Tempo di lettura stimato: 23 minuti
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Il ciclo di vita del gruppo

Una prospettiva costruttivista[1]

Stages of a group development – a PCP approach

di

Mary Frances

Lemington Spa, UK

 

Traduzione a cura di

Erica Costantini e Francesca Del Rizzo

Abstract

L’evoluzione di un gruppo può essere illustrata utilizzando il concetto di “ciclo di vita” che prevede una sequenza di stadi di sviluppo. I modelli sul ciclo di vita in genere presentano questi stadi come fenomeni specificamente riferibili all’esperienza di gruppo. Questo articolo intende applicare la Psicologia dei Costrutti Personali all’analisi degli stadi di sviluppo del gruppo, descrivendoli come processi di costruzione ed elaborazione resi più vividi dall’intenso laboratorio relazionale rappresentato da un gruppo. Il contesto del gruppo permette di evidenziare la natura sperimentale delle nostre azioni; analizzando le interazioni che avvengono all’interno di un gruppo nel corso del suo sviluppo, si possono individuare alcune configurazioni di comportamenti ricorrenti.

 

Si propone quindi l’introduzione di un modello a quattro stadi fondato sulla teoria dei costrutti personali. Alla descrizione delle configurazioni comportamentali caratteristiche di ciascuno stadio segue l’esplorazione delle implicazioni relative al ruolo del facilitatore.

Groups and their members can be seen as experiencing a ‘life cycle’, characterised by a sequence of developmental stages. Life cycle models typically present these stages as phenomena of group experience. This paper experiments with the application of Personal Construct Psychology to phases of group development, describing these as processes of construing and elaboration made more vivid by the intense ‘laboratory’ of the group. The group context serves to highlight the experimental nature of our actions, and the analysis of group interaction reveals some recognisable patterns of behaviour as groups develop. A potential 4-stage model using personal construct theory is described, and implications for group facilitators are explored at each stage.

Keywords:
Gruppi, sviluppo del gruppo, facilitazione | groups, group development, facilitation
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1. Introduzione

Lo sviluppo dei gruppi è stato frequentemente descritto come un “ciclo di vita” caratterizzato da una sequenza di stadi di sviluppo. Il modello più utilizzato è quello di Tuckman (1965), che fa riferimento a quattro stadi: forming, storming, norming e performing.

  • lo stadio del forming si riferisce alle prime fasi della vita di un gruppo, durante le quali le persone si incontrano, iniziano ad interagire e a cercare un modo per condividere obiettivi comuni;
  • lo stadio dello storming è quello in cui vengono contestati e negoziati i ruoli, le relazioni ed i valori all’interno del gruppo e in cui emergono le questioni legate alla leadership ed al potere;
  • nello stadio del norming si iniziano a stabilire ruoli, regole e aspettative del gruppo; e infine
  • lo stadio del performing segna il momento in cui i processi di gruppo si sono stabilizzati e consolidati ed il gruppo è in grado di lavorare all’interno di questi vincoli con modalità relativamente efficaci.

 

Questo modello a quattro stadi è ampiamente utilizzato nell’ambito del lavoro con i gruppi. Sebbene la sequenza degli stadi non possa essere considerata né lineare né universale, possiamo tuttavia riconoscere, mano a mano che il gruppo evolve, alcune configurazioni distintive. In questo senso il lavoro di Tuckman è considerato da molti un utile punto di partenza per individuare quali possano essere gli interventi più appropriati da parte del facilitatore. Tenere in considerazione un modello come questo può essere utile per meglio comprendere le inevitabili difficoltà del processo di gruppo. Può inoltre permettere di riconoscere come nell’arco della vita del gruppo i processi relazionali e quelli legati al compito evolvano di pari passo, come dimensioni parimenti essenziali.

Le descrizioni dello sviluppo dei gruppi tendono a presentare questi “stadi” come fenomeni inerenti all’esperienza di gruppo, insiemi di comportamenti che hanno luogo specificamente quando le persone si incontrano e formano un gruppo con un compito o uno scopo comune.

In questo articolo intendo osservare lo sviluppo del gruppo attraverso le lenti della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) (Kelly, 1955/1991). Già Kelly aveva delineato gli stadi di un gruppo soprattutto in relazione alla sua funzione e alle sue attività. Successivamente sono state elaborate varie idee per strutturare l’attività dei gruppi, in particolar modo da Dunnett & Llewellyn (1978) e da Neimeyer (1988). La nozione di cosa costituisca un “gruppo PCP” è stata esplorata creativamente da Stringer & Thomas (1996).

Mi propongo quindi di applicare la PCP al ciclo di vita dei gruppi in termini sia di processo che di compito. Viste dalla prospettiva della PCP, le esperienze di un gruppo andrebbero considerate non tanto alla stregua di fenomeni specifici dell’esperienza di gruppo, quanto come esempi particolarmente vividi dei normali e quotidiani processi di costruzione individuali. La teoria dei costrutti personali si applica a ciascuno di noi, in ogni momento, ed è probabile che i nostri processi di costruzione siano posti in grande risalto dall’intenso “laboratorio” del gruppo; esso permette infatti di evidenziare la natura sperimentale del nostro comportamento.

Riconoscendo la comprovata utilità di un modello a quattro stadi per comprendere lo sviluppo di un gruppo e collegandomi il più possibile alle idee di Tuckman, intendo presentare il ciclo di vita del gruppo da una prospettiva PCP utilizzando i seguenti quattro stadi:

  • Primo stadio: Anticipazione Individuale
  • Secondo stadio: Sperimentazione Individuale
  • Terzo stadio: Costruzione Collettiva
  • Quarto stadio: Azione Collaborativa

 

I primi due stadi si riferiscono primariamente agli individui, cosa che forse riflette la nostra esperienza del processo di gruppo. La PCP descrive i sistemi unici e personali di costrutti grazie ai quali ognuno di noi dà senso al proprio mondo. Nella fase iniziale non si può parlare di “gruppo” quanto piuttosto di un insieme di individui, ciascuno con il proprio sistema di costruzione e anticipazione di significati, che hanno bisogno di trovare una base comune e sviluppare gradualmente dei costrutti condivisi. Molti di noi avranno certamente fatto esperienza di questi primi stadi del processo di gruppo, durante i quali il nostro coinvolgimento è intermittente e siamo focalizzati principalmente sui nostri personali pensieri, sensazioni, e reazioni dentro e verso il gruppo. Soltanto negli stadi successivi saremo più pienamente partecipi al lavoro di gruppo e meno consciamente e frequentemente preoccupati dai nostri processi interni.

Gli stadi possono essere ulteriormente elaborati come segue:

  • Primo stadio: Anticipazione Individuale – del gruppo
  • Secondo stadio: Sperimentazione Individuale – nel gruppo
  • Terzo stadio: Costruzione Collettiva – da parte del gruppo
  • Quarto stadio: Azione Collaborativa – in quanto gruppo

 

Questa sequenza illustra l’emersione graduale della dimensione di gruppo, a partire dall’incontro iniziale di singoli individui.

Per ciascuno degli stadi, presenterò alcune proposte rispetto al ruolo del facilitatore del gruppo. Questi può essere un facilitatore di professione ma è più spesso un manager, un formatore o leader di gruppo nel contesto di un’organizzazione, un insegnante o un tutor in un contesto educativo oppure un terapeuta o psicologo in un contesto clinico. Facendo riferimento al modello di Tuckman, Clarkson ha suggerito che

Un osservatore addestrato è in grado di percepire pattern predicibili tanto nel corso di una formazione di durata triennale quanto in una riunione di comitato di mezz’ora. La conoscenza di queste fasi è pertanto rilevante e potenzialmente utile per chiunque sia membro o leader di un gruppo qualsiasi di individui finalizzato a quasi qualsiasi scopo: dalla cura dei bambini alla guida di una dimostrazione antinucleare o alla conduzione di un gruppo di psicoterapia. (Clarkson, 1995, p. 88)

In questo articolo utilizzo ampiamente il termine “facilitatore”, ben consapevole tuttavia dell’esistenza di una varietà di ruoli di leadership. Considerato quanto sia ampia l’applicabilità dei modelli di sviluppo dei gruppi e della PCP, spero che i suggerimenti rivolti ai facilitatori possano rivelarsi utili, perlomeno come punto di partenza per riesaminare le loro prassi operative.

 

2. Primo stadio: anticipazione individuale del gruppo

Questo stadio corrisponde a grandi linee alla prima fase di Tuckman (forming), descritta in genere come una verifica iniziale da parte di ciascun partecipante rispetto ai limiti ed alle possibilità del lavoro di gruppo in riferimento sia alle relazioni che agli obiettivi da perseguire. Mentre si orientano nel gruppo, è possibile che le persone siano misurate e guardinghe e spesso molto dipendenti dal leader, per evitare così di dover affrontare da subito questioni legate al potere, al controllo e alle reciproche simpatie e antipatie. Di norma domina una cauta gentilezza.

Da una prospettiva PCP il focus è sull’anticipazione. Questa teoria descrive le persone come esseri che vivono nell’anticipazione, che formulano continuamente ipotesi su quanto sta accadendo e su quale potrebbe essere la migliore mossa successiva. Normalmente molto di tutto ciò ha luogo al di fuori della loro consapevolezza ma l’intensa esperienza relazionale in un nuovo gruppo spinge le loro anticipazioni in primo piano. Come membri del gruppo sono probabilmente molto occupati a trovare risposte alle loro questioni fondamentali (cosa sta accadendo? mi piace o no essere qui? chi sono queste persone? come andrà a finire? perché sono qui? come mi vedono gli altri?).

L’esperienza iniziale sarà di ansia kelliana, poiché non sono disponibili molti costrutti per maneggiare l’esperienza del gruppo in cui ci si trova. Meno è familiare la situazione (i membri, il luogo, lo scopo, il conduttore, l’esperienza di essere in gruppo), maggiori saranno i livelli di ansia. C’è poi la possibilità di avvertire una transizione di minaccia, ovvero di rendersi conto che l’esperienza in corso potrebbe mettere in discussione i propri costrutti nucleari. In alcune situazioni, come nei gruppi di terapia, l’ingresso in un nuovo luogo di lavoro o la prima esperienza in un contesto di educazione superiore, si fanno esperienze che possono cambiare la vita. Per quanto questo cambiamento sia voluto, il sistema personale di costruzione andrà incontro in una qualche misura a minaccia. Tutti i cambiamenti implicano una perdita e non c’è alcuna certezza che il cambiamento anticipato sia migliorativo o anche solo gestibile.

I membri dotati di considerevole esperienza di gruppi hanno presumibilmente già sviluppato alcuni costrutti di sé-nel-gruppo che consentano loro di fare previsioni più attendibili e di sperimentare più velocemente attraverso il proprio comportamento. Nella maggior parte dei casi, gli esperimenti saranno cauti, caratterizzati da circospezione. In questo caso le persone tendono a lasciarsi aperte molte possibilità di ritirarsi prima di esprimersi pienamente. In alternativa, quando manchino costruzioni già elaborate, è possibile che le persone adottino l’impulsività caratteristica della prelazione, e si gettino nell’esperienza rapidamente, persino in modo sconsiderato. In queste circostanze, è probabile che possano ottenere molto rapidamente un feedback, che può non essere stato consapevolmente anticipato. La situazione in questo caso è simile a quella di un giocatore d’azzardo principiante che, ignaro in effetti delle regole del gioco, getta tutte le sue fiches su un numero, pensando sia questa la cosa migliore da fare.

Questa fase di Anticipazione Individuale può essere molto intensa quando un insieme di persone che non si sono mai viste prima si incontra per la prima volta, come è il caso delle prime sedute di un gruppo di supporto terapeutico o del primo contatto fra studenti che cominciano un percorso comune di studi. Una fase di anticipazione individuale piuttosto intensa si può manifestare anche quando ad un gruppo già consolidato viene richiesto di sospendere ruoli e regole stabiliti precedentemente, come accade ad esempio nei programmi di formazione esperienziale o nell’outdoor training, dove le gerarchie esistenti e l’esperienza sul lavoro perdono il loro usuale potere di strutturare e contenere le esperienze del gruppo.

 

3. Il ruolo del facilitatore nel primo stadio

In questo stadio i facilitatori devono accettare che le dipendenze assai difficilmente vengano distribuite nel gruppo e che le persone cerchino in loro una guida piuttosto forte anche in riferimento a quanto potrebbe accadere e a come le cose si potrebbero svolgere. Se i facilitatori vogliono favorire il senso di sicurezza del gruppo, possono scegliere di operare alcuni interventi di restringimento, esplicitando le aspettative e aiutando i membri a formare alcune costruzioni temporanee sul gruppo e sul suo compito. Ricevere informazioni e un certo grado di controllo da parte del leader del gruppo possono contribuire a minimizzare l’ansia del non-familiare.

È inoltre probabile che al facilitatore venga attribuita la responsabilità di gestire il ciclo CPC del processo decisionale nel gruppo, esercitando la leadership ed aiutando i membri ad orientarsi dando loro dei punti di riferimento.

È anche opportuno che il leader del gruppo faciliti esperimenti di socialità, incoraggiando la comprensione reciproca grazie alla creazione di occasioni per lo scambio di informazioni, idee e visioni personali. Kelly ha sottolineato così la necessità di una gestione graduale dello svelamento/esposizione personale:

Siamo pienamente convinti che nessun membro del gruppo dovrebbe essere incoraggiato, né tantomeno autorizzato, a porsi in una situazione di vulnerabilità… fino a quando nelle interazioni di gruppo non si siano manifestate delle conferme reciproche e queste non siano ovviamente disponibili alla persona che vi si affida. (Kelly 1991, p.421)

In questo primo stadio, potrebbe essere necessario accettare una certa tendenza alla costrizione. La costruzione delle relazioni all’interno del gruppo richiede una grande quantità di energia ed è possibile che il progresso del gruppo rispetto al perseguimento del suo obiettivo di lavoro sia limitato. Porre l’attenzione su una gamma ristretta di compiti può aiutare il gruppo a contenere l’ansia a livelli maggiormente gestibili.

Quando opportuno, può rivelarsi utile che il facilitatore riconosca esplicitamente la minaccia come caratteristica intrinseca all’inizio di un lavoro di gruppo, normalizzando così l’esperienza ed aiutando le persone a dare un nome alla turbolenza che possono sentire.

 

4. Secondo stadio: sperimentazione individuale nel gruppo

Questo stadio corrisponde allo storming, che Tuckman descrive come caratterizzato da “conflitto e polarizzazione attorno a questioni interpersonali, con concomitanti risposte emotive relative alla sfera del compito”.

Spesso i membri del gruppo possono trovarsi in conflitto esplicito riguardo a questioni relative a controllo, inclusione e reciproche simpatie, sia vivendo con preoccupazione temi come chi stia prendendo il comando, come le persone si percepiscano a vicenda, chi sia dentro e chi fuori, quali sottogruppi stiano emergendo, sia reagendo al sentirsi o meno apprezzati, valorizzati e preferiti come individui.

Anche Kelly ha descritto questo come lo stadio di sviluppo del gruppo nel quale differenze e contrasti fra i partecipanti si fanno evidenti e devono essere gestiti. Molte delle ansie, interrogativi e preoccupazioni che emergono in questo stadio sorgono a partire da differenze nei sistemi di costruzione individuali; la turbolenza ed il conflitto presenti nel gruppo possono essere conseguenza dei vari esperimenti messi in campo dalle persone per testare le loro ipotesi ed ottenere validazione per loro stessi e per i loro contributi. La situazione è stata descritta in modo esemplare da Efran et al (1988, 1992):

Immaginate una serie di drammaturghi invitati a presentare piccole scenette, contemporaneamente e su palchi sovrapposti. Ad ogni drammaturgo poi, dal momento che avrebbe dovuto essere lì in ogni caso, è stata assegnata una parte in ciascuna delle produzioni degli altri drammaturghi. Il costruttivismo ci porta ad anticipare che metteremo tutti in scena le nostre singole commediole all’incirca sullo stesso palco, utilizzandoci l’un l’altro come membri della compagnia. C’è davvero da meravigliarsi che in queste condizioni apparentemente bizzarre – ma alle quali noi ci riferiamo normalmente come “vita” – ci siano un gran numero di scontri e ferite, accuse ed incomprensioni?

In termini PCP, più sono nucleari le questioni in gioco, più turbolenta sarà questa fase. Se ad essere coinvolti sono aspetti chiave dell’identità personale e professionale, la posta in gioco sarà più alta e, poste di fronte alla sfida in atto, le persone si dovranno impegnare molto di più per mantenere integro il loro sistema di costruzione, combattendo per conservare in qualsiasi modo possibile il loro senso di sé. Dal momento che il gruppo può essere relativamente inconsapevole di cosa sia nucleare per ciascun membro, può essere difficile accettare e dare un senso all’imprevedibilità e all’intensità della reazione scatenata dai contributi dei vari membri.

In questa fase, oltre ad ansia e minaccia, è possibile che le persone possano manifestare diversi livelli di aggressività. Seppure anche l’aggressività in senso colloquiale sia largamente presente in questa fase, mi sto riferendo all’aggressività kelliana, l’attiva elaborazione del nostro sistema di costrutti. Qualcuno vorrebbe muoversi più velocemente, essere più deciso, fare di più, mentre altri hanno bisogno di riflettere e progredire più lentamente, con maggiori riserve. Kelly suggerisce che coloro che si muovono “dilatando aggressivamente i mondi di altre persone” sono destinati ad incontrare ostilità in coloro che investono nel non cambiare (o quantomeno non ancora) e la cui energia è concentrata nel fare in modo che gli eventi continuino a svolgersi secondo il copione previsto. La tensione tra ostilità e aggressività può essere una delle caratteristiche dominanti di questa fase.

Un’altra questione potenzialmente in grado di disgregare il gruppo è l’equilibrio tra individualità e comunanza percepito da ciascuno. Le persone hanno bisogno di sentire che la loro unicità è accettata e valorizzata. È importante per loro essere se stesse all’interno del gruppo e non essere sottoposte a pressione per conformarsi a modalità che ritengano inaccettabili.

In questa fase la cornice temporale del gruppo assume talvolta una funzione rilevante. Nel caso di esperienze di gruppo di durata relativamente breve le persone tendono più facilmente ad evitare o appianare eventuali differenze e sono ben contente di lasciare la guida del gruppo nelle mani di un leader o di un facilitatore. Quando l’investimento in termini di tempo e energia è tuttavia ben più consistente – per esempio l’ingresso in un team che si occupi di un progetto importante o l’inizio di un lungo percorso di studi – la persone saranno più interessate a stabilire ruoli e norme accettabili per loro stesse, meno disponibili a compromessi e aggiustamenti e maggiormente preoccupate di dare un’impressione particolare di se stesse, dei propri punti di forza e delle proprie qualità.

Al contempo, la turbolenza tipica di questo stadio può caratterizzare in modo particolare un singolo incontro di gruppo, non seguito da altri, soprattutto in situazioni ad alto tasso di minaccia in cui i membri esprimono il bisogno personale di validazione in associazione con la tendenza ad invalidare gli altri membri. Questa combinazione è caratteristica di incontri nei quali le persone percepiscono un’alta posta in gioco, ad esempio nei gruppi in cui vengono espressi giudizi, come nelle prove per un colloquio lavorativo, nelle procedure di elezione nel gruppo e nei processi di valutazione di qualsiasi tipo.

 

5. Il ruolo del facilitatore nel secondo stadio

Lungi dall’essere una distrazione dal compito, il difficile processo di Sperimentazione Individuale è uno stadio necessario attraverso il quale le persone sviluppano e stabiliscono i ruoli da assumere e il grado in cui bisogni e motivazioni possono essere soddisfatti.

Lo strumento chiave è ancora la socialità. Il facilitatore può ritenere opportuno promuovere e modellare discussioni ed esplorazioni che mettano i membri del gruppo in condizione di comprendere i reciproci bisogni, punti di vista e motivazioni, e di considerare e valorizzare differenze e individualità, anziché sentirsi minacciati da esse. Allo stesso tempo sarà necessario lavorare nella direzione della comunanza, definendo compiti condivisi e regole di base del gruppo, la qual cosa a sua volta renderà periodicamente necessari momenti di restringimento. È tuttavia importante che si eviti di spingere troppo velocemente il gruppo verso la chiarezza e verso la focalizzazione sul compito, poiché un certo tasso di turbolenza interpersonale è sovente un precursore necessario per un produttivo lavoro di gruppo. Kelly ha suggerito di mantenere l’enfasi sul “compito di comprendere fedelmente” la prospettiva di ogni membro del gruppo.

A causa delle inevitabili differenze nei ritmi e nelle esperienze individuali, il facilitatore probabilmente deve ancora gestire il ciclo CPC. La sua funzione sarà eventualmente di garantire da una parte che il gruppo non scelga precipitosamente la prelazione come via d’uscita da conflitti difficili, per i quali un’ulteriore esplorazione sarebbe ben più utile di una chiusura prematura, e dall’altro che il gruppo non resti troppo a lungo in una condizione di circospezione per il timore di far fronte alle difficoltà e agli scontri di potere legati alle decisioni da prendere e alle responsabilità da assumere.

Per costruire i conflitti e le difficoltà inerenti a questo stadio come normali processi di sviluppo e non come un’invalidazione del ruolo del facilitatore nella gestione e agevolazione del gruppo, può essere utile ricordare la natura emotivamente volatile della fase di Sperimentazione Individuale. I facilitatori che abbiano compiti di valutazione, nel contesto educativo ad esempio, devono guardare con occhio relativamente benevolo ad alcuni dei comportamenti messi in atto in questo stadio, comportamenti che possono andare dal socialmente inetto all’apparentemente distruttivo. I membri del gruppo stanno percorrendo la propria strada in un contesto sociale sconosciuto, utilizzando risorse ed esperienze con le quali non hanno familiarità e basandosi su ipotesi personali che dobbiamo ancora comprendere.

 

6. Terzo stadio: costruzione collettiva da parte del gruppo

Questo stadio corrisponde a quello che Tuckman ha definito norming, durante il quale si sviluppano regole e valori del gruppo e si stabilisce anche un certo grado di coesione. È questo il momento in cui il gruppo rende esplicito il proprio senso di “come si fanno qui le cose”.

In questo stadio l’equilibro si sposta dall’individualità, che si spera sia già stata consolidata, alla comunanza. Per sentire che il gruppo ha un senso e uno scopo, è necessario a questo punto raggiungere un buon livello di condivisione rispetto a ciò che si sta facendo e a come procedere. È necessario verificare frequentemente la qualità della comunanza percepita perché è possibile che un alto grado di comunanza a livello superficiale (particolarmente quando ci sia un linguaggio comune) non si accompagni a un livello corrispondente di comprensione reciproca.

Mano a mano che si sviluppa la socialità, le persone sono maggiormente in grado di chiarire i ruoli che possono giocare nel gruppo e le modalità con cui mettere in comune risorse e punti di forza. Le modalità utilizzate per prendere le decisioni tendono a consolidarsi e ad essere accettate all’interno del gruppo. La maggior capacità di comprensione e anticipazione reciproca consente ai membri del gruppo di sentirsi pronti ad assumere responsabilità in prima persona, aprendo la possibilità che emerga un leader nel gruppo.

In questo stadio gli individui non chiedono più al gruppo di rispondere a tutti i loro bisogni e aspettative (costrizione) e si sviluppa un approccio più realistico e pragmatico al lavoro del gruppo, un atteggiamento che consente una maggior concentrazione sui compiti e una minore preoccupazione rispetto alle questioni interpersonali.

Mano a mano che il gruppo si sforza di aggiustare ed includere varietà e differenze, gli individui possono sperimentare a livelli diversi una frammentazione più o meno gestibile. Il lavoro di gruppo spesso include un certo numero di sottosistemi che sono inferenzialmente incompatibili ma che possono essere tenuti assieme da un costrutto sovraordinato riguardante il valore complessivo e/o lo scopo del gruppo. In sostanza, i valori del gruppo devono diventare i valori di ogni singolo membro, almeno in questa fase e in riferimento all’attività del gruppo.

 

7. Il ruolo del facilitatore nel terzo stadio

L’obiettivo è dunque quello di giungere ad una costruzione collettiva “abbastanza buona”, grazie alla quale le persone possano essere validate come individui e come membri del gruppo e quindi il gruppo nel suo complesso possa progredire.

In questo stadio il facilitatore si focalizza sull’emergere della leadership all’interno del gruppo, incoraggiando la dispersione delle dipendenze fra i membri e validando il lavoro del gruppo mentre si muove verso un nuovo livello di maturità e di autodeterminazione.

Il facilitatore può riconoscere e operare utilmente un restringimento sui costrutti condivisi, identificando costrutti sovraordinati sui quali le persone possano investire. Ciò può favorire l’emergere della consapevolezza di condividere un fine comune nonostante la presenza di conflitti riguardanti alcuni aspetti pratici minori. In tutti i progetti, obiettivi fortemente condivisi possono aiutare il gruppo quando i membri hanno idee ugualmente forti riguardo ai diversi modi in cui tali obiettivi possono essere perseguiti. Lo scopo condiviso diventa una sorta di pietra miliare per mantenere tutti nella rotta e far sì che lo sforzo valga la pena.

L’altro punto chiave su cui il facilitatore deve focalizzare l’attenzione è il monitoraggio dei ritmi di allentamento e restringimento – il processo che costituisce il battito cardiaco del gruppo. Kelly ha ipotizzato l’esistenza di un legame essenziale tra questo ritmo e la nostra abilità a lavorare creativamente. Se un gruppo si arresta su modalità di costruzione relativamente strette, tali da limitare ogni progresso per il fatto di escludere modi alternativi di vedere le cose, è forse il caso che il facilitatore si affidi a domande più aperte, suggerisca modalità di lavoro più divertenti o esorti il gruppo a una riflessione di carattere più filosofico. Qualora il gruppo esprima costruzioni molto generiche, col rischio di essere travolto da una confusione di possibilità o da una gamma sconfinata di implicazioni, può essere utile che il facilitatore operi un restringimento, riassumendo, chiarendo e limitando la discussione entro dimensioni maggiormente gestibili.

Infine, il facilitatore può incoraggiare il mantenimento della proposizionalità. Nei contesti di gruppo tutte le persone hanno bisogno di incoraggiamento per essere kellianamente “buoni scienziati” – per sostenere le loro ipotesi con un po’ di leggerezza, senza chiudersi alla ricezione di feedback che possano validare o meno i loro esperimenti. Se l’obiettivo è adattarsi e crescere a fronte di inevitabili e continue trasformazioni, il gruppo deve mantenersi flessibile nel processo di definizione di regole e significati.

 

8. Quarto stadio: azione collaborativa come gruppo

Il gruppo si trova ora nello stadio che Tuckman denomina performing, nel quale la “struttura interpersonale diventa lo strumento delle attività legate al compito, i ruoli sono funzionali e flessibili e l’energia del gruppo è canalizzata sul compito”.

Questo stadio è importante nel caso di gruppi di lavoro o di progetto e di quei gruppi il cui scopo nucleare si estende molto oltre lo sviluppo personale dei membri verso risultati espliciti o prescritti.

Nello stadio dell’Azione Collaborativa, i costrutti individuali e comuni riguardo al gruppo sono a questo punto ben elaborati con un conseguente calo di ansia e minaccia. I ruoli dei membri all’interno del gruppo sono sufficientemente allineati con il rispettivo senso di sé. La costruzione di ruoli e responsabilità di ciascuno viene attuata grazie a un grado sufficiente di comunanza e la continua assegnazione dei compiti in funzione di punti di forza e interessi segnala il rispetto dell’individualità. A condizione che gli individui agiscano con alti livelli di socialità e siano in grado di costruire le reciproche costruzioni, i pattern di comportamento individuali e dei sottogruppi sono a questo punto maggiormente comprensibili; come minimo ci si adatta ad essi, nella migliore delle ipotesi essi vengono valorizzati. Ogni membro ha la possibilità di comportarsi in maniera aggressiva senza evocare immediate reazioni di ostilità.

Qualora il gruppo abbia sviluppato alcune norme esplicite e abbia fatto esperienza di poter agire assieme, è possibile in certa misura allentare i vincoli relativi a tempo e struttura mano a mano che l’ansia diminuisce e il campo di pertinenza del gruppo si espande. Il gruppo ora è impegnato in ripetuti cicli di esperienza, agendo in modo collaborativo e revisionando i risultati in maniera congiunta. Il gruppo e i suoi membri possono quindi fare esperienza della validazione del successo ottenuto.

 

9. Il facilitatore nel quarto stadio

Allo stadio dell’Azione Collaborativa, il facilitatore deve essere in grado di poter “lasciar andare”. Gli alti livelli di dipendenza dal facilitatore nel corso degli stadi precedenti possono rendere difficile la ri-costruzione del suo ruolo in parallelo con l’evoluzione del gruppo. Non appena dall’interno del gruppo emerga una leadership costruttiva e nessuno chieda più al facilitatore di assumere il ruolo dominante fin qui giocato, egli deve essere consapevole dei suoi stessi livelli di minaccia. Può risultargli utile elaborare alcuni costrutti sovraordinati riguardo ai benefici dei gruppi che si autogestiscono e al ruolo che egli può avere nel promuovere questa evoluzione.

Mentre il gruppo conduce i propri esperimenti in modo condiviso, il facilitatore lo può incoraggiare a rivederne i risultati in termini di feedback utile invece che in termini di paura o rimprovero. Allo scopo di garantire che ogni invalidazione dell’azione condivisa non produca l’invalidazione di singole persone o del progetto globale, è il caso di dirigere l’attenzione sul fatto che l’analisi dei risultati può essere utilizzata per migliorare previsioni e pianificazioni. È possibile anche incoraggiare il riconoscimento di contributi e talenti individuali, agevolando così il permanere di un equilibrio tra l’individualità e gli alti livelli di comunanza operanti a questo stadio.

 

10. Promuovere l’evoluzione del gruppo

In sintesi, per ogni stadio è possibile individuare una serie di aree di pertinenza del facilitatore:

  • Fase Uno – Anticipazione Individuale: accettare le dipendenze da parte del gruppo; operare un restringimento rispetto alle aspettative iniziali; gestire il ciclo CPC; introdurre occasioni di socialità; costringere adeguatamente rispetto alla gamma dei primi compiti; riconoscere e normalizzare la minaccia;
  • Fase Due – Sperimentazione Individuale: incoraggiare la socialità; accettare la diversità; evidenziare le comunanze; riconoscere minaccia e ansia; operare un leggero restringimento rispetto alle regole di base; facilitare il ciclo CPC; lavorare in modo costruttivo con le invalidazioni;
  • Fase Tre – Costruzione Collettiva: validare il progetto condiviso; incoraggiare la dispersione delle dipendenze; mettere in evidenza costrutti ​​sovraordinati; promuovere un ritmo di alternanza tra allentamento e restringimento; favorire la proposizionalità;
  • Fase Quattro – Azione Collaborativa: rinunciare alla dipendenza del gruppo e gestire la conseguente minaccia; supervisionare apprendimento e cicli dell’esperienza; bilanciare individualità e comunanza; incoraggiare l’aggressività kelliana.

 

È importante ribadire ancora che gli stadi non sono lineari, universali o mutualmente escludenti e pur tuttavia tendono a mostrare alcuni pattern più probabili.

In questi ultimi anni ho notato che i facilitatori, in particolare nel contesto di un’organizzazione, possono sentire una certa urgenza che il gruppo si muova velocemente da uno stadio all’altro. Questo obiettivo è molto presente nell’attuale discussione sul management, nella quale si enfatizza l’importanza di una rapida creazione di team con alte prestazioni. La velocità non è necessariamente la dimensione sovraordinata più utile per lo sviluppo di un gruppo e concentrare l’attenzione sulla velocità può andare a scapito della comprensione reciproca. La fretta di arrivare il più velocemente possibile all’Azione Collaborativa potrebbe lasciare irrisolte le difficoltà interpersonali, nonché i conflitti sulle norme del gruppo. È assai verosimile che questi finiscano per esplodere, specie in momenti critici in cui la pressione di gruppo è alta, con la conseguente interruzione del compito e la messa a rischio della riuscita del progetto complessivo. Ciò significa non che i primi stadi debbano necessariamente essere lenti o prolungati intenzionalmente, quanto che essi hanno bisogno di un’adeguata attenzione.

È evidente che ho scritto questo articolo partendo dalla mia esperienza con facilitatori il cui mandato prevede un approccio oculatamente partecipativo alla gestione del gruppo, che si tratti contesti di tipo organizzativo, educativo o terapeutico.

Ho anche cercato di fare riferimento, per quanto ne sia capace, allo stile molto attivo di Kelly stesso nella gestione del gruppo. Sono ben consapevole del fatto che esistano stili alternativi di lavoro di gruppo, in cui il facilitatore è assai meno concentrato ad assumersi la responsabilità di gestire il gruppo e i suoi progressi.

I quattro stadi ci forniscono una preziosa storia, un modello che può esserci d’aiuto quando siamo posti di fronte alla dinamicità della vita di un gruppo. È importante tuttavia non cadere nella trappola di considerare questi stadi come inevitabili o strettamente sequenziali. Clarkson (1995) ci ammonisce contro “l’assunzione di regole del gioco causali, lineari, progressive e legate all’emisfero sinistro” per costruire lo sviluppo del gruppo. È molto probabile che vi sarà un notevole andare e venire tra gli stadi; l’arrivo di un nuovo membro o una modifica o integrazione del compito o del ruolo del gruppo renderanno di frequente necessario ri-elaborare gli stadi precedenti, mentre il gruppo ricostruisce se stesso incorporando nuovi aspetti.

 

11. Chiudere il ciclo

Tuckman e Jenzen (1977) hanno rivisitato il modello originale e aggiunto un quinto stadio, il cosiddetto adjourning (aggiornamento), che segna la conclusione del ciclo di vita del gruppo. È interessante notare che lavori successivi hanno rinominato questo stadio mourning (lutto), spostando così l’attenzione sugli aspetti più dolorosi dello stadio stesso. (Sono stati proposti anche altri stadi, per quanto siano stati spesso descritti con più attenzione alla rima che al contenuto.)

Kelly stesso era consapevole dell’importanza della fine della vita di un gruppo ed ha proposto un compito ulteriore per i facilitatori, ovvero: “aiutare il cliente ad estendere la lezione […] appresa sulle relazioni di ruolo in un particolare gruppo per applicarle a relazioni al di fuori del gruppo e all’umanità in generale” (Kelly, 1991, p. 431).

La generalizzazione degli apprendimenti raggiunti attraverso l’esperienza di gruppo consente il loro trasferimento alla vita più in generale, contrasta parte dell’inevitabile costrizione insita nell’esperienza di gruppo e aiuta i partecipanti a cogliere l’eventuale trasferibilità di quanto appreso in previsione della fine del gruppo.

In termini PCP, lo stadio della fine del gruppo implica una specie di meta-costruzione. L’attenzione in questo caso va posta sulla necessità che si attui la conclusione di un ciclo di esperienza e sulla revisione e valutazione dell’esperienza complessiva dell’essere stati un gruppo. Oltre a sviluppare opinioni collettive relativamente all’esperienza, i membri del gruppo possono anche ri-prendersi i costrutti personali e produrre il proprio personale significato dell’esperienza anticipando la vita successiva in cui il gruppo non ci sarà più.

Considerando la centralità dell’anticipazione e della previsione, segnalare la fine è un compito chiave del facilitatore. È prevedibile che si manifestino reazioni tra le più varie, come gioia e sollievo ma anche perdita o tristezza. Potrà esserci apprezzamento per alcuni aspetti dell’esperienza e rimpianto per le occasioni mancate. È utile che il facilitatore promuova la consapevolezza riguardo al processo di conclusione/perdita all’interno del gruppo sollecitando al contempo riflessioni e prese di contatto al di fuori degli incontri di gruppo. Ritualità come una revisione collettiva o una festa possono favorire il processo di time-binding, che permette alle persone di allontanarsi dall’esperienza di gruppo avendo elaborato i propri costrutti personali, più ricchi di esperienza e pronti a nuove sfide interpersonali e sociali.

Sebbene l’uso di un modello di sviluppo sia certamente utile per chiarire quanto può accadere nei gruppi, sono consapevole che l’ampia gamma di proposte di facilitazione qui presentate sembra aggiungere un ulteriore e impegnativo carico di complessità al processo di leadership di gruppo. Nel condividere queste idee il mio proposito è quello di offrire possibili indizi o scorci su ciò che potrebbe essere utile. La mia speranza è che ognuno possa selezionare ed elaborare ulteriormente queste proposte nel modo più compatibile con il proprio setting operativo, intrecciandole creativamente nella trama della propria incessante evoluzione come membro e leader di gruppi.

 

Bibliografia

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Note sull’autore

 

Mary Frances

Lemington Spa, UK

mary.frances@virgin.net

http://www.constructivistconsulting.com

Mary Frances vive e lavora in Inghilterra come consulente per il “Personal and Organisational Development”, applicando la Psicologia dei Costrutti Personali in particolare allo sviluppo del management, al cambiamento organizzativo e alle relazioni interpersonali.

 

Note

  1. * Articolo originariamente comparso in Personal Construct Theory & Practice, 5, 10-18. Si ringrazia la rivista e il suo direttore Jörn Scheer per aver concesso la licenza per la traduzione dell’articolo.