Azienda I Azienda L Azienda M Azienda N
Vetro x x x
Carta x x x
Metallo x x x
Tessile X x
Legno x x x

Tabella 2: Griglia di dipendenza: maggiore distribuzione.

 

Nonostante la griglia sia di pura invenzione, possiamo osservare che qualora alcune aziende fornitrici di Ikea decidessero di cambiare le condizioni, Ikea potrebbe facilmente uscirne senza grossi danni. L’azienda infatti si affida a loro per un quantitativo limitato di merce, tendendo a disperdere la dipendenza che ha, ad esempio, rispetto al suo bisogno di vetro affidandosi a diversi fornitori. Viceversa sceglie piccole aziende per le quali i ricavi ottenuti grazie alla partnership con Ikea rappresentano una buona percentuale del loro intero fatturato. L’azienda N, ad esempio, avrà a sua volta una scarsa distribuzione del suo fatturato, che potrebbe derivarle per un 60% proprio dalla collaborazione con Ikea e per il restante 40% da partnerships con altre aziende e distribuzione locale. Stando così le cose l’azienda N non è nelle condizioni di poter giocare un ruolo di negoziazione con Ikea. Così come una maggiore dispersione della dipendenza per l’individuo è preferibile, lo stesso può dirsi per l’azienda. Ma c’è di più: quello che conta è l’equilibrio tra la dispersione della dipendenza dell’azienda e quella dei suoi fornitori. Finora abbiamo trattato un caso limite, quello di un’azienda multinazionale. Ovviamente questo particolare caso può essere utile per meglio comprendere il concetto di dispersione della dipendenza applicato alle aziende ma non è facilmente traducibile anche per piccole o medie imprese. Di seguito propongo un quadrante (Tabella 3) che illustra le possibilità che a mio avviso si generano dalla intersezione tra la dispersione della dipendenza dell’azienda che ci interessa e quella dei suoi fornitori, che ho chiamato quadrante del potere di negoziazione.

 

Azienda in questione
Minore dispersione della dipendenza Maggiore dispersione della dipendenza
Fornitore Minore dispersione della dipendenza STASI ALTO POTERE DI NEGOZIAZIONE DELL’AZIENDA
Maggiore dispersione della dipendenza ALTO POTERE DI NEGOZIAZIONE DEL FORNITORE LIBERTÀ

Tabella 2: Quadrante del potere di negoziazione.

 

Cercherò ora di delineare meglio le posizioni che ho tracciato nei quadranti qui sopra.

  • STASI: in questa posizione le aziende sono fortemente dipendenti l’una dall’altra. L’una rappresenta un fornitore essenziale per l’azienda in questione, o perché l’impresa può contare su pochi fornitori oppure perché il fornitore è tra i pochi che può garantire quel servizio. Dal canto suo il fornitore è estremamente dipendente dall’azienda in questione per il volume d’affari che questa è in grado di garantirgli o perché costituisce un canale strategico irrinunciabile (es. lavora in un settore di nicchia). In questa posizione difficilmente la partnership tende a rompersi, al contrario tenderà a rimanere statica, cioè senza grosse negoziazioni o modificazioni dell’assetto originario. Nel caso in cui invece questo accada comporterà un nuovo sforzo per l’azienda e/o il fornitore che si troveranno a dover ridistribuire la propria dipendenza, cercando altri canali e probabilmente sperimentando nuovi assetti o nuove condizioni rispetto a quelli consolidati fino ad allora. Quello cui potrebbe andare incontro l’azienda è pertanto una fase di ansia, così come intesa da Kelly (1955), ovvero una fase in cui l’azienda può sperimentare un certo grado di confusione e smarrimento di fronte all’incertezza che questa nuova situazione, poco familiare rispetto a quanto finora l’azienda è stata in grado di gestire, solleva. Oltre ad una certa quota di ansia possiamo immaginare che questo tipo di aziende possa andare incontro a minaccia. Se intendiamo la minaccia come “la consapevolezza di un imminente e ampio cambiamento nelle strutture nucleari” (Kelly, 1955, p. 489), possiamo facilmente immaginare il grado di destabilizzazione a cui un’azienda andrà incontro se perde una partnership fondamentale per la sua sussistenza. Infatti, al contrario di quanto accade per le imprese che si trovino in posizione di “libertà”, queste aziende non hanno una grande dispersione reciproca della dipendenza, pertanto contano massicciamente sull’impresa partner per la loro stessa sussistenza.
  • ALTO POTERE DI NEGOZIAZIONE DELL’AZIENDA O DEL FORNITORE: in questa posizione c’è un forte sbilanciamento tra la distribuzione della dipendenza dell’azienda e quella del fornitore. Questo assetto richiama quanto visto in precedenza per l’esempio di Ikea. Qualora sia l’azienda in questione a poter contare su un vasto, variegato e “disperso” numero di fornitori si trova certamente in vantaggio soprattutto se queste aziende non possono contare su una così vasta dispersione della dipendenza. L’azienda in questione potrà avere un notevole potere di negoziazione sulle imprese fornitrici che, proprio perché notevolmente dipendenti da lei non saranno nelle condizioni di poter esercitare molto potere per non rischiare di perdere la partnership, condizione che determinerebbe uno scenario simile a quello visto per la posizione di stasi. Lo stesso vale ovviamente anche viceversa, ovvero per fornitori con una grande dispersione della dipendenza rispetto ad aziende con minore dispersione. È il caso per esempio di fornitori che producono materie prime di nicchia.
  • LIBERTÀ: in questa posizione il reciproco grado di libertà è notevole. Le due aziende sono incoraggiate a continuare la loro partnership fintanto che essa non sia proficua per entrambe. Sarà sempre possibile un certo grado di negoziazione ma non sarà marcatamente a favore o sfavore di nessuna delle due. Si apre la possibilità di una maggiore flessibilità alla ricerca di occasioni di parternariato migliori. Allo stesso modo, qualora un partner dovesse venire a mancare, questo non costituirebbe un grosso problema per l’azienda o il fornitore, al contrario di quanto non avvenga invece nella posizione di stasi.

 

4.3 Dipendenza dai consumatori

Un discorso simile a quello finora fatto per i fornitori può valere anche per quanto riguarda il potere dei consumatori. Come scrive Porter (Porter 1998; 2008; Harris et al, 2010), anche i consumatori hanno un certo potere di negoziazione, potere che può incidere significativamente sull’azienda. Poniamo il caso di un’azienda di nicchia: quest’impresa avrà per definizione relativamente pochi competitors. I consumatori avranno così poche aziende a disposizione tra cui scegliere in grado di garantire quel particolare servizio. In termini di dispersione della dipendenza quindi i consumatori saranno costretti a una minore dispersione. Questo porrà l’azienda in una condizione di vantaggio competitivo rispetto al cliente. Viceversa se l’azienda lavora in un mercato in cui la competitività tra aziende è molto elevata (condizione di “rivalità”, così come intesa da Porter; Porter, 1998; 2008) oppure subisce l’influenza di prodotti sostitutivi rispetto ai propri (si veda il concetto di “sostituti e complementari” di Porter; Porter 1998; 2008) è probabile che la dispersione della dipendenza sia maggiormente distribuita tra i consumatori piuttosto che tra le aziende, determinando in questo modo un maggiore potere di negoziazione a favore della clientela. Queste dinamiche hanno un notevole impatto sull’azienda. Nel primo caso l’azienda può avere maggiore controllo sui prezzi che può imporre al mercato, viceversa nel secondo caso è il mercato stesso a dettare il prezzo, imponendo spesso all’azienda importanti manovre di aggiustamento della strategia aziendale per mantenere adeguati margini di profitto (Harris et al, 2010).

Non è un caso infatti che con l’avvento della globalizzazione piccole e medie imprese artigiane si siano trovate di fronte al fallimento. Con l’ingesso di nuove industrie che potevano contare su economie di scala maggiori (“minaccia dei nuovi entranti”, Porter 1998; 2008), la distribuzione della dipendenza è aumentata per quanto riguarda i consumatori, che hanno potuto contare su maggiori possibilità di scelta in termini di aziende fornitrici, mentre è drasticamente diminuita per quanto riguarda queste aziende. Queste imprese, per far fronte alla crescita di competizione e per cercare di mantenere comunque adeguati margini di ricavo, devono mettere in pratica strategie di riduzione della spesa e massimizzazione del profitto, chi optando per forniture di minore qualità per minimizzare i costi di produzione, chi, al contrario, orientandosi su prodotti di nicchia, chi puntando su strategie di marketing per guadagnare visibilità e garantirsi così maggior clientela. Le aziende che non riescono a mettere in campo manovre efficaci rischiano il fallimento.

 

5. Conclusioni

Quanto detto finora è certamente solo una fetta ridotta delle questioni implicate nella creazione, nell’avvio e nel mantenimento di un progetto aziendale. Nonostante ciò credo che rileggere la questione alla luce della teoria dei costrutti personali possa aiutare a focalizzare l’attenzione sui processi che governano le scelte imprenditoriali. Lo psicologo costruttivista, in quanto esperto di tali processi, potrebbe rappresentare una valida risorsa per l’azienda aiutando l’imprenditore ed il suo team nella pianificazione strategica aziendale.

Il concetto di ciclo dell’esperienza può aiutare consulenti e imprenditori a tenere costantemente traccia dei processi in cui l’azienda è implicata, aiutandoli a individuare ed intervenire sulle principali difficoltà o rischi di fallimento aziendali. Il consulente costruttivista potrà aiutare l’imprenditore favorendo una maggiore socialità, comunanza e proposizionalità per fare fronte a questi rischi.

Il concetto di dispersione della dipendenza può essere d’aiuto alle aziende per quanto riguarda i loro rapporti con fornitori e consumatori. Nello specifico la griglia di dipendenza può configurarsi come utile strumento per gli imprenditori, strumento in grado di tracciare la situazione dell’azienda e stimarne la quota di potere in termini di negoziazione. Questo permetterebbe di aggiustare le strategie aziendali in vista di un più efficiente posizionamento nel mercato e, spesso, permettendo la sopravvivenza dell’azienda stessa. Discorso simile, che meriterebbe un approfondimento a parte, potrebbe valere anche per la differenziazione del capitale, dei rischi e dei prodotti e per la distribuzione delle mansioni lavorative. In buona sostanza l’analisi del grado di dispersione della dipendenza all’interno dell’azienda può rappresentare uno strumento vitale per l’azienda stessa.

 

Bibliografia

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Epting, F. R. (1984). Personal Construct Counseling and Psychotherapy. Chichester: John Wiley&Sons Ltd. (trad. it. 1990. Psicoterapia dei costrutti personali. Firenze: Martinelli& C.).

Harris, J. D., Lenox, M. J., Liedtka, J., & Snell, S. (2010). Introduction to Strategy. Darden Business Publishing. UVA-S-0183.

Kahneman, D., & Tversky, A. (1977). Intuitive prediction: biases and corrective procedures. In Managment Science, 12, 313-327.

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Kelly, G. (1966). A brief introduction to personal construct theory. In D. Bannister (Ed.), Perspectives in Personal Construct Theory. London and New York: Academic Press, 1970.

Kirzner, I. M. (1973). Competition and Entrepreneurship. Chicago and London: The University of Chicago Press.

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Sitografia

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Shontell, A. (2010). The Greatest Comeback Story Of All Time: How Apple Went From Near Bankruptcy To Billions In 13 Years. www.businessinsider.com

 

Note sull’autore

 

Annalisa Anni

Institute of Constructivist Psychology

annalisaanni@libero.it

Psicologa specializzanda in psicoterapia presso l’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Mi sono occupata per diversi anni di Psiconcologia collaborando con l’Istituto Oncologico Veneto di Padova. Attualmente mi occupo di minori con disabilità della vista.

 

Note

  1. Il Corollario della Socialità recita: “nella misura in cui una persona costruisce i processi di costruzione di un’altra, può giocare un ruolo in un processo sociale che coinvolge l’altra persona” (Kelly, 1955, p. 95).
  2. La environmental_analysis è uno strumento in grado di fornire un’analisi del contesto più ampio in cui l’azienda si muove, identificando quali sono i fattori che possono in qualche modo influenzare attualmente o in futuro l’impresa e/o il settore in cui si muove. Alcuni dei fattori che possono essere presi in considerazione sono, ad esempio, trend demografici, fattori socio-culturali, innovazioni tecnologiche, andamento finanziario micro e/o macroeconomico, pressioni politiche o legali, etc… (Harris et al., 2010).
  3. La competitors analysis è uno strumento in grado di fornire un framework per valutare i rivali esistenti o potenziali di un’azienda nonché le loro attuali e future strategie di mercato. Non si tratta quindi unicamente di creare una mappa dei competitors ma di acquisire informazioni circa il loro posizionamento e il loro movimento nel mercato. Si tratta di capire come pensano e come prendono le decisioni. Si tratta di conoscere il settore industriale in cui ci si muove per poterlo in qualche modo anticipare (Harris et al., 2010).
  4. Il Corollario dell’Individualità dice: “le persone differiscono l’una dall’altra nella loro costruzione degli eventi” (Kelly, 1955, p. 55).
  5. Il Corollario della Comunanza recita: “nella misura in cui una persona impiega una costruzione dell’esperienza simile a quella impiegata da un’altra, i suoi processi sono psicologicamente simili a quelli dell’altra persona”(Kelly, 1966, p.20).
  6. “I processi di una persona sono psicologicamente canalizzati dai modi in cui essa anticipa gli eventi” (Kelly, 1955, p. 46).
  7. Secondo Kelly l’unità dell’esperienza è costituita da un ciclo che consta di cinque fasi: anticipazione, investimento, incontro, conferma o disconferma, revisione. “La persona deve dapprima anticipare gli eventi e quindi investire se stesso nella progressione del sistema. Dal momento che vi è stato un personale investimento, l’incontro con gli eventi impegnerà la persona nei risultati. A questo punto essa è aperta alla validazione o all’invalidazione in modo da permettere la revisione costruttiva” (Epting, 1990; p. 42).