Tempo di lettura stimato: 47 minuti
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Per un’etica esperienziale e non normativa

For an experiential and non-normative ethics

di

Massimo Giliberto

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

In questo articolo cerco di sviluppare un approccio all’etica considerata come processo e non come corpus dottrinario o lista di precetti universali. Attraverso una visione costruttivista e rifacendomi alla Psicologia dei Costrutti Personali, tento di comprendere ed esplorare i “modi” del conoscere etico piuttosto che il “cosa” derivato dall’appartenenza religiosa o dalla affermazione della razionalizzazione occidentale come criterio di verità filosofica. Ho cercato, inoltre, di illustrare come, focalizzandosi sull’etica come esperienza e forma di conoscenza, sia possibile prendere una posizione su alcune questioni ritenute moralmente rilevanti senza cadere nell’assolutismo dogmatico né rimanere vittime di un relativismo inerziale.

In this article, I try to develop an approach to Ethics considering it as a process and not as a doctrinaire corpus or a list of universal precepts. Through a constructivist vision and by referring to the Personal Constructs Psychology, I try to understand and explore the “ways” of ethical knowledge instead of the “thing” subsumed from a religious faith or from the western rationalization assumed as a philosophical criterion of Truth. Moreover, I try to illustrate how, by focussing on Ethics as an experience and a form of knowledge, it would be possible to take a position on morally relevant issues, but without falling into a dogmatic absolutism nor becoming the victims of an inertial relativism.

Keywords:
Etica, Scienza, Religione, Relativismo, Assolutismo, Costruttivismo | Ethics, Science, Religion, Relativism, Absolutism, Constructivism
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1. Perché occuparsi di etica?

L’etica è certo un argomento ostico, sfuggente, in qualche modo intellettualmente pericoloso e denso di paradossi e contraddizioni, soprattutto se s’intende affrontarlo da un punto di vista laico (Lecaldano, 2008). Tanto che qualcuno, come Wittgenstein, era giunto alla conclusione che ogni tentativo di definire l’etica è fallimentare, è un tentativo disperato “di avventarsi contro i limiti del linguaggio” (Wittgenstein, 1967, p. 18). Per Wittgenstein, in quanto discorso che tende all’assoluto, “ciò che dice [l’etica], non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza” (ibidem). Tuttavia, sia che si concepisca in termini assoluti sia che si immagini in una dimensione relativa e concreta, la storia – ma anche la nostra vita quotidiana – ci impone momenti in cui una riflessione sull’etica non pare eludibile. Sono quei momenti in cui ciò che vediamo e di cui facciamo esperienza non corrisponde più a ciò che crediamo, o che confidiamo di sapere. Sono quegli eventi per cui ci sentiamo traditi dalla storia stessa, in cui apparenti certezze si disvelano come inganni e il mondo ci appare più cupo e indecifrabile. Punti di svolta. Punti di crisi. Momenti in cui non conta l’episodio in sé ma il modificarsi, come direbbe Gregory Bateson (2000), della “struttura di relazione”[2].

Questo punto è fondamentale; questo è ciò che interessa i mammiferi. Essi si curano delle strutture di relazione, della posizione in cui si trovano rispetto agli altri in un rapporto di amore, odio, dipendenza, fiducia e astrazioni analoghe. Questo è il punto ove cadere in errore è doloroso. Se noi ci fidiamo di qualcuno e scopriamo che costui non meritava fiducia; o se diffidiamo di qualcuno e scopriamo che in realtà meritava fiducia, ci sentiamo male. Il dolore che può derivare agli uomini e a tutti gli altri mammiferi da questo tipo di errore è grandissimo. Se quindi vogliamo davvero sapere quali siano i punti significativi della storia, dobbiamo chiederci quali sono i momenti della storia in cui sono cambiati gli atteggiamenti. Sono questi i momenti in cui la gente soffre a causa dei “valori” precedenti. (p. 512)

Esempi di rottura del rassicurante tessuto narrativo delle nostre vite, di cambiamento nella struttura di relazione, ad esempio, sono le condizioni imposte ai tedeschi dopo la prima guerra mondiale con il Trattato di Versailles – come ci suggerisce lo stesso Bateson – ma anche la Shoah, la strage dei migranti oggi in atto. In tutti questi casi una nostra fondamentale anticipazione è stata invalidata, ciò in cui confidavamo è stato tradito. Col Trattato di Versailles i tedeschi furono indotti ad arrendersi con la promessa di condizioni favorevoli, ma poi dovettero subire, invece, una volta ceduto alla resa, condizioni umilianti. Quale sia stato il ruolo di questa umiliazione nel decadimento morale della politica tedesca è cosa risaputa. Qui, come negli altri momenti di frattura storica, ciò in cui riponevamo fede, una presunta verità è entrata in disastrosa collisione con ciò di cui siamo stati testimoni. Qui, in questo campo di concentramento non muore solo Dio, ma innanzitutto spira definitivamente l’idea di una Scienza neutrale e affidabile che basa se stessa su ciò che è vero. Questo inferno è stato il primo massacro su larga scala giustificato da una verità scientifica: la superiorità della razza ariana e la conseguente necessità di ripulire il mondo da chi avrebbe potuto ostacolarla e infettarla; perlomeno secondo i Nazisti. Scientifiche, per l’epoca, erano le ragioni; scientifico il metodo, pianificato seguendo un protocollo preciso e ordinato[3]. E, infine, il nuovo Olocausto, il rifiuto e lo sterminio di migliaia, milioni di migranti che sfuggono alle innumerevoli guerre africane e mediorientali, alla povertà estrema, ai disastri ambientali innescati dai mutamenti climatici (Mastrojeni, 2002, 2014; Mastrojeni & Pasini, 2017). Qui perisce l’idea – per molti versi solo mediatica – di un’Europa dolce, umanitaria, democratica e accogliente. Muore per i migranti, ma anche per tanti europei. Gli assi di riferimento, ora, non sono più gli stessi: sono mutati gli atteggiamenti, le strutture di relazione, i riferimenti possibili.

Versailles, Auschwitz, la strage quotidiana dei migranti sono giri di boa della storia; tutti buchi neri, orrori rispetto ai quali, spesso, la tentazione è di voltarsi da un’altra parte, non guardare, non sapere. Eppure, per qualcuno, girare lo sguardo altrove è eticamente impossibile. Sicché le domande sull’etica emergono, innanzitutto, esse stesse come istanza etica.

Auschwitz, nella sua terrifica evidenza, è forse l’evento storico, il simbolo da cui parte – non potendo prescindevi – il pensiero corrente sull’etica. Prima di allora, le ragioni per i massacri erano state differenti, o altrimenti giustificate da altri tipi di verità; religiosa soprattutto. La storia sembra dirci questo. Ad Auschwitz la grande novità è che quella Scienza che il pensiero positivistico aveva posto al di sopra di tutto, religione e storia comprese, ha perso la sua verginità. Il vero naturalistico non si mostra meno fideistico, e umanamente costruito, del credo religioso. La verità scientifica non è neutra né assoluta. La direzione e gli esiti della ricerca scientifica, quindi, non sono affatto al di sopra di ogni cosa: sono guidati dal senso che gli uomini vogliono attribuire al mondo, al modo in cui vogliono dargli un ordine. Di fatto, gli assoluti mondi che la scienza ci ha descritto non erano assoluti mondi e, nel tempo, a mano a mano che le teorie scientifiche si succedevano, sono cambiati (Kuhn, 1999). La storia della scienza ci insegna che la verità, o ciò che crediamo tale, muta nel tempo. La conoscenza, perciò, non solo non può porsi al di sopra della storia – la pretesa astoricità del naturalismo scientifico (Marhaba, 1976) – ma si rivela, in quanto guidata dalle intenzioni degli uomini, intrinsecamente etica. L’etica, per quanto ignorata, elusa o esplicitamente negata, è – contrariamente a quanto ne pensava Wittgenstein – essa stessa parte e fondamento della conoscenza. Eppure, anche oggi, l’etica è una sfida che molti ricercatori preferiscono evitare.

Vi sono, inoltre, altre ragioni che invitano, anche da un punto di vista psicologico, a una riflessione sull’etica, per quanto difficoltosa. Nuovi dilemmi, connessi con la globalizzazione e il progresso tecnologico, sono sorti recentemente. La globalizzazione ha abbattuto vecchi confini ma, a quanto pare, ha innalzato nuovi muri. Ora che identità nazionali, fedi politiche e religiose, codici morali differenti sono a così stretto contatto, spesso connessi in una rete virtuale istantanea, come potranno rapportarsi fra loro e far convivere credenze distanti e talvolta opposte? C’è un corpus identitario che ha il diritto di prevalere sugli altri o qualsiasi idea, credenza, fede – anche se violenta e prevaricante – è parimenti rispettabile? Infine, le tecniche mediche permettono oggi di mantenere in vita anche molto a lungo, in modo “artificiale”, persone che fino ad alcuni anni fa sarebbero morte. Qual è il confine? Quando “staccare la spina” è un atto pietoso oppure un omicidio? Sono nuovi quesiti etici – o nuovi in parte – che nascono come implicazioni dei cambiamenti storici e scientifici. Sfide che, contemporaneamente, coinvolgono le dimensioni della conoscenza e dell’etica, senza che l’una sia chiaramente distinguibile dall’altra.

Alla luce di quanto detto, qual è la posizione della Psicologia dei Costrutti Personali (d’ora in poi PCP) riguardo queste sfide? Esplicitamente radicata nell’assunto filosofico per cui “tutte le nostre presenti interpretazioni dell’universo sono soggette a revisione o sostituzione” (Kelly, 1955, p. 15, tda), in che modo la teoria di Kelly può interfacciarsi con simili dilemmi etici? Come Stojnov (1996) ha notato, Kelly non sviluppò esplicitamente una parte morale della sua teoria. Tuttavia, ciò non significa che la PCP sia distante da una dimensione etica, né che questa sia fuori dal campo di pertinenza della teoria.

Perciò l’idea è di addentrarci in quest’argomento e vedere in che modo la PCP, elaborata entro una cornice costruttivista radicale, può esserci utile[4].

 

2. L’etica fra filosofia e religione, e oltre

Per iniziare il nostro viaggio su questo tema, è necessario chiarire cosa possiamo intendere per etica. A questo scopo, può essere utile comprendere preliminarmente in quale modo questo argomento è stato affrontato nella nostra cultura. Scopriamo, allora, che l’etica è, da secoli, considerata un soggetto tipico della filosofia e della religione[5].

Gli orientamenti sull’etica nella filosofia occidentale si sono sviluppati, approssimativamente, attorno a tre filoni principali: (a) l’etica eudemonistica (che mira alla felicità) di Aristotele, (b) l’etica dell’imperativo categorico di Kant e (c) l’approccio utilitaristico. Nell’approccio aristotelico si ritiene che le virtù – quali la giustizia, la carità e la generosità – siano disposizioni ad agire di cui beneficia sia chi le possiede sia chi gli sta intorno, la società (Caiani, 1996; Natali, 1999). Per Immanuel Kant, invece, nell’etica è centrale la nozione di dovere: gli esseri umani sono obbligati, dalla loro consapevolezza di esseri razionali, a obbedire all’imperativo categorico di rispettare gli altri esseri razionali (Guerra, 1980; Höffe, 1986). E, terzo, la posizione etica che fa capo all’utilitarismo asserisce che il principio guida della condotta morale dovrebbe essere la più grande felicità o il maggior beneficio per il più gran numero di persone (Foucault, 1995; Lecaldano, 1995; Donatelli, 1998).

In filosofia, dunque – ed è questo che accomuna in vari orientamenti di pensiero – ogni principio etico si fonda sulla logica razionale che indica cosa, in assoluto, è bene o è male (Morin, 1986). Nelle grandi religioni monoteiste, invece, la fonte di ciò che è buono e giusto, ossia di ogni principio etico, è Dio. Dio è il creatore e il regolatore dell’universo, nonché la fonte di ogni autorità morale.

A ben guardare, filosofia e religione hanno qualcosa in comune: entrambe si basano su criteri normativi, la logica per l’una e la fede per l’altra[6]. Entrambe, nel tentativo di stabilire ciò che è “bene” e distinguerlo da ciò che è “male” si occupano del cosa, dei principi assoluti, dei contenuti, che stabiliscano una volta per tutte una chiara e netta demarcazione fra la luce e il buio. In entrambe, tuttavia, manca una sufficiente attenzione al come, al modo, all’esperienza etica. Che cosa accade, infatti, quando siamo, più o meno consapevolmente, a un bivio fra ciò che sentiamo, consideriamo come giusto o sbagliato? È questa la domanda sostanziale di questo scritto. In cosa cambia la nostra prospettiva se, piuttosto che focalizzarci sulla validità di qualsiasi “criterio normativo”, di qualsiasi codice morale, proviamo a comprendere ed esplorare il processo, il come, ossia l’esperienza etica?

Assumendo, allora, che l’etica sia – ed è questa la definizione di etica che adotterò da qui in poi – il nostro tentativo di discriminare tra “bene” e “male” quando ci prendiamo cura degli altri e di noi stessi, dei bisogni altrui e dei nostri, il mio intento sarà indagare l’esperienza etica.

 

3. Il dilemma etico: tolleranza o inerzia?

Vi sono questioni che più di altre, forse, ci richiamano alla sfida di una definizione dell’etica come processo. Sono dilemmi che affrontati nella logica classica del cosa, cioè del criterio normativo, appaiono paradossali e irrisolvibili; fra questi, particolarmente rilevante nella nostra epoca storica, appare il dilemma etico “verità” vs. “relativismo”. Da una parte, differenti verità culturali, ideologiche e religiose – particolarmente quelle espresse in forme fondamentalistiche – inevitabilmente confliggono l’una con l’altra, spesso generando guerre e vittime. Dall’altra parte, il relativismo riconosce una sorta di pari dignità e valore a tutte queste verità, ma non consente che si stabilisca una posizione morale definitiva, persino in riferimento ad azioni così aberranti come il genocidio o la schiavitù.

Il costruttivismo, in questo caso, condivide la posizione filosofica dei relativisti quando questi affermano che non ci sono verità assolute. E, in effetti, dal punto di vista di un costruttivista, non possiamo mai vedere il mondo a prescindere dal nostro sistema personale, il che significa che tutto emerge e prende vita entro un’interpretazione personale[7]. Qui, però, qualche problema sorge. Questo significa che tutte le interpretazioni, tutte le possibili costruzioni del mondo hanno lo stesso valore e, di conseguenza sono, allo stesso tempo, equivalenti e incomparabili? Ciò implicherebbe non essere nella posizione di disapprovare, per esempio, il massacro di donne o bambini solo perché appartengono a un’etnia o a una religione diversa da quella dei loro assassini. Prendere una posizione, formalmente, sarebbe tradire un assunto di base. In questo caso, chiedersi cosa sia giusto oppure sbagliato e perché, sono domande senza senso, di cui non è possibile venire a capo.

Concordo con Dusan Stojnov (1996) quando afferma che la PCP è una teoria della tolleranza; ma è tolleranza ciò di cui abbiamo appena parlato? Possiamo accontentarci di pensare che, essenzialmente, i relativisti si sentano profondamente impegnati, coinvolti e responsabili delle proprie scelte e che questo sia preferibile rispetto all’attribuirle a una realtà esterna, come Raskin (2001) ha suggerito? È sufficiente? La tolleranza stessa sembra una costruzione zoppicante che necessita di essere supportata da qualcos’altro, da una ragione più profonda; altrimenti temo sia più corretto parlare di inerzia. Personalmente credo che la PCP non sia e non possa essere una psicologia dell’indifferenza o dell’inerzia. Parimenti, non vedo nel costruttivismo una semplice declinazione, una forma del relativismo e del nichilismo che, nella sua essenza radicale, ne deriva.

Come posso, allora, dare senso al mio sentimento di profonda repulsione della schiavitù, della guerra, del razzismo o del genocidio? Il mio è solo un sentimento transitorio di disgusto, perché nella nostra storia ogni “male” è stato un “bene” in qualche tempo o in qualche luogo, e viceversa? O piuttosto, sapendo come si generano la schiavitù e il genocidio, dando loro un senso condivisibile in relazione a un’esperienza, a un processo etico, questa conoscenza mi rende responsabile? Posso andare oltre i precetti eppure prendere una posizione? Anzi, prenderla proprio per questo?

Se, allo stesso tempo, noi rifiutiamo: (a) l’assolutizzazione della ragione come criterio di verità (Morin, 1986), ossia una verità etica logica e universale, (b) una verità etica religiosa universale, (c) l’assoluta equivalenza di qualsivoglia posizione morale… Quale altra via possiamo tentare? E, in effetti, questo sembra un problema non risolvibile, un serio dilemma: se, rifiutando ogni verità assoluta, prendiamo una posizione in cui riteniamo che tutte le posizioni morali siano equivalenti, stiamo al contempo assumendo una posizione morale che sembra superiore e assoluta; in altre parole, evidentemente, un’altra verità. Non c’è via di scampo, apparentemente. Rimanendo sul piano del cosa, del criterio morale normativo, del contenuto, ne rimaniamo prigionieri. Questo appare proprio uno di quei dilemmi su cui testare se mettersi alla ricerca di un sentiero alternativo – ossia esplorare il modo in cui facciamo esperienza in ambito etico – può cambiare il nostro approccio, evitandoci tanto le sabbie mobili dell’inerzia quanto il rigor mortis dell’assolutismo.

Pertanto, possiamo ripartire con alcune domande basilari. Cosa accade concretamente nelle nostre vite quando scegliamo ciò che riteniamo giusto? In quali modi solitamente esperiamo l’etica? E cosa caratterizza questo genere di esperienza?

 

4. L’etica come processo

Seguendo il solco di queste domande, muovendoci dal “criterio morale” come costrutto contenutistico e normativo verso il tentativo di comprendere l’esperienza etica come processo, probabilmente la cosa migliore è partire proprio da un’esperienza di questo tipo:

È una bella giornata. Mi sento pieno di energia ed entusiasmo per il mio lavoro. Cammino nell’ingresso verso la segreteria portando con me una lista di nomi di colleghi e collaboratori che vorrei che Carla chiamasse il più presto possibile per la prossima riunione. Entro nella stanza e… (stop).

Carla è molto pallida. Ha un’espressione triste. Il mio umore cambia: l’entusiasmo scema e al suo posto si fa avanti la preoccupazione. Percepisco che sarebbe meglio non chiedere direttamente quale sia il problema… divento delicato e discreto. Ho dimenticato la mia fretta. “Carla, quando hai tempo, per favore, chiama questo elenco di persone. “Il mio cellulare sta suonando nel mio ufficio… (stop).

Sto già vivendo in un altro “micro-frame”.

Ricordo precisamente quella prima interruzione fra un segmento della mia esperienza e l’altro… Rammento la mia gioia, il mio Sé energico e il momento in cui ho visto il pallore sul volto di Carla. Un’altra parte di me emergeva, prendendo il posto della precedente: il Sé preoccupato per l’umore di Carla sostituiva il Sé entusiasta ed energico. A quel punto, sono diventato delicato. Sentivo, senza doverci pensare, che quello era ciò che dovevo fare, il modo in cui dovevo comportarmi. Era giusto così. Semplicemente. Non c’era, in questo, alcuna deliberazione cosciente: non stavo obbedendo ad alcun imperativo morale, ad alcun precetto, né stavo cercando di guadagnarmi qualche sorta di paradiso. Il suono del mio telefono, alla fine, ha innescato l’ultima interruzione, il passaggio da un Sé a un altro: la mia mente era già altrove.

Posto che questa sia, per la definizi0ne che ne abbiamo dato, un’esperienza etica – io ho effettivamente, visceralmente discriminato fra qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato -, cosa può suggerirci più in generale? Potremmo considerare la maggior parte delle nostre esperienze etiche simile all’esperienza che ho appena descritto? A ben guardare, in effetti, la nostra esperienza etica pare costituita, soprattutto, da molti piccoli fatti etici che permeano la nostra vita quotidiana quando, all’apparenza, non sta succedendo nulla: il sorriso offerto a una persona che soffre, la moneta data a un mendicante, la pazienza con i nostri figli, parlare a bassa voce perché qualcuno dorme nella stanza vicina, ecc. Tutte situazioni in cui, senza bisogno di deliberare o pianificare nulla, come direbbe Varela (1992) sperimentiamo la vita (conosciamo) segmentando la linea del tempo: ci muoviamo attraverso molti “breakdowns” passando da un frame a un altro, entriamo e usciamo da numerose “micro-identità”[8]. E vivere in questi frame, spesso, significa semplicemente sapere cosa fare, senza alcuna ponderazione cosciente. In altre parole, se riflettiamo attentamente sulle nostre esperienze quotidiane, possiamo facilmente accorgerci di come l’etica attraversi abitualmente e silenziosamente i nostri giorni, ma anche di come essa sia soprattutto un know-how piuttosto che un know-that. Una competenza pratica, una conoscenza tacita che va oltre le regole e i codici espliciti (Dewey, 1958; Ryle, 1955; Varela, 1992).

A questo punto, per meglio intenderci, conviene porre una distinzione: se stiamo trattando l’etica in termini di processo, esperienza, come una forma di costruzione normalmente più sentita che deliberata, quale status avranno quei comportamenti intenzionalmente guidati da regole, codici e principi normativi? Per questo approccio razionale e normativo possiamo usare il termine “morale”. Ciò che sto dicendo, in altre parole, è che il medesimo comportamento – ad esempio, la moneta data a un mendicante – può essere etico perché sentito o morale perché vissuto come dovuto, richiesto da una regola (Varela, 1992). Se il comportamento, agli occhi di un terzo osservatore, è lo stesso, tuttavia è diverso il significato che gli possiamo attribuire.

Perciò, per prima cosa prenderò in considerazione l’esperienza etica in modo più approfondito, secondariamente confronterò l’esperienza etica e i sistemi morali.

 

5. Le caratteristiche irriducibili dell’esperienza etica

Quali sono, dunque, le caratteristiche di questo tipo di esperienza? Dal punto di vista della PCP, l’esperienza etica non può essere considerata in modo diverso da qualsiasi altro processo di costruzione. Kelly ci ha offerto una teoria capace di superare molti dei tradizionali dualismi nella scienza e nella filosofia, come corpo vs. mente, cognizione vs. emozione; sarebbe strano se non ci mettesse nelle condizioni di dissolvere il dualismo conoscenza concreta vs. etica[9]. Tutte queste dicotomie si dissolvono nella nozione di costrutto, per due ragioni. La prima è che esse stesse sono costrutti e non dati materiali. Costrutti inventati da qualcuno per dare senso alla sua esperienza e organizzarla, organizzando il mondo attorno a sé. La seconda ragione è che un costrutto non è inteso come un’entità cognitiva, una semplice etichetta verbale che compone una mappa del tutto interna a un individuo, ma come una direzione di significato, un processo, un’azione che sta fra le persone, o fra le persone e il mondo. Kelly (1955) ce ne offre una chiara descrizione:

[I costrutti] sono modi di costruire il mondo. Essi sono ciò che mette la persona, ma anche gli animali inferiori, in grado di tracciare il corso del comportamento, e sono esplicitamente formulati o implicitamente agiti, verbalmente espressi o totalmente inarticolati, compatibili con altri comportamenti o incompatibili con essi, intellettualmente ragionati o visceralmente sentiti. (p. 9, tda)

La logica della conoscenza, anche per Kelly, è circolare. In quanto unità ermeneutiche di discriminazione, i costrutti si organizzano in un sistema personale – la nostra visione del mondo – atto ad anticipare gli eventi ed esplorare il mondo in un modo personalmente rilevante, verificando se e come queste anticipazioni funzionano, per tenerle o trasformarle in nuove anticipazioni da testare. Partendo da questi presupposti teorici, le nostre personali costruzioni etiche non fanno eccezione: anch’esse sono anticipazioni che organizzano e governano il nostro agire ed essere in mezzo agli altri; costrutti soggetti a verifica e potenziale revisione, pienamente parte di un processo di conoscenza.

Se, dunque, da una parte, l’esperienza etica avrà le stesse caratteristiche di qualsiasi altra esperienza – o costrutto – dall’altra, per com’è stata descritta precedentemente – e come Francisco Varela (1992) suggerisce – questo genere di processo può essere meglio compreso indagandone delle caratteristiche particolari. Possiamo sintetizzarle in tre dimensioni: (a) evidenza, (b) immediatezza, (c), inter-personalità[10]. Vediamole.

 

5.1 Evidenza e compassione

Per un realista, l’evidenza è ciò che dimostra che qualcosa è oggettivo e fuori di noi. Per un costruttivista, l’evidenza è o uno sproposito epistemologico, oppure è qualcosa di largamente condiviso come costruzione comune dell’esperienza. In questo caso possiamo pensare a una sorta di “evidenza” tra virgolette come opposta a un’evidenza oggettiva (Maturana, 1988)[11] declinata in assoluto e, ovviamente, senza virgolette.

Per illustrare ciò che intendo, posso usare la nostra esperienza di evidenza fisica. Passare attraverso un muro, ad esempio, è considerata un’azione impossibile per una persona: che il muro sia per qualcuno la “separazione dall’amore della nostra vita” o, per qualcun atro, “il confine protettivo del nostro bel giardino”, noi ci sbattiamo contro. Quindi, suppongo, la maggior parte degli esseri umani ha questa costruzione di “solidità materiale”. Agli occhi di un realista, questo dimostra che il muro esiste oggettivamente, è una realtà che prescinde da noi: questa è un’evidenza, per l’appunto. Dal punto di vista di un costruttivista, la solidità del muro non è un dato, ma un’esperienza che dipende non dal muro, ma dalla struttura conoscitiva del soggetto: un virus, o un altro organismo sufficientemente piccolo, potrebbe costruire l’evento muro (chiamiamolo così per comodità) in modo completamente diverso. Ciò che cambia è il gioco reciproco tra i vincoli esterni, ciò che stiamo chiamando muro, e la struttura conoscitiva degli organismi. Seguendo l’idea di Varela (1992) di enazione, “il mondo non è qualcosa che ci è «dato», ma è qualcosa a cui prendiamo parte per mezzo di come ci muoviamo, tocchiamo, respiriamo e mangiamo” (p. 11). Questo, in termini kelliani, si sostanzia nell’emergenza, nella creazione di un mondo che si organizza in un sistema di costrutti personali: una forma di conoscenza in movimento (Kelly, 1955) tesa ad anticipare quanto può accaderci.

La solidità, così, diventa una costruzione del soggetto conoscente e non una caratteristica oggettiva dell’evento muro. Immaginando che, in quanto soggetti conoscenti, gli esseri umani condividano la medesima struttura conoscitiva (gli stessi limiti e le stesse possibilità), essi condivideranno l’esperienza di “solidità”, costruiranno similmente il muro. In questo caso, la solidità del muro non sarà un’evidenza oggettiva, ma una costruzione comune, un’“evidenza” fra virgolette[12]. Di fatto, noi costruiamo il mondo materiale, gli oggetti, in base ai diversi gradi di solidità che gli attribuiamo, di cui abbiamo fatto esperienza[13]. Perciò, per un costruttivista, la solidità è soprattutto un modo di costruire molte cose diverse. Possiamo dire che la solidità è un costrutto incarnato (Maturana & Varela, 1985), non-verbale, che opera per lo più a un basso livello di consapevolezza cognitiva: evitiamo gli ostacoli senza pensare alla solidità, semplicemente li evitiamo e non ci sbattiamo contro. È, in altri termini, una competenza pratica profondamente radicata in ognuno di noi, un know-how.

Dopo aver guardato all’“evidenza” fisica in termini costruttivisti, torniamo ora all’ambito etico. Potremo pensare – superando anche questo dualismo – a un’“evidenza” etica così come ne abbiamo definita una fisica? Per riuscirci, dovremo trovare, anche nel dominio dell’esperienza etica, qualcosa di simile alla “solidità”: un costrutto ugualmente superordinato e concreto, un’esperienza comprensiva dei molti significati particolari e dei contenuti tangibili che le nostre vite ci propongono in quest’area. In altre parole, quale modo di costruire posso pensare che sia comune sia all’esperienza con Carla sia alle tante piccole esperienze etiche di ogni giorno; ma che, allo stesso tempo, ci aiuti a capire fenomeni percepiti come non-etici come l’Olocausto, lo stupro, il sopruso. Che cosa proviamo – a prescindere dalla nostra fede, dalle nostre opinioni e dalla nostra cultura – quando scegliamo di agire in modo etico? La parola che mi viene in mente è “compassione” nella sua accezione etimologica: cum + patior = sentire con, patire con. Non mi dilungo qui sulle somiglianze e le differenze di questa nozione con la nozione di empatia o con il Corollario della Socialità, che potrebbero essere argomento di un intero altro scritto; mi limito a sottolineare come la connotazione del termine non sia affatto neutra e richiami già a una dimensione etica, ma anche a un senso incarnato dell’esserci[14]. La compassione, a quanto pare, è sia un elemento imprescindibile dell’esperienza etica quanto un know-how (non dobbiamo pensare alla compassione per sperimentarla), esattamente come è per la solidità nel dominio degli oggetti materiali. Solidità e compassione emergono dalla nostra esperienza e sono enattivamente costruite; entrambe sembrano sufficientemente comprensive per dare significato a molti eventi possibili, anche se dissimili. Entrambe, infine, al di là dei confini culturali e confessionali, sembrano essere esperienze comuni[15]. L’esperienza etica, dunque, si presenta con una sua “evidenza”: la compassione.

 

5.2 Immediatezza

L’“evidenza”, nel nostro caso la compassione, non ha bisogno di essere pensata e deliberata, non ha interposizioni: è immediata. È il passaggio repentino, un breakdown, da uno stato a un altro, da una micro-identità a un’altra. Ma non è una semplice questione di velocità; è molto di più, perché l’immediatezza implica l’essere presenti, l’essere l’azione che stiamo compiendo, l’esserci. Questo significa che noi facciamo qualcosa di etico nello stesso modo in cui parliamo, mangiamo e guidiamo: “istintivamente”. Per esempio, non pensiamo alla grammatica mentre parliamo. Per una gran parte della nostra vita, quando mangiamo, parliamo, lavoriamo, camminiamo – ma anche quando rispondiamo ai bisogni degli altri, semplicemente sappiamo (e sentiamo) cosa fare. Siamo – senza una riflessione consapevole – pronti a farlo. In quei momenti è particolarmente evidente la fondamentale identità fra conoscenza e azione (Kelly, 1955; Maturana e Varela, 1985, 1987; Varela, Thompson, Rosch, 1993). Il (compassionevole) sentire-con, l’intuitiva pienezza con cui comprendiamo qualcosa come “buono” o “cattivo”, diviene – allo stesso tempo – conoscenza e azione, emerge come una conoscenza incarnata. L’immediatezza non sembra trovare altra ragione che in se stessa. Esemplificativo in questo senso è ciò che Giorgio Perlasca – un uomo che, rischiando la propria vita, salvò dalla deportazione e dalla morte migliaia di persone ebree durante la seconda guerra mondiale – risponde al suo intervistatore sulle ragioni del suo operato:

Giornalista – Dunque, signor Perlasca: perché lo fece?

Perlasca – Perché non potevo sopportare la vista di persone marchiate come degli animali. Perché non potevo sopportare di veder uccidere dei bambini. Credo che sia stato questo, non credo di essere stato un eroe. Alla fin dei conti, io ho avuto un’occasione e l’ho usata. […] Che cosa avrei dovuto fare, secondo lei? (Deaglio, 2002, pp. 16)

Ancora una volta dobbiamo tornare alla distinzione, e sottolinearla, tra know-how e know-that:

[…] ciò che tutti gli esseri viventi dotati di cognizione sembrano avere in comune è il know-how costituito sulla base del concreto. Dunque ciò che definiamo generale e astratto sono aggregati di prontezza-all’azione. […] L’abilità di compiere analisi intenzionali, razionali, durante i breakdown è apparsa solo di recente e molto rapidamente in termini evolutivi. (Varela, 1992, p. 18)

Giorgio Perlasca non aveva bisogno di riflettere: ciò che doveva fare era evidente e non spiegabile altrimenti. Era pronto all’azione. Era l’azione stessa. Lui, come chiunque fra noi compia un qualsiasi, comune gesto di etica quotidiana, ha agito nell’evidenza e nell’immediatezza. È quando la nostra competenza immediata è insufficiente che iniziamo a riflettere. Posso, per esempio, nell’immediatezza sapere che devo far qualcosa, ma non sapere bene cosa. Nel caso di Carla, per esempio, per essere buono, invece che discreto e delicato, avrei potuto scegliere di essere energico, se solo avessi sentito/pensato che questo avrebbe potuto essere il modo migliore di distrarla dalle sue sofferenze. Inoltre, così come possiamo dubitare della sufficiente solidità di un oggetto – stiamo forse per mettere i piedi su delle sabbie mobili? – allo stesso modo possiamo avere dubbi etici; come nel caso della scelta durissima di “staccare la spina” o meno a una persona in stato di coma da tempo. Che si tratti di un atto deliberato e cosciente o meno, in termini kelliani, la nostra sarà la migliore scelta possibile, o la meno sfavorevole; nei termini, ovviamente, del nostro sistema[16]. Non tutti, infatti, saranno disposti – pur percependola immediatamente come la cosa che sarebbe giusto fare – a tuffarsi in un fiume per salvare qualcuno che sta affogando, anche se il non farlo li potrebbe fare soffrire. In questo caso il danno minore, a quanto pare, è garantire la propria sopravvivenza.

In tutti questi casi, ad ogni modo, l’agire etico è indiscusso quando la compassione si coniuga con un certo grado di immediatezza ed è, invece, proprio il venir meno di una conoscenza incarnata, di un immediato know-how, che lo rende incerto.

 

5.3 Inter-personalità

La terza caratteristica proposta per comprendere le esperienze etiche è l’inter-personalità. L’etica ha a che fare con l’altro. Detta così sembra – e probabilmente lo è – una banalità. L’agire etico non si dà, e non ha senso, al di fuori della relazione con l’altro. Tuttavia, questa nozione di inter-personalità custodisce un significato più fondamentale e per nulla banale. Un significato che ha a che fare con la nostra individuazione fra gli altri, con la nostra costruzione di noi stessi. In altre parole, con la nostra identità. E, come vedremo meglio, la nostra identità è profondamente connessa con l’agire etico (o meno). Approfondiamo, allora.

Fra le tante cose che diamo per scontate, vi è verosimilmente il fatto che ci consideriamo delle persone. Forse, però, non è poi così ovvio. Chiediamoci: come arriviamo a dire “io sono una persona”, attraverso quali esperienze? E per quali aspetti, e in quale misura, noi ci sentiamo simili ad altre creature? Ci sentiremmo persone nello stesso modo se fossimo stati allevati dai lupi?[17] Buon senso ed esperienza sembrano dirci che la nostra visione di noi stessi e del mondo ha origine nel vivere assieme agli altri. George Kelly (1955) spiega quest’esperienza attraverso la nozione di ruolo e struttura nucleare di ruolo, indicandoli come quei costrutti che ci permettono di considerarci esseri integrali, costituendo la nostra identità. Costrutti che ci consentono di anticipare e governare le nostre relazioni con le altre persone e con i gruppi sociali, nati nel tentativo di interpretare gli altri, i loro processi di costruzione, cosa si aspettano da noi e di comprendere, quindi, cosa sta succedendo nella nostra interazione con loro[18]. Costrutti, dunque, che ci danno la misura per capire chi siamo nello sguardo altrui. Un ruolo, dunque, nella PCP, non è una singola posizione sociale – ad esempio: medico, madre, figlio, ricco o povero – ma l’identità da cui dipendiamo, un’identità che emerge e si mantiene, necessariamente, nella relazione.

Il mantenimento di base non è del tutto una questione centrata sul Sé. Noi siamo dipendenti per la vita stessa dalla comprensione che abbiamo dei pensieri di certe altre persone. La psicologia dei costrutti personali enfatizza l’importanza essenziale delle costruzioni sociali. Enfatizza il fatto che un ruolo non è sempre qualcosa di superficiale, una semplice maschera che può essere messa su o tolta; piuttosto, che c’è un ruolo nucleare, una parte che una persona gioca come se la sua vita ne dipendesse. In effetti, la sua vita dipende davvero da questo. Infine, è la perdita dello status in questo ruolo nucleare che è sperimentato come colpa. (Kelly, 1955, p. 503, tda)

Essere persona, considerarsi tali, perciò, non può prescindere dall’essere visti come persone dagli altri. “Persona”, diventa la costruzione di una somiglianza tanto ampia quanto profonda – quindi identitaria – con gli altri; una comunanza che sussume, permette e canalizza gli altri aspetti della nostra identità[19]. In altri termini, noi possiamo sviluppare la nostra identità (i nostri costrutti di ruolo) come essere umani e come “persone” solo in relazione con altre “persone”. Quando questo non succede, quando veniamo esiliati in qualche misura da questa fondamentale costruzione, o anticipiamo di poterne essere allontanati, soffriamo terribilmente.

Un ricordo riportatomi da un cliente, che egli considerava significativo e determinante per la sua storia, può essere illuminante.

S. era bambino e frequentava una scuola cattolica gestita da suore. La sua insegnante – una suora – raccontava alla classe di un’opera missionaria in cui coraggiosi e pietosi sacerdoti si occupavano di lebbrosi. La lebbra – almeno nella percezione del mio cliente – era presentata in un alone di peccato, disgusto e isolamento. I lebbrosi erano orrendamente sfigurati ed evitati da tutti. In quel momento il mio cliente sentì un’enorme paura di questa malattia, non per la deturpazione del corpo, ma per il senso di solitudine, di esilio dalla comunità sociale e, essenzialmente, per la deprivazione dell’esistenza stessa; ovvero, la sua identità di persona tra altre persone. Mi disse: “piuttosto che questo avrei preferito morire”[20]. Questo fu, per lungo tempo, il suo incubo personale, segreto e persistente. S. raccontò, ancora, che una larga parte della sua vita era stata dedicata a far fronte a questa paura.

Non è strano, penso, che il mio cliente sia diventato un medico. Questa piccolo frammento di una psicoterapia sembra mostrarci non solo come la nostra identità sia un processo radicalmente inter-personale perché può svilupparsi solo nella relazione con gli altri, ma anche come l’identità personale presupponga una più ampia identità sociale: per poterci legittimamente collocare fra gli altri abbiamo bisogno di riconoscerci in una categoria comune. Questo ricordo ci offre, inoltre, un’indicazione importante circa la relazione fra etica e identità: essere diversi, non più simili agli altri, non più persone fra le persone, ci fa anticipare anche un venir meno della loro considerazione, ossia del loro atteggiamento etico nei nostri confronti. La pietà, quand’anche si manifesti al posto dell’indifferenza o del disgusto, non è compassione, almeno nei termini in cui l’abbiamo descritta: se la pietà è spesso sintomo di distanza, la compassione è segno di partecipazione. Una partecipazione negata ai diversi, proprio perché tali.

Se accettiamo l’idea che la nostra identità come persona – o, per esempio, come lupo o orso o qualsiasi altra cosa – emerga solo all’interno di una dimensione sociale in cui posso riconoscere il mio essere “persona” e sentire gli altri come persone (riconoscendomi negli altri e gli altri in me), di conseguenza l’esperienza etica (la compassione) sarà inestricabilmente una parte della mia identità.

L’inter-personalità, perciò, per come la stiamo intendendo, non è solo relazione ma anche un mutuo riconoscere una fondamentale comunanza: l’essere persone.

 

6. La costruzione comune dell’esperienza etica e il punto di fuga etico

Fin qui, riprendendo ed elaborando il filo della proposta di Francisco Varela (1992), abbiamo individuato tre caratteristiche irriducibili e comuni nell’esperienza etica: l’evidenza (la compassione), l’immediatezza e l’inter-personalità. In particolare, abbiamo visto come compassione e immediatezza emergano in un contesto relazionale, anzi, inter-personale, e siano connesse alla nostra identità. A questo punto, si pone una serie di domande. La prima e più fondamentale: è la mia identità, il modo in cui la costruisco fra gli altri, il confine sperimentabile di ogni sentire etico? La questione successiva potrebbe essere: qual è, se c’è, la frontiera sociale della mia identità come persona? Infine, gli esseri umani vedono gli altri esseri umani sempre e comunque come persone oppure sperimentano limiti diversi, magari più labili e sfumati, del proprio costruire chi è più o meno, del tutto o per niente “persona”? A questo proposito può essere interessante considerare un’intervista del giornalista Bruno Schirra con Hans Munch[21]. Munch era medico e ricercatore ad Auschwitz, lavorava con il più famoso Josef Mengele. Il suo lavoro consisteva nel compiere esperimenti medici con i bambini ebrei. Al tempo dell’intervista era un 87enne “rispettabile medico tedesco”. Permettetemi di riportare un frammento di quell’articolo.

“Lei deve sapere che ad Auschwitz uccidere le persone era assolutamente normale: ci si abitua presto, due o tre giorni al massimo”. Ma le pesa essere stato laggiu’? “Naturalmente no, ho fatto un lavoro importante per la scienza, ho potuto condurre su esseri umani esperimenti che normalmente sono possibili soltanto sui conigli”. (Valentino, 1998 , p. 14)

Il giornalista descrive un Munch che, durante l’intervista, rimane molto calmo e pacato, e non esprime alcun rimorso. Cosa permette a Munch tanta tranquillità? Come poteva senza alcuna compassione applicarsi a “iniettare ai prigionieri streptococchi nelle braccia o pus fra le gengive”, considerando le condizioni di lavoro dell’Istituto d’Igiene di Auschwitz “ideali”? (ibidem) In fondo, e nemmeno tanto implicitamente, è lo stesso Munch a suggerirci la risposta: per lui gli ebrei, gli internati del campo di concentramento non erano davvero persone, erano – nell’accezione più biologica – esseri umani. E, infatti, da medico, considerava i prigionieri ebrei, proprio perché esseri umani e non persone, materiale biologico migliore dei conigli per i suoi esperimenti. Poiché quelle che sottoponeva a grandi sofferenze e uccideva dal suo punto di vista non erano persone, non sentiva compassione. In termini di esperienza etica, Hans Munch si sentiva corretto: conduceva ricerche che avrebbero aiutato quelle che lui considerava davvero persone[22].

Sarebbe facile, a questo punto, giungere alla conclusione che noi siamo completamente diversi dal medico nazista, o meglio, che lui non è come noi. Eppure, davvero noi e Munch, nei termini di esperienza etica, funzioniamo in modo così diverso? Davvero noi percepiamo sempre tutti gli esseri umani che ci circondano pienamente come persone? Oppure, a ben guardare, spesso ci sentiamo circondati da corpi che ci passano accanto o che ci guardano dallo schermo della TV, il cui destino non ci riguarda, che non percepiamo esattamente come persone, anche se sappiamo che sono umani.

Munch, come tutti, ha sviluppato la sua identità (i suoi costrutti di ruolo) come persona in relazione ad altre persone. Per lui, tuttavia, i soli esseri umani percepibili come persone sono stati, probabilmente, i tedeschi di razza ariana. La sua identità di persona si è profondamente radicata in questo gruppo. All’interno di questo gruppo, per quanto strano possa sembrare, Hans Munch si è potuto considerare ed è forse stato riconosciuto come una brava persona, un signore e un medico gentile[23]. Entro il limite costituito dai suoi simili, i tedeschi, Munch ha verosimilmente potuto fare esperienze etiche. Come chiunque altro. La nostra identità, il nostro posizionarci fra gli altri costruiti come simili a noi, pare effettivamente il confine di ogni possibile sentire etico. Chi rimane fuori da questa possibilità sono i non-simili, nella misura in cui li percepiamo distanti da noi, gli stranieri, i diversi[24]. Colui che è diverso è un essere umano tra persone, un lebbroso fra gli uomini, una creatura che può facilmente diventare nessuno. Scomparire. Questo è esattamente ciò che terrorizzava S., il mio cliente. E, in fondo, ciascuno di noi, a ben pensarci, in un certo senso, è straniero per qualcun altro. O può diventarlo.

La vicenda di Hans Munch apre la porta a un’indiscutibile inquietudine. Non siamo eticamente così diversi. Quantomeno entro i confini delle nostre identità. Che cosa accomuna, infatti, Munch, i piloti anglo-americani che bombardarono la Germania durante la Seconda Guerra Mondiale, Madre Teresa di Calcutta e il Dalai Lama? E cosa li differenzia? Possiamo dire che Munch, i piloti anglo-americani, Madre Teresa e il Dalai Lama hanno probabilmente condiviso la stessa costruzione di esperienza etica: un’immediata compassione per le persone, ma limitata – ed è questo il punto – al proprio gruppo di riferimento, quello in cui è radicata la loro identità di simili fra i simili. Rispettivamente, i gruppi in cui essi si sono costruiti come persone tra altre persone sono stati: per Munch la gente di razza ariana; per i piloti anglo-americani probabilmente tutti gli europei e gli americani bianchi, tranne i tedeschi; per Madre Teresa tutti gli esseri umani; per il Dalai Lama tutte le creature viventi[25]. E per noi?

Tuttavia, anche all’interno del gruppo di riferimento identitario non pare che tutti siano necessariamente persone al pari degli altri. Ci sono, credibilmente, persone più persone di altri. Il costrutto “persona” mostra una certa gradazione e acquisisce sfumature diverse. Sono più persone di altre, per esempio, i nostri familiari e i nostri amici. E questo ci appare logico, giacché sono loro per primi coloro da cui la nostra identità dipende. Per loro è più facile, non a caso, provare compassione, o aspettarsela. Con loro soffriamo se soffrono. Ma anche in un contesto sociale più ampio è facile osservare come in alcune culture gli uomini vengano considerati più persone delle donne cui, di fatto, vengono riconosciuti meno diritti. Oppure possiamo guardare alle società organizzate in vere e proprie caste dove, a mano a mano che ci si allontana dall’apice della piramide sociale, gli esseri umani sono considerati sempre meno come persone. Questa distanza dal focus del costrutto “persona” è anche la misura del graduale venir meno della compassione e dell’esperienza etica. Fino al limite in cui una persona non è più tale.

Io non so se il mio cliente abbia mai letto Se questo è un uomo di Primo Levi (2005) – un uomo che ha vissuto come prigioniero ad Auschwitz e ha descritto le sue esperienze attraverso pagine di grande potenza narrativa – ma potrebbe trovare nel passaggio che segue un’eco della sua paura. Primo Levi ha scritto:

Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. (p. 152)

Con queste parole Primo Levi rileva sia il radicarsi della nostra identità nella relazione con le altre persone – ciò che ho chiamato inter-personalità – sia il fondarsi dell’etica nella nostra stessa identità. Non dissimilmente, anni più tardi e sotto la luce della PCP, Bannister e Fransella (1986) scriveranno:

Le persone seguono veramente le loro costruzioni fino al punto in cui, se costruiscono gli altri come sostanzialmente meno che umani, sono proprio per questo in grado di tormentarli e distruggerli. Così, il guardiano del campo di concentramento attaccato alla famiglia è capace di mettersi allegramente a fare i suoi diabolici compiti. (pp. 50-51)

A questo punto, riassumendo, un paio di cose appaiono chiare, almeno nella misura in cui condividiamo l’approccio seguito fin qui. La prima è che la nostra esperienza etica, per quanto differenti siano le nostre culture e le nostre fedi, è verosimilmente la stessa per tutti, ma definita e limitata dall’ampiezza del gruppo da cui dipende la nostra identità come persone. La seconda conclusione è una conseguenza della prima ed è altrettanto importante perché riguarda il punto di fuga dell’etica, la linea di demarcazione fra il nostro agire etico e la nostra capacità di essere distruttivi. Questa linea è allo stesso tempo il limite della nostra identità e il confine del gruppo da cui essa dipende. Questa è la frontiera lungo la quale l’etica spesso è uccisa, qualunque sia il “sistema etico normativo”, il codice morale che ciascun gruppo adotta[26].

 

7. Il Criterio della Persona

Ho puntato la mia attenzione fin qui sul come, ossia sul processo, sull’esperienza etica, piuttosto che sul cosa, cioè il contenuto, la norma, il principio che va o andrebbe seguito. Tuttavia, nulla si fonda sul nulla e, anche in questo caso, vi è un presupposto su cui si basa quest’esperienza ma che, al contempo, dall’esperienza prende forma. In questo caso, tale presupposto può essere definito Criterio della Persona:

Criterio della Persona: la consapevolezza che siamo persone solo tra altre persone in una relazione di reciproca validazione identitaria.

Un criterio ampio e comprensivo che costituisce la base di comunanza per un processo sociale che consenta l’esperienza etica (Giliberto, 2010; Cheli & Giliberto, 2012)[27]. Un simile criterio per quanto, nella sua pretesa, ampio e universale non è normativo poiché non definisce ciò che è giusto o sbagliato né prescrive cosa fare o no, ma è delimitativo perché circoscrive un processo e ne costituisce il fondamento. Non sto dicendo qui, peraltro, che questa reciprocità sia sempre del medesimo livello. Noi, per esempio, non mangiamo i nostri animali domestici non solo perché li interpretiamo, ma anche perché ci sentiamo visti e interpretati da loro – non semplicemente guardati -, abbiamo stabilito una relazione. Sentiamo che mangiarli sarebbe sbagliato. Non è forse vero che spesso li consideriamo, a tutti gli effetti, membri della famiglia? “Persona” non è un costrutto limitato agli esseri umani. Dove il Criterio della Persona è assente, in parte o del tutto, l’etica fallisce. Nessuna compassione pare possibile e, quali che siano i nostri sistemi morali codificati, le nostre azioni e credenze, la costruzione dell’esperienza etica evapora, è fuori dal contesto delle nostre azioni. Allo stesso tempo, dove e quando il Criterio della Persona agisce, qualunque cosa sia “persona” per noi (anche il nostro cane) e quali che siano la nostra cultura, condotte e credenze, la compassione si manifesta e l’esperienza etica è possibile; per noi come, ci piaccia o no, per il nazista Munch. La PCP, con il suo rigore cartografico, e il costruttivismo con il suo rifiuto delle verità assolute, ci permettono di inquadrare l’etica nel più vasto fenomeno della conoscenza. Sono prospettive che ci consentono di porre il processo etico come oggetto stesso dell’etica, di comprendere le condizioni dell’emersione dell’esperienza etica, così come i suoi ambiti d’influenza e le sue conseguenze. Comprendere il conoscere etico se, da un lato, non vincola ad alcun assoluto morale, al codice interno di nessuna cultura, dall’altro ci permette di riflettere sulle conseguenze di questi assoluti e di queste norme. E, alla luce di queste consapevolezze, assumersi la responsabilità di scegliere. In questo senso, la PCP non è una teoria relativistica o, peggio, solipsistica. Non è, in altre parole, eticamente neutra. Il Corollario della Socialità non descrive, infatti, solo un processo, ma ne anticipa le possibili conseguenze. Conseguenze che si pongono, non a caso, in quel territorio che sta oltre la linea di confine di un agire etico. Sebbene vi siano differenti gradi attraverso cui una persona può costruire il punto di vista di un’altra – forse persino Munch costruiva, in un certo modo, ciò che le sue piccole vittime vedevano – certamente c’è una tensione in questo Corollario che ci spinge verso un reciproco riconoscimento come costruttori, come persone. Come Bannister e Fransella (1986) ci ricordano:

A seconda delle nostre idee sui sistemi di costrutti di altre persone possiamo cercare di ispirarle, di confonderle, di divertirle, di cambiarle, di conquistare il loro affetto, di aiutarle a passare il tempo, o di sconfiggerle; ma in tutti questi e in molti altri modi noi giochiamo con esse un ruolo in un processo sociale. Viceversa, se non riusciamo a capire le altre persone, cioè se non riusciamo a costruire la loro costruzione, allora possiamo fare delle cose a loro, ma non metterci in relazione con loro. (pp. 39-40)

La conseguenza del non comprendere gli altri, magari perché sono ritenuti meno persone di noi, è, quindi chiara e va oltre il semplice rapporto fra due esseri umani. È una conseguenza che riguarda, per esempio, il rapporto fra culture, fedi e appartenenze. La dimensione relazionale può essere diversa; il presupposto però è lo stesso: il mutuo riconoscersi come persone. Solo allora saremo disposti a prendere in considerazione le costruzioni dell’altro, e viceversa. Solo allora sentiremo la nostra identità dipendere dall’integrità dell’altro e, perciò, non potremo nuocergli: danneggiando lui faremmo del male a noi stessi, salvandolo ci salveremmo. Il boia che vedesse nella sua vittima una persona probabilmente non potrebbe ucciderla.

La PCP, illuminando l’area oscura delle conseguenze delle nostre azioni – o aiutandoci a farlo – esprime un’etica della relazione in cui l’accettazione non è un incondizionato prendere tutto ciò che viene dall’altro – accettazione inerziale – ma esprime l’utilità di comprenderlo dal suo punto di vista, considerandolo, fondamentalmente, simile a noi; e noi, sostanzialmente, non dissimili da lui. Accettare e comprendere non sono semplicemente atti umanitari, atti di generoso altruismo ma gesti che garantiscono la nostra stessa personale esistenza.

L’etica di cui stiamo parlando non è l’etica dei comportamenti e dei codici morali. Uno stesso comportamento può avere significati diversi[28]. Ed è certamente diverso se ispirato dal sentire etico o dall’obbedienza a un codice o un protocollo morale. Un accadimento personale può essere illustrativo di quanto sto dicendo.

 

La mia primogenita Giulia, all’età di otto anni, dovette essere operata urgentemente per una peritonite. Per alcuni giorni dopo l’operazione rimase in una situazione sospesa fra la salvezza e la possibilità di morire. Non beveva, non voleva bere. E i medici mi spiegarono che, se non avesse ricominciato a farlo, avrebbe rischiato una paralisi intestinale e il decesso. Io e mia moglie eravamo disperati. Ci sembrava di vivere un incubo. Infermieri e medici andavano e venivano dalla sua stanza, dal letto in cui lei deperiva a vista d’occhio. Erano tutti gentili, professionalmente gentili; così almeno li percepivo io. Ma mia figlia continuava a rifiutarsi di bere. E il tempo stringeva. Una mattina entra in stanza un’infermiera, la preferita di Giulia. Una donna prosperosa, solare, emotivamente – a differenza dei suoi colleghi – calda. Mi guarda, io scuoto la testa e lei legge nei miei occhi tutta la mia disperazione. Socchiude gli occhi, come a dire: aspetta. Si avvicina a Giulia e si siede sul bordo del suo letto. La prende in giro, scherza e la fa sorridere… Il primo sorriso su quel piccolo volto sofferente di bimba dopo giorni. Si china sul suo orecchio e le sussurra qualcosa che non sento. Le strappa un “batti cinque” e riesce a farle bere un primo, piccolo, essenziale sorso d’acqua. Breakdown! In quel momento Giulia, per come la vedo io, si è salvata, ha superato il crinale che faceva da spartiacque fra la vita e la morte.

 

Nei gesti di quell’infermiera c’era qualcosa di speciale. Non stava obbedendo a un codice professionale né ad alcuna regola di buona educazione. Non stava pensando di guadagnarsi il paradiso. Sembrava facesse solo ciò che spontaneamente sentiva giusto[29]. Lei vedeva una bambina, dove gli altri vedevano un piccolo corpo malato. Il suo era un gesto etico laddove i suoi colleghi, probabilmente, obbedivano a delle regole. Tutti erano gentili, sia chiaro, il comportamento era apparentemente lo stesso; ma la sua era, in tutta evidenza, una gentilezza diversa. La semplice obbedienza alle regole non fa di noi necessariamente persone etiche, semmai, per ben che vada, ci conferisce lo status di “brave persone” (Varela, 1992). Ebbene, quell’infermiera non era semplicemente una brava persona.

Il Criterio della Persona e il Corollario della Socialità sembrano dirci che noi siamo la nostra etica e che le regole non possono coprire l’immensa varietà delle esperienze umane. Questo significa che dobbiamo mettere al rogo ogni codice morale? No. Ma dovremmo essere consapevoli che le regole testimoniano il fallimento dell’etica. Di esse c’è bisogno per coprire l’assenza del sentire etico tutelando i più deboli, oppure, come talvolta accade, per giustificare e dare un ordine agli esiti di quel vuoto etico.

L’etica muore sulla linea di confine delle nostre identità, del nostro costruirci simili ai simili, lì dove gli altri sono meno che persone. Su quel confine la compassione avvizzisce rapidamente. Tuttavia, talvolta quella linea di confine si sposta; e magari si amplia. Sono, queste, le “esperienze ponte” in cui traghettiamo noi stessi e gli altri in un’identità più ampia. Questo succede quando, per esempio, qualcosa o, per meglio dire, qualcuno sbuca dallo schermo televisivo per diventare persona concreta. Quando, invece che assistere a uno spettacolo in televisione, assistiamo a uno sbarco di migranti dal vivo e vediamo negli occhi di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini la disperazione e il sollievo, la paura e la speranza, il dolore e lo smarrimento. Quando quegli esseri umani smettono, ai nostri occhi, di essere figurine su un video e invasori stranieri per diventare uomini come noi, donne come noi, bambini come i nostri bambini, padri, madri, figli e figlie. Queste esperienze ponte sono uno dei temi ricorrenti della letteratura di guerra. Giuseppe Capecchi (2013) ci racconta come nella Grande Guerra la categoria di “nemico”, secondo la testimonianza di una parte della letteratura italiana dell’epoca, si sia a mano a mano trasformata per molti dei nostri soldati. Prima del conflitto, in accordo con la propaganda, il nemico era un mostro. Nella prima fase della guerra di trincea, il nemico e un “nemico invisibile” che i soldati potevano uccidere senza alcuna esitazione. È solo quando il nemico diviene visibile che i soldati cominciano a vedere in lui una persona simile al vicino, al fratello, all’amico. Uno che come loro aveva paura, nostalgia di casa e certamente non amava la guerra. Emerso alla luce, diventato visibile, il nemico diventa un simile, una persona concreta che può suscitare compassione[30]. I nostri soldati, in altre parole, come testimoniano gli scritti dell’epoca, si rispecchiano negli occhi di chi sta nella trincea opposta. Hanno attraversato un ponte. Non sono più gli stessi.

 

Il Criterio della Persona si è acceso.

 

8. Conclusioni

È tempo di tornare ad Auschwitz e a tutte le altre cose simili, come la schiavitù, la pulizia etnica, la guerra, il razzismo, la discriminazione sessuale, la guerra, il terrorismo e il fondamentalismo religioso. Coloro che hanno agito e agiscono tutte queste cose si ritengono nel giusto o, quantomeno, non ritengono di sbagliare. Ciò che io chiamo “orrore” qualcun altro lo chiama “dovere”. Ciò che suscita il mio raccapriccio pensando ad Auschwitz era per Hans Much un’irripetibile opportunità professionale e, per un altro famoso nazista, il burocrate Adolf Eichmann (Arendt, 1964) – un uomo descritto come tutt’altro che malvagio – semplice lavoro. Il discrimine fra questi due modi di sentire è il Criterio della Persona: laddove io vedo in Levi e nei suoi compagni di prigionia una comunanza fondamentale, l’essere persone come me, i nazisti vedevano animali, materiale biologico da esperimento, oggetti e pratiche da sbrigare. Ciò che per me è un’espressione del male – perché io provo compassione per questi uomini simili a me e a chi mi è caro – per i nazisti non era nemmeno ascrivibile a un’esperienza etica. L’etica si dà come esperienza possibile soltanto entro i confini sociali, inter-personali in cui costruiamo la nostra identità. Questo vale tanto per noi quanto per gli aguzzini del Reich nazista. Non siamo, per quanto possa essere spaventoso, fondamentalmente diversi. Sarebbe stato più tranquillizzante pensarli come mostri inumani. Li avremmo, a nostra volta, resi esseri completamente diversi da noi e immeritevoli d’ogni compassione[31]. Ci saremmo messi al riparo da ogni possibilità di identificarci in loro, salvaguardando il nostro senso d’identità. Ma il modo in cui questi nazisti ci raccontano le loro vicende ci restituisce semplicemente il quadro di persone qualunque. L’esperienza etica ha le stesse irriducibili caratteristiche per tutti, a qualsiasi etnia, gruppo sociale, genere sessuale, ideologia o religione apparteniamo. Diversi, però, sono i confini entro i quali definiamo noi stessi, costruiamo la nostra identità e oltre i quali, tutti, siamo incapaci di compassione, indifferenti o, persino, capaci di essere dei carnefici.

La consapevolezza di queste differenze, ma soprattutto di queste fondamentali somiglianze, non deve indurci all’inerzia; anzi. Capire apre, solitamente, a nuove vie. L’idea che la conoscenza ordina e organizza un mondo costituito dall’esperienza dell’osservatore (von Glasersfeld, 1998; von Foerster & von Glasersfeld, 2001), se da un lato porta all’assoluto rifiuto di verità assolute, di precetti etici universali, dall’altro ci aiuta a fare luce sulle conseguenze delle varie visioni del mondo, dei vari assoluti e norme. Allo stesso tempo, porre l’accento sul processo, sull’esperienza invece che sulla norma, ci racconta che siamo persone solo tra altre persone e che, quando questo non accade, ci ritroviamo improvvisamente sul confine dell’umanità, dove ogni esperienza etica svanisce. Comprendere il processo etico – ciò che accade quando ci prendiamo cura dei bisogni dei nostri simili o di coloro che consideriamo tali – non ci vincola ad alcuna norma, ma ci mette al cospetto delle sue conseguenze. La condizione affinché si possa provare compassione e fare un’esperienza etica è vedere nell’altro un nostro simile. La conseguenza sarà il prendersi cura dell’altro, perché in lui risiede il fondamento della nostra identità. Prendersi cura dell’altro sarà un modo per preservare se stessi; chiunque sia l’altro, se inteso come persona. Se, per esempio, percepiamo la nostra identità radicata e interdipendente con il pianeta su cui posiamo i piedi e di cui respiriamo l’aria, non lo useremo, non ci sentiremo autorizzati a depauperarlo, ma ce ne prenderemo cura (Bateson, 1984; Mastrojeni, 2014)[32]. Dove invece attecchisce l’idea, la percezione che non siamo uguali e che, perciò, non abbiamo il medesimo status di “persone”, ci saranno l’indifferenza, lo sfruttamento e la sopraffazione nelle mille forme in cui possono presentarsi. Non c’è guerra senza un nemico, non c’è pulizia etnica senza razze inferiori, non c’è fondamentalismo religioso senza indegni miscredenti, non c’è discriminazione sessuale senza superiorità di un sesso sull’altro, non c’è, infine, inquinamento o degrado ecologico senza un convinto antropocentrismo. Consapevoli di queste conseguenze, siamo responsabili delle nostre scelte; a qualsiasi cultura apparteniamo, quali che siano le nostre origini o le nostre credenze religiose. Possiamo scegliere, cioè, fra il procedere incontrollabile e degradato della storia – probabilmente verso una precoce estinzione della nostra specie – o il prendersi cura l’uno dell’altro. Possiamo scegliere, in definitiva, fra il tentativo di dilatare la nostra esperienza etica fino a includervi dimensioni inter-personali sempre più ampie, e il rimanere entro i nostri limitati confini.

Queste sono le ragioni per cui è sempre più necessario porre il processo etico come parte del processo di conoscenza, e il processo di conoscenza come oggetto stesso di conoscenza. Conoscere la conoscenza etica ci offre non solo la misura delle differenze ma, come abbiamo visto, l’idea del modo comune in cui diamo forma, costruiamo le nostre esperienze. Come scrive Varela (1992):

[…] la realtà non è un dato [realismo]: essa dipende dal percipiente, non perché si costruisce per capriccio [relativismo], ma perché ciò che conta come un mondo rilevante è inseparabile da ciò che è struttura del percipiente. (p. 16)

Appartenenti a comunità identitarie diverse nel tempo e nello spazio, abbiamo, in quanto esseri umani, le medesime strutture conoscitive. Conoscere la conoscenza etica pare la via, al di là dei dogmi e dei principi contenutistici e normativi, per l’azione. Noi, sia come individui che come specie, siamo la nostra conoscenza così come siamo la nostra etica.

Prendere, alla luce di tutto questo una posizione, non è dogmatico, perché questa cornice non è normativa, ma una costruzione che ci orienta attraverso ogni possibile “evento” nel regno dell’etica. Sfugge, al contempo, all’inerzia relativistica, perché chiarisce sia le comuni, irriducibili caratteristiche del processo etico sia il confine delle nostre esperienze, delle nostre azioni e convinzioni, trascendendole e superandole. Il costruttivismo e la PCP ci offrono, in altri termini, un approccio ortogonale e superordinato al dilemma etico che oppone realismo e relativismo, fondamentalismo e nichilismo, verità morali e assoluta assenza di qualunque criterio condiviso. Non ci condanna all’inerzia, né ci crocifigge ad alcun dogma morale. Piuttosto, ci restituisce a un’etica intesa e vissuta come modo in cui possiamo prenderci cura del nostro destino e di quello degli altri, portando continuamente il peso dell’incertezza della nostra esistenza.

 

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Note sull’autore

 

Massimo Giliberto

Institute of Constructivist Psychology

giliberto@icp-italia.it

Massimo Giliberto è Direttore e Didatta della Scuola di Psicoterapia Costruttivista dell’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Esercita la psicoterapia privatamente e si occupa di consulenza e formazione aziendale. È attualmente membro dell’Editorial Board del Journal of Constructivist Psychology e dell’e-journal Personal Construct Theory & Practice, editore della Rivista Italiana di Costruttivismo, trainer e supervisore dell’Associazione Costruttivista Serba (SKA) e co-fondatore dell’European Constructivist Training Network (ECTN). Si interessa di epistemologia ed etica, ed è impegnato nella ricerca e nello sviluppo di nuovi contesti di sperimentazione ed elaborazione nella clinica e nella didattica.

 

Note

  1. L’articolo è la versione ampliata di un articolo originariamente pubblicato in inglese: Giliberto, M. (2010). An Invitation to Elaborate Ethics Through PCP. In D. Bourne and M. Fromm (Eds.), Construing PCP: New Contexts and Perspectives. 9th European Personal Construct Association Conference Proceedings, Book on demand.
  2. L’espressione “struttura di relazione” può essere facilmente ricondotta, nei termini della Psicologia dei Costrutti Personali, a una dimensione di significato, a un costrutto nucleare e superordinato che governa – ossia permette di anticipare e dare senso a – una relazione.
  3. Oggi, a proposito delle teorie razziste dell’epoca, si parla di “pseudoscienza” per sottolineare un discrimine fra quelle teorie e la scienza. Tuttavia, ogni volta che una teoria è superata, siamo forse autorizzati a pensare che questa sia stata partorita non dalla scienza ma dalla pseudo-scienza?
  4. Questo articolo ha origine in alcune interessanti discussioni con Maria Armezzani e Matteo Paduanello con i quali abbiamo presentato una comunicazione su questo argomento all’VIII European Personal Construct Association Conference, a Kristianstad in Svezia nel 2006.
  5. Più modesti paiono i tentativi di costruire una psicologia dell’etica.
  6. Criteri “normativi” poiché pre-scrivono, al di là e al di sopra dell’esperienza concreta, ciò che è bene e ciò che è male.
  7. Affermazioni di questo tipo spesso inducono il lettore a pensare al costruttivismo e alla PCP come a un’epistemologia e una teoria esclusivamente individuali. Una lettura più approfondita, tuttavia, mostra come le interpretazioni individuali, i costrutti, non siano intesi come “enti cognitivi” appartenenti al singolo, ma come azioni, direzioni di senso che emergono sempre e comunque in una dimensione relazionale.
  8. Varela e Kelly condividono l’interesse per il costituirsi della conoscenza attraverso l’esperienza. In modo simile, infatti, Kelly sostiene: “Il costruire, come tutti i processi, può essere spezzettato in segmenti che hanno un inizio e una fine. […] Come altri aspetti della vita, la sua dimensione principale è il tempo. […] Gli eventi del costruire di una persona marciano in fila indiana lungo il percorso del tempo” (1955, p. 51, tda).
  9. Dicotomia proposta, come richiamato all’inizio di questo capitolo, da Ludwig Wittgenstein (1967): “L’etica, se è qualcosa, è soprannaturale, mentre le nostre parole potranno esprimere solamente fatti; così come una tazza contiene solo la quantità d’acqua che la riempie fino all’orlo, e io ne facessi versare un ettolitro.” (p. 11)
  10. Francisco Varela (1992) sviluppa un’idea molto simile da cui ho tratto ispirazione, ed è palese che prendo molto in prestito dal suo lavoro Un know-how per l’etica.
  11. Nel suo articolo Maturana introduce la nozione di oggettività fra parentesi distinguendola dall’oggettività senza parentesi, propria di un paradigma realista.
  12. Solo questa somiglianza strutturale – da un punto di vista costruttivista – può permetterci di condividere la costruzione di una “evidenza” tra virgolette.
  13. Un assunto costruttivista è che la conoscenza non prescinde in alcun punto dall’esperienza.
  14. Corollario della Socialità: “Nella misura in cui una persona costruisce i processi di costruzione di un’altra, può giocare un ruolo in un processo sociale che coinvolge l’altra persona” (Kelly, 1955, p. 95, tda). Un lecito quesito potrebbe, per esempio, essere: la compassione è una versione più approssimativa del Corollario della Socialità o una sua definizione in un’area più specifica?
  15. Kelly ha proposto una teoria che, anche se è stata creata in un dato ambiente culturale e in un dato momento, supera culture ed epoche perché è una teoria astratta e vuota. I suoi costrutti teoretici spesso sono descrizioni di processi. Di conseguenza, per esempio, la colpa non è una precisa trasgressione di un ruolo specifico; la colpa è un esilio dal proprio ruolo nucleare, qualunque esso sia. Questo rende la “colpa”, la “solidità”, la “compassione” esperienze riconoscibili da qualunque uomo in qualunque cultura e in ogni tempo.
  16. Corollario della Scelta: “Una persona sceglie per se, in un costrutto dicotomico, quell’alternativa attraverso la quale egli anticipa la maggiore possibilità di estensione e definizione del suo sistema”. (Kelly, 1955, p. 64, tda)
  17. Interessante a questo proposito è quanto ci raccontano Maturana e Varela sul caso di due bambine indiane allevate da una famiglia di lupi e in seguito trovate e ricondotte a un contesto umano (1987, pp. 111-114).
  18. In sostanza, questo è quanto ci dice il Corollario della Socialità, già riportato alla nota 14.
  19. Corollario della Comunanza: “Nella misura in cui una persona impiega una costruzione dell’esperienza che è simile a quella impiegata da un’altra, i suoi processi psicologici sono simili a quelli dell’altra persona”. (Kelly, 1955, p. 90, tda)
  20. Ordinary death is less threatening to people than is the total loss of their core role. ” (Kelly, 1955, p. 910)
  21. L’intervista di Schirra a Munch è stata pubblicata originariamente su Der Spiegel il 26 settembre 1998 e riportata da Paolo Valentino sul Corriere della Sera nell’ottobre dello stesso anno
  22. Difficile non fare un parallelo con quanto Hannah Arendt ci descrive nel suo libro La banalità del male (1964).
  23. Dall’articolo di Paolo Valentino (1998): – Hans Munch, ha 87 anni e vive, tranquillo pensionato, a Rosshaupten sul Forggensee. Benvoluto da vicini e conoscenti, per nulla turbati dal suo passato: “Era medico ad Auschwitz? Ma è successo così tanto tempo fa”.
  24. “Straniero” in molte lingue – forse persino in tutte – significa, almeno psicologicamente, “diverso da noi”.
  25. Il campo di pertinenza dell’etica per ognuno di loro (e di noi) è il limite del proprio gruppo di riferimento. E questo campo di pertinenza corrisponde in pieno al campo di pertinenza del costrutto “persona”.
  26. Un’altra buona ragione, a mio parere, per considerare le possibilità di un’etica non-normativa.
  27. Un simile criterio per quanto, nella sua pretesa, ampio non è normativo perché non definisce ciò che è giusto o sbagliato né prescrive cosa fare o no, ma è delimitativo poiché circoscrive un processo e ne costituisce il fondamento.
  28. Uno stesso comportamento, ovviamente, agli occhi di un terzo osservatore. E potremmo aggiungere: comportamenti diversi , o addirittura opposti, potrebbero avere il medesimo significato.
  29. Né più né meno come, per esempio, per Perlasca.
  30. In questa fase, semmai, come dimostra Capecchi, i nemici diventano i generali che non sono in trincea e dirigono la guerra lontani da ogni pericolo.
  31. Non è forse ciò che loro facevano con le persone ebree?
  32. È fondamentalmente questa l’idea di “Mente” che Gregory Bateson cerca di sviluppare.