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Un viaggio costruttivista: dalla PCP al costruzionismo sociale – e ritorno?

A constructivist’s journey: form PCP to Social Constructionism – and back?

di

Vivien Burr

Università di Huddersfield (UK)

 

Traduzione a cura di

Laura Pomicino e Lucia Andreatta

Abstract

Keywords:
PCP, Costruttivismo, Costruzionismo Sociale, Sé | PCP, Constructivism, Social Constructionism, Self
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Nota introduttiva a cura della Redazione: L’articolo di Vivien Burr offre lo spunto per due utili riflessioni. Da un lato, la presentazione in prima persona e la commistione, più volte sottolineata nel testo, fra ambito privato e contesto professionale, evidenziano come la Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) rappresenti un approccio che supera le consuete distinzioni adottate dalla psicologia tradizionale spingendo ad una nuova visione di come ciò che viene considerata realtà viene costruita dal singolo che ne fa conoscenza.

Dall’altro, propone una lettura della difficoltà di integrare quanto è condiviso tra PCP e Costruzionismo Sociale sostenendo che questo è dovuto non tanto all’impossibilità di rilevare le comunanze presenti fra i due approcci, ma ai limiti presenti nell’accedere alle figure chiave che questi punti di contatto possono scegliere di vedere o ignorare e quindi di mostrare o meno agli “altri”.

 

Editor’s introductory note: Vivien Burr’s article is food for thought. On one side, the first-person narrative and the overlap between personal and professional highlight how Personal Constructs Psychology (PCP) is a theoretical approach able to overcome those distinctions traditionally made by psychology, suggesting how ‘reality’ is construed by the person who experiences it.

On the other, the author focuses on the difficulties to integrate shared aspects of PCP and social constructionist, suggesting that this has more to do with hurdles and boundaries to approaching the thinking machine of each approach than with a difficulty identifying similarities between the two approaches.

 

 

In questo articolo vorrei soffermarmi su quella che ritengo essere la posizione della Psicologia dei Costrutti Personali (PCP) nel campo della psicologia in generale e, più in particolare, in relazione a quella prospettiva teorica che è divenuta nota con il nome di costruzionismo sociale (Burr, 2003). Ma questo testo rappresenta anche la sintesi e la storia del mio percorso intellettuale durato quasi 20 anni. Il motivo per cui ho scelto di presentare le mie idee in una forma narrativa come questa è dettato dal fatto che non condivido la posizione della scienza “pura” che vede la sfera accademica e quella personale come due mondi separati. Le preferenze intellettuali di ognuno sono profondamente personali e intimamente connesse con le sue esperienze, la sua biografia e, ad un livello più sovraordinato, i suoi valori e le sue credenze. Questa esposizione, quindi, è solo una mia costruzione personale.

 

Il mio lungo legame con la PCP è cominciato, come molte delle cose che accadono nelle nostre vite, con qualcosa che ha avuto una grande rilevanza personale per me. Ho appena scritto un capitolo per il nuovo libro di Richard Butler “Riflettendo: enfatizzare il Personale nella Teoria dei Costrutti” in cui ho approfondito questo aspetto, ma qui vorrei darvi solo le informazioni sufficienti perché possiate farvi un’idea di come tutto è iniziato.

 

Nel 1983, quando mi fu offerta la modesta posizione come ricercatrice part-time a tempo determinato presso quello che allora era il Politecnico di Huddersfield, ero profondamente terrorizzata. Ricordo che mentre guidavo per tornare a casa dopo il colloquio, la mia mente era pericolosamente concentrata sulla consapevolezza che a breve avrei insegnato a studenti universitari. Improvvisamente, non mi sembrava più che fosse passato tanto tempo da quando anche io ero stata una studentessa universitaria.

 

Preparando ossessivamente e in modo eccessivo ogni singola lezione, in qualche modo sono arrivata alla fine dell’anno, ma ero continuamente attanagliata dal pensiero che i miei colleghi potessero accorgersi che io non ero una “vera” insegnante e che i miei studenti scoprissero la mia “reale” identità di moglie e madre che faceva finta di fare la docente universitaria. Nella mia testa, ero semplicemente un impostore che continuava a “farla franca”, ma la terrificante rivelazione sembrava subito dietro l’angolo. Andavo avanti seguendo la mia routine, impegnata nel preparare ogni lezione in modo sempre più ansioso, temendo che la successiva lezione sarebbe stata quella in cui sarei stata smascherata.

 

Mi sembra chiaro oggi che il vero problema non era legato al divenire sempre più esperta e competente. Riguardava, piuttosto, il colmare il gap che esisteva fra le mie costruzioni di me stessa e ciò che io pensavo fosse “un insegnante”. Tuttavia in quel momento non ero capace di rappresentare a me stessa il problema in questi termini.

 

Fu in quel periodo che per la prima volta incontrai Trevor Butt, che allora insegnava a Huddersfield e successivamente divenne uno dei miei amici più fidati e di lunga data. A quel tempo Trevor lavorava come psicoterapeuta con uno spazio di rilievo nell’ambito della PCP. Il suo ruolo di psicoterapeuta mi fornì, probabilmente, la fiducia necessaria per confidargli le mie insicurezze e lui mi ascoltò con molta partecipazione e mi incoraggiò a riflettere sulla mia esperienza attraverso delle ottime domande. Che cosa, mi chiese, rappresentava la “prova” per me del fatto che non fossi un’autentica ricercatrice o un’insegnante efficace? Qual era la cosa peggiore che avevo immaginato potesse accadere, la mia “scena incubo”? Trevor, quindi, insistette che gli raccontassi quegli eventi che avrebbero potuto essere letti come una prova del fatto che in effetti ero una buona insegnante, per esempio i commenti degli studenti o dei colleghi. Tutto questo oggi mi sembra così ovvio, ma in quel momento rappresentò davvero un cambiamento di prospettiva che non ero stata capace di mettere in atto da sola. Come la maggior parte delle persone che intraprendono un processo di cambiamento piuttosto radicale, credo di aver mostrato un aspetto di ciò che George Kelly intendeva con “ostilità”, rimanendo per un po’ ostinatamente attaccata alle mie costruzioni di me stessa e alle mie convinzioni rispetto alle mie carenze, rifiutando di riconoscere l’evidenza contraria perché, di nuovo come accade alla maggior parte di noi qualche volta, preferivo avere ragione piuttosto che essere felice. Come Trevor Butt afferma nel suo avvincente nuovo testo su George Kelly, ostilità vuol dire “insistere di avere ragione quando sentiamo che ci stiamo sbagliando” (Butt, 2008, p. 47). Nei termini della PCP, stavo cercando una strategia per definire, piuttosto che ampliare, il mio sistema di costrutti. Piano piano si è fatta strada in me l’idea che il problema risiedesse nel mio sistema di costrutti piuttosto che nelle mie capacità di insegnante e sicuramente in questo processo ho iniziato a conoscere la PCP e il suo punto di vista rispetto al cambiamento personale. Trevor intensificò i suoi sforzi per aiutarmi anche attraverso l’uso di alcune tecniche strutturate: mi spiegò cosa fosse una griglia di repertorio, mi chiese di scrivere un bozzetto di autocaratterizzazione e mi propose di comportarmi secondo un “ruolo prefissato” che avevamo scritto insieme. Queste tecniche mi furono davvero di grande aiuto nell’orientarmi in modo preciso lungo il sentiero della ri-costruzione.

 

E l’intero episodio ha segnato l’inizio del mio impegno nel costruttivismo, un’istanza epistemologica che ha rappresentato le fondamenta del mio lavoro accademico degli ultimi vent’anni. E’ stata, quindi, la capacità del costruttivismo di dare senso ai miei problemi che mi ha portato poi ad approfondirlo anche nel contesto accademico.

 

Quando ho iniziato a leggere di più sulla PCP, uno dei concetti che mi è sembrato particolarmente utile è stato quello della metafora. Kelly ha suggerito che il costruire può essere pensato come agire proposizionalmente, “come se” il mondo fosse un posto fatto in questo o quell’altro modo e nel 1970 questo concetto è stato elaborato dal teorico dei costrutti Miller Mair (Mair, 1976) che, scrivendo del nostro costruire, ha parlato di “finzione convinta”; non dobbiamo perdere di vista il fatto che la nostra costruzione del mondo è un forte ma temporaneo investimento su una metafora – per rapportarci ai nuovi eventi che ci accadono come se fossero simili a qualcosa che noi già conosciamo, in modo da poterli affrontare meglio. In linea di principio, questa idea richiama il concetto di “ancoraggio” di Moscovici, che è parte della sua teoria delle Rappresentazioni Sociali (Moscovici, 1984).

 

Come è emerso poi, questo ha rappresentato l’inizio del mio viaggio personale nel costruttivismo e nel costruzionismo sociale, che è proseguito lungo tutta la mia carriera accademica. Mi accorgo ora che mi ero imbattuta in qualcosa di simile quando leggevo di ruoli, finzione e metafora quando ero una studentessa di dottorato negli anni ’70. Il mio dottorato verteva in realtà su un argomento molto diverso, le differenze individuali nella suscettibilità all’ipnosi. Molti psicologi avranno sentito parlare del grande Ted Sarbin, deceduto nel 2005, ma pochi sapranno che negli anni ’60 aveva pubblicato diversi articoli sull’ipnosi e quindi era una figura di una certa rilevanza nella mia “mappa” accademica.

 

Ricordo che, come parte delle mie ricerche, avevo letto molti suoi contributi in cui, in modo inusuale, sosteneva l’importanza della teoria dei ruoli come cornice per comprendere il comportamento del soggetto sottoposto a ipnosi (Sarbin, 1954). Ricordo che Sarbin (Sarbin, 1976) aveva anche proposto, attingendo alle idee del suo collega filosofo di Berkley, Stephen C. Pepper, che ciò a cui lui si riferiva come “metafora chiave” per la psicologia non dovrebbe essere qualcosa che rimanda ad un “meccanismo” (una psicologia delle cause) ma ad un “contestualismo”. Sarbin sosteneva che nell’assumere l’elemento contestuale come metafora principe della psicologia, il comportamento umano dovrebbe essere compreso nei termini del contesto che rende significativo quel dato comportamento per chi lo mette in atto, la forma narrativa con cui leghiamo gli eventi tra loro per arrivare ad una descrizione dotata di senso. Sarbin ha continuato a sviluppare questo tema nei 30 anni successivi – il suo articolo ormai classico, “The narrative as root metaphore for psychology”, è stato pubblicato nella collezione edita nel 1986 “Narrative Psychology: the storied nature of human conduct” (Sarbin, 1986) ed egli è ormai considerato uno dei padri fondatori del campo fiorente della psicologia narrativa. Quando ho riscoperto il precedente lavoro di Sarbin attraverso le mie nuove lenti costruttiviste, ho iniziato a seguirlo attraverso i suoi scritti emergenti sulla narrazione durante i miei primi anni come ricercatrice.

 

Quello che per me era particolarmente eccitante era che queste idee costruttiviste venivano ora applicate non solo all’individuo ma anche all’intero progetto della psicologia e della scienza stessa e a quelle culture e società che erano principalmente implicate nel processo di costruzione delle discipline scientifiche. L’idea fondamentale della PCP (espressa da Kelly nel postulato fondamentale), l’alternativismo costruttivo, era ora una cornice possibile per comprendere non solo le idee e i comportamenti del singolo, ma di intere società. La collezione ormai classica di Sarbin conteneva un contributo di Ken e Mary Gergen (Gergen e Gergen, 1986) e io scoprii che Ken Gergen, come Sarbin, aveva proposto una metafora di tipo contestuale e storico per la psicologia già a partire dal 1973 in un articolo intitolato “Social Psychology as History” (Gergen, 1973) dove sosteneva che le teorie che come psicologi formuliamo sul comportamento sociale sono soprattutto riflessi della storia contemporanea piuttosto che formulazioni oggettive.

 

A partire da queste scoperte, non trascorse molto tempo prima che mi imbattessi nell’ormai classico articolo di Gergen del 1985 “The social constructionist movement in modern psychology” (Gergen, 1985) e per gran parte degli anni successivi approfondii con entusiasmo questo emergente campo di studi, lottando con “bestie” come il post-strutturalismo, il postmodernismo e l’analisi del discorso e arrivando poi a scrivere il mio testo “An Introduction to social constructionism” (Burr, 1995). Ovviamente, non c’era traccia della PCP in nessuno dei materiali in cui mi ero imbattuta. Ad esclusione del contributo di Gergen, ormai classico, il costruzionismo sociale sembrava essere un movimento profondamente europeo, debitore più al pensiero di filosofi francesi come Michael Foucault e Jacques Derrida che a George Kelly e ai suoi seguaci.

 

Tuttavia, a me apparivano sempre più evidenti le similarità fra i concetti fondamentali della PCP e le idee contenute nel costruzionismo sociale, e sentivo l’urgenza di integrarle nel mio modo di pensare. Altri studiosi della PCP come Mike Mahoney, Jim Mancuso, Jon Raskin e Dusan Stojnov nel corso degli anni hanno evidenziato, nei propri contributi teorici, le similarità fra la PCP e il costruzionismo sociale (Mahoney, 1988; Mancuso, 1996; Raskin, 2002; Stojnov & Butt, 2002) e hanno voluto sviluppare la PCP lungo linee costruzioniste. Ho discusso rispetto a queste similarità quando li ho incontrati al convegno dell’European Personal Constructs Association (EPCA) a York, nel 1992, dove, come di consueto, la mia presentazione fu accolta in modo positivo e l’articolo fu successivamente pubblicato nella collezione edita da Alan Thompson & Peter Cummins (Burr, 1992). Non è un caso, secondo me, che la comunità della PCP sia generalmente aperta verso nuove costruzioni che si presentano sotto forma di idee speculative.

 

Sentivo che queste similarità tra la PCP e le prospettive emergenti del costruzionismo sociale avrebbero potuto essere sintetizzate come segue:

  1. Prima di tutto, entrambi gli approcci negano che ci sia qualcosa di universale rispetto alla natura umana: c’è un numero infinito di modi di costruire gli eventi, di attribuire ad essi dei significati. Niente nel nostro mondo sociale, incluso le persone, nasce con delle etichette già predefinite. La persona è un fenomeno creato, costruito. Rispetto a questo punto, la PCP si pone in netta contrapposizione rispetto alla maggior parte della psicologia tradizionale. I teorici dei tratti, gli psicodinamici e gli psicologi umanisti possono essere in disaccordo rispetto a quale sia la natura fondamentale degli esseri umani – tuttavia, in modo significativo, tutti suggeriscono che ESISTA una natura fondamentale e che, in vari gradi, la mano che ci viene data da giocare nel gioco della vita determina il nostro carattere psicologico. In realtà, nelle società occidentali credo che ci stiamo lasciando sempre più incantare da un determinismo biologico riduzionista – sembra che ci compiacciamo nel riportare, per esempio, di aver scoperto il gene per l’omosessualità, per l’alcolismo o la criminalità. Né la PCP né il costruzionismo sociale hanno niente a che fare con queste idee. Il comportamentismo è forse l’unico approccio nella psicologia tradizionale, a livello mondiale, che offre una visione della persona come non dotata di una natura precostituita.
  2. In secondo luogo, entrambi questi approcci si pongono in netto contrasto con la psicologia tradizionale, evidenziando che ciò che queste teorie propongono sulla natura umana sono costruzioni. Sia la PCP che il costruzionismo sociale sostengono che le visioni alternative di ogni persona non dovrebbero avere nessuna pretesa di essere identificate come “fatto” o “verità”, sebbene alcune possano essere più utili di altre. Mentre la teoria dei tratti, la teoria psicodinamica e la psicologia evolutiva non si pongono domande rispetto alle proprie affermazioni sulla verità, George Kelly ha invece suggerito che la sua teoria dei Costrutti Personali dovrebbe essere adottata fino a che non venga proposta una migliore costruzione della persona. E in questo caso “migliore” vuol dire più utile, non più accurata o più veritiera. Allo stesso modo, il costruzionismo sociale si dichiara radicalmente scettico rispetto alle affermazioni sulla “verità”, specialmente quando sono formulate in relazione alla natura delle persone in generale o dell’individuo.
  3. E come terzo punto, entrambi gli approcci si focalizzano sui resoconti, sulle narrazioni attraverso cui le persone vivono le proprie vite, le rappresentazioni di se stessi e del mondo che propongono gli uni agli altri.

 

Nonostante queste importanti similarità, cominciai a notare che c’era qualcosa di particolarmente significativo che mancava nella teorizzazione proposta dal costruzionismo sociale – la persona come essere psicologico. Mi sembrava che il costruzionismo sociale implicasse una quasi totale assenza dell’essere psicologico dalla sua comprensione della vita sociale – la persona, teoricamente parlando, aveva quasi cessato di esistere. A quel tempo, i lavori davvero molto diversi all’interno del costruzionismo sociale di persone che oggi potremo definire come esponenti della psicologia discorsiva, della psicologia critica, dell’analisi del discorso e così via, non erano così distinti gli uni dagli altri. Tuttavia, in vari modi la teoria e la ricerca dei costruzionisti sociali sembravano ignorare o persino negare l’essere psicologico che era stato il centro dell’attenzione della psicologia fin da quando era emersa come disciplina a sé stante. Per esempio, il lavoro di quelli che oggi vanno sotto il nome di psicologi del discorso si focalizzava solo sulla natura e il funzionamento delle narrazioni che venivano costruite dalle persone in interazioni di diverso tipo. La persona che creava queste narrazioni era come “messa fra parentesi” e non soggetta a indagine. Questo mi sembrava un atteggiamento in malafede. La persona era “svuotata” di contenuti psicologici come attitudini, credenze, motivazioni e così via – questi aspetti diventavano costruzioni sociali e non (come i comportamentisti avrebbero sostenuto) motivatori del comportamento. Tuttavia, inevitabilmente gli psicologi del discorso talvolta dovevano fare riferimento alla persona che produceva queste narrazioni e non potevano fare a meno di proporre attribuzioni rispetto alle motivazioni che l’avevano spinta a costruire quel dato resoconto in quello specifico modo. Mi sembrava che la persona come essere psicologico fosse sempre implicita in tale lavoro discorsivo.

 

Quei costruzionisti sociali che avevano preferito prendere spunto da Foucault si erano focalizzati sul potere costruttivo dei discorsi sociali condivisi. All’interno di questa forma di costruzionismo sociale, la coerenza e l’unità del sé, con cui nel mondo occidentale abbiamo familiarità, sono sostituite dalla frammentazione. L’identità e la soggettività della persona sono viste come in continua mutazione in funzione di quanto viene prodotto attraverso i vari discorsi, le pratiche sociali e le relazioni in cui una persona è coinvolta di momento in momento. Questa nozione di sé è vista come costruzione sociale, e la nostra esperienza di essere una persona, la nostra identità, è spiegata non come emergente da stati o processi fondamentali, ma costruita nel e derivata dal più ampio contesto culturale e linguistico in cui noi tutti ci muoviamo. Il sé non viene visto qui come un modo per rapportarsi ai fenomeni sociali, ma un risultato di essi. In questa forma estrema, la persona appare unicamente come un mezzo attraverso cui i discorsi si possono manifestare. Questa visione mi sembrava estremamente deterministica, rimpiazzando il determinismo biologico e psicologico della psicologia tradizionale con un determinismo sociale che era certamente diverso, ma non migliore.

 

Come psicologa, sentivo fortemente che c’era spazio per una teoria della persona nel costruzionismo sociale. Ovviamente, questa teoria della persona sarebbe dovuta essere radicalmente differente dalle teorie sulla persona diffuse all’interno della psicologia tradizionale, una persona vista come un essere riempito da una quantità misurabile di tratti o mossa da forze inconsce incomprensibili. Ma una persona senza la capacità di riflettere sulla propria esperienza e senza il potere di scegliere fra diverse alternative che percepisce come percorribili sarebbe stata nient’altro che un mezzo per il manifestarsi di discorsi. Per questo mi sembrava importante adottare un modello della persona coerente con il costruzionismo sociale che, seppur rigettando l’essenzialismo tanto contestato dai costruttivisti, tenesse conto anche di importanti concetti come l’azione dotata di significato e la scelta.

 

La PCP, la più costruttivista delle psicologie, sarebbe stata sicuramente capace di offrire un contributo alla comprensione della persona in un mondo socialmente costruito. Così Trevor ed io decidemmo di scrivere un articolo sottolineando come la PCP sarebbe potuta essere un utile complemento del costruzionismo sociale. Ma i nostri tentativi di pubblicare questo testo furono un insuccesso (Burr & Butt, 1993). E, in effetti, quando durante alcune conferenze presentammo queste idee agli psicologi sociali di orientamento costruttivista, non furono bene accolte. Il nostro tentativo di reinserire un individuo che agisce guidato da significati nella cornice del costruzionismo sociale fu interpretato dai più come fuorviante, persino sentimentale, come uno scivolare indietro verso un umanesimo liberale da cui i costruzionisti sociali erano così desiderosi di distanziarsi. E in questo modo il costruttivismo e il costruzionismo, questi due termini che incontriamo nel nostro lavoro accademico e che suonano tanto simili, hanno significati diversi, riferendosi il primo a quelle prospettive teoriche (inclusa la PCP) in cui l’enfasi è posta sulla costruzione attiva della persona nel dare vita al proprio mondo fenomenico, mentre il termine “costruzionismo” (o costruzionismo sociale) è usato per riferirsi a quegli approcci che enfatizzano il potere costruttivo delle forze sociali e del linguaggio nel dare forma alla nostra personalità. Il gap tra questi due punti di vista sembrava incolmabile, con le teorie costruttiviste viste come accettare acriticamente un sé attivo che guida il comportamento e le teorie costruzioniste che vedono il sé come nient’altro che una costruzione discorsiva, persino ideologica.

 

Dato che le idee del costruzionismo sociale sono nate generalmente al di fuori della disciplina della psicologia, non è sorprendente che la natura della personalità non sia stata al centro del dibattito. Semplicemente, questa non sembrava la questione principale da affrontare. Credo che il costruzionismo sociale sia stato e continui ad essere una voce critica di estremo valore in psicologia, in quanto mette in discussione e sfida le assunzioni date per scontate in ambito psicologico. Ma a quel tempo non ero ancora pronta per affrontare seriamente nessun tentativo di formulazione teorica sull’individuo. Tuttavia, mi sembrava che, anche se sarebbe stato difficile, in linea di principio dovesse essere possibile costruire un modello del sé e della personalità umana che non implicasse un acritico scivolamento verso l’essenzialismo e l’umanesimo liberale così rifiutati dai costruzionisti e io sentivo (e sento ancora) che questo è un importante obiettivo verso cui tendere.

 

La comunità dei costrutti personali sembrava essere più aperta a costruzioni alternative e, con la gradita collaborazione di Richard Bell, Trevor ed io abbiamo successivamente realizzato, e poi pubblicato, un piccolo studio empirico, usando le griglie di repertorio, per esplorare l’esperienza di sé delle persone in termini di frammentazione e unità (Burr, Butt & Bell, 1997). Abbiamo chiesto alle persone di costruire se stesse in varie e diverse relazioni con gli altri, e abbiamo scoperto che in realtà le persone identificano esperienze di sé davvero diverse all’interno di diverse relazioni. Questa pluralità nella nostra esperienza di noi stessi è qualcosa che Miller Mair (Mair, 1977) ha descritto nella “comunità di sé” ed è ciò a cui i costruzionisti si riferiscono quando parlano di frammentazione. Tuttavia tutti i nostri partecipanti, in modo quasi paradossale, hanno utilizzato un costrutto che potrebbe essere descritto come: “posso essere me stesso vs. recito una parte”. Hanno preservato un senso di sé che sembrava trascendere questa frammentazione e questo era importante per loro. Questo sé richiama più una costruzione sociale, interpersonale piuttosto che un’invenzione individuale, personale come la PCP potrebbe suggerire, con una pluralità di sé prodotti in azioni congiunte con altri. Permane, tuttavia, una componente di costruzione individuale in questo processo sociale. Le persone possono riconoscere se stesse in alcuni incontri (che noi possiamo caratterizzare come ruoli o posizioni discorsive) e non in altri, e questo testimonia la presenza di un senso di sé.

 

Questa è una teoria del “sé costruito” piuttosto che il sé essenzialista proposto dalla psicologia tradizionale ma, tuttavia, offre un importante punto di partenza da cui la persona può spingersi per agire. Assieme a Franz Epting, Trevor ed io abbiamo poi scritto rispetto a questo aspetto della teoria nei termini di “costruzioni nucleari” (1998), suggerendo che questo potrebbe essere concettualizzato meglio come un “processo nucleare”, un processo che implica costruire e vivere una narrazione di noi stessi – una storia delle nostre vite, se preferite – di cui noi siamo responsabili, ma che è, in una certa misura, inevitabilmente raccontata e vissuta nei termini dettati dal mondo sociale e culturale in cui ci muoviamo. Quindi, qui il sé è sia una costruzione sociale che personale, che necessita dell’apporto sia delle teorie costruttiviste che di quelle costruzioniste per essere compreso più correttamente. Altri studiosi della PCP, come Bob e Greg Neimeyer e Luis Botella, si sono similmente adoperati per vedere la PCP come un importante membro della famiglia delle teorie costruttiviste, riflettendo gli orientamenti postmoderni nella costruzione della realtà sociale (Neimeyer & Neimeyer, 1993; Botella, 1995).

 

Nel frattempo, nel campo del costruzionismo sociale, alcuni autori hanno cominciato a sollevare alcuni dubbi su come il costruzionismo sociale si sia occupato (o, piuttosto, non si sia occupato) della soggettività e dell’esperienza. Carla Willig, del cui lavoro ho molta stima, è stata una delle prime ad indicare come questa sia una mancanza nell’approccio del costruzionismo sociale alla persona e il filone del costruzionismo che attinge a Foucault ha oggi accolto la soggettività come un importante focus di ricerca e vuole far luce sul modo in cui i discorsi dominanti informano la nostra esperienza personale e il nostro senso di sé. Questo trova un parallelismo nella PCP nei concetti di comunanza e socialità, nell’idea che le persone che condividono una cultura comune inevitabilmente daranno senso alla loro esperienza attraverso un simile set di costrutti. Per esempio, Harry Procter ha usato la nozione di “costrutti familiari” nel lavoro con le famiglie in difficoltà.

 

Tuttavia, comprendere le differenze individuali – in cui la PCP riesce così bene – non è un tema centrale per il costruzionismo sociale. Diverse persone collocate all’interno degli stessi discorsi di genere o età, ad esempio, non necessariamente li affronteranno o li vivranno nello stesso modo. Per gli psicologi (piuttosto che per i sociologi e i teorici sociali, per esempio) l’esperienza e il comportamento dell’individuo dovrebbero essere un tema rilevante. Il costruzionismo sociale offre una sfida vitale all’essenzialismo e alla mancanza di prospettiva storica della psicologia e ci ha fornito un modo di comprendere l’essere persona che pone attenzione al potente contesto culturale e linguistico in cui tutti noi ci muoviamo. Ma credo che spesso non ci fornisca una comprensione dell’esperienza della persona a un livello sufficientemente specifico per essere utile.

 

Guardando ora indietro a quello che Trevor ed io abbiamo scritto 16 anni fa, sono sorpresa di quanto ancora oggi io lo riconosca valido. Molti teorici dei Costrutti Personali hanno sposato il filone costruzionista postmoderno della psicologia e a me sembra ancora che non ci sia nessuna ragione teorica perché la PCP non dovrebbe essere usata per elaborare il modello della persona suggerito dal costruzionismo sociale, specialmente dove il fulcro dell’interesse sono l’esperienza e il cambiamento personale. In modo sorprendente, teorie che presentavano caratteristiche che le rendevano candidate meno ottimali, come la teoria psicodinamica, sono state oggetto di studio dei costruzionisti sociali. In realtà, le barriere rispetto all’approccio costruttivista possono avere a che fare soprattutto con una non chiara comprensione della PCP (che spesso risulta non compresa dalla psicologia tradizionale) e con un persistente, istintivo pregiudizio contro il suo ottimismo nordamericano e la sua convinzione nell’agency personale. E ci sarebbe molto nella PCP che potrebbe essere di valore per il costruzionista sociale nella ricerca e nella pratica, dal semplice uso del pensiero proposizionale all’insieme innovativo di tecniche che gli studiosi e i clinici della PCP hanno sviluppato.

 

Devo concludere qui la mia narrazione; il problema di cui ho discusso è uno di quelli che, da quando mi occupo di psicologia, può non interessare persone che hanno diverse, forse più pratiche, preoccupazioni. E trovare un modo di porre in primo piano la PCP nella psicologia costruzionista non è semplice. Grazie al tempo trascorso, all’esperienza acquisita e con il senno di poi, oggi sento che questo non ha tanto a che vedere con il risolvere tensioni teoriche sulla carta, ma con il proporre la PCP a figure chiave e con il disseminare i suoi risvolti pratici nei circoli costruzionisti. Sul fronte più pratico della ricerca e della clinica, le tensioni teoriche sono spesso dimenticate in mezzo al bisogno di trovare un modo di fare cose che funzionino rispetto ai propri obiettivi – quasi una definizione di costrutto! Forse, come il grande vecchio maestro della psicologia sociale, Serge Moscovici, ci ha mostrato, se tu gridi abbastanza forte e abbastanza a lungo, allora forse qualcuno ti ascolterà!

 

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Note sull’autore

 

Vivien Burr

Università di Huddersfield

v.burr@hud.ac.uk

È PhD e Lettore In Psicologia presso l’Università di Huddersfield, UK. I suoi interessi di ricerca includono la psicologia costruttivista e il costruzionismo sociale, l’identità di genere e la sessualità, le arti e la cultura popolare, nonché la psicologia dei media. Vivien è autore di “Social Constructionism” (2003) e “Invitation to Personal Construct Psychology” (seconda edizione 2004, con Trevor Butt).