Tempo di lettura stimato: 28 minuti
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Il dolore fisico dal punto di vista di chi soffre

Physical pain from the point of view of those who suffer

di

Massimo Giliberto

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

In questo articolo l’autore esplora due concezioni assai diverse fra loro del dolore fisico: la concezione più classica della neurofisiologia riduzionista e quella, fondata sull’esperienza e il significato, dell’approccio costruttivista. In particolare, si sviluppano i temi del rapporto mente-corpo nell’ottica del monismo costruttivista, dell’esperienza personale del dolore fisico e del senso d’identità ad essa connesso.

In this article the author explores two very different concepts of physical pain: the classical concept of the reductionist neurophysiology and that, founded on experience and meaning, of the constructivist approach. In particular, developing the themes of the relationship between mind and body from the perspective of constructivist monism, the personal experience of physical pain and the sense of identity connected with it.

Keywords:
Dolore fisico, costruttivismo, monismo, esperienza, identità | physical pain, constructivism, monism, experience, identity
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1. Il costruttivismo

 

1.1 L’atteggiamento conoscitivo

Fin da bambini ci hanno insegnato che vi sono un paio di indubitabili verità: la prima è che esiste un mondo oggettivo, là fuori, che ci prescinde interamente e a cui ci riferiamo chiamandolo realtà; la seconda è che noi siamo fatti di due sostanze diverse, il corpo materiale e la mente. Del corpo s’interessano i medici, i biologi e tutte quelle professioni che guardano alla materia come al loro campo specifico di competenza. Dell’impalpabile mente si occupano solitamente gli psicologi o, tuttalpiù, nella misura in cui la mente è intesa come anima, i sacerdoti. Alla luce di questa classica dicotomia, il dolore fisico è considerato solitamente un fatto attinente meramente alla materia, ossia al corpo: un evento concreto radicato nelle nostre componenti biologiche. In altre parole, secondo il senso comune e buona parte del mondo scientifico, il dolore è indubitabilmente oggettivo, e noi possiamo solo scoprirne e studiarne i meccanismi generativi fisici. Secondo la prospettiva costruttivista, tuttavia, è possibile guardare a questo fenomeno, e non solo a questo, con occhi e atteggiamento diversi.

Il costruttivismo, infatti, prima di essere un approccio epistemologico definito e articolato, e al di là delle teorie più o meno complesse che lo declinano, è sostanzialmente un atteggiamento conoscitivo (Grimaldi, 2002). È l’atteggiamento, cioè, di chi non vede il mondo come un susseguirsi o un accumulo di fatti, ma come un insieme costitutivo di storie e interpretazioni mutevoli. Storie e interpretazioni generate da qualcuno. L’interesse si sposta dall’ontologia (cos’è la realtà?) all’epistemologia (come produciamo le nostre interpretazioni?). Autori come Piaget (1954), Kelly (1955), von Foerster (1987), von Glasersfeld (1995), Maturana e Varela (1987) – solo per citarne alcuni – in vari campi del sapere mettono in discussione tanto l’idea di una realtà stabile e astorica quanto quella di un osservatore esterno e neutrale ad essa. L’osservatore è considerato parte del fenomeno osservato e la realtà, quindi, non prescinde dal suo particolare modo di guardare alle cose, di organizzare il suo mondo. L’affermazione che sostiene questa maniera di guardare alle cose e conoscerle è apparentemente semplice: la conoscenza non si dà al di fuori dell’esperienza. È il nostro sguardo che determina ciò che vediamo, permettendoci di dargli un ordine; ciò canalizza ciò che potremo fare; le nostre azioni, a loro volta, configureranno un’organizzazione del mondo che, infine, specificherà il nostro sguardo. Il nostro modo di conoscere il mondo e il mondo in cui viviamo sono, in altri termini, la stessa cosa. La conoscenza diventa il prodotto di un rapporto attivo e creativo con il mondo. La crisi della nozione di oggettività diventa, parimenti, la crisi dell’idea di una scienza oggettiva e neutrale, intesa come rappresentazione della realtà. L’oggetto della scienza, come la sua stessa identità, smettono di essere assoluti e sovra-storici per divenire transitori, storicamente mutevoli (Kuhn, 1979). Assieme alla certezza di un mondo oggettivo là fuori, dunque, sfuma l’idea della dicotomia ontologica fra materia e mente come oggetti incondizionati d’indagine scientifica. Piuttosto che oggetti reali, sostanze distinte, mente e materia si rivelano come modi di ordinare la nostra esperienza in modo comprensibile, dando senso e direzione al nostro sguardo. Il dolore fisico inteso come fenomeno puramente biologico e corporeo si configura perciò come costrutto, uno dei modi possibili di organizzarne la conoscenza, anziché essere un dato oggettivo. Altri sguardi, altri modi di conoscerlo e comprenderlo diventano plausibili ed esplorabili. La tirannia della certezza, con le sue vie obbligate e i suoi territori esclusivi, cede il passo al linguaggio della possibilità; la verità si arrende all’euristica e le teorie smettono di essere dogmi per diventare strumenti.

 

1.2 La Psicologia dei Costrutti Personali

L’autore che a metà del secolo scorso ha elaborato questo atteggiamento conoscitivo in psicologia entro un corpo teorico in modo più sistematico, complesso e completo di altri è, a mio parere, George Kelly (1955). Kelly, nella sua Psicologia dei Costrutti Personali, considera le persone come fondamentalmente impegnate a dare senso al proprio mondo e a verificare quanto quel senso sia utile a vivere. La sua metafora più nota – anche se non è l’unica adottata[2]– non a caso è quella della persona come scienziato. Come uno scienziato ognuno di noi formula ipotesi che poi testa. Solo che il nostro laboratorio è la vita e i nostri strumenti sono, principalmente, le relazioni con gli altri. Uno degli aspetti di novità che Kelly introduce nella psicologia – benché al traino del funzionalismo che lo ha preceduto – è l’idea che ciò che dà senso e direzione ai nostri comportamenti è ciò che, sulla base della nostra esperienza, anticipiamo.

Viene del tutto abbandonata, perciò, l’idea di una scienza psicologica separata dalle persone, astratta e imparziale; un modo di intendere la psicologia, quest’ultimo, cieco a ciò che appare essenziale: il punto di vista delle persone su se stesse, sugli altri e sul mondo che le circonda.

La “realtà” degli eventi, allora, è il modo in cui li interpretiamo. E noi diventiamo le nostre storie. La realtà, insomma, ancora una volta, non è indipendente, mai, da chi ne fa esperienza[3].

Questa attenzione della teoria di Kelly per la conoscenza e per il modo in cui essa produce realtà diverse, la pone – e ci pone – di fronte all’estrema frontiera della conoscenza, all’estremo limite di ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo. Le ovvietà, le cose che quotidianamente diamo per scontate, che scivolano sotto il tappeto della cecità e spesso di una volontaria ignoranza, perdono la loro rassicurante stabilità, non ci appaiono più così ovvie. La realtà, secondo il principio dell’alternativismo costruttivo, è soggetta a continue reinterpretazioni.

È una visione per certi versi scomoda, ma per altri aperta e liberatoria, della vita, dell’esperienza, delle persone, di noi stessi. È una visione dura ma, allo stesso tempo, ottimistica delle persone, poiché fa conto sulla nostra necessità di seguire le nostre domande, sulla nostra attitudine per la ricerca e l’esperienza. È una visione radicale, nell’accezione più piena del termine, poiché sancisce come fondamentale il porsi nuove domande su quelle cose coperte da uno strato d’apparente ovvietà, di cui noi solitamente rimaniamo ignoranti, sui nostri punti ciechi. È una visione riflessiva, infine, poiché lo strumento della ricerca coincide con la ricerca stessa e consiste principalmente nel considerare come fondamentale problema di ogni esperimento l’avere il coraggio di fare esperimenti con noi stessi.

Come affrontare il tema del dolore, dunque, da questa prospettiva?

 

2. Il dolore fisico

 

2.1 Considerazioni generali

Per esperienza comune, sembra che il dolore abbia, a tutti gli effetti, una propria reale consistenza, del tutto estranea a qualsiasi interpretazione, a qualsiasi atteggiamento conoscitivo (compreso quello costruttivista) altro dalla sua evidenza. Quest’esperienza pare dirci che il dolore, semplicemente, è. E noi non possiamo farci niente. Punto. Ma, come vedremo, il dolore è un fenomeno complesso, una questione ancora aperta per la scienza, una sfida per la medicina e una provocazione esplicita per la psicologia in generale e non solo per l’approccio costruttivista; approccio che, quantomeno, pone sul dolore domande che tentano di trascendere l’apparente ovvietà del fenomeno.

Il mio buon vecchio Devoto-Oli (1971) descrive il dolore come “Sensazione penosa, diffusa o localizzata, susseguente alla stimolazione di particolari ricettori sensitivi da parte di agenti di varia natura”. Il Dizionario, perciò, prende posizione: il dolore è una sensazione dipendente da una causa fisica. Questa sembra essere l’ovvietà. Quanti oserebbero discuterla? Eppure chiunque abbia fatto l’esperienza di un dolore intenso, e magari prolungato, sa bene cosa voglia dire sensazione penosa: è una sensazione che oltrepassa le caratteristiche sensoriali, che pure ci sono, del dolore. È una sensazione negativa che domina la nostra coscienza e canalizza la nostra esperienza. In altre parole, il dolore è raramente riducibile alle sue sole caratteristiche sensoriali. E già qui, l’apparente ovvietà pare cominci a scricchiolare. E ancora, il dolore, scrostando la superficie, ci offre ulteriori elementi su cui riflettere. La letteratura e la prassi medica comune descrivono e conoscono i frequenti casi di persone che, pur soffrendo di ferite o malattie simili, esprimono diversi gradi di dolore. A questo, e per rendere sempre meno ovvia la nozione di dolore, possiamo aggiungere che, come l’osservazione clinica ci insegna, quando il dolore diventa cronico qualcuno riprende a vivere mentre altri, al contrario, diventano persone disabili[4].

Oltre alla (a questo punto) incerta ovvietà che la prepotenza ineludibile del dolore sembra suggerirci, andando oltre la superficie, indagando sulle nostre effettive esperienze, scopriamo che il dolore non è solo un fenomeno complesso, ma appare profondamente individuale (Chapman et al., 2002).

Non prestando fede solo a ciò che ci appare ovvio, appaiono dunque alcune questioni di fondo. A mio avviso queste sono principalmente due: (a) la prima è come sentiamo il dolore, come ne facciamo esperienza, in tutta la sua complessità e personale idiosincrasia; (b) la seconda è l’enorme e fondamentale questione del rapporto mente-corpo.

Proviamo ad affrontarle entrambe, sia pure per sommi capi, paragonando, infine, fra loro due prospettive: quella che per brevità definisco classica e quella costruttivista.

 

3. Come avvertiamo il dolore

 

3.1 L’approccio classico

Fino a oggi, la ricerca scientifica sui meccanismi del dolore è stata dominata dalla neurofisiologia. Sebbene la neurofisiologia e le neuroscienze in genere siano discipline in evoluzione, oggi in grado di offrirci versioni molteplici del funzionamento del sistema nervoso, io mi riferirò alla versione più classica e forse più vetusta – ma ancora verosimilmente dominante – della neurofisiologia, quale polo di contrasto dell’approccio costruttivista.

La neurofisiologia sensoriale classica, dunque, focalizza il suo interesse e le sue ricerche sul dolore facendo ricorso a nozioni quali la trasduzione, la trasmissione e la modulazione del traffico degli impulsi che attraversano i tessuti in occasione di un trauma. Stiamo parlando, insomma, del sistema nocicettivo e del dolore come risultato della sollecitazione dei nocicettori, ossia dei recettori periferici, sensibili a stimoli potenzialmente pericolosi di tipo meccanico, termico o chimico. Stimoli, in altre parole, capaci di ledere i nostri tessuti. Il dolore, in questo caso, è visto come un campanello d’allarme o a volte una sirena, il cui scopo dovrebbe essere quello di proteggerci dai concreti pericoli ambientali.

I nocicettori, tuttavia, sono solo una parte del sistema nocicettivo che comprende parti del sistema nervoso centrale e ne interessa varie aree fino a includere circuiti talamo-corticali e limbici (Burstein, Cliffer & Giesler, 1998; Burstein et al., 1991; Willis & Westlund, 1997). Il che vuol dire che i nocicettori svolgono non solo un’azione di riconoscimento dello stimolo nocivo, ma sono anche dei messaggeri e passano, appunto, informazioni che saranno processate al livello centrale. Bisogna aggiungere che l’area interessata, il cosiddetto sistema limbico, supporta, agli occhi di un neurofisiologo, varie funzioni psichiche fra cui le emozioni.

Ne deriva, seguendo comunque quest’approccio, che durante l’esperienza di dolore sono attivati anche i meccanismi dell’emozione. Cosa che, diciamolo, non stupisce nessuno, ma che dal punto di vista neurofisiologico conduce a questioni aperte. Possiamo ancora dire, avendo riconosciuto questo aspetto informazionale che partendo dalla periferia coinvolge aree diverse del sistema nervoso, che il dolore fisiologico sia puramente di natura sensoriale?

Per molti ricercatori è comunque così: il dolore rimane essenzialmente un fenomeno sensoriale. E questo sebbene le persone che soffrono sperimentino emozioni negative forti e, talvolta, devastanti in un grado maggiore che la sensazione ipotizzabile in sé (Chapmann et al., 2002). Secondo questa prospettiva, il dolore è un’esperienza sensoriale di tipo bottom-up e le emozioni connesse al dolore, tanto banalmente quanto clinicamente evidenti, così come le cosiddette cognizioni, sono comunque secondarie all’esperienza sensoriale. Le emozioni rilevate in connessione all’esperienza di dolore possono seguire, quindi, due percorsi diversi e presentarsi in due diverse modalità: (a) l’informazione del segnale nocicettivo a livello corticale genera una risposta di intrinseca e primaria sgradevolezza, oppure (b) l’emozione interviene secondariamente, tramite un’associazione, a seguito della consapevolezza del dolore sensorio.

Secondo Chapman (2002), questo approccio, sebbene di qualche indiscutibile utilità, palesa almeno tre limiti: (a) sebbene venga sempre più posto l’accento sulla sua plasticità, il cervello è visto come essenzialmente passivo e reattivo nel processare la nocicezione; (b) non ci dà alcun conto di come il dolore diventi parte della nostra esperienza e, qualora sia intenso, domini la coscienza; e (c) non può spiegare perché il resoconto sul dolore del trauma tessutale – quindi il resoconto legato agli aspetti più chiaramente sensoriali – sia solitamente povero e, nel caso di dolore cronico, spesso assente.

Infine – credo che valga la pena di aggiungere – è difficile trovare in una prospettiva meccanicistica e passiva come questa sul dolore, la possibilità di compiere utili integrazioni con ricerche parallele e diverse, di stampo prevalentemente psicologico.

Questa prospettiva meccanicistica, causalistica e lineare pare chiusa in sé.

 

3.2 L’approccio costruttivista al fenomeno del dolore fisico

Il costruttivismo offre una visione alternativa del dolore che, nella mia opinione, può meglio rendere conto della sua natura complessa, offrendoci, al contempo, un ponte fra due domini di conoscenza apparentemente così distanti, come quello neurofisiologico e quello psicologico.

I costruttivisti, come abbiamo visto, sostengono che le persone costruiscono, interpretano attivamente il loro mondo e che la realtà – idiosincratica o condivisa che sia – non è indipendente da chi la conosce. Non è, in altre parole, la realtà esterna a proiettarsi in chi fa esperienza, bombardandolo di input oggettivi; ma è la persona a specificare, a dare senso, a ciò di cui fa esperienza[5]. Questo comprende tanto ciò cui diamo importanza in una storia d’amore o le nostre aspettative sociali, quanto l’esperienza di ciò che solitamente definiamo input sensoriale.

È chiaro, a questo punto, come il costruttivismo rifiuti molte delle assunzioni epistemologiche che hanno lungamente caratterizzato le scienze cognitive e le neuroscienze. In particolare, e soprattutto, si oppone all’idea che il cervello o la mente servano, essenzialmente, a fornirci la rappresentazione più accurata possibile del mondo, basandosi sulle informazioni dei nostri sensi. Rifiuta, in altre parole, la corrispondenza isomorfica fra la rappresentazione del mondo e le proprietà degli stimoli.

Possiamo dire che il pesce ha una rappresentazione dell’acqua migliore della mia, più vicina a ciò che l’acqua realmente è? O, viceversa, possiamo semplicemente dire che per me e il pesce l’acqua non è proprio la stessa cosa? Che ne abbiamo, banalmente, due diverse interpretazioni? Che la costruiamo in modo molto diverso? E concludere, magari, che la sua costruzione è migliore della mia?

Ed è forse questa la differenza fondamentale che sancisce la distanza fra i due approcci che sto prendendo in considerazione.

Se consideriamo, allora, il dolore da una prospettiva classica e isomorfica, il dolore è la nostra passiva rappresentazione di uno stimolo. Se, viceversa, consideriamo il dolore da una prospettiva costruttivista, il dolore è l’interpretazione di un evento, dipendente e specificato dal sistema conoscente che, a sua volta, ha una relazione di interdipendenza con il più vasto sistema dell’ambiente.

Due piani davvero molto diversi.

 

4. Il rapporto mente-corpo

Detto quello che abbiamo detto delle due prospettive contrapposte, abbiamo ancora un po’ di strada da fare per comprendere meglio l’esperienza del dolore. E per compiere il tratto di percorso che ci resta, dobbiamo affrontare adesso la preliminare questione del rapporto mente-corpo. Questione che, se non chiarita, rischia di farci fare confusione. Stiamo infatti continuamente saltando fra piani di discorso diversi, rischiando di mescolare ambiti e materie in modo improprio. Ma l’argomento del dolore, pare, non offre molte alternative. Il dolore, infatti, è un argomento che per sua natura si impone alla nostra attenzione sia in termini fisici sia in termini mentali o psicologici. Va da sé che affrontarlo implichi considerare il rapporto fra questi due aspetti.

Come clinico, del resto, ho quotidianamente a che fare con questo argomento e, nello specifico, con le contraddittorie implicazioni di un vecchio dualismo: il dualismo che nasce dall’idea che mente e corpo siano due sostanze diverse, il dualismo nel quale culturalmente siamo ogni giorno immersi. Talvolta, dai nostri colleghi ma anche dai nostri pazienti, le sofferenze fisiche sono considerate – se non in un modo puramente fisico – come “effetti secondari”, spiegabili nei termini di una visione psicosomatica o, talaltra, le sofferenze psicologiche vengono più o meno esplicitamente ricondotte al loro substrato biologico: “dottore per me non c’è niente da fare, sono malato nel cervello”.

In ogni caso, che siano i pazienti o i colleghi a parlarmene, questo approccio a me è sempre parso insoddisfacente e, in qualche modo, riduttivo. Quando lavoro, ma anche nelle mie relazioni personali, di fronte a me io vedo storie, storie lontane e storie in cui io sono implicato: esperienze globali ricamate su un tessuto narrativo unico, che percepisco solo artificiosamente scisso in mentale e corporeo. Certo, questa è una distinzione che comprendo e, qualche volta, uso. Che voglio che il mio dentista usi. Io opto, tuttavia, per una visione monista della realtà. E a questo punto, per gli sviluppi ulteriori di questo discorso, credo valga la pena chiarire cosa possiamo intendere per monismo.

A mio avviso, sono epistemologicamente distinguibili tre forme di monismo (Giliberto, 2004):

  1. Il monismo riduzionista che ammette una sola forma di sostanza, riducendo lo spirito alla materia o, viceversa, la materia alla mente. È questo il monismo, per esempio, di chi cerca di ridurre le emozioni, i pensieri e i “disturbi mentali” agli elementi o alle strutture del nostro sistema nervoso centrale. Ma è anche il monismo spiritualistico di chi ritiene che la nostra apparenza corporea non sia che un’emanazione dello spirito.
  2. Il monismo ingenuo, di matrice spinoziana, per cui mente e materia sono due modi di un’unica sostanza: un monismo difficilmente sostenibile e contraddittorio, perché riafferma nei termini ciò che apparentemente nega. È, in altre parole, il monismo delle cosiddette teorie psicosomatiche già originariamente prigioniere del linguaggio, dove l’unità sostenuta si scinde e vanifica nell’etichetta composta: psicosomatica. Sono queste teorie in cui è implicita una relazione esplicativa fra mente e corpo: ad esempio, la psoriasi è causata da un problema psicologico. E tale relazione, appunto, riafferma un dualismo che solo apparentemente nega.
  3. Il monismo costruttivista, infine, per cui la realtà non è indipendente dall’osservatore e quindi non è un insieme di oggetti o fenomeni esterni a esso, siano questi eventi definiti in termini fisici o mentali, ma l’insieme delle discriminazioni compiute: i costrutti, appunto. (p. 46)

 

È ovviamente quest’ultima la forma di monismo che, dal mio punto di vista, va meglio approfondita; soprattutto in relazione a ciò che vuol dire conoscere e fare esperienza e, nel nostro specifico caso, fare esperienza di dolore.

 

4.1 Costruire la mente, costruire il corpo

Torniamo al punto. In che senso allora è possibile fare discorsi sulla mente e sul corpo? Ha ancora senso concepire il corpo come oggetto distinto dalla mente? O possiamo cominciare a pensare che mente e corpo sono, anch’esse, distinzioni operate da un osservatore? Costrutti, appunto?

Nel processo di conoscenza, nell’esperienza l’accento è posto, come abbiamo visto, sull’osservatore che, in quanto tale, specifica distinzioni (Maturana & Varela, 1987). Conosco, infatti, nella misura in cui discrimino, colgo (o creo con successo) differenze. Distinguere è, d’altra parte, specificare le proprietà di ciò che abbiamo distinto (ibidem)[6]. In altre parole, ogni volta che distinguo un evento o un oggetto da un altro sono generalmente in grado di dire quali sono le caratteristiche dell’uno e dell’altro. Le femmine avranno certe caratteristiche, i maschi altre. Siamo cioè in grado di distinguere il dominio fenomenico dell’unità (la femmina) dal dominio fenomenico delle sue componenti (le sue caratteristiche). I due domini, inoltre, saranno interdipendenti: se distruggo l’unità anche le componenti perderanno la loro organizzazione, ma se distruggo o danneggio le componenti, danneggerò o distruggerò necessariamente anche l’unità.

Domini fenomenici diversi, tuttavia, hanno regole diverse. Per esempio, se distinguo una moneta (unità) dagli atomi (componenti) che la compongono, farò fatica a spiegare in termini di fisica nucleare il modo in cui uso i miei soldi. Allo stesso modo, avrò qualche difficoltà a spiegare il comportamento degli atomi nei termini del meccanismo dell’inflazione. E ciò per il semplice fatto che il dominio fenomenico dove una moneta “vive” non è il dominio fenomenico in cui hanno senso gli atomi: sono domini fenomenici che, in una relazione di reciproca interdipendenza, tuttavia non si incontrano, non si toccano. Potrò mai spiegare il sorriso delle mie figlie nei termini di una contrazione dei muscoli bucco-facciali? Confesso che se ci provassi, mi sentirei ignobile.

Analogamente, ciò che consideriamo come mente corrisponde al dominio fenomenico dell’unità, a ciò che facciamo come persone. Ciò che, viceversa, consideriamo come corpo corrisponde al dominio fenomenico delle componenti, degli elementi. Mente e corpo, quindi, sono considerati non sostanze, ma domini fenomenici diversi che non si toccano in nessun punto né sono riducibili l’uno all’atro[7]. In altre e più semplici parole, l’affetto che nutro per una persona amica e la neurofisiologia del mio sistema limbico non sono in una relazione esplicativa fra loro. La moneta e gli atomi, il sorriso e la fisiologia muscolare, così come la mente e il corpo, rimangono le distinzioni generate da un osservatore[8]. Siamo passati da un universo di fatti a un universo di costrutti[9].

Date queste premesse, ed è questa la cosa più importante per noi in questo momento, la realtà è costruita sempre da un punto di vista. Questo punto di vista è il personale senso di sé di ognuno: la nostra identità. Sicché anche il modo in cui io concepisco il mio corpo in questo momento, e quindi ve ne parlo, non prescinde da un punto di vista: il mio.

In altre parole, la mente è la possibilità da parte di ognuno di noi (e di ogni essere vivente) di farsi oggetto della propria conoscenza[10].

 

4.2 Co-generazione del cambiamento e identità

Alla luce di quanto detto fin qui, è chiaro che il rapporto fra questi due domini fenomenici presenta alcune caratteristiche essenziali: (a) la mente è l’unità globale, (b) il corpo è il dominio delle componenti dell’unità, (c) la loro non è un relazione esplicativa, (d) è comunque una relazione di interdipendenza[11].

Se, tuttavia, ammettiamo una relazione di interdipendenza fra questi due domini e, al contempo, diciamo che non sono in relazione esplicativa, in quale altro tipo di rapporto saranno?

Un esempio, per quanto triste, potrebbe aiutarci.

Vi sono coppie che vivono moltissimi anni assieme e, capita, che quando uno dei due muore, dopo poco tempo, e in apparente buona salute, muoia anche l’altro. Le storie e le cronache ci dicono che chi è sopravvissuto è poi, a sua volta, morto di “crepacuore”. Il dolore per la scomparsa della persona amata ha ucciso chi non poteva vivere senza di lei. Lo leggiamo, talvolta, sui giornali. È un’interpretazione comprensibile. Non c’è niente di sbagliato in questa spiegazione causale. Rende la storia.

C’è comunque un altro modo di guardare a fatti come questo. La mente, che in questo caso è un’identità, è distrutta: l’altro ne faceva parte integrante. Chi rimane non è più lo stesso, in modo radicale e drammatico. Questo cambiamento corrisponde alla morte e, dunque, corrisponde alla morte del corpo. Distrutta l’unità, le componenti perdono la loro organizzazione, cessano semplicemente di funzionare. Non è la perdita dell’identità psicologica a poter spiegare lo spegnimento dei processi biologici, né i meccanismi di spegnimento biologico potranno spiegare la definitiva frantumazione dell’identità. Non v’è interazione tra fattori fisici e fattori psicologici; vi è semmai una corrispondenza o, meglio, una co-emergenza. Qualsiasi cosa accada in un dominio, sia in esso descrivibile, co-emerge, corrisponde nell’altro. Una co-emergenza che ci viene segnalata.

Quale può essere il vantaggio di una tale visione, di questo faticoso tentativo di trascendere l’ovvio?

Dal mio punto di vista, una concezione monista costruttivista dell’universo in cui viviamo, in sintesi, ci obbliga a guardare al nostro corpo e a esperienze come il dolore con occhi diversi. Il corpo non è più oggettualità scontata, diviene esso stesso matrice ermeneutica. Può in questo senso essere reinterpretato e, quindi, ricondotto al sé in relazione.

La morte del vedovo, ad esempio, di cui qualche giorno fa ho letto sui giornali, non sarà più causata dalla morte della sua compagna di vita, avvenuta solo qualche giorno prima, né sarà in qualche modo il frutto dell’interazione di una realtà mentale con una fisica, ma diverrà parte significativa di una più ampia, umana e complessa narrazione[12].

Potremo dire lo stesso del dolore? È ora di tornare sull’argomento.

 

5. Il dolore come transizione (emozione)

Proviamo allora, liberi dalla necessità di trovare relazioni causali fra mente e corpo, ma consapevoli della loro interdipendenza, a leggere il dolore per quello che ci appare: un’esperienza. Cerchiamone il significato.

Fare questo, cercare una matrice narrativa più ampia e più profonda del dolore, comprenderlo entro l’affermazione che la conoscenza non si dà mai fuori dall’esperienza, vuol dire essenzialmente riconoscerlo nei termini di una consapevolezza; di una consapevolezza personale. Una consapevolezza che è il correlato necessario dell’esperienza e che, allo stesso tempo, può essere analiticamente strutturata o visceralmente, acutamente sentita.

Ricondurre il dolore all’esperienza personale, al processo di conoscenza in genere, ci permette di definirlo come la “consapevolezza della perdita dell’integrità fisica”. Ossia la consapevolezza di un cambiamento in atto (o imminente). Questi stessi cambiamenti sono emozioni, o meglio, la consapevolezza di questi cambiamenti è costituita da ciò che Kelly definisce, con geniale rigore, “transizioni”: ossia il ponte fra ciò che solitamente consideriamo biologico e ciò che comunemente reputiamo mentale[13]. Guardiamo al corpo non come a un oggetto, ma come a una parte significativa di noi, che possiamo costruire entro cornici di senso diverse, ma comunque tutte costitutive della nostra identità. Guardiamo, dunque, al corpo come a un tessuto di significati e chiediamoci cosa ci dice il dolore. In particolare chiediamoci cosa ci dice di noi.

Consideriamolo, finalmente, dal punto di vista di chi soffre.

 

6. Il punto di vista di chi soffre

Vorrei proporre, a questo punto, alcuni tentativi di una lettura di questo genere.

 

6.1 Lo shock

Il dolore, quando entra improvvisamente nelle nostre vite, ci disorienta, si accompagna a un profondo senso di smarrimento e paura, domina la nostra esperienza. Chi oltrepassa, inaspettata, la soglia di un dolore simile si sente inerme. Il resto è sullo sfondo, perde di senso. È il nostro mondo che, racchiuso in un istante lunghissimo, rischia di sgretolarsi. Questo dolore ci cattura.

Schiacciati da questa sensazione intensa e inattesa, perdiamo il nostro senso di agency, la nostra capacità anticipatoria è compressa nel qui-e-ora, la nostra visione del mondo, apparentemente, sospesa. Vacilliamo. Quelle che Kelly (1955) ha definito “costruzioni nucleari” – i costrutti da cui dipendono la nostra identità e la nostra sopravvivenza – sono drammaticamente coinvolte e minacciate. Se il dolore persiste, e lo stato di shock si prolunga, i ritmi più certi e regolari della vita diventano confusi: insonnia, vertigine e mancanza d’appetito testimoniano questo profondo sconquasso[14].

In una situazione come questa, cerchiamo disperatamente di preservare la nostra identità ma tragicamente privati di prospettiva, non sappiamo cosa e come fare.

 

6.2 L’amputazione, ovvero la perdita irrisolta di una parte di sé

L’amputazione di un arto ha profonde implicazioni nella vita delle persone. Spesso le cambia. È un’esperienza che viene descritta come scioccante e irrimediabile. Come irrimediabile è una perdita. “Non sarò più lo stesso”, diceva un mio cliente che aveva perso la gamba in un incidente stradale. Questo testimonia di quello che viene percepito come un grosso danno per l’identità. A questo danno si associa, qualche volta, la vergogna, intesa come consapevolezza di “non essere più come gli altri” e la paura, per questo, di poterne essere commiserati e rifiutati.

Così qualche volta capita che l’arto fantasma continui, negli anni, a fare male. Un dolore autentico che nessun trattamento diretto a estirparlo o gestirlo sembra poter alleviare. E se non fa male, comunque “si sente” (Melzack, 1990). Cosa ci dice questo dolore? Dice probabilmente che la perdita di quell’arto è insopportabile perché implicherebbe dovere abbandonare una certa, fondamentale costruzione di sé. L’alternativa ancora non c’è, o non è percorribile. Per quanto banale possa sembrare, il dolore testimonia l’esistenza di quell’arto come una parte essenziale e irrinunciabile di sé. Quel dolore, in altri termini, permette a quella persona di mantenere integre le proprie anticipazioni del mondo e di sé. Di non perdersi. Talvolta, di fronte all’evidenza della perdita, qualcuno si uccide.

Al termine del nostro percorso terapeutico, quel mio cliente, che in passato era stato un atleta di buon livello, quando ormai il dolore lo aveva abbandonato, disse qualcosa che suonava, più o meno, così: “Sa, dottore, oggi che la mia vita è cambiata – non sempre in meglio – mi capita ogni tanto di sentire la nostalgia per quel dolore; certo non quando era forte e non mi permetteva di sentire altro”.

 

6.3 Il compagno tranquillo e la bestia immonda

Vi sono persone che, per ragioni varie, vivono in costante compagnia del dolore. Alcune sono consapevoli che non se ne libereranno mai. Altre lo considerano una conseguenza accettabile di ciò che fanno nella vita.

Alla seconda categoria, per esempio, possono appartenere gli atleti. Atleti come i rugbisti, i lottatori o i pugili. Se, in genere, lo sforzo fisico e la fatica sono in sé dolorosi, per costoro il contatto implica, spesso, il farsi male e il ferirsi. Il dolore è parte della loro vita. È parte della loro identità. Quietamente lo accettano.

Ma la stessa cosa capita, come l’osservazione clinica ci insegna, anche a persone che provano un dolore che si cronicizza a seguito di malattie o traumi. Passata la fase dell’ansia, dell’incertezza e della paura, queste persone è come se ritornassero a vivere.

In entrambi i casi, possiamo legittimamente pensare che il dolore non sia più segno di transizione, ma divenga coerente a una costruzione di sé abbastanza stabile e percorribile, quindi trovi un posto nel tessuto quotidiano senza pregiudicare nulla. Diventando quasi inudibile.

Non è così per tutti, però. Per altri, il dolore cronico assume le caratteristiche dell’inabilità. Dal loro punto di vista, la malattia e il dolore continuano a essere una costante minaccia, o divengono parte di una irrisolta transizione di colpa, ossia la scoperta di non poter essere più ciò che hanno sempre pensato di essere. Chi si sente risucchiato in questo vortice orribile non può scegliere che di essere un ammalato, un disabile. Il dolore è, paradossalmente, un baluardo e, allo stesso tempo, un padrone a cui non si riesce a disobbedire. Un cliente di parecchi anni fa, operato e sopravvissuto a un cancro, descriveva così il suo dolore cronico: “Sono abitato da una bestia, una bestia che non mi molla”.

 

6.4 I cosiddetti autolesionisti

C’è perfino chi il dolore sembra cercarlo. Un comportamento a prima vista incomprensibile. Non è infrequente per un terapeuta incontrare persone, spesso giovani, che si tagliano. Le braccia sono il posto in cui più di frequente costoro si incidono. Spesso sono tagli superficiali. Altre volte sono piuttosto profondi, ma quasi mai tali da recidere arterie e legamenti. Le braccia di qualcuno sembrano mappe folli, segnate da cicatrici che attraversano la pelle in geometrie lineari, talora sovrapponendosi. Anche queste cicatrici e il dolore che le ha accompagnate ci raccontano una storia.

Per qualcuno, in genere adolescenti o detenuti, questo pare l’unico modo per farsi ascoltare, per segnalare la propria esistenza altrimenti inascoltata. Altre volte il gesto è apparentemente senza spiegazioni e lascia sconcertati i più. La risposta più frequente alla domanda “perché l’hai fatto?” è “non lo so”.

La mancanza di senso, tuttavia, non può che essere apparente. Clara (il nome è di fantasia) aveva 19 anni quando ci siamo conosciuti. E un volto arruffato, come i suoi capelli scuri. La vita, dal suo punto di vista, non le apparteneva più, se ne era andata con il suo amore suicida. Clara sentiva di non potere minimamente determinare il corso e il senso della sua vita. La vita la portava dove voleva e lei non poteva farci niente. Tranne tagliarsi. Questo gesto e il dolore che ne seguiva era l’unico atto che veramente le appartenesse, che lei potesse veramente anticipare e decidere. Tagliarsi era un grido, un’affermazione, l’esperimento riuscito ai suoi stessi occhi della propria esistenza; quella sofferenza immediata e pulsante il segnale della propria ritrovata integrità. L’alternativa? Una mutilazione ben peggiore: la perdita di sé.

Per Clara e le persone come lei la pelle (e con essa la carne) appare come uno spazio su cui intagliare, comporre il senso della propria identità. L’inchiostro è il dolore, salvifico e cercato.

 

7. Il trattamento del dolore o il lavoro con le persone?

Se ci chiediamo che cosa hanno in comune tutte queste situazioni, potremo vedere che tutte coinvolgono in qualche modo il senso di identità delle persone implicate. Di volta in volta, queste storie ci raccontano di identità in pericolo o identità cui il dolore appartiene come fosse un legittimo inquilino di quelle esistenze. In tutti questi casi, il dolore ci dice qualcosa di colui o colei che ne fa esperienza. In tutti questi casi, il dolore è parte di una narrazione, a volte tragica, a volte no. Tutte queste storie hanno un altro aspetto in comune: sono diverse, come diverso può essere il punto di vista di ognuno su sé e le cose del mondo. In ognuna di queste situazioni il dolore trova un senso solo se comprendiamo qualcosa della persona che lo prova, se comprendiamo il sistema di significati che garantisce, o dovrebbe garantire, la coerenza delle sue esperienze personali.

Il dolore, come qualsiasi cosa abbia un senso per noi, non si dà fuori dall’esperienza, e quindi da un punto di vista personale. Per questo motivo la Psicoterapia dei Costrutti Personali non ha un protocollo per la terapia del dolore, come per molte altre cose. Ma, in definitiva, la ragione principale per cui un protocollo in quest’approccio non esiste e comunque non avrebbe senso, è che il dolore è un sintomo. E in questa prospettiva non ha senso lavorare sui sintomi come pezzi delle persone, come frammenti delle loro storie asportabili, diluibili o cancellabili quanto impersonali. Ha senso, invece, lavorare con le persone. Comprenderle come costruttori di realtà, anche quando queste realtà contengono tristi cose e fra queste, a volte, storie di dolore fisico.

Non sto sostenendo che il dolore non sia trattabile, non vada affrontato o che sia inutile provare ad aiutare la persona a cercare una via per il sollievo. Anzi. Il dolore, spesso, in terapia viene affrontato e, in qualche caso con successo, lenito. È anche possibile dare un senso al dolore, laddove il dolore minaccia il senso di ogni cosa. Tutto questo è possibile, certo. Ma solo a patto, a mio parere, di non fare qualcosa sulle persone ma con loro, di non spersonalizzare il dolore ma partire dal punto di vista di chi soffre.

 

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Sitografia

www.inprimapersona.it

 

Note sull’autore

 

Massimo Giliberto

Institute of Constructivist Psychology

giliberto@icp-italia.it

Massimo Giliberto è Direttore e Didatta della Scuola di Psicoterapia Costruttivista dell’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Esercita la psicoterapia privatamente e si occupa di consulenza e formazione aziendale. È attualmente membro dell’Editorial Board del Journal of Constructivist Psychology e dell’E-Journal Personal Construct Theory & Practice,  trainer e supervisore dell’Associazione Costruttivista Serba (SKA) e co-fondatore dell’European Constructivist Training Network. Si interessa di epistemologia ed etica, ed è impegnato nella ricerca e nello sviluppo di nuovi contesti di sperimentazione ed elaborazione nella clinica e nella didattica.

 

Note

  1. * L’articolo è stato realizzato sulla base di un paper presentato al congresso: “Il malato oltre la sofferenza: una visione multidimensionale del dolore in psicologia clinica”, Cavedine (TN), 10 giugno 2011.
  2. Autori che ritraducono la Psicologia dei Costrutti Personali entro una cornice narrativistica, per esempio, preferiscono riferirsi alla metafora della persona come narratore (Chiari G. &, Nuzzo M.L., 2009).
  3. La Psicologia dei Costrutti Personali, come si può a questo punto facilmente intuire, esprime sia sul piano etico che professionale un profondo rispetto per le differenze personali. Allo stesso tempo, ognuno di noi deve accettare la responsabilità che ha per il tipo di realtà che crea attraverso le proprie scelte e le proprie esperienze, poiché è questa la realtà che potremo offrire agli altri e con cui potremo co-costruire con essi una realtà condivisa.
  4. Altri fenomeni inducono a riflettere sulla complessità del dolore: (a) alcuni rituali sociali in cui le persone subiscono danni ai tessuti senza apparente preoccupazione; (b) persone con tipi e gradi simili di danni ai tessuti variano dal non avere dolore al provare un dolore forte e disabilitante; (c) è noto come molte persone soffrano di un dolore cronico disabilitante sebbene non abbiano un danno tessutale definibile; (d) infine, alcune persone, quando sono esaminate per altre ragioni mediche, presentano seri danni ai tessuti, ma non provano alcun dolore.
  5. Si verifica, quindi, un rovesciamento di quanto siamo soliti pensare: l’ambiente non determina la specificità dei cambiamenti o la direzione di questi, ma viene specificato (costruito) dal sistema stesso, e solo in quanto “significativo” per il sistema può innescare “perturbazioni”. Il processo conoscitivo, in cui la vita si identifica, smette di essere riferito all’ingresso di informazioni e diventa autoreferenziale: dall’ingresso dell’informazione passiamo alla costruzione di significati.
  6. Le stesse proprietà, in quanto distinte, saranno ulteriormente specificate.
  7. Per Kelly la globalità corrisponde alla consapevolezza del sé in relazione (struttura nucleare di ruolo) che si realizza nei processi di mantenimento, che sono poi i processi corporei che la incarnano. Ma fra questi due domini non v’è interazione, né possibilità di ridurre l’uno all’altro.
  8. E queste distinzioni, queste unità di discriminazione connesse fra di loro – prendendo come riferimento George Kelly – saranno organizzate in quello che possiamo definire un sistema di costrutti personali.
  9. I costrutti possono essere esplicitamente verbalizzabili oppure no, evidenti alla nostra consapevolezza oppure no, lucidamente ragionati o visceralmente sentiti. Non vanno confusi, quindi, con le etichette che usiamo, a volte, per maneggiarli.
  10. Noi non siamo sistemi né fisici né mentali; siamo, più generalmente, sistemi in relazione. È questa una concezione ampiamente biologica e, insieme, mentale; laddove biologico e mentale non sono i termini di un’antinomia, ma il riconoscimento della natura profondamente biologica di ciò che solitamente costruiamo come mente e della natura profondamente mentale (sistemica, ecologica) di quanto abitualmente costruiamo come biologico (Cfr. G. Bateson, 1984).
  11. In parole molto semplici, vuol dire che il cervello non ha una relazione causale con la mente, intesa come unità (in relazione con altre unità), né la mente ha una relazione causale con il cervello (o il corpo), ma se distruggi uno dei due, o lo cambi, distruggi e cambi anche l’altro.
  12. Né, dal mio punto di vista, dovremo occuparci ancora di cercare relazioni esplicative sterili e superficiali.
  13. Kelly, sia detto per inciso, parlando di ‘transizioni’, vuole trascendere non solo la tradizionale dicotomia mente vs corpo, ma anche la contrapposizione fra razionale ed emotivo, riconducendo tutto all’esperienza, al significato in altri termini, al processo di conoscenza.
  14. In particolare la vertigine e l’insonnia possono essere connesse (in senso kelliano) all’ansia e all’allentamento.