Questa intervista è stata condotta a Sydney durante il XX Congresso Internazionale di Psicologia dei Costrutti Personali, 18-20 Luglio 2013.
Professor Neimeyer, la ringrazio per averci concesso questa intervista.
Com’è nato il suo interesse per il tema del lutto e del suicidio?
Suppongo che a questa domanda avrei potuto dare risposte differenti in diversi periodi della mia vita. Per esempio, osservando in retrospettiva le scelte fatte in tarda adolescenza e durante l’università, quando ho iniziato ad occuparmi del tema della morte e a fare ricerche sul suicidio, potrei dire che non avevo minimamente collegato i miei interessi alla storia della mia famiglia. Vede, mio padre si tolse la vita circa dieci giorni prima del mio dodicesimo compleanno e la mia successiva adolescenza è stata una sorta di continua esperienza del lutto complicato, in quanto da allora mia madre tentò più volte il suicidio. A volte mi stupisco ancora di quanto non avessi compreso il legame tra la mia storia personale e l’ambito di interesse lavorativo. Credo si possa dire che la mia carriera professionale sia in qualche modo sbocciata dalla mia storia personale e il tutto si sia armonizzato in modo complesso, ricco e utile per lavorare con i clienti che raccontano i loro lutti e perdite di varia natura. Chiaramente durante la mia vita professionale ho svolto molte ricerche e mi sono occupato anche di altri temi, per esempio nel campo della teoria e della psicoterapia costruttivista, ma il centro del mio lavoro ora è diventato, come ha notato, la perdita e il lutto.
Parlando di perdita: quando qualcuno si toglie la vita, spesso le persone che rimangono si chiedono “Perché è accaduto? Perché nessuno è stato in grado di capire cosa stava succedendo?”. Immagino che si possano sentire anche impotenti e schiacciati dall’impossibilità di fare qualcosa. Come esperto, quale pensa possa essere il contributo della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) in tutto questo?
Credo che questo sia un invito ad osservare il suicidio dall’interno, ovvero dal punto di vista di chi lo compie, piuttosto che dall’esterno. In questo modo potremmo comprendere maggiormente le logiche interne di chi sceglie questa alternativa, in aggiunta ai significati che le altre persone vi attribuiscono.
Partendo perciò da un punto di vista interno, credo che Kelly sia stato eloquente nella formulazione del Corollario della Scelta, osservando che noi scegliamo quell’alternativa che in qualche modo conferisce la maggiore possibilità di definizione o estensione del nostro sistema di significati.
Parafrasando le parole di Kelly, se dovessi lavorare con una persona che ha tentato il suicidio cercherei di comprendere, da buon teorico costruttivista, in che modo egli contempla il suicidio come scelta elaborativa: in che termini questo gesto può essere inteso come soluzione piuttosto che come problema? Quale tipo di vita avrebbe anticipato di dover vivere, per rendere il suicidio la migliore alternativa immaginabile?
Io cerco di accedere alla prospettiva e al punto di vista dell’altro in un modo abbastanza radicale, perché ritengo che finché non riuscirò a guardare il mondo con i suoi occhi, finché non riuscirò a comprendere il significato che quel gesto ha avuto per lui, io non sarò in grado di aiutarlo. Invece, in questo modo io potrò fare molto di più che controllare il suo comportamento dall’esterno, e questo mi fa pensare che a volte le persone attraverso il suicidio cercano l’affermazione e il controllo della propria vita, che sentono controllata da altre forze o persone.
Credo inoltre che sia importante comprendere il significato che ha avuto il gesto suicidario per chi lo ha compiuto, soprattutto da parte di chi sopravvive e che spesso si incolpa per l’accaduto, si biasima per l’inattenzione, per le tensioni o i conflitti nella relazione che potrebbero aver in qualche modo contribuito. A volte è utile cercare di assumere profondamente la prospettiva di chi è morto e credo che, con il tempo, le persone lo facciano: si posizionano fisicamente dove la persona si è suicidata, camminano nello stesso ponte, o raggiungono il tetto dello stesso edificio, vanno nel seminterrato dove il loro amato si è impiccato, o salgono sulla stessa sedia…
Vede, spesso le persone hanno la tendenza a voler comprendere e ricostruire in modo esperienziale perché il loro caro ha voluto farlo, cosa pensava in quel momento e come stava. Se noi favoriamo questo processo, essi potrebbero, magari dolorosamente, riempire il gap narrativo e rendere la storia, la loro storia, più coerente. Così sarebbero maggiormente in grado di stare con il loro dolore, dare un senso all’accaduto, e successivamente iniziare a chiedersi come sarà la loro vita dopo questa tragica perdita.
Credo che le persone che commettono suicidio si sentano incastrate, bloccate in un angolo; noi possiamo iniziare a comprenderle solo se li raggiungiamo in quell’angolo e osserviamo la vita da quella prospettiva. In questo modo potremmo cercare anche di integrare il loro punto di vista con quello esterno.
Ritengo che il contributo di Kelly che ho fatto più mio sia il radicale entrare nella soggettività di altri diversi da noi come precondizione per lavorare con loro, e questa è per me un’utile applicazione del Costruttivismo. Perciò io vedo la psicoterapia come un processo per intervenire nel significato: fare psicoterapia permette di articolare, simbolizzare e rinegoziare quei significati che la persona usa per comprendere le proprie scelte e alternative, dare voce in qualche forma, magari attraverso il linguaggio o mediante altri canali comunicativi, a ciò che Kelly ha chiamato costrutti nucleari.
Come si diceva prima, guardare il mondo con gli occhi di chi ha commesso suicidio può essere utile anche per chi gli è sopravvissuto e che qualche volta si incolpa di non aver visto o fatto abbastanza, assumendosi forse un’eccessiva responsabilità…
Anche questa assunzione di responsabilità è una scelta e io sono interessato a quali costrutti sovraordinati la canalizzano. Facciamo un esperimento: immaginiamo che lei sia una di quelle persone sopravvissute che si chiede: “Perché non ho notato niente? Perché non ho capito prima cosa stava succedendo?”.
Allora io proverei a domandarle: “Se lei riuscisse a fare un passo indietro lasciando andare le domande sulla responsabilità, si sentirebbe a posto con se stessa? Sentirebbe ancora la tristezza per la morte della persona a lei cara? Potrebbe ricordare i giorni in cui eravate felici? Se lei smettesse di farsi quel tipo di domande, le andrebbe bene?”.
Lei potrebbe allora provare a dirsi che si sente a suo agio e che va tutto bene, ma nel silenzio sentirebbe una voce dire: “No, io non sono a mio agio con tutto questo, non posso non sentirmi colpevole”.
Come terapeuta io voglio parlare con quella parte di lei e comprendere cosa rende così importante assumersi tale responsabilità, anche a fronte della sofferenza che implica.
Nella mia pratica clinica ho osservato che per molte persone lasciar andare questa responsabilità avrebbe voluto dire non amare più il defunto, non aver alcun controllo sulla vita o sulla morte delle persone care, sentirsi impotenti, confrontarsi con un universo crudele, imprevedibile e senza un senso di giustizia. Queste sono solo alcune delle possibili risposte ma qualsiasi di esse può inchiodarti nella sofferenza per molto tempo. Forse, in alcune circostanze, qualcuno può pensare di uccidersi a sua volta. Le persone possono rimanere incastrate in questo tipo di sofferenza per settimane, per mesi oppure addirittura per anni. In questi ultimi casi io sono interessato soprattutto a capire quale sia la funzione e il significato di tale narrazione.
Forse Kelly direbbe anche che rimanere incastrati in tale sofferenza può essere in qualche modo elaborativo…
E quindi mi chiedo quale sia il sistema di costruzione sovraordinato che canalizza l’elaboratività di questa sofferenza o, in altre parole, come si delinea ciò che Bruce Ecker definiva pro-symptom position[1].
Credo che ci sia un’altra cosa che il Costruttivismo ci aiuta a fare in questo caso, ovvero considerare il contesto in cui la persona è inserita, che include non solo la sua storia ma anche i valori, le posizioni morali e le questioni identitarie e relazionali. Ciò permetterà di dare senso alla persona e in particolare ai suoi sentimenti, ai suoi stati e alle posizioni che occupa nel mondo, e parallelamente comprendere la funzione della sua sofferenza e mostrarci gli strumenti per poterla trasformare.
Com’è possibile ricostruire o ridare nuovamente un senso, un significato alla propria vita dopo il suicidio di una persona cara?
Questa domanda può essere interpretata in due modi diversi: da un lato assumendo una prospettiva legata alle tecniche utilizzabili in psicoterapia, dall’altra considerando quali movimenti le persone in lutto possono fare.
Nel primo caso, a volte si può trovare una comprensione compassionevole della ragione della morte della persona, altre invece non è possibile trovare alcun senso nella morte e il significato va ricercato nella propria vita e nel qui ed ora. Se si sta cercando di risanare il legame con chi si è suicidato, il modo migliore sarebbe iniziare una corrispondenza con lui, scrivere una lettera su cosa la sua morte ha significato e che impatto ha ora nella propria vita. Può essere utile leggere la lettera a distanza di tempo come se si fosse la persona morta suicida e allo stesso modo rispondere mettendosi nei suoi panni. Attraverso questo dialogo con il deceduto si promuove una comprensione maggiormente empatica e profonda, e si ricerca e rinegozia la voce dell’altro all’interno di sé, come quando in terapia si utilizza la tecnica della sedia vuota. In generale, ci sono specifici metodi con cui è possibile aiutare le persone a posizionare una tragica perdita in una sorta di prospettiva all’interno di una narrazione della loro vita. In questo modo sarà per loro possibile sviluppare una sorta di legame invece di interrompere la relazione, per esempio provando ad immaginare cosa l’amato augurerebbe loro ora, o cercando di onorare i valori che questa persona aveva.
Nel secondo caso, alcune persone trovano un significato attraverso delle azioni e delle esperienze: possono partecipare a progetti per la prevenzione del suicidio, cambiare le loro carriere lavorative così da diventare counselor e ascoltare di più la voce della sofferenza e dell’afflizione dei propri cari, diventare più sensibili ed empatici di prima; possono diventare più altruisti, meno materialisti e valorizzare di più le proprie relazioni. Tutti questi cambiamenti a volte fanno riferimento ad una crescita post-traumatica (post-traumatic growth) piuttosto che ad uno stress post-traumatico (post-traumatic stress) e le persone, a differenza di prima, possono trovare nuovi e magari anche più profondi significati nella propria vita.
Sempre in riferimento al suicidio, in Italia, con il verificarsi della crisi economica molte persone hanno perso il lavoro o hanno dovuto licenziare i propri dipendenti. La cronaca ha raccontato come alcune di queste persone si siano suicidate: mi piacerebbe sapere cosa pensa di questo fenomeno e, in seconda battuta, discutere con lei di prevenzione del suicidio.
Anche in questo caso, quando parliamo di perdita di lavoro è utile ragionare in termini di sfida o perdita di identità. Ad esempio: “Io sono qualcuno che può licenziare 50 persone e distruggere le loro vite, cosa significa per me?”. Oppure: “Io sono una persona senza carriera e senza lavoro, come posso provvedere alla mia famiglia?”. In questo senso, guardare al significato della perdita del lavoro in termini di cosa essa significa per la persona che la sperimenta, ci offre alcuni spunti di riflessione per implementare un progetto di prevenzione.
Dovremmo quindi cercare delle modalità attraverso le quali supportare le strutture identitarie delle persone, nonostante la temporanea disoccupazione, le circostanze o i licenziamenti. Penso che quando non ci si chiede quale significato tutto questo abbia per le persone coinvolte, si rischia di abbandonarle a se stesse. È necessario invece preservare il loro ruolo personale, la loro dignità e umanità, sebbene in quel preciso momento tale ruolo non sia più così chiaro. In tal senso, si parla di qualcosa di più dell’occuparsi della crisi nel momento in cui essa si verifica, focalizzandosi piuttosto su ciò che a quella persona o a quella famiglia sta venendo a mancare oltre al lavoro, in termini di posizionamenti di ruolo e implicazioni che tale situazione comporta, nonché su come gestire tutto questo.
Sappiamo che un altro suo ambito di interesse riguarda la teoria costruttivista, anche alla luce del libro che ha scritto[2]: secondo lei come è possibile divulgare il modello della PCP? Qual è la sua esperienza rispetto alla promozione di tale modello?
Penso che questo sia un interrogativo mal posto, nel senso che è proprio da una simile domanda che si origina il problema. A mio avviso, abbiamo puntato troppo sulla promozione della PCP, un po’ come missionari che cercano di convertire le folle dei non credenti e di indirizzarli verso la strada della luce e della verità. A volte, alla stregua dei cattolici, dei giudei, dei musulmani o dei credenti di altre religioni monoteiste, abbiamo l’idea che ci sia una sorta di pensiero vero, il costruttivismo (o più specificatamente la PCP), e che ci siano dei testi sacri (nel caso della PCP i due “testamenti” di Kelly). Ora sto facendo un po’ di humour rispetto a questo tema, ma penso che il problema si possa anche descrivere in termini di figura-sfondo. Tutti conosciamo la relazione tra la figura e lo sfondo: c’è qualcosa su cui focalizziamo la nostra attenzione (figura) e qualcos’altro che resta in secondo piano (sfondo). Ecco, io credo che in qualche modo abbiamo rovesciato questo concetto psicologico: consideriamo la teoria come la figura, continuando ad organizzare conferenze e scrivere libri su di essa, benché sempre meno persone partecipino alle conferenze e leggano i libri. Perché? Perché il mondo non si preoccupa della teoria, il mondo si preoccupa dei propri problemi, e ci sono molte questioni per le quali il costruttivismo può essere utile. Quindi io credo si debba incrementare l’attenzione rispetto a ciò che le persone vogliono, i loro desideri, i loro bisogni e le loro sofferenze, utilizzando il costruttivismo come background dal quale estrapolare ispirazione e spunti applicativi da giocarsi in quegli aspetti pratici che riguardano il lavorare con i bisogni delle persone.
Potremmo quindi considerare la PCP ed il costruttivismo come un dizionario attraverso il quale provare a leggere alcune esperienze…
Bella metafora! Se lei cercasse di guadagnare o costruirsi una professione vendendo dei dizionari, magari porta a porta, probabilmente non venderebbe molte copie, ma credo che ne venderebbe ancora meno se proponesse libri che parlano di dizionari! Ma se lei prendesse questi dizionari e li usasse per comprendere il linguaggio di una persona che ha un problema (clinico, familiare, sociale, a livello di organizzazioni), così da farvi luce e intravedere possibili soluzioni o alternative, allora molta gente sarebbe interessata ai suoi dizionari.
Le racconto la mia esperienza: ho appena preso parte come relatore ad una serie di conferenze qui in Australia a cui hanno partecipato moltissime persone, pagando una costosa quota di iscrizione. Perché erano così interessati secondo lei? Perché l’argomento non era la PCP tout-court, ma il lutto e la perdita e come è possibile comprenderla e lavorarci attraverso la ricostruzione di un mondo di significati che è stato messo in discussione. Per questo la gente bussa alla porta e chiede di poter partecipare. Alla stessa maniera, Chris Stevens[3] oggi ha parlato del perché il consulting business sia un successo, e benché anch’egli abbia un background costruttivista e possa fare delle citazioni, le parole Corollario della Scelta o Minaccia non usciranno mai dalla sua bocca mentre sta lavorando con le compagnie o le organizzazioni, perché esse non sono interessate alla teoria, quanto piuttosto a cosa la teoria può aiutarle a fare. Credo che questi siano modelli utili: se promuovessimo meno la teoria e invece la utilizzassimo di più, per seguire la sua metafora, come un dizionario per comprendere il significato di quello che le persone ci stanno dicendo, allora potremmo generare alcune soluzioni e processi innovativi, e quello che offriamo potrebbe essere veramente di valore.
Così, secondo lei, i costruttivisti dovrebbero affrontare la minaccia insita nel parlare meno del proprio essere costruttivisti ed esserlo maggiormente nella pratica?
Esatto. Noi parliamo un sacco di quanto il Costruttivismo possa essere minaccioso per le persone e di quanto esse cerchino di resistervi in quanto si tratta di un modello molto strano e diverso da ciò che si aspettano. La questione è che noi siamo come loro e ci comportiamo alla stessa maniera, perché desideriamo che la gente parli il nostro linguaggio e veda il mondo attraverso i nostri occhi, perché quello che vediamo attraverso i loro occhi è minaccioso per noi. Sentiamo che stiamo perdendo parte della nostra identità come costruttivisti, ma la cosa ironica è che ciò è esattamente quello che il costruttivismo richiede a noi! Se veramente miriamo a vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, non abbiamo motivo di forzare le persone a guardarlo attraverso le nostre lenti, no? Noi siamo interessati al loro modo di vedere le cose, e siamo interessati a questo tipo di posizionamento nella relazione con il mondo.
Se noi ci liberiamo dalle etichette di costruttivisti che ci identificano rapidamente come tali, come possiamo riconoscerci? In altre parole, secondo lei, quali sono i costrutti nucleari del costruttivismo?
Ecco alcuni spunti: un costrutto nucleare del Costruttivismo, che secondo me può facilmente rappresentare una sfida per chi cerca di incarnarlo, è: “Come possiamo approcciare e comprendere il sistema di costrutti di una persona radicalmente diversa da noi? Come possiamo comprendere il comportamento di qualcuno così diverso, con una compassione pari a quella che vorremmo fosse riservata anche a noi?” Questa è una prima profonda sfida. Un’altra potrebbe costituirsi nel momento in cui desideriamo e proviamo ad entrare in un mondo dove non c’è nessuna identità nucleare, nemmeno per noi costruttivisti: cosa accadrebbe nel momento in cui, sbucciando la cipolla strato per strato, al suo centro trovassimo il vuoto, piuttosto che qualcosa che la riempie? Forse la sfida, in parte ironica, sta nel lasciare l’attaccamento con cui siamo soliti approcciare le cose per vivere e fare esperienza in un mondo la cui principale caratteristica è l’impermanenza. Vede, noi vogliamo possedere cose, vogliamo definirle in un ciclo di circospezione – prelazione – controllo (ciclo dell’azione), ma io credo che la massima sfida del costruttivismo, e in una certa misura anche del Buddhismo – secondo me Kelly era in un certo senso buddhista – è riconoscere che in ultima analisi noi non abbiamo quel controllo, il mondo è illusorio, ci sono mappe che non sono il territorio e noi, creature costruttrici, creiamo queste mappe.
È importante per noi comprendere inoltre che i costrutti sono sempre limitati e modificabili, e anche quelli che sono più centrali (nucleari) per noi sono comunque costruzioni personali e sociali, non realtà ontologiche. Ma questa esistenza reale e ontologica è proprio ciò che vogliamo credere rispetto a noi stessi e agli altri quando alla fine li perdiamo, e non sorprende che né noi, né i nostri clienti, né gli esponenti di altre linee teoriche siano veramente a loro agio rispetto a questi concetti. Dopotutto ciò rivela la nostra natura umana ed in questo siamo tutti molto simili; credo dunque che la sfida ultima del costruttivismo sia un’umiltà epistemologica.
Per me l’aspetto utile del costruttivismo è che in un modo molto radicale esso ci dà non solo un dizionario con cui decodificare la nostra ansia rispetto a questi temi, ma in un certo senso ci richiede di farlo con noi stessi e con gli altri. Infine, ci mette a confronto con la riflessività, una sorta di specchio – magari imperfetto e distorto – che ci invita a guardare noi stessi con le stesse lenti con cui guardiamo gli altri, in maniera comprensibilmente imperfetta; secondo me, la “verità” o la profondità del costruttivismo consiste nel fatto che noi non abbiamo un punto di vista più speciale di quello degli altri.
Avrei molte altre domande riguardo a come divulgare il costruttivismo, ma mi interessa conoscere il suo punto di vista rispetto alle Evidence Based Therapies.
Rispetto alle Evidence Based Therapies (EBT) applicate alla psicoterapia posso dirle che solitamente cerco di evitare il discorso, perché secondo me la logica sottostante è quella di privilegiare alcune posizioni assumendole come legittime, potenti e meritevoli rispetto ad altre considerate illegittime, meno potenti e meritevoli. Quello che noi sappiamo sulle EBT è che non ci sono evidenze della superiorità di un modello psicoterapeutico rispetto ad un altro. Sappiamo anche che la differenza nell’efficacia della psicoterapia a seconda che si utilizzino modelli diversi è veramente piccola, e che il grado di cambiamento più ampio può essere attribuito alla relazione terapeutica o all’attività (proattività) del cliente. Credo perciò che tutte le discussioni sulle EBT seguano una logica utilitaristica e di mercato e che, a seconda delle direzioni impresse dal potere politico ed economico, vengano concentrate le risorse in maniera da promuovere alcuni modelli ed invalidarne altri. In questo modo però si giunge alla soppressione dell’innovazione, scoraggiando le nuove sperimentazioni e il percorrere nuove alternative, in favore di una manualizzazione della pratica.
Credo che potremmo essere molto più creativi, sebbene rigorosi, nell’implementare nuove pratiche, ma preferiamo criticare i fallimenti degli altri invece di dirci “Ok, io ho intenzione di formulare una pratica che sia nuova e voglio vedere che impatto ha sulle persone”. Credo ci siano almeno due aspetti da considerare: entrare nella prospettiva di chi utilizza le EBT e tentare di guardare il mondo con i loro occhi e le loro logiche, tra cui quella della verifica.
Io non credo sia onesto da parte nostra fare un passo indietro e rimanere nella logica della critica, senza produrre e promuovere delle alternative. In definitiva, quindi, mi trovo in una sorta di ambivalenza: credo che ci sia modo di criticare le EBT, ma anche modo di criticare noi stessi, per non essere disposti a lavorare nell’ottica di mutuare le EBT anche nella nostra pratica.
C’è chi sostiene che per poter promuovere il proprio approccio teorico, rendendolo visibile, si debba avere accesso a delle posizioni di potere: cosa ne pensa?
Probabilmente è vero che dobbiamo combattere battaglie politiche, assicurarci una posizione, dei finanziatori e riviste scientificamente quotate. Forse lo sforzo sociale necessario per creare uno spazio nel quale inserire la teoria serve, ma in ultima analisi credo che i passi avanti fatti in questo senso siano fragili e vengano costantemente influenzati dalla ricerca del potere e della visibilità. Penso che guadagnarsi una posizione non con la forza, ma grazie a ciò che si riesce a realizzare, la renda più solida, in grado di evolversi ed essere aperta al dialogo con altri modelli e prospettive teoriche. É probabile che ogni problema umano complesso, che sia a livello individuale, familiare, sociale o addirittura planetario, richieda più di ciò che ogni singola prospettiva può offrire se scissa da tutte le altre. Se noi ci vogliamo occupare dei problemi e dei desideri delle persone, abbiamo bisogno di punti di vista multidimensionali e di riconoscere che la nostra teoria è solo una parte di quello di cui abbiamo bisogno. Credo infine che il costruttivismo, ed in particolare Kelly, siano in linea con quanto appena descritto: Kelly ha detto che la teoria è costruita in modo che possa essere resa obsoleta, ma noi non siamo abbastanza disposti a fare dei passi affinché la teoria possa svilupparsi, incontrare nuove prospettive e produrre nuovi stimoli. Credo che il mero tentativo di preservare il pensiero e le opere di Kelly non sia una direzione che porta all’evoluzione.
Per concludere le chiedo: cosa ne pensa del filone della Oral History come modalità per divulgare la conoscenza?
Mi piace l’idea, in un certo senso è ciò che stiamo facendo anche ora, attraverso questa intervista. Quando io avevo la sua età e stavo scrivendo la mia tesi di dottorato, la maggior parte del lavoro riguardava l’intervistare persone, a quel tempo leader nell’ambito del costruttivismo, tra cui Fay Fransella, Miller Mair, Don Bannister, Al Landfield. Io non ero certo l’unico a lavorare in tale direzione, ed anche Fay Fransella si occupò in modo molto interessante di Oral History, oltre a scrivere su Kelly. Credo che presentare le storie di alcune persone sia un lavoro valido, ma penso anche che sia difficile rendere interessanti agli altri le vite dei costruttivisti – o per essere molto specifici la vita di Kelly – senza trasformarlo in un oracolo. Solo se una persona nutrisse già interesse per questo approccio potrebbe essere interessata a leggere tali lavori. Per me è necessario fare un passo indietro, cercando di mostrare come la teoria possa essere applicata alla vita di ognuno; in questo modo sarà possibile interessarsi alla teoria ed in un secondo momento alle persone che con il loro lavoro stanno portando avanti la teoria stessa.
Professor Neimeyer, la ringrazio per il tempo che mi ha concesso e per averci dato la possibilità di osservare con uno sguardo diverso non solo il tema del lutto e del suicidio, ma anche la teoria stessa attraverso cui cerchiamo di leggere i processi umani.
Grazie a lei.
Note
- Ecker, B., & Hulley, L. (1996). Depth oriented brief therapy: How to be brief when you were trained to be deep and vice versa. San Francisco, CA: Jossey- Bass. ↑
- Neimeyer, R. A. (2009). Constructivist psychotherapy. London: Routledge. ↑
- Stevens, C. (2013, July). Autobiography of a (unintentionally) constructivist consulting company. Paper presented at the 20th International Congress of Personal Construct Psychology, Sydney, Australia. ↑