Professor McWilliams, la ringraziamo di aver accettato questa intervista per il primo numero della Rivista Italiana di Costruttivismo.
Quando ha incontrato la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP)?
Ho sentito parlare per la prima volta di George Kelly quando ero all’università. Jay Efran, un mio professore che era stato suo studente, ci raccontò una storia. Ci parlò di quando Kelly fu assunto presso la Ohio State University come direttore del programma di dottorato in psicologia clinica. Il programma era un caos e non era chiaro quali studenti, e di quale corso, potessero accedervi. Così Kelly si presentò in studio vestito come un contadino, in tuta da lavoro, comportandosi in modo abbastanza rude: chiamava alcuni studenti in ufficio comunicando loro bruscamente che non erano più nel programma e brontolandogli di andarsene. Si comportò in questo modo per circa due settimane, finché non fece ordine. La settimana seguente invece si presentò vestito in giacca e cravatta ed era molto gentile e cordiale. Secondo Efran questa storia era un brillante esempio del fatto che Kelly applicasse anche a se stesso le sue tecniche terapeutiche, in questo caso la “terapia del ruolo stabilito”. Infatti, egli sapeva che avrebbe dovuto affrontare delle situazioni complesse e che sarebbe stata dura per lui; si ricordò allora di un suo conoscente, il contadino Jones, uomo tenace e deciso: fingendo di essere lui, anticipava di poter affrontare un lavoro che, altrimenti, sarebbe stato troppo difficile. Questa è stata l’unica volta in cui ho sentito parlare di George Kelly all’università, ma mi ha colpito molto.
Cosa l’ha affascinata della figura di George Kelly e della Psicologia dei Costrutti Personali?
La cosa che mi aveva colpito di più allora non era solo il fatto che Kelly avesse sviluppato una teoria, ma che l’avesse usata e applicata su di sé in modo autoriflessivo.
Alcuni anni più tardi, dopo aver finito il mio dottorato di ricerca, sono andato a lavorare presso l’Università dell’Arizona come Assistant Professor. Mi era stato chiesto di insegnare nel corso di Teorie della Personalità e, cominciando a pensare a quali modelli includere, mi sono ricordato della Psicologia dei Costrutti Personali. Ho pensato che per proporla ai miei studenti avrei dovuto conoscerla meglio, e così ho fatto: più la approfondivo e la insegnavo, più ne diventavo entusiasta. Sembrava che Kelly avesse elaborato in modo molto chiaro quello che io stesso avevo tacitamente pensato e che non avevo trovato le parole per esprimere: per esempio l’idea che il modo in cui guardiamo le cose non è la verità, ma ci sono svariate alternative per farlo. Le sue parole mi risuonavano, ne ero affascinato!
Poco più tardi ho conosciuto Cromwell, che si occupava di schizofrenia e si interessava dell’approccio costruttivista. Sapendo della mia curiosità verso la PCP, mi ha consigliato di trascorrere un periodo in Europa per approfondirla. Così nel 1979 ho incontrato per la prima volta Fay Fransella e ho lavorato con lei un anno; là ho conosciuto anche Don Bannister e Miller Mair. Allora ero uno dei nuovi arrivati nella PCP, ora sto diventando uno dei “vecchi”…
Chi è stata la persona più rilevante nell’ambito della sua formazione in PCP?
Fay Fransella è stata sicuramente il mio mentore più importante. Lei lavorava presso il Dipartimento di Psichiatria del Royal Free Hospital, io sono stato un suo studente in alcuni dei suoi corsi avanzati e l’ho aiutata in qualche corso introduttivo. Lei mi ha insegnato la tecnica delle Griglie di Repertorio e mi ha fatto da supervisore in una terapia con un uomo balbuziente, disturbo in cui era specializzata. Posso dire che lei è stata una figura assolutamente rilevante per la mia formazione.
Qual è l’insegnamento di Fay Fransella che più ha influenzato la sua professione?
Mi viene in mente che non è tanto quello che mi ha insegnato, quanto quello che ho imparato osservandola lavorare: sembrava sempre rilassata e, allo stesso tempo, sempre “sul pezzo”, era come se riuscisse a far accadere le cose. Fay era la responsabile di molti corsi: se fossi stato in lei mi sarei preoccupato di come gestirli tutti; invece lei pensava a come fare perché funzionassero al meglio. Altre persone con cui ho lavorato in Inghilterra sembravano sempre molto stressate e di fretta, lei invece mi colpiva perché riusciva ad essere tranquilla e contemporaneamente molto produttiva.
Mentre io ero più orientato al teorico e al filosofico, Fay era molto più pragmatica. Aveva visto nella Psicologia dei Costrutti Personali uno strumento che poteva aiutare le persone, così si è dedicata aggressivamente ad elaborarlo: non aveva paura di provare nuove idee e di verificare se funzionavano.
Quella era una qualità che ammiravo molto. Penso che lei abbia incarnato appieno il principio dell’alternativismo costruttivo, secondo cui c’è sempre un modo diverso di vedere le cose.
Fay e il mio mentore successivo, la mia maestra Zen, mi hanno insegnato entrambe che l’essere rilassati e produttivi non sono tra loro antagonisti. Mi ci è voluto molto tempo per impararlo, ma a questo punto della mia vita questo atteggiamento si è trasformato da un “dover essere” ad un esercizio divertente.
Secondo noi questo è uno degli aspetti più importanti del “fare le cose”, ovvero il divertimento e il piacere…
Sono completamente d’accordo. Questo è quello che dico ai miei studenti: “trovate quello che vi piace, così vi divertirete nel farlo, vi riuscirà meglio, avrete successo e sarete felici!”
Crediamo che sia possibile trovare tutto questo anche in una teoria che ci rappresenti: mentre parla di Kelly e di PCP vediamo passione, divertimento…
Grazie, mi fa piacere che l’abbiate notato. Penso che la passione sia un aspetto fondamentale per un costruttivista. Se pensiamo che ogni idea è uno strumento inventato da noi esseri umani per cercare di dare un senso a ciò che ci interessa, allora non dobbiamo per forza fare le cose nello stesso modo in cui le hanno fatte gli altri: è trovare la nostra strada che ci porta quell’entusiasmo e quell’energia di cui parlavamo.
Sappiamo che uno dei suoi ambiti di interesse è il Buddhismo e le sue implicazioni in psicologia. Nei suoi lavori confronta spesso la Psicologia Buddhista e la PCP: quali somiglianze e differenze nota tra loro?
Direi che l’analogia principale riguarda il modo in cui esse interpretano la natura dell’universo e della conoscenza umana. Entrambe queste discipline vedono la realtà non come un contenitore immutabile di oggetti con un significato intrinseco, già dato, ma propongono che il mondo in cui viviamo sia in continuo cambiamento. La conoscenza è qualcosa che costruiamo sulla base della nostra esperienza, piuttosto che un mero entrare in contatto con qualcosa di “oggettivo” che esiste indipendentemente da noi. Psicologia Buddhista e PCP condividono anche idee simili riguardo l’infelicità umana, l’insoddisfazione e i “disturbi”, guardandoli come una conseguenza del fatto che ci ancoriamo a certe idee, allontanandoci dalla possibilità di fare esperienza.
Parlando di differenze, invece, dal mio punto di vista la PCP si concentra sul modo in cui le persone possono elaborare i loro sistemi di costrutti per renderli più utili nell’anticipare gli eventi e nel raggiungere i propri obiettivi. Al contrario, la Psicologia Buddhista cerca di distanziarsi da questo processo: invece di invitare a “portare a revisione” il proprio sistema di costrutti, essa si propone di guardarvi attraverso, invitando a mettere da parte l’illusione che esistano dei costrutti, e restando semplicemente aperti al momento presente.
Ho iniziato ad interessarmi di Psicologia Buddhista dopo aver conosciuto la Psicologia dei Costrutti Personali. In un primo momento sentivo queste due discipline troppo diverse, incompatibili: pensavo che la PCP si occupasse di promuovere i nostri “migliori pensieri”, mentre la Psicologia Buddhista suggerisse di lasciarli semplicemente andare.
Perciò all’inizio non mi ci sono addentrato: il mio obiettivo era quello di entrare in contatto con il mio vissuto personale attraverso la pratica. Nel corso del tempo, tuttavia, quando ho capito meglio i presupposti della Psicologia Buddhista, ho iniziato a vedere che queste due teorie sono davvero molto simili; nel mio lavoro degli ultimi dieci-quindici anni ho cercato di articolare queste compatibilità.
Se Buddha e Kelly si fossero incontrati, cosa si sarebbero detti?
Probabilmente si sarebbero detti: “Bella giornata!” Non credo che si sarebbero soffermati a parlare di filosofia, penso invece che entrambi sarebbero stati più interessati a quello che stava succedendo “in quel momento”.
Quindi sarebbero stati insieme nell’esperienza?
Direi proprio di sì. Si sarebbero chiesti: “sta succedendo qualcosa mentre siamo insieme, cosa ce ne possiamo fare?”. In questo modo avrebbero dato importanza al modo in cui entrambi, come persone, considerano gli eventi.
E la Psicologia Buddhista come considera la persona?
La Psicologia Buddhista considera la persona come un punto di confluenza, una specie di rete di interdipendenze tra diversi aspetti o elementi, gli “Skanda”.
Quando insegno ai miei studenti la Psicologia Buddhista faccio notare come essa descriva la persona seguendo il tipico indice di un testo di psicologia generale: prima si affrontano il corpo, il cervello, il sistema nervoso (il primo Skanda); poi la sensazione, ovvero il modo in cui possiamo conoscere il mondo esterno attraverso gli organi di senso e il corpo (il secondo Skanda). Il terzo Skanda riguarda invece i concetti, le idee e il modo in cui, come direbbe Kelly, discriminiamo tra gli eventi identificandoli come simili o diversi tra loro. Il quarto Skanda ha a che fare con le nostre intenzioni, volontà, desideri, auspici, attitudini e propensioni. Infine il quinto Skanda è la consapevolezza stessa, la coscienza.
Quindi, secondo la Psicologia Buddhista, la persona è l’insieme di tutti questi Skanda. Quando essi funzionano insieme allora possiamo chiamarla “persona”.
Inoltre, mentre Kelly afferma che il Sé è un costrutto che utilizziamo per anticipare i nostri processi, la Psicologia Buddhista sostiene che sia una convenzione che gli individui utilizzano per comunicare tra di loro. In questi termini, quando vogliamo cercare il Sé, tutto ciò che troviamo è il corpo, le sensazioni, le percezioni, i pensieri e la consapevolezza: il Sé non può essere indipendente da questi elementi.
Quindi c’è un’interazione tra tutti questi elementi?
Sì, si tratta di un processo. La teoria buddhista afferma che i fenomeni sono delle reti di eventi interdipendenti tra di loro, che in determinate condizioni si manifestano in una certa forma e che in altre condizioni si trasformano.
Possiamo trovare un uomo ricercatore anche nella Psicologia Buddhista?
È una domanda interessante. La mia prima risposta sarebbe: “Si, certamente!”. Penso al Dalai Lama quando sostiene che, se la scienza ritiene che le idee del Buddhismo non siano esatte, allora il Buddhismo deve cambiarle. Penso che sia un invito all’apertura, allo sperimentarsi nell’esperienza più che allo sviluppo intellettuale di teorie o di idee.
La Psicologia Buddhista, d’altra parte, ritiene che tali teorie e idee possano interferire con la nostra capacità di essere aperti a quello che sta succedendo nel qui-e-ora. Quindi penso che, pur condividendo l’atteggiamento kelliano della ricerca, l’approccio buddhista ponga maggiormente l’accento sull’essere nel momento presente, lasciandolo poi andare per essere pronti al momento successivo.
Date queste premesse, nella Psicologia Buddhista è possibile trovare un processo simile all’anticipazione kelliana?
Non ci avevo mai pensato. Dunque, vediamo: se abbiamo un’anticipazione, e questa viene validata dall’esperienza, tendiamo ad affezionarci ad essa, trattandola come una nuova verità che abbiamo scoperto sul mondo. Questo atteggiamento potrebbe condurci ad una reificazione delle nostre idee, o anticipazioni, non pensandole più come alternative che hanno funzionato in “quella specifica esperienza”. Cominciamo a trattarle come qualcosa di reale che esiste a prescindere da noi.
Accade quindi che tendiamo a definire alcuni eventi come intrinsecamente “buoni” o “cattivi” sulla base delle esperienze fatte. Reifichiamo cioè queste etichette fino al punto di credere che al mondo ci siano delle forze del bene e delle forze del male.
I buddhisti ritengono che alla base della nostra sofferenza ed insoddisfazione ci sia un processo di reificazione dei costrutti: una volta che etichettiamo qualcosa come “buono” ci affezioniamo ad esso. Al contrario, pensiamo di dover evitare o addirittura distruggere ciò che ci sembra “cattivo”.
Questa costruzione delle idee guida il modo che abbiamo di comprenderle e a volte ci impedisce di essere aperti e di trattare ogni momento come una novità. In questo senso penso che nella Psicologia Buddhista sia presente un’idea simile a quella di anticipazione kelliana.
Fino ad ora abbiamo parlato di Psicologia dei Costrutti Personali e di Psicologia Buddhista. Ci sono altri indirizzi psicologici che ritiene simili ad esse, o che considera come compatibili con il Costruttivismo?
In realtà una delle mie preoccupazioni per il Costruttivismo – preoccupazione che ho espresso in occasione della Conferenza di Venezia quattro anni fa – è che molti altri approcci si stanno muovendo verso direzioni che noi potremmo considerare costruttiviste, ma non si identificano in questa cornice teorica. Ritengo quindi che sia utile guardare in senso più ampio al Costruttivismo, come al post-modernismo in generale: stiamo attraversando una vera e propria rivoluzione nel modo in cui percepiamo noi stessi nel mondo. Quando parlo agli studenti degli effetti del Rinascimento sulla storia della psicologia, ricordo loro che il cambiamento paradigmatico è stato un processo lento, ci è voluto molto tempo. Allo stesso modo penso che siamo nel mezzo di una rivoluzione epistemologica: i presupposti c’erano già al tempo dei Greci, ma credo che sia iniziata a pieno titolo solo nel XIX secolo con autori come Nietzsche e gli Esistenzialisti.
Nella società occidentale abbiamo avuto un lungo periodo di dominazione culturale cristiana, secondo cui da qualche parte esisterebbe un essere che ha dato vita al mondo e tutto ciò che vi è in esso, incorporando certi principi nell’atto stesso della creazione. E poi è arrivato Galileo che ha dato inizio alla scienza moderna, che propone un altro modo di guardare alla realtà rispetto alla preghiera e alla fede: possiamo conoscerla empiricamente e verificarla attraverso un modello matematico. Ma entrambi questi approcci -scienza e religione – si basano sugli stessi presupposti realisti: il mondo esiste di per sé e funziona secondo determinate leggi universali; con le procedure giuste, gli esseri umani possono arrivare ad una conoscenza vera ed oggettiva. Voi vivete in Europa, e credo che ne abbiate un’esperienza molto più forte di quanta ne abbia io.
Tuttavia non ha alcun senso affermare che “là fuori” ci sia qualcosa chiamato “la verità sul mondo”. Nietzsche lo ha affermato con forza, chiamava “la menzogna più grande” la credenza che ci fosse qualcosa di esterno a noi che ci salverà se facciamo la cosa giusta. A cavallo del XX secolo, quindi, alcune persone hanno cominciato a mettere in discussione questa idea, suggerendo che forse ci siamo solo noi, forse non vi è alcunché là fuori. Abbiamo provato per 3000 anni a capire come essere certi di aver raggiunto la verità, e non ci siamo nemmeno avvicinati a capire come potremmo fare a saperlo, se anche ci riuscissimo. Solo recentemente abbiamo cominciato a considerare la conoscenza umana come un prodotto degli esseri umani stessi; essa, pertanto, assume significato e si sviluppa solo all’interno di un contesto. Per questo non potremo mai individuare un modo per giustificare un’idea come la sola ed unica verità, come pensava Galileo. Non c’è un modo “giusto” di guardare agli eventi. È simile a quello che accade in letteratura, dove non esiste un modo corretto e univoco di interpretare un testo: tutto ciò che possiamo fare è leggere ed osservare che cosa succede secondo il nostro punto di vista.
Penso che questo modo di pensare stia iniziando a prendere piede e che il Pragmatismo – precursore del Costruttivismo – ne sia un ottimo esempio. Ma ci sono altri filoni che stanno giungendo a questo stesso tipo di comprensione, finendo in qualche caso per essere più costruttivisti di noi costruttivisti. Ci sono ad esempio i contestualisti, secondo cui gli eventi si originano in un contesto: non è ciò che è innato in noi che determina il nostro comportamento, quanto l’ambiente in cui agiamo. Ad esempio se andiamo ad una festa e ci sediamo iniziando a prendere appunti, gli altri potrebbero pensare che siamo molto strani. D’altra parte, se iniziamo a ballare nel mezzo di una classe sarebbe questo ad essere strano… La combinazione delle idee contestualiste e costruttiviste sta probabilmente portando ad un nuovo sviluppo.
Ci sono altri approcci, come l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), o le psicoterapie che si concentrano sull’esperienza corporea e sulla consapevolezza di quello che accade nel qui-e-ora. Alcune terapie basate sulla mindfulness iniziano a concentrarsi meno sul contenuto dei pensieri e più sul processo che porta al loro sviluppo.
Ha scritto molti contributi sul rapporto tra Psicologia Buddhista e PCP, come il recente “Mindfulness and Extending Constructivist Psychotherapy Integration”[1]. Questo interesse di ricerca è collegato ad un interesse personale?
Diciamo che sono partito da un interesse molto personale che sto articolando in un libro attualmente in fase di revisione. Penso che questo interesse di ricerca emerga da un insieme di domande che mi sono posto durante il corso della mia vita: “Perché la vita sembra così difficile? Perché c’è così tanto conflitto? Perché le persone sembrano infelici? Come comprendere queste esperienze?”. Penso che queste riflessioni ad un certo punto mi abbiano suscitato una sorta di attrazione verso la psicologia clinica: dicevo scherzando che il mio interesse non nasceva dal fatto che avevo un animo altruista, ma piuttosto perché trovavo le persone così incasinate che volevo sistemarle, in modo che non mi stessero a disturbare tutto il tempo…
E, come ho detto, quando mi sono interessato alla Psicologia dei Costrutti Personali non era perché secondo la ricerca empirica aveva avuto più successo degli altri approcci, ma perché in un certo senso mi “parlava”; allo stesso modo mi sono interessato alla meditazione Zen perché sentivo di essere troppo “nella mia testa”, non prestavo attenzione al mio corpo e non mi piaceva come stava andando la mia vita.
Ecco, questa parte della mia storia personale si collega a come ho scelto i miei ambiti di ricerca. Anche se scrivo in modo astratto e concettuale, per me gira tutto intorno a questo tema, ovvero a come potremmo essere in grado di vivere una vita più efficace e più piacevole.
Ci ha detto che uno dei suoi interessi personali è la meditazione Zen: quando ci si è avvicinato e come ha iniziato a praticarla?
Ho iniziato a praticare nei primi anni Ottanta, poco dopo essere tornato dal mio anno con Fay Fransella. Essenzialmente sentivo di essere molto teso, mi sentivo troppo cerebrale e poco in contatto con il mio corpo, non mi sentivo a mio agio. Così ho voluto avvicinarmi a qualche pratica che fosse legata al corpo. Inizialmente ho scelto lo Yoga ma non mi sono sentito sintonizzato con questa disciplina. Un giorno ho sentito parlare di un gruppo buddhista tibetano vicino a Tucson in Arizona, che teneva un corso chiamato “rilassamento Kum Nye”: una tecnica di rilassamento sviluppata da un Lama tibetano quando arrivò in America. Egli aveva notato che gli Americani erano molto veloci a capire le cose intellettualmente ma era difficile per loro prestare attenzione al proprio corpo. Il “rilassamento Kum Nye” era un corso progettato per essere propedeutico alla meditazione, un allenamento al rilassamento del corpo. Così sono andato ad un workshop intensivo di una settimana in California, dove ho iniziato a sperimentare un nuovo stile di vita e di alimentazione. Purtroppo poco dopo il gruppo si è sciolto, così mi sono rimesso a cercare. Un giorno ho presenziato ad un discorso sulla meditazione Zen tenuto da un monaco di Los Angeles: lì per lì non l’ho apprezzato, ma qualcosa mi ha fatto tornare da lui. In quanto nuovo allievo sono stato assegnato ad una persona che aveva appena ricevuto l’abilitazione all’insegnamento, una donna americana di circa 60 anni di nome Charlotte Beck; il suo nome Zen era Joko. Durante il nostro primo colloquio, nel giro di circa cinque minuti lei aveva già capito tutto di me. Era così diretta e così chiara che ho voluto diventare suo studente e ho lavorato con lei per trent’anni, fino alla sua morte un paio di anni fa. Ho iniziato a farlo per la mia crescita personale, e per molti anni ho solo praticato, semplicemente stando seduto, ascoltando i suoi pensieri e i suoi insegnamenti. Poi ho cominciato a leggere un po’ della teoria buddhista, e con il tempo ho cominciato a riscontrare molteplici somiglianze con la Psicologia dei Costrutti Personali.
Com’è cambiata nella sua esperienza la pratica Zen nel tempo?
Beh, penso che il cambiamento nella pratica sia il risultato della pratica stessa. All’inizio stavo seduto e per tutto il tempo la mia mente era piena di pensieri di ogni genere. Allora prestavo attenzione principalmente al contenuto dei miei pensieri, ma con l’esercizio ho cominciato ad osservare che erano sempre gli stessi, perciò pian piano hanno cominciato a perdere di interesse. Joko lo spiegava con una metafora: “immagina il tuo film preferito, immagina di avere il dvd di questo film e di guardarlo più e più volte al giorno, per molti giorni di seguito. Che cosa succede dopo un po’? Cominci ad annoiarti, non è più così interessante”.
Man mano che approfondisci la pratica vi è sempre più la sensazione di essere in grado di vivere solo il momento presente, di riuscire a notare i pensieri quando arrivano ma di farli passare inosservati, proprio come le nuvole passano inosservate nel cielo, senza che ai pensieri si aggiungano altri pensieri. Joko parlava di un processo lento e lungo, affermava che si inizia a vedere qualche differenza magari dopo vent’anni di meditazione quotidiana. Ovviamente io pensavo “ma sì, lo farò solo per sei mesi!”, ma ho scoperto che aveva ragione.
È arrivato il momento di salutarci, vogliamo ringraziarla per averci dedicato questo spazio. È stato davvero interessante ascoltarla e crediamo che gli aspetti più stimolanti siano stati la passione, il coinvolgimento e l’aggressività (kelliana) che ha mostrato mentre parlava delle sue esperienze.
Un’ultima domanda. Ci potrebbe suggerire eventuali letture o siti web sulla mindfulness e sulla meditazione buddhista?
Ce ne sarebbero moltissimi ma credo che i libri Everyday Zen (“Zen Quotidiano”) e Nothing special (“Niente di speciale”) di Joko Beck siano un buon punto di partenza per chi si avvicina a questa pratica.
Grazie mille.
Grazie a voi, arrivederci.
Note
- McWilliams, S.A. (2012). Mindfulness and Extending Constructivist Psychotherapy Integration. Journal of Constructivist Psychology, 25:3. ↑