Tempo di lettura stimato: 25 minuti
Tempo di lettura stimato: 25 minuti

I piaceri del pluralismo: l’anticipazione intersoggettiva, il funzionamento delle spiegazioni e la conversazione come guerra di tutti contro tutti

Intersubjective Anticipation: Accountability, Anticipation, and Conversation as a Zero-Sum Game or, the (Real) Pleasures of a Pluralistic Society

di

Carmen Dell’Aversano

Università di Pisa

 

traduzione a cura di

Carmen Dell’Aversano

Abstract

Il presente lavoro si pone quattro diversi obiettivi. Il primo è teorico: illustrare come i corollari della comunanza e della socialità possano essere connessi da un nuovo costrutto teorico,“anticipazione intersoggettiva”. Il secondo è esplorare il potere applicativo di questo nuovo costrutto, e dimostrarne l’utilità, focalizzandosi su un unico fattore, nell’analisi del suo funzionamento. Il terzo è affrontare un importante problema teorico della PCP, ovvero come l’azione distintiva del soggetto Kellyano, l’anticipazione, venga messa in atto. Il quarto è illustrare come queste riflessioni teoriche siano rilevanti rispetto ad alcuni dei problemi più pressanti delle società multiculturali odierne.

Queste finalità sono perseguite attraverso la dimostrazione sistematica del funzionamento del costrutto teorico “soggetto a spiegazione-non soggetto a spiegazione”, elaborato dal sociologo americano Harvey Sacks.

The purpose of this paper is fourfold. The first is theoretical: to show how the Commonality and Sociality corollaries can be connected in a new theoretical construct, “intersubjective anticipation”. The second is to explore the applicability of this new construct, and to demonstrate its usefulness, by focusing on the analysis of a single factor in its functioning. The third is to address a major theoretical issue within PCP, that of how the defining act of the Kellian subject, anticipation, is actually performed. The fourth is to show how these theoretical musings are relevant to some of the most urgent issues in present-day multicultural societies. These aims are pursued through a systematic demonstration of the workings of a theoretical construct by US sociologist Harvey Sacks, “accountable/not accountable.”

Keywords:
Intersoggettività, anticipazione, dispositivo della spiegazione, Harvey Sacks, corollari PCP | Intersubjectivity, anticipation, accountability device, Harvey Sacks, PCP corollaries

1. Due introduzioni

 

1.1 Introduzione metodologica

Nel corso dell’ Open Space Technology del XIII congresso EPCA nel luglio del 2016 proposi una discussione di gruppo sui poli sommersi della teoria kellyana. Nei due anni intercorsi tra il congresso e la stesura di questo lavoro la mia ricerca in ambito PCP è stata focalizzata sui collegamenti tra i corollari di comunanza e di socialità. Nelle loro formulazioni ammirevolmente astratte, i corollari riescono a evitare di sollevare alcune importanti questioni: quella di come le costruzioni dell’esperienza impiegate da persone diverse possano giungere a essere simili (fatto che, alla luce della validità incondizionata, e pertanto della posizione logicamente sovraordinata, del corollario di individualità,[2] in una prospettiva PCP necessita chiaramente di spiegazione), o degli effetti presumibilmente assai diversi di costruzioni delle esperienze altrui che vengono sistematicamente validate rispetto a quelle che richiedono l’esercizio continuo, capillare e inflessibile dell’ostilità per essere salvate dalla rottamazione. Inoltre, per quanto ne so, nonostante la considerevole attenzione che di recente è stata dedicata (sia in ambito PCP sia fuori) all’affascinante questione dell’intersoggettività, continua a mancare ad oggi qualsiasi tentativo di esplorare il collegamento tra i due corollari: esistono situazioni in cui le persone non si limitano a “costruire i processi di costruzione degli altri” (come afferma il corollario di socialità), ma in cui lo fanno sulla base di una “costruzione simile dell’esperienza”, vale a dire a causa della comunanza. Non solo, ma lo fanno essendo pienamente e continuamente consapevoli di questa somiglianza tra la propria costruzione e quella altrui, e del fatto che anche gli altri ne sono consapevoli. L’importanza di questo genere di situazioni, che potremmo definire di “anticipazione intersoggettiva”, a causa sia della loro considerevole frequenza, sia del loro rilievo nella vita sociale e nelle relazioni interpersonali, è tutt’altro che trascurabile. Questo le rende, a mio parere, meritevoli di essere indagate.

Questo lavoro rappresenta un tentativo di intraprendere questa indagine dell’anticipazione intersoggettiva attraverso l’esame di un unico fattore, rigorosamente definito e delimitato, tra quelli che la determinano. Il mio augurio è che rappresenti anche un contributo alla discussione di un altro concetto fondamentale della PCP. Sia gli scritti di Kelly che i successivi sviluppi della PCP sono stati capaci di un’eloquenza emozionante sul tema dell’importanza dell’anticipazione, ma stranamente silenziosi sulla questione di come facciano le persone ad anticipare. (Si tratta di una svista abbastanza tipica tra i fondatori di teorie psicologiche di brillantezza cosmogonica e di monumentale influenza: Freud affermò che le persone rimuovono, e fece della repressione un costrutto nucleare della psicoanalisi, ma abbiamo dovuto aspettare Billig 1999 per avere un’idea di come facciano. Attenzione spoiler: verrà fuori che dispositivi conversazionali giocano un ruolo decisivo in entrambe queste notevoli prodezze di psicologia “individuale”.)

Spero che queste considerazioni saranno sufficienti a convincere i teorici della PCP, i terapeuti kellyani e (da quello che posso anticipare relativamente ai lettori di questo lavoro) iscritti, pur in assenza di tessere e di quote, alla George Kelly Society, a dedicare la propria attenzione al lavoro che per la maggior parte non menziona la PCP o Kelly, ma che è stato concepito e scritto allo scopo di chiarire costrutti nucleari della PCP, e di mostrare come teorie che in apparenza non sono collegate a quella di Kelly possono aiutarci a diventare consapevoli di falle teoriche nel monolito della PCP, e a intraprendere il lavoro di colmarle.

 

1.2 Introduzione aneddotica

Il feed Facebook di qualunque vegan che ingenuamente trascuri di escludere dai propri contatti tutti gli onnivori è un luogo ideale per osservare un curioso fenomeno retorico. La gente non si limita a postare immagini a suo parere appetitose dei piatti di carne che sta per consumare (come farebbe per una zuppa di legumi o un’insalata) ma, in un numero straordinariamente alto di casi, ritiene opportuno aggiungere il commento, l’hashtag o anche la didascalia “Alla faccia dei vegani!”[3]

La ragione per cui scelgo di rendere oggetto di attenzione questo fenomeno apparentemente banale è che sono convinta che la sua analisi possa offrire elementi di centrale importanza per una comprensione del reale impatto del multiculturalismo sulle vite di una notevole proporzione delle persone che si trovano oggi a vivere in società multiculturali. Una comprensione dell’effettiva esperienza vissuta del multiculturalismo (che ritengo sia dimostrabilmente assai diversa da quella che ci viene presentata dai rassicuranti luoghi comuni del pluralismo progressista) può, a sua volta, esserci di aiuto per comprendere una serie di posizioni politiche, etiche e pratiche che la maggior parte dei pluralisti progressisti (come me e, credo, come la maggioranza dei miei lettori) trovano profondamente problematiche, inquietanti e angoscianti.

Com’è evidente dal fatto che condividono abitualmente con centinaia o migliaia di contatti immagini dei loro piatti di carne, queste persone sono perfettamente a proprio agio nel consumare carne. È altrettanto evidente che conoscano l’esistenza del veganismo, e con ogni probabilità abbiano incontrato dei vegani, altrimenti non sarebbero in grado di immaginarli come destinatari delle proprie provocazioni.

Vale la pena di osservare che questi incontri con la differenza per qualche motivo non sembrano aver avuto come risultato l’apertura di mente e di orizzonti, l’esame di coscienza, l’onesta e profonda messa in questione dei propri pregiudizi culminante (musica di sottofondo) nella ricostruzione che viene considerata la loro necessaria conseguenza nel paradigma progressista dell’ottimismo illuminista. Al contrario, hanno portato alla polarizzazione, all’ostilità (sia nel senso kellyano che in quello non kellyano) e, non di rado, alla violenza.[4] Da questo punto di vista l’esperienza degli onnivori messi a confronto con il veganismo mostra interessanti analogie con quella di un immenso numero di persone che hanno sempre dato per scontato, in maniera del tutto istintiva, che il loro modo di vivere fosse il modo “normale”, “naturale”, l’“unico modo” in cui gli esseri umani potessero vivere, per poi sperimentare la messa in questione di quel rassicurante costrutto nucleare da parte di qualcuno che sostiene valori completamente diversi, e che di conseguenza vive in maniera completamente diversa. Vale a dire, con l’esperienza di molte delle persone che, senza averlo desiderato né programmato, si trovano oggi a vivere in una società multiculturale.

Credo che alcuni aspetti cruciali di questa esperienza possano essere spiegati attraverso l’uso di un costrutto teorico elaborato dal sociologo statunitense Harvey Sacks all’inizio degli anni Sessanta, e che questa spiegazione possa avere ripercussioni potenzialmente assai profonde ed estese sul modo in cui viene concettualizzato il multiculturalismo, e in cui vengono anticipate le sue conseguenze. Il costrutto è “soggetto a spiegazione/non soggetto a spiegazione”.

 

2. Le spiegazioni

Sacks introduce il concetto di “azione soggetta a spiegazione” nella primissima delle sue Lectures on Conversation:[5]

What one does with “Why?” is to propose about some action that it is an “accountable action”. That is to say, “Why?” is a way of asking for an account. Accounts are most extraordinary. And the use of accounts and the use of requests for accounts are very highly regulated phenomena (Sacks, 1992, I, p. 4).

Tra le norme sociali che regolano le spiegazioni, la prima è che non tutte le attività possono essere considerate “soggette a spiegazione”:[6]

A: Hope you have a good time.

B: Why?

The “Why?” here is quite apparently a paranoid return, and the whole conversation from which this comes makes it quite clear that the person who produces it is paranoid. (Sacks, 1992, I, p. 19)

Come risulta evidente dall’esempio di Sacks, le sanzioni sociali per chi confonde attività “soggette” e “non soggette a spiegazione” possono essere gravi: trattare un’attività “non soggetta a spiegazione” come “soggetta a spiegazione” implica il rischio di una diagnosi pischiatrica (più o meno ufficiale); un caso meno devastante sono le reazioni tutt’altro che amichevoli descritte da Garfinkel nei suoi resoconti di breaching experiments.[7]

Le conseguenze etiche, sociali e politiche di questa regola non possono essere sopravvalutate. In conseguenza del suo funzionamento automatico, onnipresente, e quasi impercettibile, diventa quasi impossibile esprimere dubbi sulle pratiche e sui valori socialmente maggioritari; questo conferisce loro il potere, che si dimostra di un’efficacia soverchiante, di stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in questione lo status quo, e pertanto di rendere straordinariamente difficili la nascita di una coscienza critica, l’espressione del dissenso, la pratica dell’attivismo e la realizzazione del progresso. Nella stragrande maggioranza delle situazioni sociali, domande come “Perché i bambini devono avere due genitori di sessi diversi?”, “Perché i bambini non possono avere più di due genitori?”, “Perché una persona che per anni è stata residente di un paese dove paga regolarmente le tasse non è cittadina di quel paese?” o, se è per questo “Perché consumi prodotti animali?” non vengono considerate degne di una risposta razionalmente argomentata proporzionata al considerevolissimo peso etico e politico delle questioni che sollevano, e vengono invece liquidate con una serie di trucchetti che non potrebbero in alcun modo essere impiegati per reagire a una richiesta di spiegazione socialmente percepita come legittima: ridicolizzando la persona che ha posto la domanda, insinuando che il suo interesse per la questione deriva da motivazioni dubbie, dichiarando che la propria posizione non soltanto è auto-evidentemente giusta ma che, siccome è quella “normale” e “naturale” non contempla alternative, trattando la richiesta di spiegazioni come una provocazione, o semplicemente ignorandola.

Altrettanto rilevanti per la pragmatica del concetto di “soggetto a spiegazione” sono altre due osservazioni di Sacks in altri punti delle Lectures.[8]

Variations from ‘normal’ are noticeable phenomena. […] And if the product of some monitoring comes up with one of the variant states, that provides that that state is noticeable, and provides, then, an occasion for an account of that variant state. That is, it provides for an inquiry being launched as to how come it’s that. (Sacks, 1992, I, p. 58)

Questo vuol dire che l’essere “soggetti a spiegazione” è una proprietà sociale degli stati che vengono percepiti come “alternativi rispetto alla norma”. Questa è la seconda norma che regola le spiegazioni: ad esempio, spero di non essere l’unica ad aver notato che, anche se le teorie sull’eziologia dell’omosessualità proliferano, non è mai stata avanzata alcuna teoria sull’eziologia dell’eterosessualità.[9]

Inoltre le spiegazioni sono sempre potenzialmente controverse:[10]

the task of the person who is offered the account can then be to, in some way, counter it. (Sacks, 1992, I, p. 5)

L’adeguatezza di qualsiasi spiegazione è valutata dalla persona che l’ha richiesta, la quale ha il diritto di metterla in questione o di respingerla a proprio insindacabile arbitrio. Questa è la terza norma che regola le spiegazioni: in conseguenza del suo funzionamento, etichettare qualcosa come “soggetto a spiegazione” significa implicitamente, e quasi necessariamente, collocare la persona a cui viene richiesto di presentare la spiegazione in una posizione di inferiorità, dal momento che presentare una spiegazione vuol dire trovarsi alla mercé dell’ascoltatore, che è libero di accettarla, metterla in questione o respingerla. In pratica, uno degli effetti relazionali dell’uso del dispositivo della spiegazione è quello di trasformare le identità dei partecipanti a uno scambio conversazionale in quelle di giudice e di imputato; l’impatto psicologico e sociale di questa trasformazione può essere molto grave.

La misura di questa gravità può essere inferita da un esempio che Sacks discute in maniera relativamente approfondita:[11]

The fact that you could use questions – like “Why?” – to generate accounts, and then use accounts to control activities, can be marked down as, I think, one of the greatest discoveries in Western civilization. It may well be that is what Socrates discovered. With his dialectic he found a set of procedures by which this thing, which was not used systematically, could become a systematic device. Socrates will constantly ask “Why?,” there will be an answer, and he’ll go on to show that that can’t be the answer. And that persons were terribly pained to go through his whole business is clear enough from the Dialogues. And it’s also clear in our own experiences. (Sacks, 1992, I, p. 118)

La reale (ed epocale) portata dell’operazione compiuta da Socrate è oggetto di un’analisi memorabile da parte di Nietzsche:

nelle sue peregrinazioni critiche per Atene, egli [Socrate] incontrava dappertutto, parlando con i maggiori statisti, oratori, poeti e artisti, la presunzione del sapere. Vide con stupore che tutte quelle celebrità non avevano un’idea giusta e sicura neanche della loro professione, e che la esercitavano solo per istinto. “Solo per istinto”: con questa espressione tocchiamo il cuore e il centro della tendenza socratica. Con essa il socratismo condanna tanto l’arte vigente quanto l’etica vigente: dovunque esso volga i suoi sguardi indagatori, vede la mancanza di intelligenza e la potenza dell’illusione, e da questa mancanza deduce l’intima assurdità e riprovevolezza di quanto esiste nel presente. Partendo da questo punto, Socrate credette di dover correggere l’esistenza[.] [Friedrich Nietzsche, Nascita della tragedia, Adelphi, 1982, p. 90]

E naturalmente gli ateniesi alla fine ne ebbero abbastanza dell’atteggiamento di Socrate, che ignorava sistematicamente la distinzione sociale tra opinioni, atteggiamenti e comportamenti soggetti e non soggetti a spiegazione, e del suo riflesso di mettere invariabilmente in discussione le spiegazioni che gli venivano fornite – e lo condannarono a morte.

Rispetto all’epoca di Socrate, noi abbiamo compiuto qualche progresso: nella nostra cultura tutte le forme di conoscenza specialistica considerano, almeno in linea di principio, ugualmente soggetti a spiegazione tutti gli stati del mondo e tutte le opinioni e le azioni: la medicina si pone il problema di spiegare sia come funziona normalmente la digestione (fisiologia), sia come nella digestione qualcosa possa andare storto (patologia), e un medico che non fosse in grado di spiegare com’è arrivato a una diagnosi, o perché propone una terapia, si ritroverebbe rapidamente senza pazienti. Si tratta di un progresso notevole, ma rigidamente circoscritto: nelle relazioni interpersonali, nelle situazioni sociali, nella vita politica la situazione è ancor oggi esattamente analoga a quella dei tempi di Socrate, con una divisione netta e inequivocabile tra stati del mondo soggetti e non soggetti a spiegazione; e in tutti gli ambiti in cui la conoscenza specialistica interseca i valori sociali si generano situazioni fortemente ambigue: ad esempio, la stragrande maggioranza dei pediatri statunitensi considerano imprescindibile tagliare via un pezzo del pene di tutti i neonati maschi, mentre i pediatri del resto del mondo ritengono che sottoporre un neonato che non manifesta alcun sintomo a un intervento chirurgico sia una prassi professionale non giustificabile.

Nel loro insieme, le proprietà del funzionamento delle spiegazioni che abbiamo enunciato chiariscono il ruolo fondamentale che il dispositivo della richiesta di spiegazioni gioca nel controllo sociale della devianza. Ciò che accade è che qualsiasi deviazione osservabile dalla norma può innescare il seguente processo:

1) al “deviante” viene chiesta una spiegazione;

2) il deviante ha l’obbligo sociale di fornirla;

3) la sua spiegazione viene considerata insoddisfacente;

4-∞) si ricomincia da 1.

 

3. Spiegazioni e conversazioni: la dimensione fatico-epidittica del discorso

Il funzionamento e gli effetti del dispositivo della richiesta di spiegazioni sono un caso focale di anticipazione intersoggettiva. Sia la persona che richiede una spiegazione, sia quella a cui la spiegazione viene richiesta sono in grado di anticipare correttamente lo svolgimento di questo processo nei più minuti e (almeno per il “deviante”) più sgradevoli dettagli. E il motivo per cui lo sono non è soltanto che entrambi sono cresciuti in una società in cui questo dispositivo è oggetto di un impiego pubblico e ubiquitario, ma che il luogo sociale dove il dispositivo della spiegazione viene impiegato è un contesto nel quale tutti i membri di una cultura vengono socializzati a partire da un momento di poco successivo alla nascita: lo scambio conversazionale informale.[12]

Per lungo tempo il genere di conversazione oziosa e apparentemente non focalizzata che costituisce il fondamento dello scambio sociale informale è stata concettualizzata, secondo la teoria della comunione fàtica di Malinowski, “a type of speech in which ties of union are created by a mere exchange of words”[13], uno dei cui caposaldi era che nella comunione fàtica il contenuto delle parole scambiate era irrilevante:[14]

Let us look at it [Phatic Communion] from the special point of view with which we are here concerned; let us ask what light it throws on the function or nature of language. Are words in Phatic Communion used primarily to convey meaning, the meaning which is symbolically theirs? Certainly not! They fulfill a social function and that is their principal aim, but they are neither the result of intellectual reflection, nor do they necessarily arouse reflection in the listener. Once again we may say that language does not function here as a means of transmission of thought. (Malinowski, 1923, p. 315)

Di recente il teorico della letteratura italiano Alessandro Grilli (2018) ha proposto una revisione della teoria di Malinowski. Grilli sostiene che[15]

Phatic communion is the locus where socially shared knowledge about the world is ritually rehearsed and socially transmitted. This is why I have chosen to replace Malinowski’s concept of “phatic communion” with that of a “phatic-epideictic dimension” of discourse. In Western rhetorical tradition “epideictic” designates a kind of speech which is aimed not at persuading the audience but at rehearsing already shared beliefs. However, such a rehearsing is only apparently neutral, since it shapes the socially shared sense of reality; therefore what may appear as idle and benign, actually conceals a powerful repressive thrust against any and all deviations from the norm, as is apparent, for instance, in the social function of gossip. (Grilli, 2018, p. 114)

Lungi dall’essere irrilevanti, i contenuti banali della comunione fàtico-epidittica, per la loro stessa banalità, costituiscono, ribadiscono e sostengono la normalità, ed esercitano un’azione repressiva costante e pervasiva sulla devianza. Quest’azione si realizza in primo luogo ribadendo continuamente l’allineamento e l’adesione alla normalità dei partecipanti agli scambi comunicativi in un’immensa quantità e varietà di situazioni quotidiane. I contenuti della comunione fàtico-epidittica sono infatti onnipresenti e, proprio per la loro ovvietà, la loro dimensione ideologica non viene né problematizzata né percepita: ad esempio, quando guardiamo uno spot, siamo consapevoli che il suo scopo è indurci ad acquistare il prodotto pubblicizzato, e pertanto possiamo esercitare una qualche forma di vigilanza e di critica rispetto a questo contenuto; ma è possibile che ci sfugga completamente un’altra dimensione del suo contenuto, almeno altrettanto significativa. I personaggi, le situazioni e gli ambienti rappresentati presuppongono come “normali”, persino come “naturali”, una serie di altri contenuti su cui potrebbe essere opportuno esercitare una vigilanza e una critica almeno altrettanto consapevoli: ad esempio, il fatto che una famiglia sia composta da madre, padre e bambini, tutti della stessa razza, tutti non disabili, di determinate età e con un determinato aspetto fisico; che i loro ruoli e i loro schemi di interazione seguano copioni ben definiti e immediatamente riconoscibili; che le persone nella loro vita seguano ben precise abitudini di comportamento e di consumo, e così via. Il vero prodotto propagandato dalla pubblicità – come da tutte le forme di comunicazione, dalle chiacchiere da bar all’articolo di fondo, dai telegiornali al reality show – non è un singolo prodotto, che potremmo anche scegliere di non consumare, bensì una forma di vita, che viene presentata come naturale e di conseguenza, per l’assenza di alternative concepibili e praticabili, come obbligatoria. La miriade di aspetti che concorrono a comporla – preferenze, aspirazioni, comportamenti, convinzioni, desideri, relazioni… – vengono naturalizzati attraverso una propaganda martellante che costituisce il vero contenuto della comunione fàtico-epidittica, e che ha tra le proprie principali funzioni la marginalizzazione e stigmatizzazione della devianza attraverso una serie di dispositivi.

Tra questi dispositivi uno dei più importanti, sia per i suoi effetti devastanti sia per la frequenza con cui viene impiegato, è appunto quello della richiesta di spiegazioni.

Tuttavia, il fatto stesso che l’uso del dispositivo della richiesta di spiegazioni nel controllo e nella repressione della devianza sia così diffuso e così visibile permette ai membri di un gruppo sociale di anticipare con precisione praticamente assoluta le innumerevoli azioni, atteggiamenti e opinioni per cui il dispositivo non sarà impiegabile (si veda sopra l’inizio della sezione 2). Questo è un caso focale di anticipazione intersoggettiva, dove la comunanza genera la socialità: il fatto che il soggetto “impieghi una costruzione dell’esperienza che è simile a quella impiegata da un altro” è il motivo per cui non soltanto “i suoi processi psicologici sono simili a quelli impiegati dall’altra persona” ma per cui “costruisce i processi di costruzione” dell’altra persona. E lo fa correttamente. Di conseguenza, non sorprendentemente, i comportamenti osservabili della maggior parte delle persone tendono a mantenersi aderenti al polo “non soggetto a spiegazione” del costrutto “soggetto/non soggetto a spiegazione”.

 

4. I piaceri del multiculturalismo

Questa rassicurante universale collusione nell’uso del dispositivo della richiesta di spiegazioni da parte dei normali per la repressione dei devianti comincia a sgretolarsi nel momento in cui ai normali comincia a essere richiesto di spiegare la loro “normalità”, che dovrebbe per definizione essere al riparo dall’impatto devastante del dispositivo. Questo può avvenire in due modi. Il primo è in conseguenza del semplice contatto con una cultura diversa: se in un gruppo sociale tutti vanno in chiesa ogni domenica, nessuno si sognerà di richiedere una spiegazione di questa abitudine, pur piuttosto peculiare; tuttavia, non appena il gruppo entra in relazione con un altro gruppo, dove la gente va alla moschea il venerdì, o in sinagoga il sabato, o si fa gli affari propri in tutti e tre i giorni, i suoi membri smetteranno di considerare ciò che fanno come qualcosa di “normale”, di “naturale”, come “la sola possibile cosa da fare”, e cominceranno invece a percepirlo come qualcosa per cui va cercata e trovata una motivazione, vale a dire come qualcosa di soggetto a spiegazione; il problema è che, come chiariscono le acute osservazioni di Nietzsche su Socrate, ciò che si fa “solo per istinto” non è agevolmente motivabile; e questo del tutto a prescindere dal fatto che non esiste alcuna spiegazione che non possa essere giudicata insufficiente e respinta al mittente. La sinergia di queste due componenti rende la situazione del contatto interculturale considerevolmente stressante.

È importante notare che, nella situazione che stiamo delineando, la necessità di spiegazioni non dipende da una richiesta esplicita formulata da qualcuno, ma viene percepita dai “normali” unicamente in conseguenza del mutamento della composizione del loro ambiente sociale: questo vuol dire che il contatto interculturale è stressante per motivi intrinseci. Un secondo caso, teoricamente e praticamente distinto, è quello in cui una minoranza mette in questione il proprio status di deviante, rifiuta di continuare a subire gli effetti repressivi del dispositivo di spiegazione, e prende invece la parola per chiedere spiegazioni (che risulteranno naturalmente insufficienti) riguardo al trattamento discriminatorio di cui è oggetto. Questo è ciò che è accaduto negli ultimi decenni, e sta ancora accadendo oggi, nei rapporti tra non bianchi e bianchi, tra donne e uomini, tra persone omosessuali o trans ed eterosessuali cisgender, tra disabili e abili, e tra vegani e onnivori.

Malgrado tutto ciò che ci piacerebbe pensare, nella stragrande maggioranza dei casi, coloro che improvvisamente si trovano costretti ad esperire il proprio “naturale” modo di vivere come qualcosa di soggetto a spiegazione non vengono da questo indotti a un serio e onesto esame di coscienza o a un cambiamento nei loro costrutti nucleari, dal momento che queste sono entrambe attività di cui la stragrande maggioranza degli umani è completamente incapace. Constatare che il dispositivo della richiesta di spiegazioni, che avevano usato in maniera costante e sistematica per tenere i devianti al loro posto, adesso viene usato contro di loro li fa semplicemente imbufalire, e li induce a concepire un odio feroce per i “nuovi arrivati”,[16] a cui attribuiscono la responsabilità di questa situazione.

Questo è il motivo per cui una società multiculturale è stressante; e questo è il motivo per cui il richiamo nostalgico ad un passato monoculturale (vale a dire, ad una situazione in cui le minoranze erano oggetto di un’oppressione così assoluta e sistematica che le loro voci non erano udibili, e i loro punti di vista potevano essere considerati inesistenti) eserciterà sempre un fascino su tutti coloro che non sono abituati a trovarsi nella posizione di qualcuno da cui ci si aspetta che debba fornire delle spiegazioni.

La reazione riflessa degli onnivori militanti (del genere “Alla faccia dei vegani!”) al tentativo dei vegani di rendere il consumo di prodotti animali qualcosa per cui si deve fornire una spiegazione è che i vegani meritano le loro rappresaglie perché si macchiano della colpa di limitare la libertà personale di altri soggetti esigendo un cambiamento delle loro abitudini di vita. Sfortunatamente per i sostenitori progressisti del pluralismo democratico, questa reazione è non soltanto perfettamente legittima e assolutamente ragionevole, ma può anzi essere generalizzata, con conseguenze potenzialmente assai sinistre, ad un immenso numero di situazioni in relazione alle quali la sua rilevanza può non essere, per la maggior parte di noi, immediatamente evidente.

Per tutto il corso della storia umana documentata, i “normali” si sono sempre definiti in maniera differenziale, per opposizione a una serie di categorie “devianti”. I poveri, le persone di razze diverse (in patria o all’estero), le minoranze sessuali, i disabili e, naturalmente, le donne (per non citare che gli esempi più vistosi) erano universalmente e tacitamente esclusi dal godimento dei diritti; non solo, ma quasi nessuno percepiva questa situazione come in alcun modo problematica o meritevole di essere emendata; al punto tale che riconoscere l’umanità degli appartenenti a questi gruppi era oggetto di sanzioni sociali e, talvolta, legali. Di conseguenza i “normali” sono stati in grado di creare una situazione che potremmo definire di “universalismo tribale”, in cui ai valori, agli interessi e alla visione del mondo di una parte della popolazione veniva conferita una validità naturale, universale e sancita da Dio, mentre tutti gli altri punti di vista venivano non semplicemente marginalizzati o cancellati, ma considerati inesistenti. Per i detentori dei biglietti vincenti di questa lotteria, la percezione immediata e la convinzione incrollabile della propria naturale superiorità rispetto a una massa razzialmente, socialmente, cognitivamente, sessualmente (ecc.) deviante non era soltanto una fonte di considerevole privilegio materiale, bensì anche e soprattutto il fondamento del proprio senso del sé, cosa che risulta del resto chiarissima dalla presenza massiccia di affermazioni di pregiudizio razzista, sessista, omofobo (ecc.) nel discorso sociale, e dalla loro evidente funzione fàtico-epidittica.

È impossibile comprendere il sessismo, il razzismo, l’abilismo, l’omofobia, la transfobia, la xenofobia ed altre simili aberrazioni a meno di non essere disposti a rendersi conto che ciò che il pluralismo democratico chiede ai “normali” è di rinunciare a una condizione di privilegio che si differenzia da quella di cui godono gli onnivori rispetto agli altri animali per ragioni quantitative più che qualitative.

Da questo punto di vista, malgrado ciò che a tutti noi piacerebbe pensare, il pluralismo democratico non è una “situazione win/win”, bensì un gioco a somma zero, perché i privilegi di cui i “normali” hanno goduto come di un diritto naturale fin dagli albori dei tempi sono logicamente e praticamente incompatibili con l’affermazione dei diritti dei gruppi che hanno da sempre oppresso. Per un numero sinistramente alto di persone i loro diritti sono sanciti e fondati dalla “naturale” inferiorità di qualcun altro, umano o non umano che sia, e da questa necessariamente dipendono. Costoro esperiranno, con ottime ragioni, lo slogan del pluralismo democratico, “uguali diritti a tutti”, come un tentativo di depredarli dei loro diritti naturali, tentativo che giustifica e merita una reazione senza compromessi, e se necessario violenta. In questo momento stiamo sperimentando quella reazione; la situazione, per quanto profondamente inquietante ed estremamente allarmante, non ha nulla di sorprendente.

Buona fortuna a tutti noi: agli umani come ai non umani.

 

Bibliografia

Billig, M. (1999). Freudian Repression: Conversation Creating the Unconscious, Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Epting, F., Raskin, J., Burke, T. (1994). Who is a homosexual? A critique of the heterosexual‐homosexual dimension, The Humanistic Psychologist, 22(3), 353-370.

Garfinkel, H. (1967). Studies in Ethnomethodology. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall.

Grilli, A. (2018). On doing ‘being a misfit’: towards a constrastive grammar of ordinariness. Whatever. A Transdisciplinary Journal of Queer Theories and Studies, 1, 105–121 (https://whatever.cirque.unipi.it/index.php/journal).

Malinowski, B. (1923). The problem of meaning in primitive language. In C. K. Ogden & I. A. Richards (Eds.), The meaning of meaning: A study of the influence of language upon thought and of the science of symbolism (pp. 296–336). New York, NY: Harcourt, Brace & World.

Nietzsche, F. (1872). La nascita della tragedia, Adelphi, 1982 (prima edizione originale 1872).

Sacks, H. (1992). Lectures on Conversation. G. Jefferson & E. Schegloff (Eds.), 2 vols., Oxford: Blackwell.

 

Note sull’autore

 

Carmen Dell’Aversano

Università di Pisa

carmen.dellaversano@unipi.it

Insegna nel dipartimento di scienze umane dell’Università di Pisa e in diversi istituti di formazione in psicoterapia (Institute of Constructivist Psychology di Padova; European Institute of Systemic-Relational Therapies di Milano; Centro studi in Psicoterapia Cognitiva di Firenze). I suoi interessi di ricerca principali, gli studi ebraici, il costruttivismo, e i diritti animali, abbracciano le aree della teoria letteraria, della psicologia, dell’analisi del discorso e della teoria queer. Nel 2015, insieme a colleghi di varie istituzioni italiane e internazionali, ha fondato CIRQUE (Centro Interuniversitari di Ricerca Queer), il primo centro in Italia per la ricerca queer che attualmente dirige.

 

Note

  1. A Giulia Bigongiari e a Michael Diozzi Mascolo, per due straordinari piaceri intellettuali: quello di sentire nuove idee prendere forma nella mia mente nel nostro “Seminario autogestito di studi queer”, e quello di discutere con lui.[Questo articolo è la traduzione italiana di “Intersubjective Anticipation: Accountability, Anticipation, and Conversation as a Zero-Sum Game or, the (Real) Pleasures of a Pluralistic Society”, di prossima pubblicazione sul Journal of Constructivist Psychology. La traduzione è dell’autrice].
  2. Sia il corollario di comunanza sia quello di socialità cominciano con “Nella misura in cui”; non c’è bisogno di condividere la formazione di Kelly in ambito matematico per rendersi conto che la “misura” in questione può anche essere zero. Nel corollario di individualità, invece, l’affermazione che “le persone differiscono l’una dall’altra nelle loro costruzioni degli eventi” è presentata come assoluta, e non è pertanto soggetta a condizioni o limitazioni.
  3. Naturalmente, dal momento che credo sia ragionevole assumere che, nella stragrande maggioranza dei casi, a venir consumati non siano cadaveri di vegani, quelli “alla cui faccia” tutto questo avviene non sono i vegani bensì gli animali. Questa sistematica svista si colloca in una contraddizione abbastanza inequivocabile con il fatto che la grande maggioranza di coloro che postano contenuti del genere sono con ogni probabilità convinti che a conferire loro il diritto di uccidere altri animali perché gli piace il sapore dei loro cadaveri è la loro superiore razionalità; questo indica un ulteriore, e potenzialmente illuminante, livello di analisi, che però non sarà oggetto di approfondimento in questo lavoro.
  4. I vegani vengono continuamente ridicolizzati e bullizzati, con conseguenze a volte devastanti, come nel caso dello scolaro inglese che recentemente si è ucciso (https://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/louie-fenton-schoolboy-found-hanged-vegan-bullies-threw-meat-hertfordshire-inquest-a7973261.html); i ristoranti vegani subiscono attacchi terroristici, di cui non viene praticamente mai data notizia dai media (la notizia di un attacco con armi da fuoco a un ristorante vegano a Padova il 21 gennaio del 2018 venne ripresa unicamente dai siti animalisti come questo http://www.centopercentoanimalisti.mobi/sparano-con-il-fucile-da-caccia-al-ristorante-vegano-a-padova/). Le persone il cui reddito e il cui status sociale dipendono dall’uccisione di animali rendono regolarmente i vegani oggetto di attacchi pubblici che verrebbero considerati inaccettabili in relazione a qualsiasi altro gruppo; un esempio notorio per la sua visibilità era lo chef Anthony Bourdain, che affermò, tra le altre cose “i vegan sono ripugnanti e schifosi. Spesso mi chiedono perché i vegan sono i nemici di tutto ciò che esiste di buono e di morale e devono essere braccati e sterminati in modo che i loro geni non passino alle generazioni future. Il motivo è che se non puoi goderti neppure un buon formaggio puzzolente, gocciolante e stagionato come questo tanto vale che ti ammazzi adesso.” (http://www.dorfonlaw.org/2018/06/the-death-of-chef-vegan-views-and.html). Una rapida ricerca internet con la parola chiave “vegefobia” sarà sufficiente a permettervi di scoprire una miriade di altri esempi deprimenti.
  5. “Ciò che si fa quando si chiede “Perché?” è affermare in merito a una qualche azione che si tratta di un’“azione soggetta a spiegazione”. Vale a dire, “Perché?” è un modo di chiedere una spiegazione. Le spiegazioni sono una cosa incredibile. E l’uso delle spiegazioni e l’uso delle richieste di spiegazione sono fenomeni soggetti a una regolazione oltremodo rigida” (Sacks, 1992, I, p. 4, tda).
  6. A: Spero che tu ti diverta.B: Perché?È del tutto evidente che qui “Perché?” è una risposta paranoica, e tutta la conversazione da cui è tratto lo scambio rende assolutamente chiaro che la persona che la pronuncia è paranoica. (Sacks, 1992, I, p. 19, tda).
  7. Harold Garfinkel, il creatore dell’etnometodologia (una branca della sociologia che studia i metodi usati dai membri di una cultura per dare senso alla realtà, in particolare per spiegare le azioni proprie e altrui) ebbe una considerevole influenza su Sacks; quando i due si incontrarono per la prima volta Sacks stava lavorando con Erving Goffman a un dottorato in sociologia, mentre Garfinkel era professore di sociologia all’UCLA. Uno dei metodi più originali escogitati da Garfinkel per studiare le norme sociali sono i cosiddetti “breaching experiments” (“esperimenti di infrazione”), dove in una normale situazione sociale qualcuno infrange in maniera deliberata e sistematica una delle regole che dovrebbero governare l’interazione. Chi fosse interessato a rendere più vivaci le serate in compagnia può fare utilmente riferimento al secondo capitolo di Garfinkel 1967, “Studies of the routine grounds of everyday activities”. Alcuni anni dopo, all’altro capo degli Stati Uniti, Stanley Milgram chiedeva ai propri studenti di eseguire un tipo di esperimento di infrazione che aveva con tutta evidenza ideato indipendentemente: https://www.independent.co.uk/news/uk/this-britain/excuse-me-can-i-have-your-seat-please-547159.html
  8. “Le variazioni dalla norma sono fenomeni osservabili. […] E se il prodotto di qualche operazione di controllo ha come risultato uno degli stati alternativi rispetto alla norma, questo implica che lo stato in questione sia osservabile, e determina l’occasione per una spiegazione di quello stato alternativo. Vale a dire, determina che venga intrapresa un’inchiesta per spiegare come mai quella cosa è successa” (Sacks, 1992, I, p. 58, tda).
  9. In realtà quest’osservazione è stata già stata fatta (Epting, Raskin, Burke 1994); che gli autori siano dei kellyani come me è probabilmente un segno del fatto che quello che a noi sembra completamente ovvio non diventerà parte della visione del mondo condivisa ancora per molto tempo…
  10. “Il compito della persona a cui viene presentata la spiegazione allora è, in qualche modo, quello di controbatterla” (Sacks, 1992, I, p. 5, tda).
  11. “Il fatto che sia possibile usare le domande – come “Perché? – per generare spiegazioni, e poi usare le spiegazioni per esercitare un controllo sulle attività, può essere considerato, secondo me, una delle più grandi scoperte nella storia della civiltà occidentale. È ben possibile che sia stata questa la scoperta di Socrate. Con la sua dialettica Socrate scoprì un insieme di procedure per mezzo delle quali questa cosa, che non era usata in maniera sistematica, poteva diventare un dispositivo sistematico. Socrate chiede continuamente “Perché?”, riceve una risposta, e poi fa vedere che quella non può essere la risposta. E che la gente si trovasse in enorme imbarazzo quando veniva sottoposta a questo trattamento risalta con grande evidenza dai Dialoghi. Ed è evidente anche dalla nostra esperienza (Sacks, 1992, I, p. 118, tda).
  12. Che si può pertanto supporre rappresenti un luogo promettente dove cominciare a studiare esempi, strutture e principi dell’anticipazione intersoggettiva. Naturalmente, Sacks è noto in primo luogo come inventore dell’analisi della conversazione; sono convinta che i suoi metodi e le sue intuizioni potrebbero dare un contributo determinante a questa ricerca.
  13. “Un genere di discorso in cui legami di unione vengono creati dal semplice scambio verbale” (Malinowski, 1923, p. 315, tda).
  14. “Guardiamola [la comunione fàtica] dal particolare punto di vista che qui ci riguarda; chiediamoci quale luce getta sulla funzione o sulla natura del linguaggio. Nella comunione fàtica le parole vengono usate in primo luogo per trasmettere un significato, il loro significato simbolico? No di certo! Esse svolgono una funzione sociale ed è questa la loro principale finalità, ma non sono né il risultato di una riflessione intellettuale, né suscitano necessariamente riflessioni nell’ascoltatore. Una volta di più possiamo dire che qui il linguaggio non funziona come un mezzo di trasmissione del pensiero”(Malinowski, 1923, p. 315, tda).
  15. “La comunione fàtica è il luogo dove la conoscenza socialmente condivisa sul mondo viene ritualmente ribadita e socialmente trasmessa. Per questo motivo ho sostituito al concetto di “comunione fàtica” di Malinowski quello di una “dimensione fàtico-epidittica” del discorso. Nella tradizione retorica occidentale “epidittico” designa un genere di discorso che è finalizzato non a convincere l’uditorio bensì a ribadire convinzioni già condivise. Tuttavia una tale ripetizione è neutra solo in apparenza, dal momento che dà forma al senso della realtà socialmente condiviso; di conseguenza ciò che può sembrare ozioso e innocuo cela in realtà un orientamento violentemente repressivo contro qualsiasi deviazione dalla norma, come risulta evidente, ad esempio dalla funzione sociale del pettegolezzo (Grilli, 2018, p. 114, tda).
  16. Naturalmente nella stragrande maggioranza dei casi i “nuovi arrivati” erano sempre esistiti, e parecchi di loro (sicuramente perlomeno tutti i portatori di tratti screditanti visibili) non facevano neppure alcun tentativo di nascondere la propria “devianza”: semplicemente, il loro punto di vista era sistematicamente ignorato, e di conseguenza loro come soggetti sociali potevano essere legittimamente considerati inesistenti.