Di recente, in una chiacchierata di approfondimento con un gruppo di studenti di Psicologia, mi sono tornate alla mente le tappe fondamentali del percorso – di vita e di incontri umani, prima che di studi – attraverso il quale sono approdata al costruttivismo. Persone, ma anche libri – dietro alle cui pagine vivono comunque le persone e le loro prospettive – non diversi da quelli incontrati da tanti, certamente. Incontri che un occhio esterno giudicherebbe casuali, persino banali, ma che per me prendevano senso via via, come le briciole sul sentiero di Pollicino, intessendo la trama delle risposte alle domande che più mi stavano a cuore.
“Come potrò stare di fronte a una persona che un domani mi chiederà aiuto?” era la più profonda, al termine della carriera universitaria e della conoscenza ravvicinata di una disciplina, la psicologia, che mi appariva tanto frammentata quanto lo era ai miei occhi la persona che lo sguardo di questa disciplina mi restituiva.
Di quella domanda scelsi di fare il punto di partenza della tesi di laurea, incentrata appunto sui temi dell’alterità e dell’intersoggettività in chiave fenomenologica. Su invito della mia relatrice, vi fece capolino, come un ospite portato a cena da un amico dell’amico, un tale Francisco Varela. Ancora non mi era chiaro il nesso con il costruttivismo, di cui non conoscevo quasi nulla; la trama e l’ordito sarebbero divenuti chiari più tardi. Tralasciando di dilungarmi in dettagli, immagino ci si possa chiedere a questo punto che cosa c’entri una premessa così personale con l’Editoriale e i contributi che ospitiamo in questo numero.
C’entra perché, a mio avviso, il numero che vi apprestate a leggere rappresenta molto bene il focus ma anche il range di pertinenza – dilatabile fino ad includere ambiti di applicazione apparentemente distanti l’uno dall’altro – della Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly (1955). Una teoria nata attorno al focus della pratica clinica, che guarda alle persone – tutte le persone – come attive costruttrici di senso, ponendole davvero al centro. Ma al centro di cosa? Anzitutto dello sforzo di comprensione del clinico, che per primo è chiamato a giocare socialità, a costruire una relazione terapeutica la cui significatività non è stabilita a priori o a partire dalla prospettiva dell’esperto, ma da quella dell’altro.
Il “gioco della socialità” poi non cambia, anzi si arricchisce, quando incontriamo le persone non nel setting terapeutico tradizionale, ma nella ricerca clinica. Perché anche in questo caso la PCP ci mette a disposizione tecniche e strumenti raffinati sul piano metodologico, che conservando il carattere processuale e sovraordinato della teoria ci consentono di non sovrapporre (o addirittura sovrascrivere) categorie calate dall’alto ai contenuti dei protagonisti della ricerca.
Ci consentono cioè di non perdere di vista la persona, e la comprensione dei suoi significati, anche quando è la metodologia della ricerca (niente di più impersonale, si potrebbe pensare!) a permetterci di approfondirli.
Penso che i contributi di questo numero esemplifichino bene, in altre parole, come la PCP sappia coniugare
l’approccio umanistico – o dovrei forse dire semplicemente umano – a partire dal quale siamo eticamente alla pari nella relazione, con l’apparato teorico e tecnico necessario al clinico e al ricercatore per incarnare il
proprio ruolo. Non in quanto “esperto”, che si erige al di sopra dell’altro in nome del peso specifico del proprio sapere acquisito, ma in quanto attore della responsabilità di guardare negli occhi qualcuno che gli chiede aiuto.
Questo, della PCP, ha dato risposte alle mie domande, come credo sia accaduto a molte colleghe e colleghi che l’hanno scelta come orientamento teorico-pratico per il proprio agire professionale.
Guardare negli occhi qualcuno che ci chiede aiuto, dicevo. E di fronte al quale saper stare, semmai, al di là di ogni presunzione di certezza, aprendoci allo spaesamento e alla scomodità del continuo cambiamento di prospettive che metterci nei panni dell’altro (o camminare nelle sue scarpe, direbbero gli anglosassoni) ci richiede.
La scomodità a cui ci riporta plasticamente Federica Mattarei nella recensione di “Flatlandia” di E. A. Abbott, un classico, riletto però con le lenti di una terapeuta costruttivista: “come il protagonista che dalle carceri tenta di non dimenticare la terza dimensione, a distanza di giorni dalla lettura mi ci vuole un certo impegno a ricordare il mondo di Flatlandia così come lo percepisce il Quadrato, ma spero che la mirabile avventura di questa piccola figura piana, il suo appello al coraggio e alla modestia, mi tornino alla mente ogniqualvolta sulla comoda poltrona dello studio inizierò a sentirmi scomoda e a disagio”.
Buona lettura!
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