1. Introduzione
Nel corso degli ultimi anni, in particolare dal 2010, la mediazione dei conflitti sta muovendo un interesse e un dibattito crescenti, sia tra le categorie professionali interessate, sia nella società civile.
Nel nostro Paese, uno dei temi più recenti di tale dibattito è l’istituzione o meno dell’obbligatorietà di un iter di mediazione civile e commerciale nell’ambito della riforma del processo civile (si veda, per approfondimenti, il decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 e la successiva sentenza n. 272 della Corte di Cassazione).
Un altro fronte di interesse riguarda la mediazione penale. Il Trentino Alto Adige, ad esempio, è tra le prime regioni in Italia a sperimentare percorsi di mediazione che offrano una modalità alternativa di approccio al conflitto nel settore della giustizia minorile ed in quello di competenza del giudice di pace.
In terzo luogo, in materia di diritto di famiglia i Tribunali si stanno mostrando interessati a firmare intese e protocolli con i centri di mediazione famigliare, viste le ricerche che testimoniano la “tenuta nel tempo” e il minor ricorso alla giustizia nei casi in cui i coniugi giungano a sentenze di separazione in via consensuale e con l’accompagnamento di un iter di mediazione.
Almeno una menzione merita poi la mediazione sociale o di comunità che riguarda, ed esempio, la questione della convivenza in alcune zone urbane, o in contesti come le scuole.
Oltre all’attualità e alla potenzialità in termini professionali di tale poliedrico ambito, uno psicologo può interessarvisi qualora (come nel caso di chi scrive) desideri particolarmente che il contributo della psicologia sia speso all’interno della comunità, in contesti che vanno oltre la clinica.
Un’ultima considerazione preliminare sull’interesse al tema in oggetto: l’attività di mediatore implica la costruzione di un rapporto di natura cooperativa con le parti in conflitto, cioè la creazione di un sistema di relazioni in cui contano il contributo ed il riconoscimento reciproco. La mediazione invita le persone a viversi come protagoniste di un percorso di dialogo, sottraendole alla prospettiva di delega delle decisioni ad un’autorità esterna: si fonda quindi sull’idea di sentirsi parte attiva e non agita nei processi che continuamente costruiamo. Questo invito appare particolarmente in linea con la Psicologia dei Costrutti Personali (Kelly, 1991), secondo cui ognuno ha la possibilità di giocare il proprio ruolo di attivo costruttore di eventi. Grazie ai cosiddetti “paradigmi postmoderni”, si sgombera il campo dall’idea che le persone debbano prendere atto di una qualche realtà data. Diventa così sostenibile la posizione, paradossale in una logica aristotelica, secondo cui le “stesse cose” possono essere cose diverse per osservatori diversi, dal momento che possono assumere significati differenti.
Là dove naufraga il tentativo di dire che la propria visione di sé, dell’altro o degli eventi è “reale” e per questo non si può cambiare, possono invece germogliare il rispetto e la libertà d’azione nei confronti di se stessi e degli altri. Se consideriamo quelle che definiamo le nostre caratteristiche come frutto di un processo di costruzione di significati, possiamo comprenderle e lavorarci. In più, se facciamo lo stesso con gli altri, intrecciando relazioni di comprensione, ci poniamo al riparo da “fondamentalismi” che possono minare buona parte delle potenzialità dell’incontro con l’altro.
2. Cosa si intende per mediazione dei conflitti?
La mediazione è un approccio alla gestione dei conflitti che prevede l’intervento di quel che in letteratura viene definito un “terzo neutrale”, che è chiamato a fungere da catalizzatore di un incontro generatore di possibili risoluzioni del contrasto. Si tratta di una situazione in cui si confrontano almeno tre vissuti: le due realtà diverse e contrapposte dei confliggenti e la terza, quella del mediatore. Quest’ultimo ha il ruolo di “stare nel mezzo” (come testimonia l’etimologia latina, da medietas, la via intermedia) legittimando quelle delle parti proprio come “due realtà”.
Fin da questa definizione si rivela l’assonanza tra i presupposti della mediazione e quelli della psicologia costruttivista, che ci ricorda come “le realtà” in cui viviamo siano tali proprio in virtù dei punti di vista a partire da cui le costruiamo, le leggiamo e le viviamo. Il lavoro del mediatore diventa così un ottimo
esempio di come si possa declinare il principio dell’alternativismo costruttivo, cioè il principio della possibilità continua di ricostruire gli eventi. Questo accade poiché l’obiettivo della mediazione è predisporre incontri che rimettano in moto narrazioni diverse del conflitto nel rispetto reciproco tra le parti.
Gli approfondimenti che seguiranno in questo contributo svilupperanno l’ipotesi della coerenza tra gli assunti ed i metodi della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) e quelli della mediazione. Una discriminazione, tuttavia, è centrale e va premessa: il lavoro di mediazione, a differenza dalla PCP, lascia sullo sfondo la considerazione che il conflitto sia una scelta elaborativa per le persone che ne fanno esperienza. Nella letteratura specifica sulle tecniche di mediazione, infatti, il conflitto non è letto come la migliore delle alternative possibili per le persone coinvolte. La prospettiva costruttivista, invece, mette in luce come la scelta di stare in una relazione conflittuale piuttosto che di ascolto e comprensione possa essere costruita come la più elaborativa. Ciò è ricco di implicazioni e verrà ripreso nel paragrafo “Il lato oscuro della luna: difficoltà e problemi aperti”. Come mai la letteratura sulla mediazione non tiene conto di questo aspetto? Un’ipotesi è che la mediazione muova i suoi passi da un assunto etico implicito: che il dialogo e l’incontro rispettoso dell’altro siano sempre la migliore delle alternative possibili, cioè che siano dei valori indiscutibili. Una seconda considerazione è che la mediazione, poiché è intrapresa solo in forza della scelta volontaria delle parti, inizi quando le persone hanno già riscontrato l’inefficacia dei toni conflittuali della relazione. Chi approda davanti ad un mediatore è già mosso dalla ricerca di una modalità “migliore” di stare in relazione e desidera sganciarsi da conflitti che sono diventati un disturbo. Disturbo inteso come un modo di stare con l’altro che gli interessati non riescono a modificare, nonostante una consistente invalidazione (Kelly, 1991).
3. Quali sono gli obiettivi della mediazione dei conflitti?
Il focus della mediazione non è la risoluzione del conflitto, la conciliazione, ma il dedicare un tempo ed una possibilità all’esplorazione creativa del campo dei problemi. Mediare non significa risolvere i conflitti, ma lavorare per aiutare le parti ad uscire dalle situazioni di stallo, di impasse, che le vedono bloccate nell’ostilità reciproca. Non si tratta di capire chi ha ragione e chi ha torto “nella realtà dei fatti”, ma di aprire alternative alla strutturazione dell’altro come il proprio “antagonista” o, in modo prelativo, come nient’altro che il proprio antagonista.
Come si può integrare questa visione con un’ottica costruttivista?
La PCP ci mostra come riavviare possibilità di dialogo possa essere una chiave per ridefinire la situazione e rimetterla in movimento quando le persone continuano ad utilizzare le stesse modalità di costruzione, nei conflitti così come nei disagi personali (Simpson et al., 2004). La comunicazione assume peraltro una rilevanza peculiare se è considerata in ottica postmoderna, perché diventa uno strumento per creare la realtà, non per rispecchiarla. Schnitmann (2001) ci ricorda che così come gli elementi del conflitto emergono dal dialogo, il dialogo stesso può essere la scelta migliore per agire nelle realtà conflittuali. In questo modo le possibilità della relazione, intesa come calderone di alternative da percorrere, assumono una nuova forza. Tra queste alternative, quella di un “compromesso” inteso non come cedere o privarsi di parte della propria posizione, ma come genesi di significati condivisi in cui le parti possano riconoscersi. Compromesso e cooperazione sono, infatti, dimensioni ortogonali rispetto al costrutto: “affermare il proprio interesse sull’altro o ai danni dell’altro versus preservare l’armonia della relazione, ai danni dei propri interessi”.
Ad esempio, un evento come il risarcimento o la restituzione di un bene sottratto può andare oltre la mera riparazione “reale” e consentire un’esperienza significativa e diversa: per il reo, di comprensione del vissuto di privazione ed ingiustizia della vittima; per la vittima, di riconoscimento e risignificazione dell’accaduto.
In letteratura (Meyers Chandler, 1985), la pratica della mediazione risulta essere particolarmente consigliata nei conflitti tra persone che si conoscono e che manterranno una relazione (vicini di casa, liti famigliari). In questo tipo di relazioni, infatti, è importante rimettere in moto la relazione nei termini della possibilità di fare ancora esperienza con l’altra persona. Il “ciclo dell’esperienza” (Kelly, 1966, p.18) mostra come, per fare esperienza, siano necessari vari passaggi: ad un’anticipazione, cui corrisponde un certo investimento, segue un incontro, che consente una validazione o invalidazione dell’anticipazione stessa. A ciò può seguire una revisione. Nel caso di persone coinvolte in un conflitto è molto probabile che non si arrivi ad una revisione dei termini della relazione, intesa come una possibile conciliazione, per un blocco che può avvenire in vari punti del ciclo. Alcuni esempi possono essere l’evitamento, la mancanza di contatti con la persona con cui si è in conflitto, che preclude la possibilità di un nuovo incontro. Oppure l’incontro può essere segnato dal tentativo di non prendere in considerazione alcune informazioni, o da quello di estorcere prove a favore della propria prospettiva: atteggiamenti che negano la possibilità di una revisione.
Per raggiungere i propri obiettivi il lavoro di mediazione ha come condizione preliminare un certo livello di investimento nella gestione del conflitto da parte dei confliggenti. Per verificare questa condizione, spesso si prevedono degli incontri preliminari da svolgere individualmente con le parti. Gli incontri congiunti saranno predisposti successivamente, una volta sondate ed affrontate le costruzioni che ogni parte in causa ha rispetto all’altra persona e rispetto a quanto avvenuto. La finalità è quella di creare le condizioni per una validazione e invalidazione delle rispettive anticipazioni con la possibilità di giungere ad una loro revisione.
4. Una prospettiva costruttivista sul ruolo di mediatore
In letteratura si parla del mediatore come terzo, con riferimento all’idea di una presunta “neutralità”: tuttavia molti autori considerano impossibile partecipare alla relazione prescindendo dal personale punto di vista. Parlare di neutralità significa allora (ed es. per Castelli, 1996, p. 84) mettere in guardia il mediatore rispetto al rischio di rimanere ingabbiato nella propria opinione preconcetta. La PCP consente di fare un altro passo, in direzione dell’autoriflessività del ruolo di mediatore ed in linea con l’affermazione di Resta (2001) secondo cui la mediazione non è “trovare uno spazio neutro ed equidistante, in cui risiede la più grande utopia del moderno che è la terzietà” (p. 49). Il mediatore è un osservatore, una forma di conoscenza che si confronta con altri processi di conoscenza – quelli delle parti – alternativi al proprio ed alternativi tra loro. Quando ci si accinge, dunque, a lavorare con l’esperienza umana come terapeuti, mediatori o formatori è utile mantenere vivo un vertice osservativo interno che ci ricordi la nostra ineludibile partecipazione alla costruzione della realtà. “Attraverso lo sviluppo di processi riflessivi di auto-osservazione, possiamo creare una struttura con cui divenire consapevoli della nostra cecità” (Kenny & Gardner, 1998, p. 62).
“Tutto ciò che è detto, è detto da qualcuno” (Maturana e Varela, 1987, p. 46) e si può anticipare solo a partire dal proprio sistema di costruzione. Questo, tuttavia, non pregiudica la possibilità di costruire i processi di costruzione dell’altro, sempre a partire dai propri (cfr. il “corollario della socialità”, Kelly, 1991, p. 66). Alla luce di tale corollario, anche la professione di mediatore implicherà lo sforzo di instaurare una relazione di comprensione con le persone che intraprendono con lui il cammino, costruendo il modo in cui ciascuna di loro sta facendo esperienza, in particolare della relazione e del conflitto in questione.
È fondamentale pensare, pertanto, che il mediatore muova da una teoria della comprensione (Mair, 1998): una teoria che renda possibile sussumere le visioni del mondo portate dalle parti in conflitto senza entrare nel tentativo di decidere quale sia più “vera”. Il mediatore dovrà spendersi nella comprensione del modo di pensare dell’altro, partendo da una posizione di umiltà. La sua imprescindibile autorevolezza deriverà dal suo interesse per i “modi” (Castelli, 1996, p. 95) utilizzati dalle parti in conflitto, per il processo più che per il contenuto del contendere e della risoluzione finale. Ciò che avrà da offrire saranno dunque competenze procedurali, non di sostanza; metodologie, non “ricette”.
Ritengo importante accennare ai confini ed alla specificità del ruolo di mediatore rispetto a quello di psicoterapeuta. Si tratta di due professioni da distinguere con chiarezza, dal momento che cercano di andare in direzioni diverse. La mediazione lavora con una domanda molto circoscritta nei fini e nei tempi dell’intervento, aiutando le persone ad elaborare e proporre esse stesse, in modo responsabile, un progetto costruttivo di conciliazione (Castelli, 1996). Diversamente, la psicoterapia in chiave costruttivista è un processo volto a far emergere e comprendere i processi di costruzione delle persone, così da poter promuovere un cambiamento. Bannister (1984, p. 251) definì la psicoterapia come “essenzialmente, il rapido scorrere dell’interazione tra due o più esseri umani” ed aggiunse che al terapeuta è chiesto, in primis, di essere utilizzabile. Essere uno psicoterapeuta significa saper costruire insieme al cliente una relazione unicamente volta a ciò che è utile per il cliente stesso: utile affinché quest’ultimo possa porsi in modo differente di fronte ai suoi problemi.
L’ipotesi di integrare mediazione e PCP tiene conto di queste precisazioni, ma considera anche che la PCP può essere usata in modo euristico al di là della psicoterapia, ad esempio in ambito forense (Horley, 2003).
Parallelamente a quanto suggerito da Kelly (1955, p. 90) per lo psicoterapeuta costruttivista, appare utile pensare al mediatore come ad un cosperimentatore. Questo per sottolineare la disponibilità reciproca a mettersi in gioco e la natura cooperativa del processo di mediazione. La mission del mediatore appare quindi quella di essere “un catalizzatore della comunicazione, che stimola ed agevola… per lasciare massimo spazio e possibilità alle parti, ai loro desideri, alle loro idee” (Castelli, 1996, p. 76). Senza l’intervento di un terzo sarà infatti probabile che i “litiganti” costruiscano il conflitto in modo prelativo, percorrendo e ripercorrendo le stesse rivendicazioni reciproche e sperimentando transizioni di ostilità (si pensi, ad esempio, a liti di vicinato, in un climax di accuse reciproche e mancanza di rispetto).
5. Una prospettiva costruttivista sul ruolo delle parti della mediazione
Adottando il linguaggio e le metafore della PCP, si può dire che le persone che intraprendono un percorso di mediazione sono riconosciute nel loro ruolo di scienziati, cioè di protagoniste di un continuo processo di formulazione e messa alla prova di ipotesi sulla “realtà”. È questa la peculiarità che più distanzia il setting della mediazione da quello processuale. La mediazione restituisce agli “antagonisti” la possibilità di confrontarsi in un incontro che implica, con l’aiuto del mediatore, la negoziazione di nuove regole. Regole legate al dialogo invece che al tentativo di prevalere l’uno sull’altro, cercando solo la propria affermazione.
Nell’ambito della mediazione, l’idea di base sembra essere che “se comincio ad ascoltare un po’ di più il mio nemico, rischio di trovare che parte di ciò che dice ha senso” (Mair, 1998, p. 28). In particolare, è possibile considerare il lavoro di mediazione come un’occasione per far intrecciare relazioni di ruolo, cioè relazioni in cui le persone si immedesimino in altri modi di fare esperienza.
Una “relazione di ruolo crea un rapporto di maggiore disponibilità verso gli altri, perfino verso coloro con cui non siamo d’accordo” (Epting, 1990, p. 45).
6. Proposte di metodo nell’approccio al conflitto
Secondo Miller Mair (1998, p. 22) la psicologia dei costrutti personali può “offrirci dei percorsi attraverso lo spazio psicologico, così che possiamo avere maggiori probabilità di prestare attenzione al mondo dell’altro”. Questo “prestare attenzione al mondo dell’altro” acquisisce un ruolo centrale nel coniugare teoria dei costrutti personali e mediazione dei conflitti. Spingendosi oltre, Mair afferma che l’intera psicologia dei costrutti personali è un invito a cercare di costruire il senso dei processi di costruzione dell’altro. Si tratta di interessarsi e di riconoscere il proprio interlocutore, senza necessariamente essere d’accordo con lui! Ed, in particolare, l’autore invita a sviluppare questa “psicologia della comprensione” nella risoluzione dei conflitti, sia da parte di chi fa il mediatore, sia da parte dei confliggenti (ibidem).
Nel suo libro del 2000, anche Marianella Sclavi descrive come più un ambiente è complesso, più spesso la comunicazione riguardi situazioni in cui “le stesse cose, gli stessi eventi” hanno per persone diverse significati diversi ed incompatibili tra loro. Per questo diviene fondamentale familiarizzare con l’epistemologia della riflessività, chiamata dall’autrice “l’arte di ascoltare” (ibidem, p. 22). Questo è utile in tutti i sistemi complessi, a partire dalla famiglia per come si sta delineando negli ultimi anni. Infatti, nella famiglia patriarcale si dava per scontato che tutti condividessero le idee del pater familiae, mentre nella famiglia contemporanea – detta “polifonica” – ogni membro è co-protagonista e le “stesse cose” possono avere significati differenti (ibidem). “Qualsiasi semplificazione che porti a ignorare la possibile alterità dell’altro porta a una crisi nelle dinamiche dell’accoglienza e della reciproca convivenza. I nessi fra forme di conoscenza e forme di convivenza diventano espliciti, problematici e intrinseci alla comunicazione e alla conoscenza” (ibidem, p. 15).
Occuparsi della relazione di ruolo diventa particolarmente importante nelle relazioni caratterizzate da conflitti e incomprensioni, ad esempio in setting di coppia. Non è un caso, secondo M. C. Ortu (1998, p. 140), che “l’infelicità coniugale sia frequentemente descritta con sconsolate affermazioni del tipo «non ci capiamo più, non riusciamo più a comunicare». L’incomprensione […] limita l’elaborazione dell’esperienza interpersonale, la crescita della relazione”. Diventa quindi fondamentale, per favorire la ripresa della relazione, aiutare le persone a comprendersi reciprocamente, cioè a cercare di vedere il mondo così come l’altro lo costruisce, modulando i propri comportamenti alla luce di questa comprensione.
Di quali strumenti e metodi è possibile avvalersi?
Quelli che esporrò derivano da un personale lavoro di sintesi ed integrazione di elementi tecnici della mediazione dei conflitti con elementi teorici dell’antropologia culturale e del costruttivismo. Si tratta di strumenti che fanno parte della “cassetta degli attrezzi” del mediatore, ma anche di modi di porsi che le parti possono mutuare dall’esperienza della mediazione. Può essere infatti molto utile che anche le parti in conflitto sperimentino ed incarnino personalmente, nelle loro relazioni, gli atteggiamenti tratteggiati. Questo vale in particolar modo per i primi quattro punti.
- “Ascoltare in modo attivo” e porre domande.
Nelle conversazioni, soprattutto quelle accese, siamo abituati a sentir reclamare il proprio diritto di parola: tuttavia, come sottolinea Marianella Sclavi (2000), in una conversazione sono centrali tanto il diritto di parola quanto quello, meno acclamato, di ascolto reciproco.
Una delle prime condizioni per instaurare un’atmosfera di dialogo piuttosto che di conflitto consiste nel poter esprimere le proprie opinioni e sensazioni dando all’altro la possibilità di fare lo stesso e di essere ascoltato. Per mettersi in ascolto del mondo dell’altro, Marianella Sclavi (ibidem) ci ricorda due principi di base: rispettare l’interlocutore ed essere curiosi verso altre visioni del mondo. In particolare, l’autrice invita “all’ascolto attivo”, un ascolto che non risponde all’urgenza di classificare quello che l’altro ci sta dicendo, ma che presuppone il tentativo di cambiare prospettive e di esplorare altri punti di vista. Al fine di iniziare un dialogo costruttivo con l’altro ci può aiutare il fare domande, più che il sancire affermazioni. Chiedere, infatti, contribuisce ad instaurare un’atmosfera di interesse e collaborazione reciproca. Un atteggiamento “interrogativo” comprende domande aperte, domande a spirale (cioè domande che chiedono di specificare, con esempi). Un altro tipo di domanda che può essere d’aiuto è la domanda di ritorno (Castelli, 1996), che rimanda il quesito a chi lo ha posto, partendo dal presupposto che quest’ultimo abbia già un’ipotesi al riguardo e che desideri metterla alla prova.
- Cambiare l’altro cambiando noi stessi: i messaggi in prima persona.
Quando comunichiamo, parliamo necessariamente di noi e del nostro sistema di costruzione. La comprensione è necessariamente un’impresa personale e, pertanto, ogni storia ci parla contemporaneamente del mondo in oggetto, della persona che la racconta e della relazione tra quella persona ed il mondo.
Avvicinandosi al tema dei conflitti è utile pensare che, come afferma Mair (1998):
Dobbiamo cambiare noi stessi per prima cosa, in qualche modo, se vogliamo arrivare a conoscere personalmente. Se voglio arrivare a capire ciò che preoccupa il nemico temuto, devo cambiare me stesso per potermi avvicinare a lui o a lei con la disponibilità ad ascoltare… devo diventare qualcuno che è disposto a rischiare di essere pacifico e avvicinare il nemico in modo diverso, ascoltare e sforzarmi di rispettare ciò che ha da dire. (p. 26)
Poiché anche quando parliamo degli altri non possiamo che esprimere il nostro sistema di costruzione, concentrarsi sulla propria esperienza può tutelare dal reiterare accuse o critiche in modo non fertile. Se applico un “paradigma postmoderno” ad una relazione conflittuale, perde di significato chiedersi chi ha torto e chi ha ragione e considerare la relazione un gioco a somma zero (in cui uno deve perdere, affinché l’altro possa vincere). Da ciò deriva l’indicazione, che il mediatore rivolge frequentemente alle parti, a mandare messaggi in prima persona, riferendosi sempre a quello “che io penso”, “che io sento” e “che io vivo”. In questo modo, il “tiro alla fune” per mostrare di possedere la visione “più reale” può trasformarsi in un atteggiamento responsabile e autoriflessivo rispetto alla personale costruzione del mondo.
- Separare la persona dal problema
Un assunto base della mediazione consiste nel vedere il conflitto come un problema da risolvere, non come un contesto in cui qualcuno deve sconfiggere qualcun altro. Ciò implica veicolare verso le parti e, nei limiti del possibile, anche tra le parti stesse, un atteggiamento di rispetto e di curiosità. L’ipotesi è che non sia il proprio “nemico” ad essere la causa, la colpa del problema o, ancora, ad essere il problema stesso. Anche a livello di setting, si cerca di promuovere l’idea di sedersi assieme nel tentativo di discutere un problema; pertanto gli interlocutori dovrebbero riuscire a vedersi non faccia a faccia (come se fossero gli uni contro gli altri), ma seduti fianco a fianco attorno ad un tavolo.
- Parafrasare quello che l’altro sta dicendo
Parafrasare quello che l’altro dice significa chiedere se quanto abbiamo inteso corrisponda a quello che la persona voleva dire. Si tratta di ripetere con parole proprie quello che è stato detto dal proprio interlocutore, al fine di verificare la comprensione reciproca. Questo tipo di atteggiamento aiuta la persona a sentirsi capita e comunica al contempo l’interesse, il riconoscimento e lo sforzo di avvicinarsi al suo punto di vista. Anche in questo caso, si tratta di una tecnica che il mediatore può sia utilizzare in prima persona, sia incoraggiare le parti ad adottare esse stesse.
- Usare tecniche di mappatura del sistema di costrutti: sovraordinare le comunicazioni per accedere ad alternative
Le opinioni o i conflitti che manifestiamo possono essere costruiti come la parte emergente di implicazioni più importanti. Spesso, sottolinea la Sclavi (2000) quando si è di fronte ad un contrasto che si riproduce in continuazione, è importante salire di livello e la chiave del cambiamento può risiedere proprio in ciò che due poli in contrasto hanno in comune. Questi consigli vanno nella direzione di sovra-ordinare le costruzioni delle persone in conflitto, andando alla ricerca di dimensioni di senso condivise e possibilmente alternative rispetto a quelle su cui si confligge.
A tal proposito è interessante l’esempio che porta la Sclavi (ibidem). Nella conversazione tra una persona italiana ed una inglese, la comunione nell’intento di essere reciprocamente chiari fa accadere di frequente un incidente. Noi italiani enfatizziamo la pronuncia delle vocali per farci capire: il contrario di quello che fanno gli inglesi, accentuando le consonanti. Pertanto, la stessa parola può risultare irriconoscibile! Si tratta della differenza di “cornice linguistica” superordinata che può far sentire ridicoli noi italiani nell’inglese orale. Tuttavia, se evidenziamo tra i due interlocutori la dimensione superordinata comune, “il desiderio di comunicare” è possibile proseguire e cercare alternative, senza arrenderci ai sentimenti di imbarazzo e frustrazione che probabilmente accompagneranno le prime conversazioni, visti i problemi di pronuncia.
Chi si trova nel ruolo di mediatore potrebbe favorire una maggior chiarificazione del significato delle conversazioni mutuando tecniche di mappatura del sistema di costrutti, al fine di esplicitare il livello superordinato che dà senso alle esperienze. Individuata una dimensione importante si potrebbe chiedere, su modello del laddering, quale delle due alternative sia preferita e: “perché è importante per te…?”. Un altro utile strumento potrebbe essere il farfallino sistemico (Procter, 1987), usato per indagare le costruzioni reciproche e le azioni conseguenti, mettendole in relazione e visualizzandole con uno schema su carta. Ci avviciniamo nuovamente ai suggerimenti di M.C. Ortu (1998) per la terapia di coppia:
Penso che sia molto utile aiutare ogni partner ad imparare a conoscere e a muoversi nelle costruzioni superordinate dell’altro[…]. Spesso la coppia scopre che, al di là dei messaggi distorti riguardo alla personale elaborazione degli eventi, sta tentando di raggiungere le stesse mete con gli stessi valori fondamentali . (p. 141)
Più in generale, riconoscere la cornice di significato che inquadra una comunicazione può consentirci di evitare alcune “trappole”: il conflitto infatti è una dinamica relazionale che può essere accostata ad una danza. Interrompere la danza significa decostruirla, sospendere i passi e il muoversi a tempo con l’altro, per entrare in un diverso modello di relazione. Ad esempio, se si è di fronte ad una comunicazione che colpevolizza e la si riconosce come tale, si può evitare una dinamica viziosa se si cambia il livello. Ciò può avvenire se si risponde né colpevolizzando a propria volta (in modo simmetrico) né incassando (in modo complementare). Come suggerisce la Sclavi (2000, p. 283) “non abboccare. Rispondi sempre al presupposto, ignorando l’esca”. Il segreto starebbe nell’interrompere la danza dello scontro frontale tra posizioni: se le persone non si forniscono reciprocamente dei punti di appoggio, infatti, l’escalation fatica a proseguire.
- “Allenare” all’utilizzo di costruzioni proposizionali
In linea con il principio dell’alternativismo costruttivo, appare utile invitare le parti all’uso di costruzioni proposizionali, esprimendo cioè l’idea che sia possibile guardare da nuove prospettive ciò che stiamo incontrando o abbiamo incontrato. Da ciò, l’invito a formulare le proprie opinioni “come se” fosse meglio vedere gli eventi in un modo piuttosto che in un altro. Per promuovere un utilizzo proposizionale dei costrutti e mantenere permeabile il loro campo di pertinenza, può essere utile porre delle domande come: “Secondo lei, che senso ha avuto per … comportarsi in quel modo?” “Quali altre spiegazioni ci potrebbero essere per il comportamento di …?”. Se possibile per il sistema di significati della persona, si potrebbe azzardare anche la richiesta di provare a mettersi nei panni dell’altra persona: “Provi a mettersi nei panni dell’altro: cosa avrebbe provato?”.
- Percorrere il ciclo della creatività
Per mappare le relazioni conflittuali e le possibili alternative, appare interessante mutuare dalla PCP anche la formulazione del ciclo della creatività (Kelly, 1955, p. 254). Ciò significa cercare di riconoscere nei conflitti e nei dialoghi l’alternanza tra fasi di allentamento e di restringimento. Se per giungere ad un prodotto creativo sono necessarie ambo le fasi, può essere utile che il mediatore favorisca un processo di allentamento o di restringimento, qualora il ciclo sia bloccato in uno dei due stadi. Ad esempio, egli potrebbe favorire l’allentamento proponendo l’utilizzo di analogie e metafore per esprimersi. Oppure, potrebbe favorire un restringimento del sistema invitando a concretizzare e definire più precisamente, chiedendo ad esempio: “com’è una persona che …? Cosa fa, da cosa la potrebbe riconoscere?”.
Il riferimento al ciclo della creatività appare particolarmente utile nel momento in cui si cerca di risolvere un dissidio: infatti, si potrebbe utilizzare una sorta di brainstorming creativo, seguito da un restringimento per individuare accordi concreti. L’accordo eventualmente raggiunto in termini “generali” andrà poi accompagnato da indicazioni chiare sui passi da fare per trasformarlo in un progetto d’azione comune.
- Dar voce al corpo ed ai costrutti preverbali
Infine merita almeno un cenno l’attenzione ai messaggi del corpo delle persone (Besemer, 1999). Il corpo, infatti, contribuisce in misura notevole alla creazione di significati e ci può dare utili indicazioni se, ad esempio, diamo voce ed ascolto alla postura o all’espressione. Quando comunichiamo, la congruenza tra linguaggio verbale e corporeo è molto importante ed i due codici, letti nelle loro connessioni, possono fornire molte informazioni sia su noi stessi che sull’altro. Poiché il linguaggio corporeo è normalmente meno controllabile, esso ci può dare molti elementi per un’esplorazione aggressiva dei processi in gioco. Ad esempio, si potrebbero mettere in campo e verbalizzare i segnali del corpo con domande come: “se il suo sospiro potesse parlare, cosa ci direbbe adesso?”.
7. E la società?
Come suggerisce Miller Mair, “l’attenzione su tematiche riguardanti la comprensione e l’incomprensione può far spostare la nostra attenzione al di fuori della stanza della psicoterapia, nelle aule scolastiche e in molti altri contesti di un mondo più vasto” (1998, p. 17).
Ad esempio, la mediazione penale nasce in ambito minorile dall’esigenza di tutelare i minorenni da quel percorso di costruzione di un’identità delinquenziale che la permanenza nel normale iter della giustizia può favorire. Parallelamente la vittima può trovare nella mediazione penale sia un’eventuale riparazione del danno, sia la possibilità di esprimersi e di sentirsi riconosciuta. Questo può “prevenire” i processi che sono stati chiamati di “vittimizzazione secondaria” (Bouchard, 2001, p. 242): percorsi in cui le vittime di reato si sentono colpevolizzate o trattate con indifferenza da famigliari ed istituzioni, inchiodandosi ad un ruolo passivo e a vissuti di impotenza ed incertezza per il futuro.
Inoltre, alla mediazione si può guardare con favore rispetto al problema della lentezza del sistema giudiziario. I conflitti portati al sistema giudiziario aumentano progressivamente e si lamenta il problema dell’inefficienza istituzionale dovuta alla mancanza di risorse. Tuttavia, chiedere maggiori risorse crea una sorta di paradosso, dato che aumentare le stesse non diminuisce il numero dei conflitti portati in giudizio.
Il senso della mediazione scardina questa logica, invitando le parti ad assumersi il compito di auto-gestirsi e diffondendo anche ad un macro-livello i semi di una nuova cultura rispetto ai conflitti. Mi riferisco alla possibilità di sostituire il paradigma dominato dal costrutto “vincere-perdere” con un approccio che guardi alla partecipazione responsabile delle parti ed alla costruzione di un accordo comune. Questo in alternativa a soluzioni che prevedano la delega della decisione ad un terzo. Secondo un’epistemologia costruttivista nessun “arbitro”, neutrale ed imparziale, può avere accesso alla “realtà dei fatti” in base alla quale decidere. Si aprono così vastissimi spazi all’idea che la varietà delle prospettive non possa essere soppressa a vantaggio di chi detiene la verità, ma vada colta nella sua ricchezza generativa di significati. Gli sviluppi, in vari ambiti, della mediazione potrebbero proporre le dimensioni dell’incontrare l’altro o del cooperare alla soluzione del problema come alternative ai repertori vincitore-sconfitto o forte-debole. E questa psicologia della comprensione può essere collegata all’invito che Amos Oz propone in “Contro il Fanatismo” (2004): sviluppare la capacità di immaginarsi nei panni dell’altro per abbandonare le proprie visioni intransigenti ed allenarsi all’arte del compromesso. Dunque, gli sviluppi in vario ambito della mediazione potrebbero confluire in un movimento “contro il fanatismo” (ibidem) in cui la via del compromesso e della relazione di ruolo possa funzionare da “vaccino” rispetto alle forme di fanatismo ed intransigenza.
8. Il lato oscuro della luna: difficoltà e problemi aperti
Le modalità di incontrare l’altro che ho descritto non risultano “naturali”e possono anche non essere viabili per le persone, soprattutto alla luce di due fondamentali considerazioni.
Un primo ordine di difficoltà è legato ai possibili vantaggi della strutturazione, intesa come polo opposto della comprensione: vantaggi in termini di sicurezza, di velocità e di accessibilità di certe costruzioni. Nelle relazioni la strutturazione risponde, secondo la Sclavi, ad una certa “urgenza classificatoria”, mentre la comprensione espone ad un iter più incerto, a un senso di pericolo, mettendo in gioco l’idea di certezza delle proprie convinzioni. Questo può generare transizioni di ansia, vergogna o colpa e tutto ciò può portare ad un irrigidimento, un “blocco del movimento” e dell’esplorazione creativa. La minaccia di colpa può riguardare il sentirsi deboli, manipolati, o il rinunciare a posizioni nucleari. Domandare può essere costruito come debolezza, cambiare posizione come “perdere”, e possono quindi essere vissuti con colpa o vergogna. Per compiere tali avventure nel mondo delle relazioni dobbiamo essere disposti ad abbandonare l’idea di certezza assoluta delle nostre convinzioni. Pertanto possiamo andare incontro a timori, transizione di ansia e minaccia di colpa: possiamo scegliere di costringere, di procedere in modo allentato o stretto, di avere o meno un atteggiamento aggressivo[1].
Questo rischio può riguardare il professionista stesso, a maggior ragione in un momento in cui è ancora molto forte, nella cultura occidentale, il richiamo a dover essere “il meno soggettivi, il più oggettivi” possibile (Sclavi, 2000, p. 89). “Troppo spesso il training sostituisce la dottrina alla ricerca; fa sentire il terapeuta rispettabile più che responsabile, e vi è una grande differenza tra le due” (Kelly, 1969, p. 53). Tuttavia, quando ci troviamo di fronte ad un fenomeno, da più prospettive lo vediamo più adeguata sarà la nostra comprensione e descrizione. Tale affermazione appare più chiara se si pensa a fenomeni come i conflitti o l’incontro interculturale, ma anche a fenomeni quali le illusioni ottiche ci ricordano come “l’evidenza”, anche quella “percettiva”, sia sempre una nostra costruzione passibile di revisione. In conclusione, l’invito che arriva tanto dal costruttivismo, quanto dall’antropologia è quello di assumere e mantenere un atteggiamento esplorativo, aggressivo, tenendo vivo il movimento ed andando oltre alla costruzione apodittica della realtà.
Un secondo ordine di difficoltà riguarda lo scivolare nella posizione del “tutto va bene”: a tal proposito, è fondamentale tener presente che quando si parla di comprendere non si intende “condividere”, quanto piuttosto rispettare. Alcuni esempi mutuati dall’antropologia, tradizioni quali l’infibulazione, esemplificano come sia tanto utile evitare il relativismo assoluto (“se va bene a loro…”) quanto i fanatismi che collocano la ragione solo “dalla nostra parte”. Giudicare o disprezzare può rendere difficile creare un incontro con l’altro, tanto quanto disinteressarsi o condividere incondizionatamente.
In conclusione questo articolo lascia aperte come sfide, anche per chi scrive, un paio di domande ed esperienze da fare: in primo luogo, approfondire su quale sfondo etico si collochino il cosiddetto approccio alternativo alle dispute ed il mandato professionale del mediatore.
In secondo luogo, pur avendo sottolineato l’attenzione del mediatore al processo di incontro più che al risultato, rimane da chiedersi se ed in che misura incida il mandato “sociale” più legato alla risoluzione del conflitto. Inoltre, rimane aperta per il mediatore la questione di come interfacciarsi alle parti, tenendo conto dei loro possibili interessi e vantaggi (ad esempio economici o legali) connessi all’esito della mediazione.
Questi sono solo alcuni degli spunti percorribili per chi esplorerà l’approccio della mediazione a partire dall’epistemologia costruttivista.
Secondo Kelly (1991, p. 91), le persone cessano di essere sole nel momento in cui provano a vedere gli eventi attraverso gli occhi degli altri: quando manifestano questo sforzo di investigazione costruiscono per se stesse dei ruoli e proprio attraverso questi ruoli si creano i sistemi sociali. Incarnare un atteggiamento di comprensione può, in un primo momento, mettere in gioco la nostra fiducia nella prevedibilità del mondo. Al contempo, può sorprenderci e consentirci dei salti avanti nella qualità delle nostre relazioni, dal momento che ascoltare le persone è un invito a passeggiare in nuovi mondi. “Il punto non è essere compassionevoli, comprensivi, positivi, ma avere la capacità di ascoltare l’altro” (Balestra, 2012, p. 98).
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Sitografia
http://www.oikos.org/mairstory.htm
Note sull’autore
Lisa Tomaselli
Institute of Constructivist Psychology, Padova
Psicologa psicoterapeuta costruttivista, lavora come libera professionista e collabora con associazioni del privato sociale. In particolare, si occupa di interventi (setting individuale e di coppia) in situazioni famigliari complesse e conflittuali. È impegnata, inoltre, nella formazione a professionisti che lavorano in contesti interdisciplinari e/o che si occupano di relazioni conflittuali: operatori socio-sanitari, assistenti sociali, educatori, forze dell’ordine, insegnanti.
Note
- Per “aggressività” Kelly intende “l’elaborazione attiva del campo percettivo” (Kelly, 1991, p. 374). N.d.R. ↑