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Lo schizococco

Una prospettiva interpersonale[1]

The schizococcus

An interpersonal perspective

di

Phillida Salmon

Birkbeck College, University of London, UK

 

Traduzione a cura di

Sara Candotti e Marco Ranieri

Abstract

Quaranta anni fa, la ricerca rivoluzionaria di Don Bannister[2] sul disturbo del pensiero schizofrenico suggerì che il problema avrebbe potuto essere compreso come un allentamento del processo di costruzione individuale. In questa ricerca gli schizofrenici con disturbo del pensiero venivano visti come costruttori lassi nei loro tentativi di dare senso alle altre persone e ciò, veniva proposto, sarebbe stato il risultato di ripetute invalidazioni. Sebbene Don considerasse le spiegazioni mediche come una vana ricerca dello “schizococco”, la sua personale comprensione di questo ambito di ricerca era tuttavia ancora espressa in termini intrapsichici. In questo articolo viene argomentato come potrebbe essere maggiormente utile per noi pensare a questo e ad altri problemi non come risiedenti nelle persone, bensì tra le persone.

Forty years ago, Don Bannister’s ground-breaking research on schizophrenic thought disorder suggested that the problem should be understood as a loosening of individual construing. Thought disordered schizophrenics were seen as loose construers when making sense of other people, and this, it was proposed, was the result of serial invalidation. Although Don derided medical accounts as a search for the “schizococcus”, his own understanding was still couched in intrapsychic terms. In this article, it is argued that we might usefully think of this and other problems not as residing within people, but between them.

DOI:

10.69995/IDMO4140
Keywords:
Schizofrenia, disturbo del pensiero, intersoggettività, psicologia dei costrutti personali | Schizophrenia, thought disorder, intersubjectivity, personal construct psychology

1. Disturbo del pensiero schizofrenico e costruzione individuale

In questo articolo voglio considerare l’essenza della ricerca pionieristica di Don Bannister sul disturbo schizofrenico del pensiero e quindi continuare suggerendo come le intuizioni che ha offerto potrebbero ben integrarsi con i più recenti sviluppi delle teorie costruzioniste. In particolare sosterrò che dovremmo pensare al costruire non come qualcosa che è proprietà dei singoli individui ma piuttosto come un processo che occupa lo spazio tra di loro.

Quaranta anni fa Don Bannister si imbarcò in un programma di ricerca volto a investigare il disturbo del pensiero schizofrenico. Adoperando griglie[3] che utilizzavano sia persone che oggetti come elementi, egli mostrò come gli schizofrenici con disturbo del pensiero possedessero costruzioni delle persone caratteristicamente lasse, mentre conservavano costruzioni relativamente strette degli oggetti. Egli teorizzò che la mancanza di una teoria efficace riguardo alle altre persone fosse l’esito di un processo di invalidazione seriale, nel quale la persona non era stata in grado di sviluppare una via percorribile per dare senso agli altri.

Con questa elegante serie di esperimenti ben progettati, che andavano a sostegno di ogni step processuale della sua argomentazione, Don è riuscito a delineare una teoria comprensiva del disturbo del pensiero schizofrenico. Ciò ha portato a lavori recenti che sono risultati di supporto a questa spiegazione (Cipolletta & Roserro, 2003). Lontano dall’essere un malfunzionamento generalizzato del cervello che causava una mancanza di struttura concettuale – cioè lo schizococco, come egli lo ha soprannominato – il disturbo del pensiero si manifestava invece in un modo altamente specifico, colpendo solo le sfere psicologiche, e lasciando intatte le comprensioni del mondo fisico. E questa condizione non insorgeva inspiegabilmente, all’improvviso ma era, a quanto pare, il risultato di esperienze successive di invalidazione.

In contrasto con la confusione concettuale delle spiegazioni biomediche, la visione di Don è riuscita ad includere in modo convincente, entro un singolo universo discorsivo, l’eziologia, la sintomatologia e – almeno potenzialmente – il trattamento psicoterapeutico. La portata e la forza di questo lavoro sono certamente caratteristiche di tutto il pensiero di Don. Ma vorrei aggiungere una nota personale e dire che, oltre a ciò, vi erano anche delle ragioni più specifiche che chiarivano perché questa sfera particolare lo avesse coinvolto così profondamente. Nell’essere apparentemente privo di significato, il disturbo del pensiero presentava la più grande sfida possibile alla comprensione, alla potenza del pensiero stesso, nel quale Don aveva sempre investito con passione. E, in aggiunta a ciò, egli portava con sé un profondo dolore personale relativo a una persona, a lui intimamente amica, che aveva sviluppato proprio una schizofrenia con disturbo del pensiero.

Nella visione di Don, gli schizofrenici con disturbo del pensiero potevano essere ottimi fisici, ma pessimi psicologi. L’accuratezza di questa rappresentazione divenne a me estremamente chiara, durante la mia ricerca, negli incontri giornalieri che portai avanti per un anno con un uomo chiamato Percy. Per quanto provassi, non potevo carpire da Percy un singolo riferimento ad alcun aspetto della personalità umana o delle relazioni interpersonali. Rispondendo a domande riguardo alle qualità psicologiche, egli poteva solo fare ricorso a un vocabolario appartenente alla sfera della fisicità: quanto alto, quanti capelli, e così via. Ma a richieste di informazioni in merito a dei luoghi in Inghilterra, Percy, che aveva lavorato come impiegato presso un ufficio postale, riusciva a rispondere con un resoconto pienamente dettagliato e altamente accurato.

All’interno della formulazione teorica di Kelly[4] i corollari della comunanza e della socialità risultano più chiaramente implicati nella difficile condizione del disturbo del pensiero schizofrenico. La patologia infatti consente alle persone di sperimentare una comunanza almeno parziale con gli altri, in quanto l’intero mondo fisico viene visto in modo simile. Ciò risulta abbastanza ovvio a partire dal fatto che persino gli schizofrenici più apparentemente disturbati possono riuscire a trovare un loro modo di vestirsi, usare coltelli e forchette per mangiare, e così via. L’assenza di comunanza con gli altri si applica solo entro la sfera della comprensione psicologica – il senso che noi costruiamo di noi stessi e degli altri, il nostro comportamento e la nostra esperienza, le nostre relazioni sociali e interpersonali.

A questo punto viene introdotto il confronto con gli schizofrenici che invece non presentano disturbo del pensiero. Una scoperta accidentale nel lavoro di Don, come ho indicato precedentemente, è stata infatti che nella griglia delle persone – la griglia psicologica – questo gruppo ha mostrato di avere modalità relazionali in qualche modo stravaganti. Don ha quindi ipotizzato che la schizofrenia senza disturbo del pensiero potesse essere una fermata intermedia sul percorso che porta al disturbo del pensiero; il progredire su questa via dipenderebbe dal fatto che l’essere eccentrico riguardi un’area socialmente rilevante e vitale, oppure no.

Se credete, ad esempio, che il vostro vicino vi stia mandando raggi di morte attraverso il muro, inducendovi a intraprendere un’azione drastica contro di lui, allora probabilmente incontrerete risposte duramente invalidanti – sanzioni sociali di qualche tipo. Ma se avete solamente la convinzione di discendere da Giorgio Terzo, probabilmente sarete in genere tollerati come un illuso, ma innocuo, eccentrico.

 

2. Disturbo del pensiero schizofrenico e intersoggettività

Ad ogni modo, la totale mancanza di comunanza nella comprensione psicologica dell’altro è sicuramente una questione molto diversa. Un prerequisito per la socialità deve necessariamente essere la presenza, in un certo grado, di un terreno condiviso con gli altri . Noi diamo senso alle altre persone ricorrendo al nostro personale repertorio concettuale. Non necessariamente vediamo il mondo umano nello stesso modo di un’altra persona – possiamo, infatti, vederlo in modi diametralmente opposti – ciononostante possiamo ancora immaginare qualcosa del punto di vista di quella persona, abbastanza da essere in grado di formulare anticipazioni e rispondere in termini socialmente appropriati. Nel nostro sistema di costrutti possediamo il materiale grezzo per rispondere ma ancor prima per rappresentare e posizionare altri esseri umani nel nostro spazio relazionale. In ogni area dell’esistenza umana, la socialità è cruciale e questo vale anche per incontri superficiali. La vita stessa, ad esempio, dipende dall’accurata lettura delle intenzioni degli altri autisti sulla strada. Le relazioni di lunga durata e personalmente significative sono costruite a partire da un reciproco apprezzamento del punto di vista dell’altro e diventano impercorribili se ciò viene perso. Nell’interazione con degli sconosciuti, regolarmente assumiamo che ci sia almeno una qualche comprensione reciproca. Siete in piedi in una carrozza affollata di una metropolitana che è ferma in un tunnel da 10 minuti. Una voce fa un annuncio che è completamente inudibile. Voi azzardate un sorriso, una rassegnata scossa della testa verso la donna che sta di fronte a voi; in risposta lei solleva le sue sopracciglia con una smorfia comica. Supponiamo che invece della reciprocità attesa lei dica, come fece uno dei pazienti di Don, “Io stesso sono in ritardo e fermo sui binari[5]”. Come rispondereste a un tale approccio conversazionale? La reazione generale al disturbo del pensiero è il disorientamento e lo sconcerto. Goffman (1963) ha descritto la necessità sentita profondamente, in ogni tipo di incontro interpersonale, di mantenere intatto il tessuto sociale, lo scorrere liscio, il flusso spontaneo, delle negoziazioni conversazionali. Noi facciamo enormi sforzi, egli ritiene, per evitare l’imbarazzo sociale. Se il tessuto sociale viene a rompersi, deve essere intrapresa, in modo urgente, un’azione per ripararlo.

Per la maggior parte delle persone, i discorsi degli schizofrenici con disturbo del pensiero producono estremo imbarazzo sociale per il fatto di sembrare incomprensibilmente strani. In questo caso il lavoro sociale riparatorio che Goffman (1963) descrive appare impossibile perché sembra che non ci sia reciprocità, nessun senso condiviso di come gli incontri dovrebbero procedere. Barham e Haywood (1995), scrivendo riguardo a schizofrenici cronici che attualmente vivono in comunità, suggeriscono che nel parlare delle proprie esperienze queste persone sembrano incomprensibili perché non possono rendere conto delle loro vite come progetti socialmente intellegibili.

E gli incontri a breve termine di solito evolvono rapidamente da una situazione di tensione e costrizione a sfiducia, evitamento e persino ostilità.

Nel metterla in relazione con le sfere della comprensione comune e reciproca, il lavoro di Don posiziona la schizofrenia con disturbo del pensiero essenzialmente tra le persone, come uno stato intersoggettivo, piuttosto che un qualcosa dentro l’individuo. E in contrasto con la condizione statica raffigurata dalle definizioni biomediche, il quadro di Don ne fa una tappa – una tardiva e spesso, ahimè, definitiva tappa – entro un processo. Tale processo è esattamente lo stesso del relazionarci l’uno all’altro nel quale siamo tutti impegnati.

Seguendo questa logica, per comprendere lo sviluppo della schizofrenia con disturbo del pensiero, dobbiamo guardare agli aspetti relazionali piuttosto che individuali. Se questa condizione è il risultato di un’esperienza prolungata di invalidazione abbiamo bisogno allora di focalizzarci più da vicino sulle transazioni e sulle negoziazioni in cui sono state invischiate le persone interessate. Nell’esaminarle, due direzioni particolari nel pensiero recente sembrano poterci aiutare: il lavoro di John Shotter (1989) da una parte, e quello di Trevor Butt, Vivien Burr e Richard Bell (1997) dall’altra.

John Shotter (1989) ha spiegato che, nello stabilire un senso di identità personale, il pronome Tu è precedente rispetto al pronome Io. Come egli espone[6]:

Il Tu è precedente rispetto all’Io, nel senso che la capacità di riconoscere che gli altri si rivolgono a noi come “Tu” è preliminare rispetto all’essere in grado di dire “Io” di se stessi, all’essere capaci di comprendere l’unicità della posizione di ciascuno rispetto agli altri, all’assumere responsabilità per le proprie azioni.

Nell’infanzia, ha suggerito Shotter, l’uso del Tu è ontologicamente formativo; “quando ci si rivolge ai bambini piccoli usando il Tu, vengono date loro indicazioni su come ESSERE” (ibidem). Dato che possiamo agire solo entro le opportunità che ci vengono offerte, tali precoci comunicazioni devono essere vitali nel governare il senso, o la mancanza di un senso, del proprio essere persona.

Tale visione offre una prospettiva differente, e io penso potenzialmente fruttuosa, sui molto ben documentati studi clinici sugli schizofrenici. Tra quelli che hanno esaminato più attentamente lo sviluppo della schizofrenia, la sua genesi nelle relazioni precoci è generalmente accettata. Come forse più vividamente illustrato nel primo lavoro di R. D. Laing (1959), i sintomi dei giovani uomini e donne schizofrenici possono essere visti come risposte significative a comunicazioni familiari complesse e contraddittorie. La loro insicurezza ontologica, sostiene Laing, è il risultato di un rifiuto genitoriale a concedere loro un’identità separata. Questo quadro è ampiamente sostenuto da una ricerca più recente. Così Lucy Johnstone scriveva nel 1989[7]:

I genitori, a causa di problemi psicologici che possono risalire a diverse generazioni precedenti, non sono in grado di facilitare lo sviluppo molto precoce di un senso di identità e separatezza dei loro bambini. I problemi escono allo scoperto quando la separazione diventa una questione problematica in adolescenza o nella prima età adulta. A causa del ruolo cruciale che il bambino ha iniziato a giocare nel fragile equilibrio psicologico dei genitori, qualsiasi movimento che lui o lei faccia verso l’indipendenza è molto minaccioso. Ad ogni modo, dal momento che queste difficoltà sono largamente fuori dalla consapevolezza e sono in conflitto con l’amore e la preoccupazione genuini dei genitori, esse possono soltanto emergere nella forma di comunicazioni confuse e contraddittorie.

Nei termini che John Shotter propone, il Tu con il quale questi genitori si rivolgono ai loro giovani figli e figlie è altamente problematico. Poiché il Tu non è mai chiaramente separato dall’Io, c’è un’ambiguità fondamentale nei messaggi formativi rispetto a come essere, come agire un particolare modo di essere. Entro l’intensità emozionale e l’intrusività di relazioni virtualmente simbiotiche, i giovani non possono chiaramente differenziare se stessi dai propri genitori. A essi mancano le opportunità che permetterebbero loro di agire come persone indipendenti. Non riescono a raggiungere il senso dell’essere posizionati nel mondo in modo unico, come allo stesso tempo nemmeno quello dell’essere responsabili nella dimensione sociale, aspetto, anche questo, che caratterizza l’essere una persona.

È essenzialmente la mancanza di personalità, intesa in questi termini, che caratterizza la schizofrenia con disturbo del pensiero. E nel riflettere su ciò, una ulteriore recente linea di pensiero sviluppata da Trevor Butt e i suoi colleghi (1997) sembra potenzialmente illuminante. In una griglia sul sé sociale, seguita da un’intervista, i soggetti venivano invitati a considerare se stessi in un serie di relazioni differenti. Mentre costruivano se stessi come frammentati tra queste relazioni – come aventi una pluralità di sé – le persone esperivano anche un senso di “essere se stessi” dentro le relazioni che consentivano un funzionamento spontaneo, pre-riflessivo. Il senso di sé, a quanto pare, non viene identificato da posizioni invariabili su diversi specifici costrutti, bensì viene ancorato in alcuni di essi che forse non sono articolati, ma sono profondamente sentiti come sovraordinati. In particolari relazioni si percepisce che l’altra persona riconosce questo profondo sé; ed è questo senso di sicurezza nell’essere riconosciuto come persona – la consapevolezza che l’identità di uno viene accolta in modo sicuro dall’altro – che permette all’interazione di fluire, di essere spontanea.

Per portare la logica di questo approccio a un passo ulteriore, questo stesso senso dell’altro così sovraordinato, così difficile da articolare, e che tuttavia trasmette tanta fiducia, deve in qualche modo esistere in relazioni che permettono la spontaneità. Tali situazioni devono sicuramente coinvolgere un riconoscimento reciproco della personalità unica di ciascuno. Forse è per questo che è impossibile descrivere, tradurre in parole, una persona intimamente conosciuta e amata. Poiché nella libertà, nella generosità del riconoscimento profondo e personale, noi non seguiamo rigorosamente un copione familiare, ma giochiamo, partiamo per la tangente, diventiamo imprevedibili, ostinati, capricciosi. E ci dilettiamo nelle svolte inattese dell’altro, nella loro stravaganza, addirittura perversione. Nella fluidità istante per istante di incontri come questi, ci sono molte possibilità per i diversi modi in cui, come dice Shotter, si va avanti insieme.

Ma chiaramente, le circostanze relazionali nelle quali gli schizofrenici crescono non permettono questo tipo di libertà, né l’ampiezza di spazio e la fiduciosa apertura verso direzioni impreviste che la caratterizzano. Nella claustrofobica, soffocante chiusura delle relazioni genitore-figlio, i giovani sono soggetti a un costante ansioso monitoraggio, a limitazioni personali poste momento per momento su come ci si aspetta che loro siano. La spontaneità diventa impossibile, dal momento che porta con sé il rischio di una deviazione dal copione familiare. E poiché l’identità della persona giovane è così essenzialmente mescolata con quella di un genitore, non può esserci un senso di una vera relazione sé-altro attraverso la quale, per ciascuno di noi, il nostro senso di essere una persona viene costituito.

Quando le persone, alle quali lo sviluppo della personalità è stato così impedito, entrano nel mondo psichiatrico è probabile che i problemi siano nel migliore dei casi cristallizzati, nel peggiore gravemente amplificati. Lo stato di non-persona di coloro che vengono diagnosticati schizofrenici è infatti massicciamente promosso entro un trattamento psichiatrico convenzionale. L’ospedalizzazione significa essere soggetti a un regime che blocca e trascura le intenzioni soggettive e l’agency dei pazienti e nega la loro capacità di assunzione di responsabilità verso se stessi e il loro essere responsabili nei confronti degli altri. Per Rufus May (2002), lo psicologo che si è auto-soprannominato pazzo, questo ultimo aspetto è stato, ad esempio, particolarmente dannoso. Egli mette a confronto il trattamento da lui ricevuto da parte dello staff medico e infermieristico, che non lo ascoltava, con il profondo aiuto offerto da un altro paziente: “Io fui sfidato rispettosamente riguardo al mio comportamento bizzarro o emotivamente forte da un altro paziente e ciò ebbe un impatto memorabile nel farmi diventare più responsabile per le mie azioni e farmi carico maggiormente del mio comportamento” (2002, p. 224).

Ciò sembra importante. Venire sfidati, ricevere la richiesta di rendere conto del proprio comportamento, di essere responsabile verso gli altri: questo di certo è ciò che costituisce il carattere morale di una persona. E penso che sia la negazione implicita della natura morale ad essere la peculiarità più dannosa dell’etichetta di schizofrenico.

Una volta schizofrenico, per sempre schizofrenico. Tale è stata la triste conclusione di Peter Barham in seguito ad anni di accurata ricerca. Ciò non era la conseguenza della condizione di schizofrenia di per sé, quanto piuttosto il risultato di un’esclusione sociale. Deve essere sempre vero tutto ciò? Don stesso non la pensava in tale modo. Egli concepiva infatti il suo lavoro come orientato verso una possibile impresa terapeutica. Nella logica delle sue scoperte riguardo alla genesi del disturbo, l’ultima fase della sua ricerca si era focalizzata verso la reversibilità del disturbo del pensiero. Lavorando entro il sistema di costrutti di ciascun paziente, isole di relazioni stabili tra costrutti dovevano costituire il focus di prove validazionali consistenti. In questo modo egli sperava che sfere più ampie di significato, entro il mondo delle persone e le loro inter-relazioni, avrebbero potuto essere gradualmente consolidate. Ma questa impresa rischiosa si trovò insabbiata: si era rivelata troppo difficile, anche all’interno di un ambiente istituzionale, per esercitare un sufficiente controllo sulle sorti validazionali dei pazienti che vivevano in tale ambiente.

Il focus terapeutico di Don, dentro la logica del suo approccio, era il mondo interno, il costruire degli schizofrenici con disturbo del pensiero. Forse non è la sfera cognitiva ciò a cui dovremmo guardare, quanto piuttosto la sfera discorsiva entro la quale la personalità viene costituita e mantenuta. I pochi tentativi terapeutici di successo hanno messo in evidenza un interesse centrale verso le relazioni, verso relazioni profondamente personali. Nel progetto Californian Soteria, per esempio, e in quelli che sono stati sviluppati in Scandinavia, gli sforzi terapeutici hanno abiurato il modello della malattia in favore di quello della persona e delle relazioni di tale persona con gli altri. Solitamente lo staff in siffatti progetti è stato non-medico e non-professionale, e l’obiettivo è stato quello di stabilire relazioni rispettose, non-intrusive ed empatiche con le persone etichettate come schizofreniche.

Relazioni come queste hanno lo scopo di permettere ai clienti di esprimere la propria soggettività, di parlare della propria esperienza come essa è effettivamente per loro. Per citare di nuovo Rufus May che parla della natura dannosa della sua degenza: “C’era un grande disaccordo tra le mie esperienze e come veniva dato loro senso da parte dei professionisti. Essi non stavano cercando di mettersi in relazione con noi come pazienti, e non ci stavano ascoltando” (ibidem).

Essere in grado di parlare delle proprie esperienze personali, per quanto strane queste possano sembrare all’ascoltatore, significa venire ascoltati come Altro. E il riconoscimento della differenza, dell’alterità, è certamente essenziale nelle relazioni che sono propriamente Io-Tu. È il rifiuto di permettere ai bambini la loro diversità in relazioni precoci iper-intrusive e simbiotiche che evidentemente blocca lo sviluppo della personalità. Per la stessa ragione un’apertura da parte di un altro ad ascoltare, ad affermare, a mettersi personalmente in relazione con il mondo soggettivo di una persona disturbata, sembra offrire a tale persona la possibilità di riconoscere se stesso e l’altro, e di venire riconosciuto, come un essere umano unico.

Ma di certo questo è un obiettivo molto lontano dall’essere facile e immediato. È allarmante, persino spaventoso, aprire se stessi parlando di ciò che è umanamente strano, forse appena intellegibile. Entrare in esperienze estranee può minacciare l’identità di una persona; è necessario un tipo speciale di coraggio per fare ciò. E non è sufficiente avere un’attenzione vicina ed empatica verso l’altro. Ciò che è necessario è una mutuale, reciproca interrelazione. Entrambe le parti che si incontrano devono essere presenti in modo vitale, riconoscersi vicendevolmente. Tutti noi arriviamo a riconoscerci, come aventi la forma di persone, attraverso il processo inter-relazionale del conversare umano. Per gli schizofrenici, così come per chiunque altro, la responsività a due vie è cruciale. La relazione richiede il riconoscimento di un Io, così come di un Tu. L’attenzione esclusiva a una persona disturbata, per quanto sensibile, non è di per sé sufficiente. Le reazioni, l’esperienza dell’essere in conversazione con il partner o la partner, devono anch’esse essere portate all’attenzione, essere riconosciute, essere pensate. E’ la relazione stessa, l’interazione, l’interscambio, il tra, che è cruciale.

Di sicuro il più esperto e coraggioso praticante di questo tipo di processo, e il suo più eloquente narratore, è il neurologo Oliver Sacks. Sacks (1985, 1991, 1995) dà la possibilità ai suoi lettori di entrare in mondi di grande stranezza umana rappresentati con colori intensi. Egli riesce a raggiungere questa intensità, come lui stesso descrive, attraverso una prolungata, forte e intima concentrazione sui suoi incontri vissuti con coloro che sono “altro”. Questo significa occuparsi, e ad un livello profondo, “abitare”, i sentimenti da lui stesso percepiti e le idee comunque incerte che riesce a formulare riguardo al significato espressivo dei discorsi e delle azioni dei suoi soggetti. Attraverso la delicata consapevolezza di come egli percepisce se stesso, momento per momento, nelle relazioni in corso con l’altro, Sacks diventa capace, infine, di presentare e di trasmettere la soggettività interna di tale persona. È così che noi, come lettori, siamo in grado di abitare con l’immaginazione lo strano mondo di Leonard, il paziente post-encefalico che è il protagonista di “Awakenings[8]”:

Alla fine del mio primo incontro con Leonard, gli dissi: Com’è essere nel modo in cui tu sei? A cosa lo paragoneresti? Egli scandì la seguente risposta: “Ingabbiato, bisognoso, come la tigre di Rilke”… Ancora e ancora, con le sue descrizioni penetranti, le sue metafore immaginative, o il suo grande inventario della natura del suo stesso essere e della sua esperienza. “C’è una presenza terribile”, disse una volta, “E una assenza terribile. La presenza è un miscuglio di critiche e prepotenza e pressione insieme con l’essere trattenuto e confinato e fermato – io spesso ho chiamato ciò il pungolo e la cavezza. L’assenza è un terribile isolamento e una freddezza e un restringimento – un buio senza fondo e un’irrealtà”.

Ci possono essere pochi professionisti così delicati, o così ingegnosi, come Oliver Sacks. Ma le sue esplorazioni uniche, descritte così vividamente nei suoi scritti, sembrano mostrare ciò che può significare lavorare nella direzione dell’essere persona con coloro ai quali questa possibilità è stata precedentemente negata.

 

Bibliografia

Bannister, D. (1963). The genesis of schizophrenic thought disorder: a serial invalidation hypothesis. Br. J. Psychiat., 109, 680-686.

Barham, P., & Hayward, R. (1995). Relocating madness: from the mental patient to the person. London: Free Association Press.

Butt,T., Burr, V., & Bell, R. (1997). Fragmentation and the sense of self. In Constructivism in the Human Sciences, 2, 12-29.

Cipolletta, S., & Roserro, G. (2003). Testing the serial invalidation hypothesis in the genesis of schizophrenic thought disorder: a research with repertory grids. In G. Chiari and M. L. Nuzzo (Eds), Psychological constructivism and the social world (pp. 353-368). Milano: Franco Angeli.

Goffman, E. (1963). Stigma. Harmondsworth: Penguin.

Johnstone, L. (1989). Users and abusers of psychiatry. London: Routledge.

Laing, R. D. (1959). The divided self. Harmondsworth: Penguin.

May, R. (2002). The experience of madness. In J. Critical Psychology, Counselling and Psychotherapy, 2, 220-227.

Shotter, J. (1989). Social accountability and the social construction of ‘You’. In J. Shotter & K. Gergen (Eds), Texts of identity. London: Sage.

Sacks, O. (1973). Awakenings. London: Picador.

Sacks, O. (1985). The man who mistook his wife for a hat. London: Picador.

Sacks, O. (1995). An anthropologist on Mars. London: Picador.

 

Note sull’autore

 

Phillida Salmon

Birkbeck College, University of London

Dopo il dottorato ha lavorato per undici anni come psicologa clinica prima di tenere varie cattedre. Ha lavorato per la Open University e per la Birkbeck Continuing Education, dove ha offerto corsi su Narrazione e Identità. Ha lavorato anche come psicoterapeuta alla Medical Foundation for the Victims of Torture. La sua più recente pubblicazione è “Using multiple voices in autobiographical writing”, in Horrocks et al, eds. (2002) Narrative, Memory and Life Transitions.

 

Note

  1. Articolo originariamente comparso in Personal Construct Theory & Practice, 1, 76 – 81. Si ringraziano gli editori di Personal Construct Theory & Practice per aver gentilmente concesso la pubblicazione della traduzione sulla Rivista Italiana di Costruttivismo.
  2. La traduzione dell’articolo ha voluto mantenere fede alla sua forma originale, pertanto si fa presente che nella trattazione l’autrice si riferirà spesso a Don Bannister come “Don”.
  3. Le griglie di repertorio (repertory grid technique) sono state elaborate da Kelly (1955) entro la formulazione della teoria dei costrutti personali, come una possibile tecnica per studiare le correlazioni tra costrutti, cioè le articolazioni di significato che la persona compie nei confronti degli elementi principali che compongono il suo spazio psicologico. Vengono proposte come una delle possibili vie per indagare la visione del mondo della persona e si basano sul presupposto di un sistema di costrutti personale organizzato come un complesso organizzato e integrato. Per approfondimenti si rimanda al volume Armezzani, M., Grimaldi, F., Pezzullo, L. (2003). Tecniche costruttiviste per la diagnosi psicologica. Milano: McGraw-Hill (pp. 93 – 198). (N.d.T.)
  4. Per un approfondimento rimandiamo a Kelly, G. A., (1955). The Psychology of Personal Constructs. New York: Norton. (N.d.T.)
  5. La traduzione vuole rendere il senso della frase “I’m time up and straight myself”, riportata dall’autrice con l’intento di mettere in luce la svolta conversazionale che tale risposta introduce e il disorientamento dell’interlocutore che muove da presupposti di comprensione reciproca. (N.d.T.)
  6. Shotter, J. (1989). Social accountability and the social construction of ‘You’. In J. Shotter & K. Gergen (Eds), Texts of identity. London: Sage. (N.d.T.)
  7. Johnstone, L. (1989). Users and abusers of psychiatry. London: Routledge. (N.d.T.)
  8. Sacks, O. (1973). Awakenings. London: Picador