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Il suicidio

Da una costruzione personale a un contributo professionale

Suicide

From personal construction to professional contribution

di

Robert A. Neimeyer, PhD

University of Memphis, Memphis, TN USA

 

Traduzione a cura di

Kathleen Bertotti, Riccardo Lorenzon

Abstract

Nota introduttiva a cura della redazione: nel presente articolo, l’autore ripercorre il tragico evento che ha segnato la sua infanzia: la scomparsa del padre morto suicida. Illustra come questa esperienza personale abbia orientato la sua carriera professionale, nella quale si è occupato prevalentemente di interventi mirati alla prevenzione del suicidio nonché di lutti prolungati che seguono una morte prematura e traumatica. Le esperienze professionali e personali hanno portato Neimeyer a comprendere il suicidio come una scelta attiva, l’unica che la persona intravede come possibile nel tentativo di trovare una soluzione ad un problema vissuto come insormontabile, posto in parte dagli eventi ma sempre in relazione con le vulnerabilità nella costruzione di se stessa e della vita. A sostegno di questa ipotesi, riporta e descrive tre case studies incontrati nella sua pratica clinica.

Editor’s introductory note: In this article, the author recalls the tragic event that marked his childhood: the death of his father, who committed suicide. He illustrates how this personal experience has oriented his professional career, in which he mainly dealt with suicide interventions and complicated grief that often follows tragic and untimely death. Both personal and professional experiences have led Neimeyer to understand suicide as an active choice, the only option that the person sees as possible, attempting to find a solution to an insurmountable problem posed partly by events, but always in interaction with vulnerabilities in the client’s construing of self and life. In support to this stance, he reports and describes three case studies he was engaged with in his clinical practice.

Keywords:
Suicidio, interventi mirati alla prevenzione del suicidio, lutto complicato, lutto patologico, disturbo da lutto prolungato | suicide, suicide interventions, complicated grief, pathological grief, prolonged grief disorder
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Una fredda mattina di gennaio, a una settimana dal mio dodicesimo compleanno, io e il mio fratellino venimmo svegliati da nostra madre che, in preda al panico, corse nella nostra stanza gridando: “Ragazzi, ragazzi, non riesco a svegliare il vostro papà!”. Sorpresi e confusi, io e Greg saltammo fuori dal letto e dalla nostra coperta da cowboy, barcollando nei nostri pigiami interi, e sbirciammo timorosamente dallo stipite della porta della camera da letto dei nostri genitori. La mamma tentava un’ultima volta di risvegliare nostro padre, cercando di scuoterlo sotto il sottile copriletto turchese che copriva il suo corpo esile e immobile. Il tempo si fermò prima che lei indietreggiasse con orrore, mentre si copriva il viso con le mani e urlava, lacerando l’aria e i nostri cuori. Con quel gesto fatale, il nostro mondo conosciuto finì, e io, la mamma, Greg e la nostra sorellina Jo fummo catapultati in un altro mondo, molto più scuro ed estraneo. In un certo senso, la mia successiva carriera come psicologo può essere letta come una risposta a quel momento.

 

Come per troppi altri, la morte di mio padre fu una sua iniziativa personale, indotta da una miscela di alcol e barbiturici, attentamente calcolata per portare a termine l’incubo invadente della sua crisi finanziaria e dell’indebolimento della sua vista. Con la maturità del senno di poi, posso scorgere altri possibili fattori che hanno contribuito alla sua decisione disperata, tra i quali il lutto presumibilmente irrisolto per la morte di sua madre, avvenuta in casa nostra appena due anni prima. In modo subliminale, questa rottura nella nostra narrazione famigliare ha probabilmente contribuito alla mia successiva ricerca di un riconoscimento “paterno”, inizialmente all’interno del gruppo dei pari e a scuola e poi, abbastanza presto, nel mondo del lavoro. E, considerandola da un punto di vista più clinico che personale, questa esperienza diede probabilmente forma alle mie prime scelte al college volte a cercare opportunità di formazione e di volontariato nel campo degli interventi mirati alla prevenzione del suicidio. In ultima analisi, mi avvicinai alla psicologia per lavorare con il lutto complicato che spesso segue una morte tragica e prematura (Neimeyer, 2009; Neimeyer & Sands, 2011).

 

A differenza di coloro che più hanno contribuito agli studi sul suicidio e che hanno proposto principi generali per spiegare l’impulso umano di auto-distruzione, sono stato colpito dalla diversità dei fattori che conducono a questo risultato tragico, con poche comunanze onnicomprensive capaci di unirli al di là del generale e dell’ovvio (ad esempio, il dolore psicologico e la percezione di non poterlo alleviare). Invece, ho trovato nella psicologia costruttivista (Kelly, 1955; Neimeyer, 2009) un focus utile sulla ricerca di significato che permea le nostre vite, ricerca che spesso appare tortuosa, caotica e che può finire in stallo. Nel mio lavoro, questa prospettiva mi aiuta a comprendere come le persone possano diventare prigioniere delle loro costruzioni fataliste o timorose degli eventi, talvolta trovando l’unica apparente via d’uscita dal loro carcere a vita in una condanna a morte. In altre parole, i clienti con cui lavoro e su cui occasionalmente faccio ricerca in modo sistematico (Hughes & Neimeyer, 1993) sembrano soffrire non solo per un mondo di eventi e relazioni che invalida crudelmente i presupposti in base a cui vivono, ma anche per la disorganizzazione o la costrizione dei sistemi di significato su cui fanno affidamento per affrontare, superare o soccombere a tali eventi. Quando si trovano ad affrontare un’inesorabile “tempesta perfetta”, nella quale ostacoli insormontabili si intersecano con un sistema di significati che non offre alcuna soluzione e che, potenzialmente, si sta sgretolando esso stesso di fronte all’attacco, allora il suicidio diventa troppo spesso l’alternativa “razionale”, almeno per come la vedono queste persone (Neimeyer & Winter, 2006).

 

Mi vengono in mente tre case studies per illustrare la varietà dei dilemmi affrontati da coloro che considerano la morte per mano propria come alternativa e gli esiti molto diversi che possono derivare da un lavoro clinico accurato. Il primo è il caso di Anna (uno pseudonimo, come gli altri a seguire), la quale si è rivolta a me a seguito della scomparsa del marito anziano, causata da un tumore altamente aggressivo che aveva devastato il suo corpo in meno di un mese dalla diagnosi. Anche se cronologicamente erano trascorsi sette mesi dalla perdita, per Anna – psicologicamente – sembrava che fossero passati a malapena sette giorni. Incapace di far fronte al mondo del lavoro o alla sfera sociale, Anna era rimasta imprigionata dalle immagini traumatizzanti del dolore incontrollabile del marito, dalla rabbia verso i medici che avevano promesso una cura e dal suo lutto che non conosceva limiti, rientrando facilmente nei criteri di quello che è stato definito “lutto complicato o patologico” (Shear et al., 2011) o “disturbo da lutto prolungato” (Prigerson et al., 2009). Suo marito, diceva, era stato “il suo nord, il suo sud, il suo est e il suo ovest”, e senza di lui sembrava che le mancassero le coordinate di base per affrontare la vita da sola. Sentendosi tradita da Dio e pervasa dall’ansia per il mondo alieno in cui la sua perdita l’aveva gettata, aveva cominciato a contemplare la morte come soluzione. In un primo momento la terapia per Anna fu burrascosa, ma presto la allontanò dal precipizio della disperazione: cominciammo a lavorare con la sua narrazione per ristabilire un senso di connessione con il marito e con la loro storia condivisa, per affrontare la crisi spirituale che il tumore e la morte avevano provocato (Burke & Neimeyer, 2011). Lavorammo con l’obiettivo che lei potesse muoversi verso una riconfigurazione di un futuro che, nonostante tutto, mantenesse la prospettiva di un vivere propositivo e di un coinvolgimento sociale. In termini costruttivisti, quella di Anna era stata una crisi suicidaria “ansiosa”, che è stata risolta nel momento in cui abbiamo stabilito un filo di coerenza nel senso della sua biografia, collegando il suo passato, il suo presente e il suo futuro (cambiato) in modo significativo (Neimeyer & Winter, 2006). La terapia di Anna beneficiò anche dell’uso creativo di diverse tecniche volte a favorire la ricostruzione di significato a seguito di una perdita, che traggono ispirazione dal lavoro di decine di collaboratori nel campo della terapia del lutto (Neimeyer, 2012; Thompson & Neimeyer, 2014).

 

Quello di Brenda, invece, fu un caso completamente diverso. Impantanata in una profonda depressione che sembrava resistente al cambiamento nonostante i numerosi tentativi di cura, ricovero e psicoterapia, tentati singolarmente e in combinazione, mi fu inviata per disperazione dal suo psichiatra – un esperto riconosciuto nell’ambito dei disturbi dell’umore – per una “terapia cognitiva”, nella speranza che questa potesse scalfire il suo pessimismo ostinato. Ideazione suicidaria ed episodi quasi continui di autolesionismo, o di automedicazione fino alla perdita di coscienza, erano diventati per Brenda un “modo di vivere” (Neimeyer & Winter, 2006): la sua modalità di interazione con il mondo si basava sul mantenimento di una visione dolorosamente costretta e vigorosamente difesa delle sue alternative. Inoltre, l’“abbandono” del marito negli anni precedenti era servito solo a confermare quello che aveva saputo fin dalla sua prima infanzia, quando aveva scoperto che la madre biologica l’aveva “rifiutata” e data in adozione, ovvero la propria inamabilità. I sei anni di intensa psicoterapia si concentrarono su una riflessione compassionevole ed empatica del suo dolore, sulle sue profezie che si auto-avveravano riguardo al rifiuto interpersonale in una varietà di relazioni e situazioni di lavoro, sulle riunioni famigliari con i suoi figli adulti, sull’interpretazione delle sue ferite emotive, sulle azioni e sui comportamenti per affrontare problemi concreti, sul lavoro cognitivo per infondere speranza e sugli invii falliti a consultazioni aggiuntive con eminenti professionisti di varie prospettive terapeutiche. Brenda continuò come aveva fatto sin dall’inizio del nostro lavoro, barcollando da una crisi all’altra con profondo cinismo e con continue minacce di suicidio. Gli unici aspetti positivi furono: l’aver evitato il ricovero nel corso della nostra terapia, l’aver mantenuto un lavoro e il non aver (ancora) effettuato un atto fatale di autolesionismo. Vista attraverso una lente costruttivista, Brenda esemplifica un adattamento alla vita fragile, ma (per ora) stabile, in una cornice costretta, in cui la terapia fornisce una struttura appena sufficiente per allontanare ciò che altrimenti potrebbe essere inevitabile.

 

Il verificarsi di tali risultati, nei casi della maggior parte dei professionisti di psicoterapia che si occupano di clienti con disturbi gravi, dovrebbe rafforzare la nostra umiltà e il riconoscimento che anche i nostri migliori sforzi potrebbero non produrre cambiamenti nella vita di tutti coloro che ci consultano (Neimeyer, 2010).

 

Infine, la storia di Carl rappresenta uno dei percorsi verso il suicidio più desolati e fatali, segnato da una risoluta ricerca del suicidio come scelta attiva. Arrabbiato e aggressivo, Carl è stato “spinto” in terapia dalla sua giovane moglie, la quale stava definitivamente divorziando da lui dopo anni di sofferenza legati alla sua prepotenza e alla sua tossicodipendenza. Il nostro percorso breve e tempestoso, caratterizzato da una mezza dozzina di colloqui, fu segnato dalla spavalderia di Carl e dalla sua tendenza ad incolpare gli altri, e si concluse imprevedibilmente con una cessazione anticipata e con il rifiuto di riprendere il trattamento. Diversi mesi dopo, a seguito di una disputa con la sua ormai ex moglie che si rifiutava di tornare con lui, andò a casa, tirò fuori dal cassetto del comò la sua potente pistola, si distese sul loro letto, mise la pistola in bocca come aveva minacciato di fare e premette il grilletto. Per un costruttivista, ciò che Carl portò a termine in modo determinato rispetto al suo piano già preannunciato rappresentava una traiettoria “fatalista” verso il suicidio, legata ad un sistema di significati organizzato ma costretto, che ha risposto ad un’invalidazione nucleare con spietata efficienza ponendo fine all’umiliazione percepita, al senso di tradimento e alla perdita di controllo (Neimeyer & Winter, 2006).

 

Concludendo, le mie esperienze sia personali che professionali relative al trauma del suicidio mi portano a comprenderlo come un tragico tentativo di soluzione di un problema insormontabile posto in parte dagli eventi, ma sempre in interazione con le vulnerabilità caratteristiche nella costruzione che il cliente ha di sé e della vita. Visti in questa cornice, gli interventi di prevenzione del suicidio – anche se non sempre hanno successo – si dovrebbero dedicare adeguatamente ai problemi ambientali e psicosociali che forniscono un contesto di istigazione per questo atto di autodeterminazione finale e fatale, per aprire a possibilità più umane e tese ad affermare la vita che permettano di vivere un’esistenza ricca di significato.

 

Bibliografia

Burke, L. A., & Neimeyer, R. A. (2012). Spirituality and health: Meaning making in bereavement. In M. Cobb, C. Puchalski & B. Rumbold (Eds.), The textbook on spirituality in healthcare (pp. 127-133). Oxford, UK: Oxford University Press.

Hughes, S. L., & Neimeyer, R. A. (1993). Cognitive predictors of suicide among hospitalized psychiatric patients. Death Studies, 17, 103-124.

Kelly, G. A. (1955). The psychology of personal constructs. New York: Norton.

Neimeyer, R. A. (2009). Constructions of death and loss: A personal and professional evolution. In R. J. Butler (Ed.), On reflection: Emphasizing the personal in personal construct psychology (pp. 291-317). London: Wiley.

Neimeyer, R. A. (Ed.) . (2009). Constructivist psychotherapy. London and New York: Routledge.

Neimeyer, R. A. (2010). Grief counselling and therapy: The case for humility. Bereavement Care, 29(1), 4-7.

Neimeyer, R. A. (Ed.). (2012). Techniques of grief therapy: Creative practices for counseling the bereaved. New York: Routledge.

Neimeyer, R. A., & Winter, D. (2006). To be or not to be: Personal constructions on the suicidal choice. In T. E. Ellis (Ed.), Cognition and suicide. Theory, research, and therapy (pp. 149-169). Washington, DC: American Psychological Association.

Neimeyer, R. A., & Sands, D. C. (2011). Meaning reconstruction in bereavement: From principles to practice. In R. A. Neimeyer, H. Winokuer, D. Harris & G. Thornton (Eds.), Grief and bereavement in contemporary society: Bridging research and practice (pp. 9-22). New York, NY: Routledge.

Prigerson, H. G., Horowitz, M. J., Jacobs, S. C., Parkes, C. M., Aslan, M., Goodkin, K., Raphael, B., … Maciejewski, P. K. (2009). Prolonged grief disorder: Psychometric validation of criteria proposed for DSM-V and ICD-11. PLoS Medicine, 6(8), 1-12.

Shear, M. K., Simon, N., Wall, M., Zisook, S., Neimeyer, R. A., Duan, N., … Keshaviah, A. (2011). Complicated grief and related bereavement issues for DSM-5. Depression and Anxiety, 28, 103-117.

Thompson, B. E., & Neimeyer, R. A. (Eds.). (2014). Grief and the expressive arts: Creative contributions to meaning making. New York: Routledge.

 

Note sull’autore

 

Robert A. Neimeyer

University of Memphis, Memphis, TN USA

neimeyer@memphis.edu

Robert A. Neimeyer è Professore di Psicologia presso l’Università di Memphis (USA), dove lavora attivamente anche in ambito clinico. Autore di 27 libri, più di 400 capitoli e articoli, è attualmente impegnato nella promozione di una teoria elaborativa del lutto come processo di costruzione di significati, che promuove a livello internazionale. Già Presidente dell’Association for Death Education and Counseling (ADEC) e dell’International Work Group for Death, Dying, & Bereavement, è stato insignito dell’Eminent Faculty Award dall’Università di Memphis, del Phoenix Award Rising to the Service of Humanity dalla Fondazione MISS, nominato Membro della Clinical Psychology Division dell’American Psychological Association e Socio Onorario del Viktor Frankl Association.