Tempo di lettura stimato: 28 minuti
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“Lingua congressuale”, costrutti personali e internazionalismo costruttivo

“Congress language”, personal constructs and constructive internationalism

di

Jörn W. Scheer

Università di Giessen

 

Traduzione a cura di

Chiara Lui, Kathleen Bertotti

Abstract

Nota introduttiva a cura della redazione: Il contributo che abbiamo scelto di proporre di seguito è stato presentato e discusso dall’autore in occasione del X Congresso Internazionale di Psicologia dei Costrutti Personali (Australia, 1996) e della presentazione conserva il carattere discorsivo, a tratti informale. Prendendo le mosse dalla propria esperienza di partecipante straniero alle prese con la “lingua congressuale”, l’autore esplora significati e implicazioni della lingua e del linguaggio nelle interazioni umane, interpellando anzitutto se stesso e ciascuno di noi – quale parlante, ascoltatore, traduttore o nondimeno lettore – con l’invito a non dare per scontato il mondo di significati che entrano in gioco nell’interazione, disegnando le trame di una storia.

Editor’s introductory note: This contribution was presented and discussed by the author at the 10th International Congress of Personal Construct Psychology (Australia, 1996) and it retains the conversational, and sometimes informal, style of a presentation. Stemming from his personal experience as a foreign attendee dealing with the “congress language”, the author explores the meanings and implications of language in human interactions, questioning himself and each of us – as a speaker, listener, translator and nevertheless as a reader – reminding us not to take for granted the world of meanings that come into play in the interaction, drawing the threads of a story.

Keywords:
Lingua congressuale, linguaggio relazionale, psicologia conversazionale, psicologia come racconto di storie, internazionalismo costruttivo | congress language, relational language, conversational psychology, psychology as storytelling, constructive internationalism
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1. Gli inizi: Assisi

Meine Damen und Herren, während des Internationalen Kongresses zur Psychologie der Persönlichen Konstrukte in Assisi vor vier Jahren hörte ich einen sehr interessanten Vortrag über, “Die Verwendung von Sprache: Eine konstruktivistische Sicht auf Politik und Moral”. Der Redner unterschied zunächst zwischen inhärenten und relationalen, also Beziehungsqualitäten. Die Zuschreibung inhärenter Qualitäten führt dazu, sich zu verhalten, als existierten diese Entitäten unabhängig von mir und meinen Konstruktionsprozessen. Alternativ dazu, so sagte er, können wir auch Qualitäten verwenden, welche Beziehungen zwischen Entitäten spezifizieren. Eine wichtige Art und Weise der Verwendung von Beziehungsquälitaten ist, äußere Ereignisse mit dem Sprecher in Verbindung zu bringen. Dies nannte er, Erfahrungssprache’ und gab als Beispiel: “Ich gebe mir große Mühe, Deinen Standpunkt zu verstehen”. Er fuhr fort, indem er die Verwendung von Sprache der unterschiedlichen Arten mit politischen Aspekten der Ausübung von Macht und Kontrolle in Verbindung brachte. Etwas oder jemandem inhärente Qualitäten zuzuschreiben, bedeutet, eine Sprache der Machtausübung and der Kontrolle zu verwenden. Oft bedeutet dies, den Anspruch auf Besitz der absoluten Wahrheit zu erheben und die Wahrheiten anderer Leute zu negieren. Darüberhinaus beansprucht inhärente Sprache zu wissen, was real ist und, vor allem im Zusammenhang moralischen Urteilens, was gut und richtig ist und was schlecht und falsch. Erfahrungssprache läßt vielerlei permeable Realitäten zu. Wenn ich meine eigene Rolle in der Entstehung meiner Beziehungen zu anderen erkenne, sehe ich auch, daß der Prozeß wechselseitig kausal ist. Ich trage ebenso viel zur Erfahrung der Beziehung bei wie mein Partner. Wahrheiten werden relativ in bezug auf unsere jeweiligen Konstruktionen. Ich kann den Anspruch auf DIE WAHRHEIT nicht aufrechterhalten. Wenn ich eine Beziehungssprache benutze, betone ich Verbundenheit, Erfahrung, Gegenseitigkeit. Wenn ich mich für Beziehungsqualitäten und Erfahrungssprache entscheide, bin ich Teil der Vorgänge, denen ich begegne. Es wird einen fortgesetzten Austausch mit den Menschen geben, denen ich begegne, und mit meinem Gewissen, aber ich[2] bin es, der sich dafür entscheidet, für meine Konstruktionen selbst verantwortlich zu sein, und für die Art und Weise, wie ich dieser Verantwortung gerecht werde.

Signore e signori, amici e colleghi, dopo che avete seguito molto pazientemente il mio discorso per due minuti, ripeterò ora ciò che ho appena detto nella vera lingua congressuale. Con questo termine appena coniato mi riferisco al buon vecchio inglese-americano-australiano e da una simile dicitura potete intuire che cosa ho in mente. Questi tre Paesi possono, a ragione, essere considerati i Tre Grandi per quanto concerne il costruttivismo (ad essi dovremmo aggiungere l’Irlanda, che si avvantaggia della sua lingua coloniale). È dovuto a un puro caso? E ancora, è per puro caso che solo pochi Paesi emergenti come l’Italia, la Spagna, la Germania, la Norvegia e l’Olanda presentino una certa industrializzazione della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) e un gran numero di Paesi siano sottosviluppati (vedi figura 1)?

 

2. Linguaggio relazionale

Veniamo ora a tradurre la mia introduzione dal tedesco, a me familiare, alla lingua più familiare alla maggior parte di voi!

Signore e Signori! Durante il Congresso Internazionale di Psicologia dei Costrutti Personali tenutosi ad Assisi quattro anni fa, fui attratto da un titolo molto interessante: “L’uso del linguaggio: una visione costruttivista della politica e della morale”. Il relatore cominciò tracciando una distinzione tra qualità intrinseche e qualità relazionali. L’attribuzione di qualità intrinseche porta ad agire come se queste entità esistessero di per sé, indipendentemente da me e dal modo in cui costruisco. In alternativa, egli disse, possiamo impiegare qualità che specifichino le relazioni tra le entità. Un’importante modalità di utilizzare le qualità relazionali è connettere eventi esterni con il soggetto. Definì questa modalità linguaggio esperienziale e fece questo esempio: “Mi sto sforzando di comprendere il tuo punto di vista”.

 

Immagine che contiene schizzo, mappa, bianco e nero Descrizione generata automaticamente

Fig. 1: Una mappa del mondo della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP)

 

Poi proseguì mettendo in relazione l’uso di linguaggi di diverso tipo con gli aspetti politici dell’esercizio del potere e del controllo. Attribuire qualità intrinseche significa usare un linguaggio del potere e del controllo.

Spesso, ciò implica il sostenere di possedere la verità assoluta e negare la verità degli altri. Peraltro, il linguaggio intrinseco avanza pretese riguardo a ciò che è reale e, specialmente nel contesto della moralità, riguardo a ciò che è[3] buono e giusto, cattivo e sbagliato. Il linguaggio esperienziale, invece, ammette molteplici realtà permeabili. Se io riconosco il mio ruolo nel generare le relazioni con gli altri, arrivo a vedere che il processo è mutualmente causale; io contribuisco all’esperienza della relazione tanto quanto l’altro. Le verità diventano relative alle nostre rispettive costruzioni, non posso più rivendicare un accesso privilegiato alla Verità. Quando impiego un linguaggio relazionale, sottolineo la connessione, l’esperienza e la reciprocità. Scegliendo di usare qualità relazionali e linguaggio esperienziale, io sono parte degli eventi a cui vado incontro. Ci sarà una continua negoziazione con le persone che incontro e con la mia coscienza, ma sono io che scelgo di essere responsabile sia delle mie costruzioni che del modo in cui esercito questa responsabilità.

Ciò che ascoltai sembrava aver senso per me; si conformava infatti ad alcune idee che io stesso avevo già formulato. Tuttavia, mentre ascoltavo, iniziai a sentirmi un po’ a disagio. Non ero sicuro di poter attribuire il disagio alla concentrazione dovuta alla mia limitata conoscenza dell’inglese; ad un certo punto, però, il relatore disse: “Quando cambiamo il nostro linguaggio, anche la nostra visione delle persone è aperta al cambiamento”. Realizzai che il mio disagio aveva proprio a che fare con problemi legati al linguaggio. Avevo interpretato “cambiare linguaggio” in un modo più semplice, a significare il passaggio ad una lingua differente (per esempio straniera), mentre il relatore intendeva qualcosa di più vicino a “i modi di impiegare il linguaggio”. Utilizzò spesso l'”io” e il “noi” durante la sua presentazione, ma i miei sforzi con la lingua, il mio cercare di afferrare prima il significato intrinseco, possibilmente le qualità relazionali, infine tutto ciò che questo significava per me, non erano parte delle sue considerazioni. Il relatore si occupava del linguaggio, dell’uso del linguaggio e del suo impatto sulle persone e sulle relazioni; si stava rivolgendo ad un congresso internazionale e non fece riferimento al fatto – probabilmente non l’aveva nemmeno notato – che l’uditorio che lo stava ascoltando potesse avere a che fare direttamente con le sue tesi.

Il relatore terminò il suo intervento. I partecipanti cominciarono a discutere del linguaggio relazionale in generale e delle sue implicazioni per la psicoterapia in particolare. Io restai seduto ad ascoltare a metà, ripensando all’affermazione sul cambiamento di linguaggio. Alla fine, presi coraggio e abbozzai qualche titubante commento in quella direzione, dichiarando che, dal mio punto di vista, l’impiego irriflesso di un inglese aulico ad una conferenza internazionale solleva la questione dell’esercizio del potere, sia nel caso del linguaggio intrinseco che di quello relazionale, e chiesi se queste considerazioni fossero pertinenti con ciò che aveva delineato. Chi intervenne dopo di me si disse d’accordo con la mia osservazione e da quel momento si generò un movimento a spirale di linguaggio fortemente relazionale, in cui ciascuno parlò di sé. Gli inglesi madrelingua si autoaccusarono di imperialismo della lingua inglese, io replicai che mi sentivo frainteso, dall’altra parte vennero espressi sensi di colpa, io sviluppai sensi di colpa perché avevo causato sensi di colpa, e così via. L’affermazione finale di un partecipante britannico suonò all’incirca così: dopo aver ammesso che c’era sicuramente un problema, ciascuno probabilmente sarebbe andato avanti come aveva fatto fino a quel momento. Questo chiuse il dibattito. E si rivelò profetico.

Io decisi allora – in segreto, per conto mio – di scrivere un piccolo discorso per uno dei successivi congressi internazionali. Non ero pronto per questo compito ad Albany[4]. Quindi, eccolo qui.

Mentre ascoltate, per favore tenete presente che, quando scrivo una relazione come questa, non la scrivo in tedesco per poi tradurla in un secondo momento. La scrivo in inglese, perché per me è più facile. Anticipando ciò che spiegherò più avanti: è più facile perché credo che così mi sia possibile avvicinarmi ai costrutti della lingua inglese più di quanto non farei scrivendo prima in tedesco. Tuttavia, ciò significa anche che, per la mia limitata conoscenza ed il mio lessico ristretto – per non dire costretto – i costrutti che impiego dipendono da ciò che ho imparato durante le lezioni di inglese a scuola, dall’ascolto di AFN (American Forces Network) durante i miei studi ad Heidelberg, dall’ascolto di brani jazz e canzoni pop, dalla lettura di romanzi e pubblicazioni scientifiche, da quanto ho captato durante viaggi e vacanze in paesi di lingua inglese e, di recente, alle conferenze di PCP. Questi costrutti, pertanto, non sono costrutti che ho correttamente appreso, né costrutti che ho sviluppato vivendo con la lingua. Derivano da una via di mezzo, con tutti gli inconvenienti che questa origine comporta. E vengono validati solo di rado.

Questa potrebbe suonare come una scusa. Nel contesto del tema di oggi, tuttavia, scelgo esplicitamente di non scusarmi per il mio inglese povero, come sono solito fare. Ho preferito, inoltre, non far correggere il manoscritto da un madrelingua. Ciò di cui mi vorrei scusare, invece, è il fatto che andrò a toccare diversi temi che trascendono la mia competenza professionale. In alcuni casi, quindi, ciò che ho da dire si basa più su convinzioni personali o sull’esperienza, che su un solido terreno di conoscenza scientifica.

Uno dei prerequisiti del linguaggio relazionale è render chiaro chi siamo quando parliamo; essere o diventare riconoscibili. Posso anticipare, di nuovo, che questa è la caratteristica principale di ciò che io ho compreso del concetto di psicologia conversazionale di Miller Mair (1989a). Pertanto farò un uso intensivo del linguaggio relazionale nel senso sopra descritto. Per questo vorrei dire due parole su di me. Sono nato nel nord della Germania, nell’anno in cui l’esercito tedesco invase l’Unione Sovietica. Dopo aver studiato un po’ di fisica, sono diventato uno psicologo clinico e ho proseguito la formazione post-universitaria in un dipartimento di medicina psicosomatica ad orientamento psicoanalitico. Insegno psicologia medica a studenti universitari di medicina e i miei interessi di ricerca, negli ultimi 25 anni e più, sono stati incentrati sui processi psicoterapeutici e sugli aspetti psicologici della prassi medica. Il mio primo e molto superficiale approccio con la PCP risale al 1964. Il mio coinvolgimento è divenuto più intenso negli anni ’80. Ancora non mi considero un kelliano fino al midollo. Tuttavia, poiché ritengo che le idee costruttiviste e specialmente la Psicologia dei Costrutti Personali meritino un riconoscimento più ampio, ho dedicato tempo ed energia a diffondere il Verbo in ambito psicologico e, ultimamente, medico.

 

Fornirò ora un sommario della mia relazione, che ho suddiviso in nove sezioni:

  1. Il racconto iniziale della mia esperienza ad Assisi. È ciò che avete appena ascoltato. Lo definisco un racconto, avendo in mente le considerazioni di Miller Mair (1989b; 1990) sulla psicologia come racconto di storie (story-telling). Ma dirò di più su questo in seguito.
  2. Linguaggio relazionale. Questo è il fulcro della presentazione di David Fisher (1989) ad Assisi – era lui il relatore – che ho appena cercato di riproporre. Sono convinto che si tratti di un costrutto molto importante quando pensiamo alle dissertazioni tra scienziati.
  3. Sociolinguistica e potere. Si riferisce alla distinzione di Basil Bernstein (1990) relativa ai due codici del parlare, elaborato versus ristretto.
  4. Relazioni internazionali. Con questo, iniziano le considerazioni che intendo proporre oggi: il ruolo del linguaggio nelle relazioni internazionali e, su scala minore da persona a persona, nei rapporti tra parlanti lingue diverse.
  5. Traduzioni. Qui tratterò il destino dei costrutti, personali o generali, quando vengono trasposti nelle traduzioni. Finora il movimento PCP ha interessato prevalentemente i Paesi di lingua inglese. Ipotizzo che ciò abbia a che fare con qualche tipo di barriera linguistica che solo pochi possono davvero oltrepassare.
  6. Story-telling in breve. Miller Mair (1989b) ha proposto di considerare la psicologia essenzialmente come una disciplina del raccontare storie. Questo pone al centro il ruolo del linguaggio.
  7. Psicologia conversazionale. Un altro concetto che Miller Mair (1989a) propone riguarda l’impegno allo sviluppo di una psicologia basata sulla conversazione. Questa idea mi è molto congeniale, ma di nuovo: le conversazioni impiegano il linguaggio come il più importante mezzo di comunicazione, pertanto il linguaggio merita un’attenzione speciale.
  8. Internazionalismo costruttivo. Cosa significa tutto questo per gli psicologi dei costrutti personali, non solo quando teorizzano per conto proprio e applicano griglie di repertorio ai soggetti con cui hanno a che fare, ma anche quando cercano di prendere sul serio il generale impulso umanistico intrinseco alla teoria e si impegnano in incontri transnazionali, forse transculturali, come il Congresso Internazionale di PCP?
  9. Il racconto conclusivo. Il mio racconto conclusivo sarà di carattere storico, un piccolo scenario di cosa sarebbe potuto essere della PCP se ad un certo punto nella storia fosse stata presa una decisione diversa.

 

3. Sociolinguistica e potere

Ciò che David Fisher (1989) ha elaborato nella sua relazione mi ha ricordato il lavoro di Basil Bernstein (1990). Gli psicologi tra voi avranno familiarità con la distinzione di Bernstein tra i due codici del parlare: il codice ristretto e il codice elaborato. Il codice ristretto è caratterizzato da una struttura sintattica insufficiente e semplicistica, che spesso ignora le regole grammaticali, usa periodi brevi e a volte incompleti, impiega aggettivi e avverbi in modo rigido, applica formule e frasi stereotipate, mescola fatti e cause ascritte. Il codice elaborato è costituito dalle caratteristiche opposte. Perciò, di fatto, si può parlare di due linguaggi differenti.

Secondo Bernstein, i due codici possono essere attribuiti a due classi sociali, il ceto basso e il ceto medio; e la padronanza di uno o l’altro dei due codici è associata alla dominanza sociale. Come sapete, questi temi sono stati ampiamente discussi negli anni ’70 con riferimento alle politiche scolastiche e molto è stato fatto per rendere le persone sensibili ai sottili mezzi di esercizio del potere sociale. Sarebbe interessante analizzare le connessioni con il concetto di linguaggio intrinseco versus relazionale.

Ciò che Bernstein ha esplorato implica delle distinzioni all’interno di una lingua. Oggigiorno tuttavia, non è raro che in un Paese convivano due o più lingue differenti, lingue parlate da rilevanti porzioni di popolazione. Per lo più, una lingua prevale; coloro che parlano un altro idioma sono considerati una minoranza – che siano indigeni, aborigeni, nativi, o comunque li si voglia chiamare – o immigrati di ceto basso, fintanto che costituiscono un gruppo numericamente ristretto.

La maggior parte di voi sa a cosa mi riferisco perché americani, britannici e australiani hanno a che fare, allo stesso modo, con questo problema, come ho detto. Anche nel mio Paese però abbiamo dimestichezza con simili realtà. Abbiamo circa l’8% di stranieri che vivono permanentemente in Germania, in città come Francoforte si arriva al 29%. Molti sono i cosiddetti Gastarbeiter (lavoratori ospiti, N.d.T.) o ausländische Mitbürger (concittadini stranieri, N.d.T.) per usare un termine eufemistico o palliativo, diffuso nei discorsi pubblici e nei mass media liberali. Sono italiani, spagnoli, portoghesi, greci, ex iugoslavi, di recente molti rifugiati provenienti dall’Europa dell’Est e dal Terzo Mondo; il gruppo più numeroso è composto da immigrati turchi (o migranti, dato che molti di loro non si considerano immigrati anche se di fatto lo sono). Se vogliono migliorare il proprio status sociale o essere accettati dai propri vicini, devono adattarsi a regole e costumi del Paese ospitante. Talvolta, e in particolare in periodi di pressione e agitazione sociale, si aggrappano gli uni agli altri ed è proprio la lingua a costituire il medium operante nel mantenere un’identità nazionale e culturale, finendo così con l’ostacolare l’integrazione. Questo non è propriamente il caso delle seconde generazioni, nelle quali i bambini spesso fanno da interpreti o traduttori per i genitori, ribaltando così l’ordine consueto dell’ascendenza o dell’incidenza tra le generazioni; ma il pensare in due lingue certamente crea problemi.

Da tutto ciò consegue che la lingua è uno strumento importante nell’esercizio del potere sociale. Questa non è certo un’intuizione nuova, ma è rilevante in molte occasioni apparentemente marginali, che spesso vengono trascurate.

 

4. Relazioni internazionali

Nel 1961 George Kelly e sua moglie viaggiarono per 37 paesi, molti dei quali europei. Non si trattò di una vacanza, ma di una sorta di ricerca sul campo. Alcuni risultati furono presentati durante il Nebraska Symposium on Motivation nel 1962. Il titolo di quella relazione fu Europe’s Matrix of Decision (Kelly, 1962) e verteva principalmente sui costrutti che governano il modo in cui gli abitanti posizionano se stessi ed i propri Paesi nel mondo (specialmente un mondo che cambia, così definito già allora), e i costrutti che adoperano quando guardano agli altri Paesi.

Rispetto alla Germania, Kelly (1962) formula una considerazione sul cambiamento di immagine che la Germania ha attraversato dopo la II Guerra Mondiale. A proposito dei Finlandesi, scrive:

Come molti altri, essi guardavano alla Germania come una fucina di scienza e letteratura. L’America, per contro, era il Paese da cui provenivano le automobili, gli aeroplani, le star del cinema, i milionari illetterati, i turisti distratti. In maniera piuttosto simile, quest’asse della cultura tedesca versus il materialismo sempliciotto americano strutturava anche il modo di pensare di altri Paesi europei.

[…]

C’è stato, tuttavia, un curioso rimescolamento dopo la guerra. Permane la stessa dimensione di costrutto, ma l’America e la Germania si sono scambiate le posizioni. Ora sono i tedeschi ad essere considerati materialisti, attaccati al denaro, volgari dalle maniere rudi, mentre gli americani sono quelli che esportano nel mondo la cultura. (p. 115)

Così dunque era per Kelly dopo aver visitato l’Europa nel 1961. Sarebbe interessante elicitare costrutti nelle condizioni del mondo di oggi ancor più drammaticamente cambiato ed includere ad esempio il ruolo del Giappone, a quel tempo evidentemente non ancora chiaro. Paradossalmente, la sopracitata visione della Germania oggi è divenuta quella di molti tedeschi dell’est nei confronti dei propri concittadini dell’ovest. Nell’ambito del progresso scientifico il ruolo degli Stati Uniti è rimasto pressoché invariato e ciò ha avuto, fino ad oggi, diverse implicazioni. L’inglese non è soltanto la lingua “congressuale” d’elezione nel mondo, è anche la numero uno per le pubblicazioni. Parlanti o lettori inglesi leggono o accettano soltanto ciò che è pubblicato in inglese.

Anche gli scienziati tedeschi, del resto, la pensano allo stesso modo:

Nella nostra facoltà di medicina sono attualmente in discussione i requisiti per divenire professore. Uno dei criteri più importanti è: quante pubblicazioni hai all’attivo in una rivista di lingua inglese? E sono soppesate sulla base del Scientific Citation Impact Index internazionale (cioè americano), che nella nostra disciplina risulta come in Tabella 1.

 

Psicologia Psichiatria
1. Psychological Review 6.534 1. Archives of General Psychiatry 7.918
43. Nervenartz 0.466
23. British Journal of Medical Psychology 0.595 45. Fortschritte der Neurologie und

Psychiatrie

0.431
28. Zeitschrift für Psychosomatische

Medizin und Medizinische Psychologie

0.345 48. Zeitschrift für Psychosomatische

Medizin und Medizinische Psychologie

0.345
50. Narvenheilkunde 0.193
31. Annals of Medical Psychology 0.111 54. Japanese Journal of Psychiatry and

Neurology

0.100

Tab. 1: Science Citation Index: Impact Factors

 

Potete vedere che c’è a malapena una rispettabile rivista pubblicata in tedesco e quelle elencate hanno un impact factor ridicolmente basso. Ora questo potrebbe andar bene in una facoltà americana, ma noi ci troviamo nel cuore della Germania.

Non penso tuttavia che siano gli americani quelli da biasimare:

Si racconta che un ufficiale NATO di alto rango (davvero di alto rango), nel rilasciare un’intervista a un gruppo di giornalisti tedeschi (tutti tedeschi) abbia insistito per essere intervistato in inglese, perché l’inglese è la lingua ufficiale della NATO.

Conosco un paio di colleghi che presentano slides e lucidi con testi in inglese ad un uditorio di persone tutte tedesche – segnalando perciò implicitamente: “Sono appena tornato da una conferenza molto importante all’estero dove ho presentato la mia relazione con successo, pertanto non mi sono preoccupato di produrre una versione tradotta o ritradotta delle slides per voi” (rasentando però il ridicolo).

La dimensione politica, e qui siamo nell’ambito delle relazioni internazionali in pieno, è di certo importante. Quali debbano essere le lingue ufficiali della Comunità Europea è una questione di grande rilevanza per i governi coinvolti: inglese e/o francese e/o tedesco e/o irlandese, italiano, olandese, danese, portoghese, spagnolo, lussemburghese (lingua nazionale del Lussemburgo insieme al francese che prevale) e altre lingue in futuro? Mi chiedo davvero come risolvano alla lunga questo problema Paesi come la Svizzera o il Canada, senza ricorrere alla soluzione iugoslava.

Non siamo più ai tempi di – in ordine cronologico – Kant, Hegel, Marx, Freud, Vaihinger e Husserl; e mi permetto di aggiungere: sono andati anche i tempi di Voltaire, Montaigne, Galileo, Buddha e Lao-Tse. Il ruolo delle loro lingue nel campo della scienza e della filosofia appartiene ormai alla storia.

Certamente, ciò non riguarda soltanto la PCP o la psicologia in generale, ma anche tutti gli altri ambiti della scienza e della cultura. E la situazione probabilmente rimarrà la stessa per il secolo a venire. Quindi è inutile piangere sulle inezie.

 

5. Traduzioni

Quando si parla con persone di altre lingue, la traduzione diventa cruciale. Ciò che mi ha colpito del report di viaggio di Kelly in così tanti Paesi, è stato il fatto che non abbia mai menzionato le questioni linguistiche. Dal fatto che abbia riportato un’intervista con la loro interprete a Mosca sul perché lei abbia scelto di diventare psicologa (uno degli argomenti che Kelly sistematicamente esplorò in ogni Paese), si può dedurre che abbiano avuto a disposizione interpreti locali quando si spostavano da un Paese all’altro. Dal momento che i loro principali informatori erano psicologi e altri intellettuali, si può inferire che queste persone disponessero di una conoscenza dell’inglese sufficiente a discutere questioni complicate con i visitatori. Rimane aperta la considerazione rispetto a quali dati siano stati raccolti in questo modo e quali invece siano passati inosservati.

Quando Ana Catina ed io abbiamo preparato l’edizione dell’introduzione alla PCP in due volumi in tedesco, abbiamo invitato molti amici da Paesi non di lingua tedesca a partecipare al progetto. Nel tradurre i loro contributi ci siamo trovati di fronte a diversi problemi, alcuni inattesi.

Lasciatemi cominciare con la parola costruire. Abbiamo una parola tedesca, konstruieren, che appartiene principalmente al campo tecnico della progettazione di un’automobile, di una casa, o di un microchip. Esiste anche un significato figurato che si usa quando, ad esempio, si vuole descrivere la trama di un romanzo come irrealistica, artificiale, inverosimile: risulta quindi konstruiert (costruito, N.d.T.). Ossia, se un critico evidenziasse relazioni o connessioni tra eventi o pensieri, le potrebbe respingere in quanto troppo konstruiert.

Consultando il dizionario Webster (1960, p. 177) ho trovato che to construe (costruire, N.d.T.) significa “to put into proper order by syntactical rules; to translate; to interpret” (“collocare in ordine appropriato secondo regole sintattiche; tradurre, interpretare”, N.d.T.). Non c’è un significato equivalente in tedesco. Tuttavia, molti di coloro che scrivono di PCP in tedesco usano la parola konstruieren, che rende difficile la comprensione del testo da parte di non-kelliani, e suona konstruiert nel senso descritto sopra.

Difficoltà simili emergono quando cerchiamo di tradurre termini come commonality. Alcuni sanno cosa significa comunanza applicata all’analisi fattoriale. Ma il mio Webster tascabile prevede solo commonalty, per intendere la gente comune, e commonage, il diritto al pascolo su terre comuni – che ha probabilmente più importanza in Australia al giorno d’oggi che nella Germania d’un tempo.

Quando provo a tradurre corollary, mi ritrovo prima nel campo della botanica, poi di fronte a qualcosa come Hilfssatz (proposizione ausiliare) o Folgesatz (proposizione consecutiva), che nessuno comprenderebbe. Un ultimo esempio è grid. Il mio primo incontro con questo termine risale a un viaggio in Scozia, dove ogni due miglia le strade non asfaltate erano segmentate da griglie metalliche per impedire il passaggio del bestiame. Mi aspetto di vederne ancora di più quando visiterò l’Outback dopo questo congresso. Ma come tradurre tale termine? Il dizionario inglese-tedesco offre Rost (griglia di ferro per il barbecue) o Netz (rete per i pescatori o, nell’accezione figurata, rete ferroviaria o rete di distribuzione della corrente elettrica) o Gitter che significa reticolato o steccato o cancellata, una sorta di recinto.

In tedesco si usano molte di queste parole. La traduzione di Inquiring Man (titolo esso stesso intraducibile) di Bannister e Fransella (1981) ha utilizzato la parola Netz per griglia (secondo me la soluzione meno opportuna). Altri tentativi includono KellyGitter, Konstrukt-Gitter, Kelly-Matrix. Il titolo che abbiamo scelto per il nostro libro è Einführung in die Repertory Grid-Technik e abbiamo parlato di grid in tutto il testo (e si è posta la questione successiva: grid, in tedesco, richiede l’articolo maschile o neutro?).

Ora, devo chiarire che questo problema non si pone solo con la psicologia dei costrutti personali. Se avete mai avuto occasione di leggere la traduzione tedesca dell’MMPI (con una conoscenza di base del tedesco), vi sarà capitato di scuotere la testa e sorridere. E dopo aver immaginato come potreste leggerlo a un vostro cliente, probabilmente decidereste di lasciar perdere il test, togliendolo dalla batteria. Tradurre, poi, i tratti di personalità di Cattell come Parmia, Premsia o Praxernia, farebbe capitolare anche un traduttore professionista. Ovviamente la questione non è nuova e la corporazione dei traduttori di tutto il mondo ne sa qualcosa, probabilmente dai tempi di Babilonia. L’arte di tradurre romanzi e, azzardando ancor di più, poesie, è stata oggetto di analisi approfondite. Questo va oltre l’obiettivo della mia trattazione oggi ed io sono pur sempre un profano in questo campo.

Ciò che vorrei dire è semplicemente che le conseguenze del tradurre termini psicologici, a mio avviso, non sono sufficientemente ponderate; e ritengo sia sorprendente per coloro che si occupano di significati e in particolare di significati personali. Perché, confrontando l’affermazione di un parlante tedesco con quella di un inglese per quanto riguarda i significati personali, si conterà una notevole varianza “inter-gruppi”. (Sarebbe interessante rilevare quanti costrutti “tipicamente tedeschi”, a me sconosciuti, state individuando nelle mie considerazioni).

Un esempio divertente è la traduzione di un libro inglese: gli eredi spirituali di Michael Balint (cioè Enid Balint e J. S. Norell) hanno pubblicato “Sei minuti per il paziente” (1973, 1975), testo ampiamente conosciuto che introduce alla medicina centrata sul paziente. Il titolo allude al tempo risicato che il medico di medicina generale può permettersi di dedicare al singolo paziente, che gli consente tuttavia di avere un occhio sulla relazione medico-paziente, se appropriatamente addestrato. Il titolo tedesco è “Fünf Minuten pro Patient”: che significa cinque minuti. Bene, il traduttore non ha confuso 5 con 6, e il medico di medicina generale tedesco non assegna il 20% di tempo in meno al suo paziente. Semplicemente, in Germania il sistema metrico decimale ha prevalso da più di 100 anni (prima avevamo anche noi le dozzine, le miglia, i pounds), mentre al tempo della pubblicazione del libro in Gran Bretagna tintinnavano ancora nelle tasche i pezzi da sei pence.

Ora, applicando queste considerazioni alla comunità costruttivista, è ovvio che la padronanza della lingua implica anche padronanza dei concetti e dei costrutti. Chi vuole far parte della comunità dovrebbe leggere Kelly stesso, il che significa Kelly in lingua originale: l’inglese. Senza questo, il riconoscimento formale o l’affiliazione è fuori discussione. Quindi, probabilmente non è un caso se di 124 articoli pubblicati nei primi cinque volumi dell’International Journal of Personal Construct Psychology, solo 16 siano stati scritti da autori non madrelingua inglesi e che la maggior parte di essi si occupino di aspetti metodologici più che dell’avanzamento della teoria.

Perché alcune pubblicazioni provenienti dal gruppo italiano sembrino contraddire quest’idea, non lo so spiegare.

 

6. Story-telling in breve

Miller Mair ha scritto diversi articoli interessanti sulla psicologia come racconto di storie, pubblicati nell’International Journal of Personal Construct Psychology (1989b, 1990). Anche nel suo bellissimo libro Between Psychology and Psycotherapy: A Poetics of Experience, in proposito scrive: “Le storie sono necessarie per tessere una rete di senso entro cui possiamo vivere. Noi tutti viviamo in mondi di racconti. Essi creano per noi l’atmosfera di comprensibilità necessaria al vivere quotidiano” (Mair, 1989a, p. 277). Mair va in profondità ad esplorare i temi delle storie, le loro finalità, il posto che occupano nelle nostre vite e altro ancora. I racconti sembrano essere una sorta di Leitmotiv, come diciamo noi, un filo conduttore, che risulta indicativo delle istanze interiori tanto quanto dell’apparire esteriore di una persona, del suo posto in questo mondo. Potremmo considerarlo un costrutto onnicomprensivo con un ampio campo di pertinenza che, tuttavia, ha purtroppo assunto a volte i contorni di una metafora usurata.

Ora, vorrei adottare quel costrutto ed usarlo in modo più concreto. Ho notato che molte persone hanno cristallizzato le proprie esperienze mediante le storie che hanno costruito: storie di eventi, avventure, persone conosciute, eventi di poco conto o molto rilevanti, incidenti. Penso che simili racconti rappresentino modalità di organizzare le anticipazioni. Suppongo che attraverso questo tipo di costruzioni sia più facile sperimentare la comunanza e la socialità che non mediante discorsi di livello più astratto: “È accaduto una volta, può accadere o accadrà di nuovo”.

Ricordo un film western in cui l’eroe, penso fosse James Stewart, accompagnava ogni scena o interazione con un racconto del tipo: “Ho conosciuto anche un tipo a Wichita, Kansas, che era solito dormire con la pistola sotto il cuscino…” rendendo così prevedibile cosa sarebbe accaduto al suo interlocutore.

Ho notato che tendo ad usare anch’io questo strumento nella vita quotidiana, e certamente lo sto usando oggi. Ritengo che quando si conversa in una lingua straniera, raccontare storie conceda meno spazio al fraintendimento perché è più facile cogliere lo spirito di un racconto che seguire un discorso più astratto, seppur elaborato.

Il tipo di racconto di storie che ho in mente non riguarda le “storie di vita”, come Audrey Hepburn in Storia di una monaca o il grande romanzo di Elsa Morante La storia. Mi riferisco invece a storie in scala ridotta, e vorrei definire questa psicologia dell’uomo comune “psicologia come racconto di storie brevi.

 

7. Psicologia Conversazionale

Facciamo ora un passo indietro alla sezione sugli aspetti sociolinguistici della comunicazione. Quando sono impegnato in un dibattito con diverse persone di madrelingua inglese, sono terribilmente consapevole dei miei limiti lessicali, della mia incapacità di seguire curve, alti e bassi e direzioni della traiettoria del discorso. E quando provo ad impegnarmi nella conversazione, realizzo la sbalorditiva somiglianza tra il mio parlare e ciò che Bernstein definì codice ristretto: adopero frasi brevi, spesso incomplete, prediligo i sostantivi, ignoro le regole grammaticali, applico formule stereotipate come “sai…”, mi aiuto con gesti e pantomime per comunicare, e così via.

Ricordo che mi trovavo in Grecia una volta e da qualche parte nel centro della penisola del Peloponneso incontrammo un vecchio pastore con un piccolo gregge di pecore nella valle accanto al nostro campeggio. Noi sapevamo dire solo “Kalimera”, ma lui parlava greco fluentemente e cercava, a quanto pare, di comunicarci qualcosa. Gesticolava nella direzione delle sue pecore e ripeteva qualcosa che non riuscivamo ad afferrare. Tutto ad un tratto cambiò tattica: parlò senza emetter suono, ma comunque parlava, facendo smorfie esagerate. Più tardi concludemmo che dovesse averci considerati dei non udenti e sia ricorso alla modalità di comunicazione appropriata.

Un episodio simile è riportato da uno scrittore tedesco, Erhart Kästner, che prestò servizio durante la guerra nelle forze di occupazione in Grecia, ma quando possibile lasciava la sua unità per esplorare il paesaggio classico. Incontrò una volta un pastore greco che non era in grado di farsi comprendere, esattamente come noi 30 anni più tardi. A differenza del nostro pastore, quest’altro optò per parlare a voce molto alta – non considerò lo straniero un non udente, ma solo un duro d’orecchi.

Permettetemi ora di citare nuovamente Miller Mair (1989a):

Se non vengo compreso (per esempio, quando in un Paese straniero la maggior parte di noi risulta straniera alla maggior parte degli altri!) sarò un isolato solitario, un estraneo; uno spettatore; e non essendo partecipe posso iniziare a perdere il senso della realtà, a sentirmi spaventato, a divenire affamato di contatto. Trovare qualcuno che parli la tua lingua può essere un sollievo immenso anche se in circostanze normali avreste poco in comune.

[…]

Se nessuno comprende la tua lingua (cosa intendi, quale significato stai esprimendo o vorresti esprimere) rischi di doverti ritirare. Puoi soltanto balbettare qualche parola incoerente. Qualunque tua competenza svanisce. Ti vedi ridotto a uno stato di stupidità, infantilismo, idiozia. (p. 216)

Esattamente questo è accaduto a noi e allo scrittore tedesco in Grecia, e non è molto lontano da ciò che molti possono sperimentare in un congresso internazionale.

Nel suo libro Miller Mair (1989a) sostiene ciò che egli definisce una psicologia conversazionale. I contorni non sembrano ancora molto definiti, ma comprendo che si tratta di una psicologia che si interessa delle persone coinvolte. Miller scrive: “Sarà una psicologia della comprensione, più che una psicologia che accumula informazioni (la comprensione e lo sforzo di comprensioni differenti è probabilmente centrale a qualsiasi idea di conversazione)” (ibidem, p. 216). Ha a che fare con l’ascoltare, il pensare ad alta voce, il parlare, il chiedere, il dire. Suona quasi socratico.

Riporto tali idee in questo contesto perché penso che il senso di stupidità e di isolamento che lo straniero incapace di comunicare rischia di sperimentare possa essere disgregato da un approccio conversazionale. Tenete presente per favore che quanti di voi sono inglesi madrelingua avranno sperimentato questa condizione molto meno degli altri, per il suddetto ruolo della lingua inglese nel mondo moderno. Per questa ragione, la maggior parte delle persone cercherà di rendersi comprensibile usando l’inglese, per quanto carente il tentativo possa risultare – come sto facendo io in questo discorso.

Nella prossima sezione cercherò di spiegare cosa significa tutto ciò in questa occasione, il Congresso Internazionale di Psicologia dei Costrutti Personali.

 

8. Internazionalismo Costruttivo

Perché partecipiamo ai congressi? La matrice decisionale a questo proposito viene percorsa diverse volte all’anno e si fonda indubbiamente su una serie di costrutti organizzati gerarchicamente. La tabella 2 mostra un elenco di alcuni miei costrutti relativi al partecipare ad una conferenza.

Cosa possiamo dire della scelta di andare a una conferenza di PCP, specialmente se internazionale?

I miei costrutti relativi alla comunità PCP sono meglio espressi da un aneddoto:

Quando partecipai al mio primo congresso internazionale, ebbi un’esperienza che mi lasciò un po’ perplesso. Fu durante una delle sessioni plenarie, che era probabilmente mirata a fornire una solida panoramica sulla quale costruire ipotesi; ma che finì per risultare una presentazione delle affermazioni di base di Kelly, proiettate sui lucidi, con successive domande come: cosa intendeva dire Kelly con questo termine o cosa rappresenta per noi oggi? Mi ricordò l’esegesi alle lezioni di catechismo (a cui fortunatamente non mi avevano obbligato a partecipare da bambino). E in quel modo, non si stavano analizzando i corollari più ferrei e indiscutibili. Più tardi, pensai (e dissi a coloro che avevo conosciuto meglio fino a quel momento): sto per unirmi alla setta sbagliata?

Tuttavia, i miei amici mi dissero: “Aspetta che inizi il workshop e ti troverai meglio nell’atmosfera del piccolo gruppo”. E fu così.

 

noioso – interessante

largo – stretto

anonimo – intimo

gente arrogante – persone empatiche

presentazione ego-centrata – interessato agli altri

discorso interpersonale – mercato per i pettegolezzi

interesse personale per i partecipanti – marketing per il lavoro

rivalità – cooperazione e scambio

gente che vuol farsi vedere – persone che vogliono incontrarsi

discussione aperta sul futuro della

disciplina – difesa del Sacro Graal

ricerca di interessi comuni – intrighi per portare avanti i propri scopi o interessi

esser pagato per partecipare alla

conferenza – pagare per me

incontrare vecchi amici – non conoscere nessuno

tempo libero per attività di svago – programma completo

solo addetti ai lavori – chiunque è benvenuto

lingua congressuale prevalente – comunicazione multilingue facilitata

ampio spazio alla discussione – ascolto prevalente

tempi dilatati nel programma – programma fittissimo

doversi recare molto lontano – rimanere nei pressi

 

Tab. 2: I miei costrutti relativi ai congressi (Matrice Decisionale)

 

Le mie impressioni o i miei costrutti sono stati validati molte volte da allora. Ho partecipato ad un buon numero di conferenze nazionali e internazionali, congressi e incontri formali ed informali nel campo della psicologia e della medicina; la maggior parte di essi sono dominati dai pochi fortunati possessori di risorse di ogni genere, non ultimo il potere di parlare ogniqualvolta vogliano parlare e dire qualunque cosa vogliano dire. Nelle conferenze di PCP, ho notato che non prendono la parola solo i padri fondatori (che sono evidentemente figli – e figlie – essi stessi) e i loro diretti discendenti, ma che, rispetto ad altre discipline, relativamente molte persone intraprendono una conversazione con naturalezza. Immagino che in parte ciò sia dovuto al fatto che raramente coloro che praticano la PCP, o pubblicano in questo ambito, ottengono riconoscimenti accademici; di conseguenza chi partecipa alle conferenze è davvero interessato agli argomenti, agli altri e a ciò che hanno da dire. Perciò, sembra ci siano i requisiti fondamentali per una psicologia conversazionale.

Ecco come mi è venuta in mente l’idea di un internazionalismo costruttivo. Avrete notato l’allusione all’alternativismo costruttivo. Un’altra associazione si potrebbe fare con l’internazionalismo proletario. Ancora, si potrebbe pensare al polo sommerso di un internazionalismo non costruttivo o distruttivo che alcuni vedono in ciò che certe forze spirituali e terrene hanno praticato per secoli e ancor oggi. Infine, si può intendere imperialismo costruttivo la politica – in molti casi non intenzionale – del fornire costrutti al resto del mondo.

Quali conclusioni potremmo trarre? Pari opportunità per la lingua tedesca, o per l’italiano, il tedesco e lo spagnolo? Traduzioni simultanee dal e in tedesco, francese, spagnolo, olandese, italiano, norvegese, la lingua dello Zimbabwe – o in tutte quante le lingue siano rappresentate ad un dato congresso di PCP? Dispense stampate con riassunti prolissi in 15 lingue (o forse 115)? Istituire l’esperanto come la lingua del congresso?

Non sto perorando la causa della parità di diritti per il tedesco, o per l’italiano, lo spagnolo o la lingua madre di un sostanziale numero – ad oggi – di costruttivisti. Questa idea decisamente fondamentalista non è ovviamente praticabile. E trasporrebbe il problema ad altre 500 lingue che resterebbero escluse.

Permettetemi di essere di nuovo personale. Con le mie limitate competenze in inglese, sono in grado generalmente di seguire una conferenza e di discutere questioni non troppo complicate, in inglese. Purché la psicomotricità delle labbra e della laringe di chi sta parlando non sia troppo veloce, c’è abbastanza tempo per adattarmi ai significati personali, ai dialetti, alle idiosincrasie dei comportamenti verbali, e così via.

Tuttavia, in una conversazione di – diciamo – più di cinque persone, ho notato che gli inglesi madrelingua di diversa provenienza, Boston, Oklahoma, Scozia, Londra, Nuovo Galles del Sud, per esempio, tendono a parlare come se fossero a casa propria, senza rispetto per chiunque altro sia presente.

Ora, quando ho comunicato alcune mie idee ad altri, in questo caso britannici, essi hanno lamentato di non aver compreso alcuni australiani, molti americani e così via. Mi è stato detto, inoltre, che gli autori britannici che hanno presentato manoscritti a riviste americane hanno sperimentato una sorta di censura, dal loro punto di vista, riguardo ad alcuni dettagli grammaticali o linguistici che sono stati considerati non-inglese (per evitare di definirli non-americano). Questo mi ha fatto pensare che il problema non fosse soltanto mio personale, ma riguardasse anche altri non parlanti inglese (o, come sembrerebbe, persino gli inglesi stessi).

I costruttivisti generalmente sottolineano l’importanza di guardare l’altro (il cliente, il paziente, l’allievo, il manager a cui fare consulenza) come un essere umano, con il proprio sistema di costrutti, che deve essere accettato e rispettato (per non dire ben accolto), e l’ho sentito ripetere più volte anche durante questa conferenza. Cosa ne pensate, colleghi costruttivisti? Io non sostengo di abbandonare la pratica attuale, ma di essere attenti e consapevoli degli altri – se vi interessa ciò che abbiamo da dire.

 

9. Il racconto conclusivo

Permettetemi di concludere con una storia di fantasia.

Narra una leggenda (o forse è accaduto davvero) che ci sia stato un momento nella storia degli Stati Uniti d’America in cui si è dovuto prendere una decisione, se la lingua dell’Unione dovesse essere l’inglese o il tedesco. L’assemblea si espresse votando, con la maggioranza di uno solo, che – ironia della sorte – era un americano di lingua tedesca. I risultati sono noti. Tuttavia, se la decisione fosse stata diversa, le terre della PCP sarebbero state queste (vedi Figura 2):

– die Vereinigten Staaten von Nordamerika (gli Stati Uniti),

– Deutschland (anche nota come Germania),

– Österreich (se preferite la Felice Austria), e

– die Schweitz (la Svizzera).

E il padrino del movimento sarebbe stato un certo

GEORG KELLER.

 

Immagine che contiene schizzo, mappa, bianco e nero Descrizione generata automaticamente

Fig. 2: La mappa alternativa della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP)

 

Bibliografia

Balint, E., & Norell, J.S. (Eds.). (1973). Six minutes for the patient: Interactions in general practice consultation. London: Tavistock.

Balint, E., & Norell, J.S. (Ms.) (1975). Fünf Minuten pro Patient: Eine Studie über die Interaktionen in der ärztlichen Allgemeinpraxis. Frankurt: Suhrkamp.

Bannister, D., & Fransella, F. (1981). Der Mensch als Forscher (Inquiring Man). Münster: Aschendorff.

Bernstein, B. (1990). Class code and control: Vol.4. The structuring of pedagogic discourse. London: Routledge.

Fisher, D. (1989, August). Language use: A constructivist view of politics and morality. Paper presented at the 8th International Congress on Personal Construct Psychology. Assisi, Italy.

Kelly, G.A. (1962). Europe’s matrix of decision. Nebraska Symposium on Motivation, 10, 83-123.

Mair, M. (1989a). Between psychology and psychotherapy: A poetics of experience. London: Routledge.

Mair, M. (1989b). Kelly, Bannister and a story-telling psychology. International Journal of Personal Construct Psychology, 2, 1-14.

Mair, M. (1990). Telling psychological tales. International Journal of Personal Construct Psychology, 3, 121-135.

Webster’s New School of Office Dictionary (1960). Greenwich, CT: Fawcett.

 

Note sull’autore

 

Jörn Scheer

University of Giessen

joern.scheer@joern-scheer.de

Jörn Scheer è professore emerito di Psicologia Clinica all’Università di Giessen (Germania). Le sue aree di ricerca includono tra le altre la psicoterapia, le malattie psicosomatiche, la percezione della malattia e la psicologia nella pratica medica. Dal 1980 si interessa di Psicologia dei Costrutti Personali e ha pubblicato sui temi della vecchiaia, delle competenze relazionali nelle professioni e dell’arte. È stato curatore di un considerevole numero di volumi, specialmente sulla tecnica delle griglie di repertorio, il costruttivismo nelle arti e le questioni interculturali. È co-curatore di Internet Encyclopaedia of Personal Construct Psychology e del giornale online Personal Construct Theory & Practice. È amministratore e curatore di alcuni siti web dedicati alla Psicologia dei Costrutti Personali, come www.pcp-net.org.

 

Note

  1. ⃰ Testo originale pubblicato in Scheer, J.W. (Ed.) (2003). Crossing borders – going places. Personal construction of otherness. Giessen: Psychosozial-Verlag. Si ringraziano l’autore e l’editore per aver concesso la licenza per la traduzione.
  2. Grassetto nell’originale (N.d.T.).
  3. Grassetto nell’originale (N.d.T.).
  4. 9th International Congress on Personal Construct Psychology, Albany, New York – August 1991 (N.d.T.).