La Psicologia dei Costrutti Personali:
umanesimo senza un Sé
di
Trevor Butt
City University, London – University of Huddersfield
Traduzione a cura di
Susan Bridi, Claudia Ghitti, Laura Pomicino
Abstract: In questo articolo illustrerò brevemente quelli che ritengo siano i punti di forza più salienti della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP): in particolare, le sue radici nel pragmatismo e il suo rifiuto del dualismo, il suo approccio fenomenologico alla persona e la sua formulazione della struttura nucleare di ruolo. Il concetto di ruolo nucleare rimanda un’immagine di “persona” come socialmente costruita ma, poi, capace di scelta autonoma e di agency. La mia discussione prenderà avvio da una critica al modo in cui la PCP viene concepita all’interno della psicologia ortodossa, suggerendo che sia la radicalità del suo approccio a renderla difficile da classificare. Proseguirò evidenziando le sue caratteristiche umanistiche, ma mi soffermerò anche a sottolineare il suo rifiuto di un Sé unitario. Affronterò infine il tema dell’odio, argomentando come una formulazione nei termini della PCP aiuterebbe a ripensarlo in un modo più utile.
Parole chiave: umanesimo, sé, odio, comunità di sé, Carl Rogers, Miller Mair.
The Psychology of Personal Construct: humanism without a Self[1]
Abstract: In this article, I briefly outline what I see to be the outstanding strengths of the psychology of personal constructs (PCP). These are: its roots in pragmatism and its rejection of dualism, its phenomenological approach to the person and its formulation of core role structure. The concept of core role sees the person as a social product, but once constructed, a centre for choice and agency. I begin with a critique of the ways in which PCP is perceived within orthodox psychology, proposing that its radical approach makes it difficult to classify. I argue that it has humanistic features, but emphasize its rejection of a unitary self. I conclude by looking at the problem of hatred, contending that a PCP formulation helps us re-think this in a more useful way.
Keywords: humanism, self, hatred, community of self, Carl Rogers, Miller Mair.
1. Introduzione
La maggior parte dei testi introduttivi sulle teorie della personalità citano la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) riconoscendole un merito, ma dedicandole poco spazio. Di solito, viene presentata come una forma primitiva di cognitivismo, capace di mantenere vivo questo approccio durante gli “aridi” giorni del comportamentismo. Viene ricordato il valore del suo fondatore, George Kelly (1905-67), ma al lettore rimane l’impressione che la PCP sia morta con lui. Si è portati a credere che la terapia cognitivo-comportamentale contemporanea costituisca l’eredità scientifica della PCP. In quest’ottica, i costrutti personali sono concepiti come una versione pre-scientifica delle cognizioni e il sistema di costrutti appare come un primo tentativo di spiegare come queste diverse entità si influenzino reciprocamente. Tuttavia, nel corso degli anni le elaborazioni della PCP hanno continuato a fiorire in Europa, Nord America e Australia, dove oggi sono attive diverse organizzazioni costruttiviste e hanno luogo conferenze biennali che fanno riferimento a questa cornice teorica.
Il contesto italiano è particolarmente produttivo nel suo sviluppo della PCP (vedi Giliberto et al., 2012) e sono davvero onorato di poter contribuire alla prima edizione della Rivista Italiana di Costruttivismo.
Perché permane il paradosso appena presentato? Come mai la PCP è viva e vegeta mentre il pensiero psicologico dominante la considera completamente superata? Probabilmente perché la PCP non è mai stata veramente compresa da quegli psicologi ortodossi che la vedono come un precursore del cognitivismo. È vero che, in un certo senso, tutti sono costruttivisti al giorno d’oggi: gli psicologi ora riconoscono che il nostro modo di percepire la realtà deriva da come la costruiamo. Non entriamo mai in diretto contatto con il mondo allo “stato grezzo” ma, piuttosto, con l’elaborazione che ne facciamo, prodotta dal nostro sistema di costrutti. Tutto ciò sembra coerente con la psicologia cognitiva, ma il pensiero di Kelly è molto più radicale di così. Nella sua prefazione alla Psicologia dei Costrutti Personali (1955), egli mette in guardia il lettore rispetto alla totale scomparsa delle pietre miliari della psicologia:
..il termine apprendimento, a cui viene dato tanto rilievo nella maggior parte dei testi psicologici, qui appare a malapena. Ciò è completamente intenzionale; lo stiamo abbandonando del tutto. Allo stesso modo, non compaiono termini come ego, emozione, motivazione, rinforzo, impulso, inconscio e bisogno. (Kelly, 1955, p. X)
La teoria di Kelly adotta un linguaggio non abituale e utilizza termini comuni, come “emozione”, attribuendo loro dei significati completamente nuovi. Kelly ha dato forma alla sua teoria in un modo originale, proponendo un postulato fondamentale da cui derivano le altre concettualizzazioni teoriche, racchiuse in undici corollari. Il postulato fondamentale afferma che: “I processi di una persona sono psicologicamente canalizzati dal modo in cui essa anticipa gli eventi” (ibidem, p.46).
Questo enunciato condensa in un’unica frase vari significati che necessitano di essere approfonditi. Consideriamo il termine “processi”: Kelly avrebbe potuto dire “il modo in cui una persona pensa, sente e si comporta”, ma non lo ha fatto, perché la sua teoria non separa cognizione, emozione e comportamento. La psicologia tradizionale presuppone invece questa separazione, arrivando a domandarsi, ad esempio, quale di questi elementi preceda e dia origine agli altri. Per i comportamentisti le cognizioni non erano altro che meri epifenomeni che seguivano la scia del cambiamento comportamentale. Il dibattito sul potere causale della cognizione, in relazione sia al comportamento che al sentimento, ha portato nel 1970 al forte predominio della teoria dell’apprendimento sociale sul comportamentismo (Bandura, 1977; Mahoney, 1974; Mischel, 1973). Dal canto suo, la PCP non trova utili queste separazioni. Tutto viene visto come canalizzato (e non causato) dal modo in cui noi costruiamo o anticipiamo gli eventi. Il nostro costruire comprende ciò che noi consideriamo pensiero, comportamento ed emozione.
Le emozioni vengono descritte come delle perturbazioni che seguono i cambiamenti nel nostro modo di costruire; nel linguaggio della fisiologia non è presente l’idea di un cambiamento improvviso come invece compare nella psicologia tradizionale.
Possiamo costruire le emozioni fisiologicamente, ma la PCP è interessata a come le nostre azioni sono canalizzate psicologicamente. Da questo punto di vista psicologico, i costrutti personali non sono delle
cognizioni che in qualche modo sottendono i comportamenti e ne sono causa. I costrutti personali abitano nelle nostre azioni, noi costruiamo il nostro mondo agendo (Butt, 1998; Radley, 1973, 1977).
Credo possa essere più verosimile guardare alla PCP come ad un particolare tipo di umanesimo piuttosto che come una forma di cognitivismo. Tuttavia, si tratta di un umanesimo molto diverso da quello proposto da Rogers (1980), dato che non si parla di un Sé al centro della persona. In questo articolo voglio esaminare questo umanesimo senza Sé e, per farlo, sarà necessario ripensare alle radici filosofiche della PCP. Nel mondo anglofono questa potrebbe essere considerata una scelta bizzarra (Fransella, 2008), ma penso sia importante farlo per due ragioni. In primo luogo, perché Kelly ha iniziato la sua opus magnum nel 1955 dichiarando la sua impostazione filosofica, nonostante le radici filosofiche siano poi spesso rimaste latenti e non del tutto esplicitate (Warren, 1998). In secondo luogo, queste tradizioni si sono dimostrate durature e se ne possono riconoscere ancora oggi i sostenitori all’interno della psicologia clinica e sociale. Rendere esplicite queste basi ci aiuta ad apprezzare sia i collegamenti con altri approcci, sia la profondità della Psicologia dei Costrutti Personali.
2. La Psicologia dei Costrutti Personali e le sue radici nel pragmatismo
Kelly rifiutò qualsiasi classificazione semplicistica per la sua teoria (Kelly, 1969a). In quanto pragmatista (Butt, 2008; Cromwell, 2010; Thayer, 1982; Warren, 1998), considerava la conoscenza fondamentalmente come una costruzione piuttosto che come una scoperta: noi creiamo il mondo, non lo scopriamo e non potremo mai sapere come “è veramente”. Chi può dire come appare ad una formica o ad un cane? Siamo limitati dai nostri sensi e dai nostri strumenti scientifici, ma allo stesso tempo li utilizziamo per dare ordine al mondo, in modo da produrre anticipazioni e agire in esso (vedi anche Maturana & Varela, 1998). Le nostre costruzioni non devono quindi essere valutate in relazione alla loro fedeltà nella rappresentazione della “realtà”, ma in base alla loro utilità. L’ordine e le classificazioni sono stati inventati per aiutarci a dare senso a ciò che notoriamente William James descrisse come la “fiorente e ronzante confusione” che ci circonda. Così, per un pragmatista, le domanda non è “La PCP è una forma di umanesimo?”, ma “Ha senso pensare alla PCP come ad una forma di umanesimo?”. È nostra la responsabilità di come costruiamo tali classificazioni.
Kelly (1955) inizia il suo libro chiarendo la sua posizione filosofica. In quello che egli chiama “alternativismo costruttivo” riecheggia chiaramente la sua formazione pragmatista (Butt, 2008). Egli distingue tra gli eventi nel mondo e le nostre costruzioni di essi, il modo in cui ci appaiono. Nella pratica, è impossibile distinguerli nettamente, in quanto gli eventi sono sempre mediati dalla loro costruzione. Tale nozione richiama piuttosto una distinzione simile a quella tra noema e noesis proposta dai fenomenologi (Husserl, 1936/1970). Come suggeriva George Mead (1909/1982), noi vediamo il mondo nei termini di ciò che può fare per noi o a noi: un precipizio di mille metri non è pericoloso di per sé. Immagino che non rappresenti una minaccia per una farfalla o un uccello, ma noi lo vediamo come potenzialmente pericoloso a causa del rischio che rappresenta per noi. Nonostante ciò, non tutte le persone lo vedranno allo stesso modo: potrebbe apparire diverso ad un alpinista, che potrebbe vederlo come una sfida stimolante piuttosto che considerarlo qualcosa da evitare. L’alternativismo costruttivo suggerisce proprio che tutti gli eventi sono aperti a costruzioni alternative e che le costruzioni personali adottate da una persona sono quelle che si sono dimostrate più utili nell’affrontare gli eventi. Il modo in cui il mondo appare a noi non ci spiega come appare agli altri. Certo, ci saranno costruzioni condivise culturalmente, ma uno psicoterapeuta farà meglio ad enfatizzare l’individualità piuttosto che la comunanza delle costruzioni.
3. PCP e fenomenologia
Come costruttivisti, non ci dobbiamo chiedere se la PCP sia o meno una forma di umanesimo, la domanda è se ha senso per noi vederla così. Potrebbe essere utile costruire la PCP come una forma di umanesimo, soprattutto perché in questo modo si enfatizza l’idea di agency umana. Kelly suggerì di pensare ad ogni
persona come ad uno scienziato che crea e testa le sue teorie. In quegli anni il comportamentismo considerava la persona come qualcosa di simile ad un topo da laboratorio o ad un piccione, mentre la psicoanalisi la vedeva come la vittima di forze inconsce; il cognitivismo contemporaneo paragona l’individuo ad un computer. Nei termini del pragmatismo, questi non sono modelli errati della realtà, ma devono essere valutati in base a quanto sono utili. Kelly (1969b) scelse il modello dell'”uomo scienziato” perché più utile per comprendere la sua clientela; i costruttivisti contemporanei spesso preferiscono vedere la persona come un autore, implicitamente impegnato a scrivere la propria storia e, in questo modo, capace di influenzare i percorsi lungo i quali le azioni successive potrebbero svilupparsi (Chiari & Nuzzo, 2010). L’unità di base nella PCP è rappresentata dal costrutto personale, un contrasto di somiglianza/differenza che fornisce una dimensione di significato sul mondo (vedi Cromwell, 2011). Come polo di contrasto dell’umanesimo troviamo il meccanicismo (Butt, 2008) o, come è stata definita da Bannister (2003), una “psicologia ad orologeria”, dove il comportamento è una risposta determinata da impulsi interni o dall’ambiente esterno.
In occasione di un simposio sulla motivazione, Kelly (1969c) spiegò che non è necessario ipotizzare la presenza di forze che guidano il comportamento. In PCP non si parla di incentivi, motivazioni, bisogni o impulsi. Questi concetti presuppongono l’idea di una persona inerte, in attesa di forze su cui agire. Se noi invece consideriamo il movimento come una proprietà essenziale dell’essere umano e l’uomo come “una forma di movimento” (Kelly, 1955, p.48), allora diamo per scontato che ogni persona stia sempre facendo qualcosa, che sia sempre impegnata in un progetto o in un altro. Dobbiamo quindi comprendere le scelte di ognuno per dare senso alle sue azioni e non ragionare in termini di motivazione, intesa come l’insieme di forze che muovono la persona all’azione. La motivazione sottolinea infatti la passività della persona, la quale si trova attratta o respinta dagli eventi, rispondendo semplicemente a impulsi o a rinforzi condizionati. La scelta, invece, mette l’agency in primo piano: la persona prende delle decisioni e agisce nel mondo. Ma qual è il punto di partenza per prendere queste decisioni? Chi, esattamente, rende possibile la scelta e delinea il corso dell’azione?
Ed è proprio a questo punto che, per spiegare l’agency, viene introdotta la nozione di Sé. Il Sé è visto come ciò che caratterizza l’integrazione e l’unità della persona (Stojnov & Procter, 2012). La terapia centrata sul cliente di Rogers (1980) attribuisce un ruolo centrale alle proprie credenze sul Sé e a come queste vengano modellate dagli altri significativi. Egli suggerisce che ciascuna persona abbia una tendenza all’auto-realizzazione, un’inclinazione naturale a cercare di sviluppare il proprio pieno potenziale, ma questo sviluppo è ostacolato dalle richieste esterne. L’immagine di Sé e la propria autostima sono infatti influenzate dalle continue pressioni del mondo circostante. Il counseling e la terapia cercano di rimuovere questi ostacoli attraverso l’accettazione positiva e incondizionata offerta dal terapeuta, che favorisce uno sviluppo personale libero da vincoli. In questo caso Rogers utilizza una metafora di origine botanica, quella della radice: come le piante, le persone sono portate a crescere verso la luce; terreni e condizioni atmosferiche avverse possono però deteriorare il Sé, con il rischio di sfociare in un profondo malessere nevrotico.
Gli psicologi umanistici come Rogers sostengono spesso che le loro radici intellettuali devono essere ricercate nella fenomenologia esistenzialista europea. Lo stesso Rogers cita frequentemente Buber e su Wikipedia vengono menzionati Sartre, Merleau-Ponty, Nietzsche e Heidegger per definire la psicologia umanistica. Tuttavia, queste radici nell’esistenzialismo europeo sono tutt’al più superficiali e comunque piuttosto limitate. Nella filosofia dell’esistenza, infatti, non c’è l’idea di un Sé come elemento fondamentale al centro della persona. Per queste ragioni, sia Holland (1970) che Butt (1997) sostengono che l’Esistenzialismo sia molto più vicino alla Psicologia dei Costrutti Personali. Possiamo riconoscere nella PCP una forma di umanesimo perché attribuisce alla persona capacità di scelta e di agency ma, in linea con l’Esistenzialismo, in essa ci sono pochi riferimenti al Sé, e quei pochi sono piuttosto sbrigativi. Prendiamo, ad esempio, la prima menzione di “Sé'” presente nel volume:
Alcuni studiosi hanno ritenuto opportuno distinguere fra eventi “esterni” ed eventi “interni”. Nella nostra concettualizzazione riteniamo non vi sia bisogno di fare questa distinzione. Né sentiamo la
necessità di distinguere in modo netto fra stimolo e risposta, fra l’organismo e il suo ambiente, fra Sé e non Sé. (Kelly, 1955, p.55)
Come sostengono Stojnov e Procter (2012), Kelly andò oltre il comportamentismo dominante, nella direzione di una dimensione umanistica. Credo che questa citazione riassuma perfettamente sia le caratteristiche principali della PCP, che le sue radici nel pragmatismo di John Dewey, le cui riflessioni filosofiche e psicologiche possono essere rintracciate fra le righe della Psicologia dei Costrutti Personali, come ha ricordato lo stesso Kelly (Kelly, 1955).
4. Kelly e Dewey
Dewey era profondamente contrario a quei dualismi che riteneva affliggessero la psicologia. Le distinzioni tra mente e corpo, tra Sé e gli altri, tra individuo e ambiente, conducono a valutazioni non adeguate del nostro modo di agire nel mondo (Hildebrand, 2008). Dewey faceva risalire le attuali nozioni di mente e corpo al Cristianesimo paolino (Dewey, 1925/1997, p. 204). La divisione dualistica è infatti una parte particolarmente significativa della dottrina cristiana: il corpo è corrotto e corruttibile, fonte del peccato e di tutto ciò che c’è di sbagliato nell’umanità, mentre lo spirito è eterno e può essere salvato quando le passioni e i desideri del corpo sono domati. L’anima e lo spirito sono in seguito stati racchiusi nel concetto di mente e, successivamente, di Sé. La psicologia, sosteneva Dewey, era perseguitata da questo dualismo, lo stesso che era stato perpetrato da Cartesio, fervente cattolico della Chiesa Romana.
Chiaramente, una psicologia che si volesse dire scientifica non poteva accettare l’idea di una mente interna inaccessibile; questo fu il contesto in cui, alla fine del diciannovesimo secolo, cominciò a fiorire l’interesse per una nuova forma di comportamentismo.
Dewey (1896/982) ha sottolineato il rischio di considerare l’arco riflesso come unità di analisi in psicologia[2]. Egli riconosceva la necessità di andare oltre la nozione di anima, o di mente nel corpo, ma riteneva che l’adozione del concetto di arco riflesso rappresentasse un tentativo fallimentare di sostituire questo dualismo con un rozzo monismo. Tuttavia la separazione tra processi “interni” ed “esterni” – i primi nel sistema nervoso e i secondi nell’ambiente – ci ha distolto dalla natura unitaria e finalizzata dell’azione. L’autore fa l’esempio di un bambino che prima viene attratto dalla fiamma di una candela e poi ci si scotta. Interpretare questi eventi come una successione di stimoli e risposte porta a frammentare e interrompere il corso dell’azione. L’azione si svolge lungo un continuum e può essere compresa correttamente solo all’interno di un particolare contesto, non come una serie di riflessi improvvisi e disordinati in qualche modo fra loro connessi. Ciò che accade nell’esempio prima citato è che per il bambino il significato della fiamma cambia. L’intero processo non prende avvio da uno stimolo sensoriale ma, se è possibile individuare un inizio, va cercato nell’atto di guardare. Questa è un’azione, l’avvio di un’esplorazione, e non una sensazione che colpisce improvvisamente il corpo. Ciò che si sviluppa non è un arco riflesso, l’associazione di uno stimolo con una risposta, ma un continuo circuito di azione senso-motoria. Le persone non restano inerti finché uno stimolo non le colpisce: usando un’espressione di Kelly, possiamo dire piuttosto che esse sono “forme di movimento”.
Stojnov e Procter (2012) fanno notare come al crudo monismo del comportamentismo sia stato contrapposto un ritorno al dualismo, nel momento in cui il concetto di Sé ha sostituito quello di anima. L’idea rogersiana del Sé, con l’accento sul potenziale di ognuno e la spinta verso il suo raggiungimento, rispecchiano la demonologia di Cartesio. Espressioni quali “essere se stesso”, “essere onesto con se stesso” e “trovare se stesso” presuppongono tutte l’idea che ogni azione possa essere messa a confronto con qualche verità interna e, di conseguenza, dichiarata in un certo senso errata.
Certamente a tutti noi è capitato di voler rinnegare qualcosa che abbiamo fatto e tutti abbiamo commesso azioni che successivamente avremmo preferito aver evitato. Ma ciò prova forse che non siamo noi stessi? A tal proposito, Kelly scrive:
In questi giorni si discute molto intorno al concetto di “essere se stessi”. Malgrado mi sia piuttosto difficile comprendere in che modo una persona potrebbe essere qualcosa di diverso da se stessa, suppongo che ciò che si intende è che non dovrebbe sforzarsi di diventare qualcosa di diverso da ciò che è. Questo mi sembra un modo di vivere molto noioso; infatti sarei propenso a sostenere che tutti noi staremmo molto meglio se ci proponessimo di essere qualcosa di diverso da ciò che siamo. Anzi, non sono sicuro che tutti staremmo meglio – forse sarebbe più corretto dire che la vita sarebbe molto più interessante. (Kelly, 1969d, p. 157)
Qui Kelly sta sottolineando la sua convinzione in ciò che definisce “elaborazione tramite dilatazione”, ovvero l’idea che attraverso la sperimentazione personale noi possiamo estendere i nostri orizzonti e cambiare ciò che siamo. In una serie di corollari che originano dal postulato fondamentale, egli illustra le modalità attraverso cui la nostra possibilità di cambiamento è facilitata o ostacolata dal nostro personale sistema di costrutti. È rilevante sottolineare che la PCP prevede quindi la presenza di specifici vincoli che regolano il cambiamento: non possiamo semplicemente fare ciò che desideriamo, ma siamo portati ad agire nel rispetto di alcuni aspetti di noi stessi particolarmente nucleari.
Questa prospettiva è molto diversa dalla visione socio-costruzionista di un Sé distribuito (Gergen, 1991; Stojnov & Procter, 2012), dove la condotta della persona varia semplicemente in relazione al contesto sociale in cui è inserita.
5. Struttura nucleare e ruolo nucleare
Il sistema dei costrutti personali comprende le cosiddette “costruzioni nucleari”, che appaiono particolarmente importanti perché determinanti per quelli che Kelly definisce “i processi di mantenimento” di una persona. L’autore non ci spiega esattamente cosa intende quando parla di “processi di mantenimento”, ma appare chiaro quanto essi siano essenziali per ogni individuo. La metafora utilizzata, il richiamo ad una “parte nucleare”, è interessante. Saremmo portati a coglierne solo il riferimento al Sé, e sicuramente ci sono dei punti di contatto fra questi due aspetti, ma non si tratta di una semplice traduzione di questo concetto. Quando noi pensiamo al nocciolo di un frutto, ci appare ovvio quanto esso sia essenziale per il suo mantenimento. C’è una distinzione tra nocciolo e polpa periferica (Kelly usa il termine “periferico” per differenziare alcuni processi da quelli “nucleari”), ma il frutto li comprende entrambi. Senza i semi contenuti nel nocciolo, non ci sarebbero più né mele né pere; tuttavia, il nocciolo è fatto di materia e composto della stessa sostanza della polpa, non si tratta di qualcosa di spirituale che occupa una diversa dimensione e obbedisce a diverse regole. Il Sé è l’erede dello spirito e della mente, ma il nucleo è parte della persona fisica.
Particolarmente importante è ciò che Kelly definisce “struttura nucleare di ruolo”. Kelly derivò la sua idea di ruolo dal pragmatista George Mead (Butt, 2008). Noi giochiamo un ruolo nella relazione con un’altra persona quando agiamo tenendo conto della sua costruzione delle nostre azioni: prendiamo in considerazione il suo diverso punto di vista mentre strutturiamo le nostre azioni.
Le relazioni nucleari di ruolo sono particolarmente significative per ciascuno di noi e per i nostri processi di mantenimento. Ad esempio, potrebbe non preoccuparci che il nostro comportamento appaia brusco e freddo ad un cliente, ma ci preoccuperebbe molto se rischiassimo di essere percepiti in questo modo dal nostro partner o dai nostri figli. Kelly sottolinea l’importanza di queste relazioni nucleari di ruolo nell’esperienza della colpa (Kelly, 1969e), definita come la consapevolezza di una dislocazione da un nostro costrutto nucleare di ruolo. Se gli altri significativi non mi riconoscono nelle mie azioni, posso venire travolto dai dubbi rispetto a chi io sia.
Sulla scia del pensiero di Mead, Kelly sosteneva che l’abilità di vedere il punto di vista dell’altro fosse una conquista unicamente umana. È ciò che ci dona l’autoconsapevolezza. Questa enfasi sulle relazioni nucleari di ruolo trasforma ciò che potremmo vagamente definire come il Sé in un prodotto sociale. Non si tratta, come per Rogers, di un nucleo spirituale o di un’entità individuale che precede le nostre interazioni, ma prende forma proprio a partire da quei processi sociali. Al pari di ogni altra cosa, il Sé è una costruzione. È qualcosa che viene creato, non trovato. Ne deriva che i “Sé” che noi produciamo variano in relazione ai diversi tipi di altri significativi che danno vita al nostro mondo sociale. Nelle società tradizionali le persone vivevano in piccole comunità, dove potevano avere un contatto diretto con un limitato numero di persone. Sebbene una situazione simile possa essere ancora presente in contesti rurali, nella maggior parte dei casi oggi siamo parte di numerose relazioni significative piuttosto diverse le une dalle altre. Viviamo con un gruppo di persone, lavoriamo con un altro e, guidati dai nostri interessi, entriamo a far parte di altri gruppi ancora. Potremmo quindi sentirci veramente autentici con familiari, colleghi, studenti, clienti e amici, malgrado il nostro comportamento possa apparire molto diverso con ognuno di loro. Decidere chi è il nostro migliore amico potrebbe rappresentare una sfida, dato che differenti amici fanno emergere diversi aspetti di noi, tutti importanti. Il fatto che siamo riflessivi con qualcuno e chiassosi con qualcun altro potrebbe risultare molto naturale e, anzi, fornirci spunti di riflessione. Potremmo non provare alcun smarrimento né disagio quando ci spostiamo da una relazione di ruolo ad un’altra: ciò che per un osservatore potrebbe sembrare frammentario, può non presentare alcuna contraddizione per noi. Quello di Kelly è un approccio fenomenologico che comprende l’azione dal punto di vista dell’attore. Le possibilità e i limiti del corso dell’azione sono modulati dalla costruzione dei processi nucleari.
6. La comunità dei Sé
Miller Mair (2011, 1977) attinse a queste idee per proporre l’idea del Sé come una comunità, piuttosto che come un’unità. Una comunità è un piccolo gruppo di individui che hanno relazioni faccia a faccia. Egli suggerisce che può essere utile immaginare questa serie di relazioni di ruolo all’interno di ognuno di noi. La metafora di una comunità ci libera dal problema di decidere quale sia il nostro vero Sé e dal domandarci cosa sia un vero Sé. Quando ci comportiamo in modo piuttosto diverso in contesti sociali differenti non ci sentiamo come se stessimo recitando o fingendo. La PCP può essere considerata un approccio fenomenologico in quanto cerca di comprendere ogni persona cercando di vedere il mondo dal suo punto di vista: ciò che può mettere a disagio qualcuno o sembrargli insolito non sarà visto necessariamente allo stesso modo da qualcun altro. È quindi l’analisi delle relazioni nucleari di ruolo che ci permette di comprendere il modo in cui ognuno si muove nel proprio contesto sociale.
Butt, Burr e Bell (1997) hanno condotto uno studio utilizzando il metodo delle griglie di repertorio per investigare il senso del Sé (per una trattazione di questo metodo, vedi Bell, 2003). Ad un piccolo gruppo di individui è stata somministrata un’intervista strutturata, in cui veniva chiesto di identificare una serie di persone con le quali avevano relazioni diverse ma ugualmente importanti. Veniva poi chiesto di considerare alcune coppie all’interno di questo gruppo: in cosa differisce il mio comportamento quando sono con Massimo piuttosto che con Viv? All’interno delle griglie, le diverse relazioni vengono chiamate “elementi”, mentre le differenze nell’azione costituiscono i poli dei “costrutti”. Quando l’intervistato ha esaurito il suo range di comportamenti, gli viene chiesto di considerare questi costrutti e questi elementi all’interno di una griglia. Ciò gli permette di valutare come ciascun costrutto si applichi ad ogni elemento sulla base di una risposta sì/no. In seguito, l’intervistatore e l’intervistato esaminano insieme la griglia completata e cercano dei modelli ricorrenti.
All’interno di questo studio, risultò di particolare interesse un pattern relativo a ciò che per gli intervistati significava “essere se stessi”. La maggior parte di loro produsse spontaneamente questo costrutto utilizzando frasi come “quando sono con mio padre posso essere me stesso, mentre con Tom sto attento a quello che dico”. Il risultato più interessante fu che l'”essere se stessi” non faceva necessariamente riferimento ad una particolare modalità di comportamento, ma poteva comprendere un’ampia gamma di azioni differenti. Un partecipante aveva quindi modi di comportarsi molto diversi con due persone con le quali sentiva di poter “essere se stesso”. Con qualcuno era molto prepotente, mentre con altri tendeva a rimettersi alla loro volontà. “Essere se stessi” significava quindi una combinazione di tratti contraddittori. Ciò che caratterizzava questo costrutto era l’essere genuino, ovvero il non essere costantemente impegnato a controllarsi e a monitorare il proprio comportamento. Significava lasciarsi andare all’azione congiunta (Blumer, 1969; Butt, 2004; Shotter, 1993) prodotta naturalmente nell’interazione. Paradossalmente, “essere se stessi” significa lasciarsi andare e farsi trasportare dalla corrente dell’azione congiunta.
Mair (2011) mostra come la metafora della comunità dei Sé può aiutarci a comprendere noi stessi. Egli racconta di quando era stato interpellato per far parte di un comitato di selezione per un posto da psicologo clinico senior. Ben presto si accorse di avere un’ampia varietà di reazioni di fronte ai candidati quando si trovava a leggere i moduli delle loro domande di ammissione e cercò di trovare un senso a questa esperienza separando i vari Sé che riconosceva di aver assunto. Li definì:
L’Ansioso: chi si sente a disagio per il compito che sta svolgendo
L’Adolescente ribelle: chi vuole eliminare la persona chiaramente favorita
Il Riformista: chi riflette sui futuri sviluppi della psicologia clinica
Mr. Giusto ed Imparziale: chi vuole sentire tutti i diversi punti di vista su uno specifico argomento
Mr. Sbrighiamoci a finire: chi dice che i candidati della classe dirigente vincono sempre – sii pragmatico e finisci il lavoro.
L’utilità della metafora fu quella di aiutarlo, da un lato, ad abitare ogni membro della comunità e, dall’altro, a distaccarsi da ognuno di essi. Elesse Mr. Giusto ed Imparziale presidente del gruppo, chiedendogli di bilanciare le altre voci. Quindi, grazie alla riflessività, fu in grado di assumere una posizione sovraordinata da cui poterle, per così dire, possedere tutte senza lasciarsi prevaricare da nessuna di esse.
7. Odio
Vorrei ora adottare la metafora della comunità per discutere il tema dell’odio. Ho scelto l’odio perché è considerato cruciale in molte concezioni della natura umana. Rogers vedeva l’umanità come fondamentalmente buona: le persone diventano corrotte e malvagie solo se portate fuori rotta, è la società ad essere identificata come la fonte dei problemi. Questo contrastava con la visione psicoanalitica sviluppata dalla Klein (1932), che aveva recuperato la teoria del Peccato Originale. Secondo questa prospettiva il genere umano è considerato naturalmente pericoloso, civilizzato e tenuto in scacco da un’autorità, esterna o interiorizzata. Come abbiamo già sottolineato, secondo Dewey il Cristianesimo paolino enfatizzava e propagandava questa visione, sostenendo la debolezza del corpo, incline a venire sopraffatto dalle passioni. Solo con l’aiuto di un prete (o di uno psicoanalista) la persona può tenere lontano questo pericolo. In seguito alla Caduta, l’umanità è stata esclusa dal Giardino dell’Eden ed è stata destinata a soffrire per odio, passione e dolore. L’odio occupa un posto di riguardo nelle teorie psicoanalitiche; la posizione paranoide della Klein non è presentata come uno stadio dello sviluppo che viene superato, ma è considerata una posizione psichica sempre disponibile e facilmente accessibile. L’odio è alla base dell’essere umano.
Per i pragmatisti la persona non è fondamentalmente né buona né cattiva. Kelly fa riferimento al mito del Giardino dell’Eden in almeno quattro dei suoi ultimi scritti (Maher, 1969), e questo appare un tema fondamentale anche in Sin and Psychotherapy (Kelly, 1969c), verosimilmente uno dei contributi cruciali del lavoro di Kelly (Butt, 2008, Cromwell, 2008). Nella sua analisi dei costrutti personali, Kelly sostiene che la persona debba fare una serie di scelte: tra compagnia e solitudine, obbedienza e avventura e, infine, tra bene e male. Kelly era stato educato come un membro della Chiesa Presbiteriana e, forse per questo motivo, considerava il costrutto “bene versus male” come una dimensione che non poteva essere evitata o ricostruita (Butt, 2008). Ma Kelly non rimpiange la cacciata dal Giardino dell’Eden. Per lui, l’umanità è al suo massimo quando opera una scelta attraverso l’estensione, forzando i propri confini. Meglio scegliere una vita di ricerca che una di cieca obbedienza. Tuttavia, non sappiamo dove la ricerca e la sperimentazione ci porteranno e, spesso, potrebbero sfociare in conseguenze indesiderate che poi rimpiangeremo. Kelly ci guida attraverso alcune strategie che le persone adottano per evitare la responsabilità delle proprie azioni, che possiamo trovare simili al concetto di malafede introdotto da Sartre; ansia e colpa sono parte necessaria della condizione umana per come la sperimentiamo. Si racconta che Robert Oppenheimer si rammaricasse del suo lavoro che aveva portato alla produzione della bomba atomica e che il presidente Truman lo schernisse, dandogli del “piagnucolone” (Hamilton, 2011). Forse Kelly aveva questi esempi in mente dato che scrisse Sin and Psychotherapy al culmine della guerra fredda e proprio nell’anno della crisi missilistica cubana.
È indubitabile che molto del male umano sia il risultato dell’odio. Il desiderio di nuocere ad altri è un corollario dell’aver sviluppato un senso morale: la sensazione di aver subito un torto è fonte di differenti reazioni nelle diverse persone, di cui una è sicuramente l’odio. Midgley (1984) ipotizza che, per far sì che la rabbia si trasformi in odio, la persona odiata debba essere dotata di un’improbabile serie di attributi detestabili e temibili che colui che odia vorrebbe eliminare. Forse è questo il motivo per cui l’odio degli altri ci appare così ridicolo: la credenza nazista riguardante un complotto ebreo per la dominazione del mondo, l’odio e la paura degli estremisti islamici verso le riforme occidentali, gli abomini effettuati dai Protestanti e dai Cattolici nell’Europa medievale (e nel Nord Irlanda contemporaneo). Ciononostante, il nostro odio ci sembra molto naturale (il mio per i nazisti, gli Islamisti violenti e le crociate Cristiane). Noi tutti sappiamo cosa vuol dire odiare, anche se indubbiamente alcuni odiano più di altri.
Si può dire che il nostro odio ricada su di noi? Nella tradizione Giudaico-Cristiana, riformulata ma preservata nella psicoanalisi, l’odio è visto come fondamentale per l’umanità. La cosa migliore che possiamo fare è riconoscerlo e controllarlo, o magari riuscire a canalizzarlo. Come la fame o il desiderio sessuale, viene descritto come un impulso. Per il pragmatico, tuttavia, questo non implica il concetto di ineluttabilità. Per il pragmatismo, infatti, l’autorità viene sempre messa in discussione, sottoponendola ad un esame minuzioso. L’esperienza comune di odio è innegabile e forse è a causa della sua diffusione, così come della sua distruttività, che viene considerata un’esperienza fondamentale. In inglese viene usata la particolare espressione nursing a grudge (allevare un rancore) e, all’inizio del diciannovesimo secolo, William Hazlitt scrisse un saggio dal titolo Il piacere dell’odio (2004). Queste particolari connotazioni positive dell’odio dovrebbero suggerirci la possibilità di una formulazione alternativa. Si intuisce tra le righe una riluttanza a perdonare, basata su una gratificazione nel continuare ad odiare.
8. Odio come Scelta
In quest’ultima parte, vorrei rivedere il concetto di scelta di Kelly, suggerendo che possa essere utile per la comprensione dell’esperienza dell’odio. Kelly sostiene che, di fronte a due alternative, noi scegliamo quella che per noi ha più senso (Kelly, 1969c, 1955). La scelta elaborativa, come la definisce Kelly, non è necessariamente quella che ci dà più piacere o soddisfazione, ma è quella che ci aiuta a dare un senso al mondo, supportandone la nostra visione. Questa scelta solitamente non è consapevole. Noi prendiamo decisioni costantemente, senza che queste siano necessariamente deliberate o frutto di riflessione, tuttavia le nostre scelte sono intenzionali, non casuali. Ho già detto che i costrutti non sono cognizioni, ma che noi costruiamo agendo. Ci troviamo sempre in movimento, sempre impegnati a costruire, e l’azione, per come la intende Dewey, incorpora quello che la psicologia ortodossa divide in comportamento, cognizione ed emozione. Kelly sottolinea tutto ciò nella sua discussione sul bene e sul male (Kelly, 1969e), le persone percorrono la scelta per loro più elaborativa e agiscono di conseguenza, a volte nella direzione del male.
Quando noi pensiamo alla scelta nella vita quotidiana, ci viene in mente l’immagine della scelta tra due cose che desideriamo. Ma, come fa notare Kelly (Kelly, 1969c), troppo spesso ci troviamo invece di fronte ad un dilemma, costretti a scegliere tra il minore di due mali. Focus originale della formulazione di Kelly era il paradosso nevrotico, secondo il quale la persona sceglie continuamente strategie che agli altri appaiono controproducenti. Lo schema di azione scelto e ripetuto non porta alla gratificazione, ma garantisce un mondo a cui la persona può attribuire senso. Di certo questo tipo di scelta non è per nulla limitata al nevrotico. Se consideriamo l’esperienza dell’odio una scelta elaborativa, quale potrebbe essere l’alternativa scartata? In un eccellente studio fenomenologico sulla psicologia del perdono, Halling (2008) conclude che il risentimento e l’odio sono frequentemente preferiti ai sentimenti alternativi di debolezza e impotenza. A volte è più facile odiare che piangere, poiché salvaguarda l’integrità della persona, tenendone insieme i pezzi.
Il valore di un buon lavoro fenomenologico risiede nella sua capacità di suscitare il brivido del riconoscimento nel lettore: i risultati fanno riecheggiare aspetti della propria esperienza, portando alla consapevolezza qualcosa che fino a quel momento era stato difficile definire. Io ho sperimentato questo leggendo il lavoro di Halling. Chiaramente non possiamo sostenere che ogni espressione di odio possa essere esattamente spiegata in questo modo. A questo proposito, la posizione di Wittgenstein (1972) sulla categorizzazione delle emozioni è convincente: utilizzando la stessa etichetta verbale, persone diverse intenderanno cose leggermente diverse. L’odio potrebbe essere anche la scelta più elaborativa in relazione a diverse alternative.
Ciò che conta sono le implicazioni di questa riformulazione dell’odio. Se intendiamo la persona come abitata da un Sé o da uno spirito e l’odio come qualcosa di fondamentale per l’umanità, l’esperienza dell’odio e la sua espressione ci sembreranno prova di ciò che siamo davvero e di ciò che davvero crediamo: esso risiede nel nostro profondo ed è qualcosa di cui dobbiamo preoccuparci. Prevalere sull’odio potrebbe implicare canalizzarlo differentemente, rielaborarlo, imparare a controllarlo o a combatterlo, magari cercando di smettere di provarlo attraverso l’ausilio di tecniche cognitivo-comportamentali. Ma deve essere preso per le corna, in quanto fondante della propria costituzione. Se noi vediamo invece la voce dell’odio come una fra tante all’interno della comunità dei Sé, ci si aprono diverse alternative. Mair non trovava necessario far tacere l’Adolescente ribelle dentro di sé, non era una voce con cui litigare o che doveva essere espulsa dalla comunità: era accettata come parte del gruppo, ma non le era permesso di dominarlo. Di certo è importante tenere d’occhio l’odio, ma forse un rimedio può essere semplicemente quello di fare qualcosa di diverso, adottando prospettive differenti per costruire gli eventi. Sentimenti pieni d’odio possono essere accettati e risultare transitori, visto che ci sono altre voci che possono essere interpellate. Una caratteristica dell’approccio terapeutico di Kelly (e del suo approccio all’educazione in generale) è che non è necessario rinunciare a quello che stai facendo mentre provi qualcosa di nuovo. L’elaborazione di nuove costruzioni non necessita l’immediato abbandono delle precedenti.
Una cosa che potremmo scoprire sperimentando nuove prospettive è di aver perdonato chi prima odiavamo. Lo studio di Halling (2008) indicava che il perdono non può essere obbligato, non serve a nulla cercare di perdonare qualcuno. È come cercare di dormire, spesso si verifica un effetto paradossale che impedisce di raggiungere l’obiettivo desiderato. Frequentemente, i partecipanti della sua ricerca si accorgevano a posteriori di aver perdonato: se non si focalizzavano sull’odio e il risentimento, l’odio perdeva il suo smalto. A volte i partecipanti scoprivano che il loro odio era svanito inaspettatamente nel momento in cui incontravano la persona odiata. Percepire l’altro come vulnerabile aveva permesso loro sia di vederlo in modo diverso che di accettare il proprio senso di debolezza. Questi risultati richiamano l’esperienza del romanziere inglese George Orwell (1945/1968). Egli era stato un forte oppositore del fascismo nel 1930 e si era arruolato nella Brigata Internazionale nella guerra civile spagnola. Odiava i nazisti e tutto quello che simboleggiavano ma, nel 1945, visitò un campo di prigionia americano in Germania in qualità di giornalista ed assistette alle crudeltà inflitte sugli ufficiali SS catturati. Si rese conto che non provava in questo alcun piacere e che, con sua sorpresa, ne era disgustato.
Il fatto che non possiamo autoimporci di perdonare non significa che non sia intenzionale. Halling (2008) sostiene che non possiamo perdonare contro la nostra volontà. Di nuovo, usa l’esempio dell’addormentarsi: non possiamo volerlo, ma lo incoraggiamo, mettendoci in una posizione in cui potrebbe accadere. Quindi, quel che possiamo fare è metterci in una posizione che accetti il cambiamento e sia aperta a nuove possibilità. Troppo spesso coltiviamo rancore. Kelly parlerebbe in questo caso di elaborazione tramite definizione, trovando cioè dei modi per rimanere gli stessi. L’elaborazione tramite estensione è più difficile, richiede più sicurezza e, quindi, più coraggio. E questo, ancora una volta, ricorda il messaggio di Kelly sul mito dell’Eden.
9. Riassumendo
Abbiamo considerato la classificazione della Psicologia dei Costrutti Personali, enfatizzando come le categorie non dovrebbero essere viste come immutabili, ma venire usate e modificate secondo i nostri bisogni. Ho sostenuto che non si rende giustizia alla PCP vedendola come una forma di cognitivismo e che, piuttosto, può avvicinarsi ad un approccio umanistico. È certamente fenomenologica, presenta grandi somiglianze con l’esistenzialismo e vede l’agency come un aspetto centrale per l’umanità. Ma non c’è alcun Sé, nessun centro spirituale della persona, né qualcosa che funzioni come un giroscopio che silenziosamente guidi l’individuo verso il soddisfacimento del suo potenziale. Secondo la prospettiva costruttivista, non c’è un meccanismo centrale di comando che fornisce integrità alla persona. Il senso di Sé è invece distribuito, ma viene coordinato in base alle costruzioni nucleari di ruolo specifiche della persona, tanto che l’idea di una comunità dEi Sé risulta un’ottima metafora.
Che differenza fa? Ho preso l’esempio dell’odio, osservando quali implicazioni poteva avere la metafora di Mair su questa esperienza. Adottando la nozione di un Sé reale e profondamente radicato (probabilmente largamente inconscio), l’odio è considerato come una caratteristica fondante del genere umano. In individui che sono “odiatori provetti”, le radici dell’odio devono necessariamente essere fronteggiate per giungere ad un cambiamento. La sfida è considerata la strategia essenziale. La PCP, invece, non attribuisce un posto speciale a nessuna emozione. Facendo riferimento agli studi di fenomenologia esistenziale, si suggerisce che incoraggiare nuove imprese o addirittura ignorare le persone odiate potrebbe rappresentare una strategia migliore per il cambiamento.
Riconoscimenti:
Sono molto grato alla Dr.ssa Meg Barker e al Professor Rue Cromwell per i loro commenti e le loro note su questo scritto.
1. Introduction
Most introductory texts on personality mention personal construct psychology (PCP) respectfully but briefly. The usual story they tell is that it was an early form of cognitivism, one that kept the approach alive during the arid days of behaviourism. Tribute is paid to its founder, George Kelly (1905-67), but the reader is left with the impression that it died with him. The reader is left to assume that contemporary cognitive behavioural therapy is the scientific heir to PCP. Personal constructs were a pre-scientific version of cognitions, and the construct system was an early attempt to make sense of how these cognitive entities affected each other. Yet the elaboration of PCP flourishes in Europe, North America and Australia, all of which have active constructivist organizations and hold bi-annual conferences. Italy is particularly vibrant in its development of PCP (See Giliberto et al., 2012), and I am honoured indeed to have a contribution in the first edition of Rivista Italiana di Costruttivismo.
Why the paradox? Why is PCP alive and well, while its death is assumed in mainstream psychology? I believe this is because PCP was never properly understood by those orthodox psychologists who see it as a precursor to cognitivism. It is true that in a weak sense, everyone is a constructivist now. Psychologists now accept that the world as we perceive it is transformed by our construction of it. We never encounter the world in the raw; it is always served up cooked by our construct systems. This much seems congruent with cognitive psychology. But Kelly’s psychology was far more radical than this. In his preface to The Psychology of Personal Constructs (1955), he warns the reader that the familiar landmarks of psychology are entirely missing:
..the term learning, so honourably embedded in most psychological texts, scarcely appears at all. That is wholly intentional; we are throwing it overboard altogether. There is no ego, no emotion, no motivation, no reinforcement, no drive, no unconscious, no need. (Kelly, 1955, p. X)
Kelly’s theory uses unusual language, and takes common terms like ‘emotion’ and gives them entirely new meanings. He set out his theory in an unusual way, proposing a fundamental postulate from which other theoretical propositions flow in a series of eleven corollaries. Here is the fundamental postulate: “A person’s processes are psychologically channelized by the way in which he (sic) anticipates events” (ibidem, p. 46).
This is a condensed and gnomic sentence, and we need to unpack it. Let us consider the term ‘processes’. Kelly could have said “the way in which a person thinks, feels and behaves”. He does not do this, because his theory does not separate cognition, affect and behaviour. Orthodox psychology assumed this separation, which then leads to questions such as which cause which? For behaviourists, cognitions were mere epiphenomena, floating in the wake of behaviour change. Disputes about the causal power of cognition in relation to both behaviour and affect led to social learning theory’s ascendancy over behaviourism in the 1970s (Bandura, 1977; Mahoney, 1974; Mischel, 1973). PCP does not find these separations useful. Everything is seen as channelled (and not caused) by the way in which we construe, or anticipate events. And our construing involves what we think of as thought, behaviour and emotion. Emotions are described in terms of the disturbances that ensue when construing changes; there is no sudden change into the language of physiology as there is in orthodox psychology. We can construe emotions physiologically, but PCP is interested in how our action is psychologically channelled. So personal constructs are not like cognitions, in some way behind behaviour and causing it. They are in our action; we construe in action (Butt, 1998; Radley, 1973, 1977).
Construing PCP as a species of humanism rather than cognitivism is, I think, more convincing. But it is a very different humanism from that of Rogers (1980), in that there is no self at the centre of the person. In this article, I want to consider this selfless humanism. To do this, it will be necessary to think about the philosophical roots of PCP. Stressing the philosophical roots of the approach might be seen as eccentric in the Anglophonic world (Fransella, 2008), but I think it is important for two reasons. Firstly because Kelly begins his magnum opus in 1955 with a statement of his philosophical tradition. Yet the philosophical roots are very often latent and not made explicit (Warren, 1998). Secondly, these traditions have all proved enduring, and each has its adherents in clinical or social psychology. Making explicit these foundations helps us appreciate the links to other approaches, as well as the depth of the psychology of personal constructs.
2. The Psychology of Personal Constructs and its Roots in Pragmatism
Kelly declined any simple classification for his theory (Kelly, 1969a). As a pragmatist (Butt, 2008; Cromwell, 2010; Thayer, 1982; Warren, 1998), he saw knowledge primarily as a construction rather than a discovery; we make the world rather than find it. We cannot ever know what the world is ‘really like’. Who knows what it looks like to an ant or a dog? We are limited by our senses and our scientific instruments, and use these to order the world in order to anticipate and act in it (see also Maturana & Varela, 1998). Constructions then, are not to be judged in terms of their truth – their representation of things. Instead they are to be judged in terms of their usefulness. Ordering and classification have been invented to help us make sense of what William James famously called the ‘booming buzzing confusion’ around us. So, for a pragmatist, the question is not: is PCP a species of humanism, but does it make sense to think of PCP as a humanism? We remain responsible for our classifications.
Kelly (1955) begins his book with a statement of his philosophical position. This he calls constructive alternativism, and it clearly demonstrates his grounding in pragmatism (Butt, 2008). He distinguishes between events in the world, and constructions of them, or the way they appear to us. In practice, it is impossible to distinguish too sharply between them, because events are always mediated by construing. It is rather like the distinction between the phenomenologists’ noema and noesis (Husserl, 1936/1970). As George Mead (1909/1982) had argued, we see the world in terms of what it can do for or to us. A thousand metre precipice is not in itself dangerous. I imagine that it presents no threat to a butterfly or a bird. But we see it as potentially dangerous because of the risk it presents to us. Nevertheless, not all people will see it in the same way. It might present itself somewhat differently to a mountaineer, who might see it as an exciting challenge rather than something to be avoided. Constructive alternativism proposes that all events are open to alternative constructions and the personal constructions adopted by a person are those that have proved useful in negotiating events. The way the world appears to us does not tell us how it appears to others. Of course, there will be culturally common constructions, but a psychotherapist would do well to emphasize the individuality rather than the commonalty of construction.
3. PCP and Phenomenology
As constructivists, we do not have to ask whether PCP is in fact a form of humanism. The question is whether it makes sense to see it thus. And PCP might usefully be construed as a form of humanism, because above all, it emphasizes human agency. Kelly proposed that we think of each person as a scientist, forming and testing his or her theories. The behaviourism of Kelly’s time had seen the person as like a white rat or a pigeon, whereas psychoanalysis seen the person as the victim of unconscious forces. Contemporary cognitivism works on the model of person as computer. In terms of pragmatism, these are not incorrect models of reality. They are to be judged by how useful they are. Kelly (1969b) found that the ‘man the scientist’ model more useful in understanding his clientele. Contemporary constructivists often prefer the person as author model, in which the person is seen as implicitly writing his or her history, and thereby influencing the channels along which future action may run (Chiari & Nuzzo, 2010). The basic unit in PCP is the personal construct, a likeness/difference contrast that endows a dimension of meaning on the world (See Cromwell, 2011). The contrast pole of humanism is mechanism (Butt, 2008), or as Bannister (2003) termed it, a ‘clockwork psychology’, where behaviour is a response determined either by internal drives or an external environment.
Contributing to a symposium on motivation, Kelly (1969c) made the case that we need not propose forces that energise behaviour. There are no incentives, motives, needs or drives in PCP. Such concepts stem from an assumption of the person as inert, waiting for forces to act upon them. If we assume that motion is an essential property of being, that ‘man is a form of motion’ (Kelly, 1955, p. 48), then we take it for granted that people are always doing something, engaged on one project or another. We need an understanding of choice to make sense of the direction of their action, but not of motivation, forces that push or pull them into movement. Motivation underlines a person’s passivity; the person merely responds to drives or reinforcement contingencies. They are either pushed or pulled by events. Choice emphasizes agency. The person makes decisions and acts in the world. But from what position does the person make these choices? Who, exactly, does the choosing and charts the course of action?
This is where the notion of self is usually called upon to explain agency. Self is seen as denoting the integration and unity of the person (Stojnov & Procter, 2012). Rogers’ (1980) client centred therapy is based on beliefs about the self and how they are shaped by significant others. He proposed that each person has an actualizing tendency, a natural inclination to grow to achieve his or her full potential. But growth is stunted by the demands of others; our self image and self esteem are affected by the stultifying pressures of society. Counselling and therapy try to remove obstacles, with the therapist offering the unconditional positive regard that allows for unrestricted growth. Rogers’ root metaphor is horticultural. Like plants, people naturally grow towards the light. Poor soil and atmospheric traditions pervert the self, resulting in neurotic misery.
Humanistic psychologists such as Rogers often claim that their intellectual roots lie in European existential phenomenology. Rogers frequently cited Buber, and the Wikipedia definition humanistic psychology mentions Sartre, Merleau-Ponty, Neitszche and Heidegger. However, these roots in European existentialism are at best, superficial and very selective. There is no concept of an essential self at the centre of the person in the philosophy of existence. Both Holland (1970) and Butt (1997) argue that the psychology of personal constructs is a much closer relative of existentialism. We can see that PCP is a form of humanism in that it sees the person as a centre for some choice and agency. But there are very few references to ‘self’ in The Psychology of Personal Constructs, and those few are rather dismissive. Take the first mention of ‘self’, for example:
Some writers have considered it advisable to try to distinguish between “external” events and “internal” events. In our system there is no particular need for making this kind of distinction. Nor do we have to distinguish sharply between stimulus and response, between the organism and his environment, or between the self and the not-self (Kelly, 1955, p. 55).
As Stojnov and Procter (2012) say, Kelly cut across the prevailing behaviourism versus humanism dimension. And I think this quote beautifully sums up the key features of PCP, as well as its roots in the pragmatism of John Dewey, whose philosophy and psychology, Kelly tells us, may be read between the lines of the psychology of personal constructs (Kelly, 1955, p. 154).
4. Kelly and Dewey
Dewey was thoroughly committed to the abolition of those dualisms that he thought of as plaguing psychology. The separations of mind from body, the self from others, and the individual from the environment all led to inadequate analyses of the ways in which we act in the world (Hildebrand, 2008). Dewey saw our present notions of mind and body as dating from Pauline Christianity (Dewey, 1925/1997, p. 204). The splitting of the two is an essential part of Christian doctrine. The body is corrupted and corruptible; the source of sin and all that is wrong with humankind. The spirit is eternal and can be saved when the lusts and passions of the body are mastered. The soul and the spirit have since evolved into minds, and later, selves. Psychology, he thought, was dogged by this dualism, one that had been perpetuated by the fervently Roman Catholic Descartes.
Clearly a scientific psychology cannot accept a ‘no go’ area of an internal mind, and it was in this context at the end of the nineteenth century, that the appeal of a new behaviourism began to take shape. Dewey warned against taking the reflex arc as the unit of analysis in psychology (Dewey, 1896/1982). He recognised the need to escape the notion of a soul, or mind in the body. The adoption of the reflex arc was, he thought, a mistaken attempt to replace this dualism with a crude monism. But the separation of ‘internal’ and ‘external’ processes– the former in the nervous system and the latter in the environment – led us away from the unitary and purposeful nature of action. He takes the example of a child being attracted to a candle flame and subsequently being burned by it. To see this as a succession of stimuli and responses is to fragment and disrupt the flow of action. Action is coordinated and only properly understood in a particular context, not as a series of jerky reflexes that are in some way welded together. What happens in the above example is that the meaning of the flame changes for the child. The whole process does not begin with a sensory stimulus. If it begins anywhere, it is with the act of looking. This is an action, an inquiry, and not a matter of a sensation impinging on the body. What develops is not a reflex arc, the welding of a stimulus to a response, but a continuous circuit of sensori-motor action. People are not inert until a stimulus impinges on them. They are, to use Kelly’s phrase, ‘forms of motion’.
Stojnov and Procter (2012) point out that the crude monism of behaviourism was countered as dualism crept back as the soul morphed into the self. Rogers notion of the self with its sense of potential and drive towards it mirrors the demonology of Descartes. The notion of ‘being oneself’, ‘being true to oneself’ ‘finding oneself’ all rest on the assumption that any action can be matched against some internal truth and declared in some sense invalid. Of course we all sometimes want to disown what we have done, and have all acted in ways which in retrospect, we wish we had not. But is this evidence of not being oneself? Here is Kelly:
A good deal is said these days about being oneself. While it is a little hard for me to understand how one could be anything else, I suppose what is meant is that one should not strive to become anything other than what he is. This strikes me as a very dull way of living; in fact I would be inclined to argue that all of us would be better off if we set out to be something other than what we are. Well, I’m not sure we would all be better off – perhaps it would be more accurate to say that life would be a lot more interesting. (Kelly, 1969d, p. 157).
Here Kelly is emphasizing his commitment to what he terms elaboration through extension. This is the idea that through personal experiment we can extend our horizons and change what we are. In a series of corollaries to fundamental postulate, he proposed ways in which personal change is both allowed and restricted by our personal construct system. It is important to note that PCP proposes this regulatory feature on change. We are not free to just act in any way we want; there is a sense of accountability to some core process. This is very different from the social constructionist view of a distributed self ( Gergen, 1991; Stojnov & Procter, 2012), where the person’s conduct simply varies with the social context.
5. Core structure and core role
The personal construct system has within it some construing that is particularly important in that it is essential to what Kelly calls the person’s ‘maintenance processes’. This Kelly calls core construing. He doesn’t tell us exactly what he means by maintenance processes, but clearly, the implication is that they are essential for the person. The metaphor of ‘core’ is interesting. It is tempting to take it as simply meaning ‘self’, and there are certainly similarities. But it is not a direct translation. When we consider the core of a fruit, we can see that it is indeed essential for its maintenance. The core differs from the peripheral flesh (Kelly also uses the term ‘peripheral’ as the contrast to core processes). The fruit comprises both core and flesh, but without the seeds at the core, there would be no more apples or pears. Nevertheless, the core is material, and made up from the same material as the flesh. It is not spiritual, occupying a different dimension and obeying different laws. The self is the heir to the spirit and the mind, but the core is part of the material person.
Of particular importance is what Kelly terms ‘core role structure’. Kelly took his understanding of role from the pragmatist George Mead (Butt, 2008). We play a role with someone when we act in the light of their construction of our action. So we take account of their different point of view as we shape our action. Core role relationships are those that are particularly central to us. It denotes role relationships that are important to our maintenance processes. So we may not care that our behaviour appears brisk and cold to a customer, but care very much if it is seen this way by our partner or children. Kelly stresses the importance of these core role relationships in the experience of guilt (Kelly, 1969e). Guilt he suggests, is he awareness of dislodgement from our core role. If important others do not recognise me in my action, I am thrown into doubt as to who I am.
Following Mead, Kelly thought that it is the ability to take another’s viewpoint that is a uniquely human achievement. It is what gives us self consciousness. This emphasis on core role relationships makes what we might loosely term the self a social product. It is not, as it is for Rogers, a spiritual core or individual entity that pre-dates our interaction, but fashioned out of those social processes. Like everything else, self is a construction. It is something that is made and not found. It follows that the ‘selves’ that we produce vary in accordance with the different types of significant others that make up our social world. In traditional societies, people lived in communities in which they had face-to-face contact with a limited number of people. This may still be the case in isolated rural settings, but in the modern world we have a number of quite different important relationships. We live with one set of people, work with another, and join interest groups with different people again. So we might feel quite authentic with family members, colleagues, students, clients and different friends, even though our conduct varies enormously. Saying who is your best friend might present a challenge, as we find that different friends bring out different aspects of us, all of which are important. The fact that we are contemplative with one and boisterous with another might seem quite natural and indeed nourishing to us. We might find no sense of dislodgement and discomfort as we move from one type of role relationship to another. What might seem fragmentary to an observer presents no contradiction to us. Kelly’s is a phenomenological approach that understands action from the actor’s point of view. The possibilities and restrictions on the flow of action are modulated by the construction of core processes.
6. The community of self
Miller Mair (2011, 1977) drew on these ideas to propose the notion of self as community rather than a unity. A community is a small collection of individuals that have face-to-face relationships. He suggests it useful to imagine such an articulated series of role relationships within each of us. The metaphor of a community releases us from the problem of what our ‘true’ self is, and from wondering what the authentic self is. We do not feel as though we are acting or pretending when we conduct ourselves quite differently in different social contexts. PCP is a phenomenological approach in that it seeks to understand each person by seeing things from their point of view. What seems uncomfortable and out-of-character to one will not appear so to another. An understanding of a sense of social ease will rest on an analysis of the core role relationships comprising each person.
Butt, Burr and Bell (1997) carried out a grid study to investigate the sense of self (for a description of grid method, see Bell, 2003). A structured interview was carried out with a small group of individuals in which each was asked to identify a series of people with whom they had different though important relationships. They were then asked to consider this group in pairs: how do I act differently when I am with Massimo from when I am with Viv? In grid terms, the different self-relationships are termed ‘elements’ while the differences in action are ‘constructs’. When the interviewee had exhausted their range of action, they were asked to consider these constructs and elements in a grid form. This allows them to consider how each construct applied to each element on a yes/no basis.
The interviewer and interviewee then examine the completed grid together and search for patterns. One pattern in particular was of interest was what it meant to the interviewees to ‘be oneself’. Most of them spontaneously produced such a construct, so one might say “ when I’m with my dad I can be myself, but with Tom I watch what I say”. The most striking finding of this study was that ‘being oneself’ for any individual could mean exhibiting a wide range of action. It did not mean acting in a certain way. So one participant conducted himself in very different ways with the two people with whom he felt to be himself. With one he was quite domineering, whereas with the other he tended to defer to that person. ‘Being oneself’ meant a combination of contradictory traits. What did characterize ‘being oneself’ was being unself-conscious, not watching oneself all the time and monitoring one’s behaviour. It was lending oneself to the joint action (Blumer, 1969; Butt, 2004; Shotter, 1993) that was naturally produced in action. Paradoxically, being oneself involves letting yourself go and allowing yourself to be carried along in the current of joint action.
Mair (2011) shows how the community of self metaphor can help us to understand ourselves. He takes the example of when he was asked to join an interview panel looking for a senior clinical psychologist. He found that he had a wide range of reactions to the candidates when he read their applications. He makes sense of this by separating the different selves he find himself assuming. He named these:
Anxious: feeling uneasy at the task in hand
The Teenage Rebel: wanting to kick out the clear favourite
The Reformer: taking a long view about the role of clinical psychology
Mr. Fair Minded: wanting to hear all sides of the arguments
Mr. let’s Get This Done With: saying that establishment candidates always win – be pragmatic and get the job over with.
The point of the metaphor is that it helped him to both inhabit and detach himself from each player in the community. He installed Mr. Fair Minded as chair of the group, insisting on balancing the other voices. So through reflection, he was able to take a superordinate position from which he could, as it were, own but not be driven by any particular position.
7. Hatred
I want now to consider the use of the community metaphor in dealing with feelings of hatred. I choose hatred because it is seen as pivotal in different versions of human nature. Rogers saw humankind as basically good. People were only perverted and evil when they were thrown off course. Society is seen as producing the problem. This was in contrast to the psychoanalytic view developed by Klein (1932), who recycled the doctrine of Original Sin. Here, humankind is seen as a naturally harmful species, civilized and held in check by authority, either external or internalized. We have already noted that Dewey saw Pauline Christianity as emphasizing and propagating this; the body is weak, prone to being overcome with passions. Only with the help of a priest (or psychoanalyst) can the person ward off this evil. Since The Fall, humankind has been excluded from the Garden of Eden. The suffering of hatred, lust and pain are its lot. Hatred holds a special place for psychoanalysis. Klein’s paranoid position is not proposed as a developmental stage from which one may emerge. It is a psychic position; forever available and easily accessed. Hatred is the basis of human being.
For the pragmatists, the person is basically neither good nor evil. Kelly mentions the Garden of Eden myth in at least four of his later papers (Maher, 1969), and it is central in Sin and Psychotherapy (Kelly, 1969e), arguably a pivotal paper in Kelly’s work (Butt, 2008, Cromwell, 2008). In his personal construct analysis, Kelly sees the person as having to make a series of choices: between companionship and loneliness, obedience and adventure, and ultimately between good and evil. Kelly had been raised as a Presbyterian, and perhaps because of this Christian upbringing, he saw good versus evil as a construct dimension that could not be avoided or re-construed (Butt, 2008). But Kelly does not regret the forsaking of the Garden. For him, humankind is at its best when it chooses through extension and pushes its boundaries. Better to choose a life of inquiry than one of blind obedience. However, we do not know where inquiry and experiment will lead us, and frequently they result in unintended consequences that we regret. Kelly takes us through some of the strategies that people adopt to avoid taking responsibility for their actions and these resemble Sartre’s concept of bad faith. Anxiety and guilt are necessarily part of the human condition as we experiment. It is said that Robert Oppenheimer regretted his work that had led to the production of the atomic bomb, and President Truman derided him as the ‘cry-baby scientist’ (Hamilton, 2011). Perhaps Kelly had such examples in mind, as he wrote Sin and Psychotherapy at the height of the Cold War, and, indeed in the year of the Cuban Missile Crisis.
There is surely little doubt that much human evil is the result of hatred. The wishing of harm to others is one corollary of having developed a moral sense. A sense of having been wronged is the source of a variety of reactions in different people, of which hatred is surely one. Midgley (1984) surmises that for anger to be transformed into hatred, the hated other has perhaps to be endowed with an unlikely range of feared and loathed attributes that the hater wishes destroyed. Perhaps this is why other people’s hatreds appear so ridiculous: the nazis’ belief in the plot of Jewish world domination, the Islaamist’s loathing and fearing of all western reforms and the abominations carried out by Protestants and Catholics in mediaeval Europe (and contemporary Northern Ireland). Yet our own hatred seems so natural (mine of nazis, violent Islamists and crusading Christians). We all know what it is to hate, though undoubtedly some hate more than others.
So are our hatreds visited on us? In the Judeo-Christian tradition, re-worked but preserved in psychoanalysis, hatred is seen as fundamental to humanity. The best we can do is to own up to it and control or perhaps channel it. Like hunger or sexual lust, it has the status of a drive. But for the pragmatist, there is no inevitability about it. Pragmatism always questions authority, subjecting it to scrutiny. The common experience of hatred is undeniable, and perhaps it is its prevalence, as well as its destructiveness, that has led to its being thought of as fundamental. In English, we talk of ‘nursing a grudge’, and in the early nineteenth century, William Hazlitt wrote an essay entitled The Pleasure of Hating (2004). This covert enjoyment of hatred should make us think about an alternative formulation. It suggests a reluctance to forgive, based on a gratification in staying with hatred.
8. Hatred as Choice
In this final section, I want to revisit Kelly’s concept of choice, and to argue that it helps us to understand the experience of hatred. Kelly argued that faced with two alternatives, we choose the one that makes most sense to us (Kelly, 1969c, 1955). The elaborative choice, as Kelly terms it, is not necessarily the one that gives most pleasure or satisfaction, but the one that helps us make sense of the world, and supports our world-view. This choice is not usually conscious. We make choices all the time, without reflection and deliberation. Nevertheless, our choices are intentional and not haphazard. I have already said that constructs are not cognitions, but that we construe in action. We find ourselves always moving, always construing, and action in Dewey’s sense incorporates what orthodox psychology divides into behaviour affect and cognition. Kelly emphasizes all this in his discussion of good and evil (Kelly, 1969e). people make what is for them the elaborative choice, and it leads them forward, sometimes into evil.
When we think of choice in everyday life, the image of choosing between two things we want comes to mind. But as Kelly (Kelly 1969c) points out, too often we are in dilemmas, choosing between the lesser of two evils. The neurotic paradox was the original focus of Kelly’s formulation, where the person continually chooses what appear to others as self-defeating strategies. The pattern of action chosen and repeated is not one that leads to enjoyment, though it leads to a world that the person can make sense of. But of course, this type of choice is by no means restricted to the neurotic. If we consider the experience of hatred as an elaborative choice, what might be the alternative it is preferred to? In an excellent phenomenological study on the psychology of forgiveness, Halling (2008) concludes that resentment and hatred are frequently preferred to the alternative feelings of weakness and helplessness. It is sometimes easier to hate than to cry; it preserves the integrity of a person, holding him or her together. The value of good phenomenological work is that they excite the thrill of recognition in the reader. The findings chime with aspects of your own experience. It helps you reach for something you have hitherto not been able to articulate. I found this reading Halling’s work. Of course, it cannot be claimed that every report of hate is explained exactly by this formulation. Wittgenstein’s (1972) arguments about the labelling of emotion are convincing; different people will mean slightly different things by a common term. Hatred may well be the elaborative choice in relation to a number of alternatives.
The implications of this re-framing of hatred are what matters. If we think of a person as inhabited by a unitary self or spirit, and as hatred as fundamental to humankind, the voicing or experiencing of hate is evidence of ‘what you are really like’, or really believe. It lies deep within you and has to be dealt with. To overcome hate might involve channelling it differently, revisiting it, learning to control it, or wrestling with it – perhaps talking yourself out of it using CBT techniques. But it must be met head-on because it is basic to your makeup. If we see the hate-voice as one among many in the community of self, different alternatives open up. Mair did not find it necessary to silence the teenage rebel within him. This voice did not have to be argued with or expelled from the community. It was accepted as part of the grouping, but not allowed to dominate it. Certainly it is important to keep hate in check, but perhaps one remedy is simply to do something else, to call on other perspectives from which to construe events. Hateful feelings can be accepted and can be transitory, as there are other voices that can be called upon. One feature of Kelly’s therapeutic approach (and indeed, his approach to education generally), is that it is not necessary to give up what you are doing while you try out something new. The elaboration of new construing does not necessitate the immediate rejection of old.
One thing we might find in experimenting with new perspectives, is that we have forgiven the hated other. Halling’s (2008) study indicated that forgiveness cannot be willed. It is no good trying to forgive someone. Like trying to sleep, there was often a paradoxical effect of preventing the desired result. His research participants often found that they had forgiven in retrospect. While not focusing on hate or resentment, the hatred had lost its edge. Sometimes participants found that their hatred vanished unexpectedly when they encountered the hated other. A new perspective of the other as vulnerable enabled them both to see the other differently and to accept their own sense of weakness. This finding echoes the experience of the English novelist George Orwell (1945/1968). He had been a strong opponent of fascism in the 1930s and had enlisted in the International Brigade in the Spanish Civil War. He had hated nazis and all that they stood for. But as a journalist in 1945, he visited an American prison camp in Germany and witnessed the cruelty meted out to captured SS officers. He found that he took no enjoyment from this, somewhat to his surprise, was disgusted by it.
The finding that we cannot effectively will forgiveness does not mean that it is unintentional. Halling (2008) argues that we do not forgive against our will. Again, to use the example of sleep, we cannot will it, but encourage it by putting ourselves in a position where it might come. So what we can do is put ourselves in a position to accept a change and be open to new possibilities. Too often, we ‘nurse the grudge’. Kelly would term this elaboration through definition; finding ways of staying the same. Elaboration through extension is more difficult, requires more confidence and indeed, more courage. And this, once again, is Kelly’s message about the Eden myth.
9. In Summary
We have considered the classification of the psychology of personal constructs, emphasizing that categories should not be seen as immutable, but should be used and modified according to our needs. I have argued that it does not do justice to PCP to see it as a species of cognitivism. In many ways it resembles what has been termed a humanistic approach. It is certainly phenomenological, has strong similarities to existentialism and sees agency as a key feature of humankind. But there is no self, no spiritual centre of the person, one that acts like a gyroscope silently guiding the individual to fulfil his or her potential. From a constructivist perspective, there is no central command mechanism providing integrity to the person. Instead, the sense of self is distributed but co-ordinated according to core role construing, leading to self as community as a better metaphor.
What difference does this make? I have taken the example of the experience of hatred, looking at the implications of this community of self approach. With a notion of a deeply rooted (probably largely unconscious) real self, hatred is seen as a fundamental feature of humankind. In individuals who are ‘good haters’, the roots of the hatred have necessarily to be confronted in order to bring about change. Challenge has been seen as the essential strategy. PCP accords no special place to any emotion. Drawing on studies in existential phenomenology, it is suggested that encouraging new ventures and even ignoring hatreds might provide a better strategy for change.
Acknowledgements:
I am very grateful to Dr. Meg Barker and Professor Rue Cromwell for their comments on a draft of this paper.
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Note sull’autore
Trevor Butt
City University, London – University of Huddersfield
Trevor Butt ha lavorato come psicologo clinico e all’Università di Huddersfield (UK), dove è attualmente Professore Emerito in Psicologia. I suoi interessi di ricerca comprendono la teoria dei costrutti personali, la fenomenologia e la psicoterapia. È co-editore della rivista on-line Personal Construct Theory and Practice e membro del comitato scientifico del Journal of Constructivist Psychology e della Rivista Italiana di Costruttivismo. Dei suoi lavori è stato tradotto in italiano “George Kelly e la Psicologia dei Costrutti Personali” (Franco Angeli, 2009).
Note
- Il testo dell’articolo in lingua originale segue la traduzione. ↑
- In psicologia, quando si parla di arco riflesso si fa riferimento al fenomeno per cui lo stimolo di particolari recettori sensoriali determina una risposta automatica, indipendente dalla volontà del soggetto. Dewey ne ha trattato diffusamente in The Reflex Arc Concept in Psychology (1896). Per approfondimenti, rimandiamo a Szupnar, 2010 (N.d.R.). ↑