Care lettrici, cari lettori,
con l’Editoriale vi diamo il benvenuto nel nuovo numero della Rivista Italiana di Costruttivismo – che ne inaugura l’ottavo anno di pubblicazione – mentre ci troviamo nel mezzo della pandemia da Covid-19. Una domanda, ineludibile, scorre sotto la superficie: che contributo possiamo offrire nella polifonia di voci di questi ultimi tempi?
I contenuti di questo numero sembrano tracciarne il fil rouge: la cura – ora più che mai – ha profondamente a che fare con il “prendersi cura”, degli altri e di noi, che non smettiamo mai di ritrovarci altri-a-noi-stessi negli sguardi altrui.
Lo raccontano bene Viviana Bongiorno e Cecilia Pagliardini nella loro indagine sui costrutti degli operatori socio-sanitari in strutture assistenziali per anziani, che ci descrive come e quanto lo sguardo su “chi è l’anziano” informi l’agire di chi se ne prende cura nella relazione. I caregivers sono i protagonisti anche del contributo di Roberta Toffano, che da osservatrice ne rilegge i vissuti attraverso la comprensione offerta dalla lente della Psicologia dei Costrutti Personali (Kelly, 1955).
Il “prendersi cura” passa inevitabilmente attraverso i molti gradi del rapportarsi agli altri, e a se stessi in relazione agli altri; passa attraverso la comprensione e la socialità, alla scoperta dei presupposti del proprio e altrui agire. È, questo, lo strumento principe anche dell’esplorazione e del possibile superamento del conflitto, come ci raccontano Ann-Luise Davidson, Nadia Naffi e Carole Raby nell’articolo dedicato all’approccio PCP alla risoluzione dei conflitti nelle Learning Communities.
Il fil rouge che si sta dipanando continua nella recensione di “Arte di Ascoltare e mondi possibili” di Marianella Sclavi, e nell’intervista a Giovanna Conforto, esperta storyteller di larga fama.
Siamo storie. Per dirla con Miller Mair, potremmo “divertirci” a riscrivere i pilastri della PCP a partire da questo presupposto. Il Postulato Fondamentale suonerebbe più o meno così: “i processi delle persone sono canalizzati psicologicamente dalle storie che vivono e dalle storie che raccontano” (Mair, 1987). Le storie che narriamo – e le metafore in esse intrecciate – hanno il potere decisivo di creare mondi, disegnando nuove possibilità.
Dentro questa dimensione, l’Editoriale – insolitamente – si amplia e diviene corale, accogliendo contributi poliformi che vanno oltre l’apertura e la presentazione del numero.
Conosciamo la portata generatrice e trasformativa delle storie, che danno vita a significati, eventi, azioni. Esplorarne le implicazioni è stato lo spunto di un esperimento intrapreso dagli specializzandi del primo e del secondo anno della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Costruttivista dell’ICP di Padova, su invito del loro didatta, Massimo Giliberto.
La pandemia che stiamo vivendo è spesso narrata attraverso una metafora prevalente, quella della guerra. Considerarsi in guerra non è uno scherzo, si direbbe. Ovunque attorno a noi possiamo osservare esempi dei correlati di una simile metafora–narrazione, indubbiamente legittima e comprensibile, inserita nel tessuto sociale: c’è il nemico, contro cui lottare, ci sono le forze dispiegate nei campi di battaglia, gli eroi di guerra, le vittime, i caduti e chi li piange. Tutto questo informa i racconti che ascoltiamo e, magari, contribuiamo ad alimentare; ci colloca nello scenario, ci consente di riconoscere a ciascuno, noi compresi, un ruolo. Facilissimo dare per scontato una narrazione così ampiamente condivisa, mentre la comunanza sembra prevalere sull’individualità, mentre viviamo un evento che ci avvolge tutti, dalla portata così globale da essersi meritato la triste etichetta di “pandemia”.
Quali vincoli descrive questa narrazione? Quali possibilità apre o esclude? E cosa cambierebbe se provassimo ad adottare un’altra metafora per raccontare questo tempo e le sfide che ci pone davanti?
Da questo invito – che mette in discussione non solo i contenuti ma la cornice stessa – hanno preso corpo i racconti che riportiamo nelle prossime pagine, stralci di narrazioni possibili dell’emergenza da Covid-19 filtrati attraverso la metafora della guerra, prima, e quella del viaggio, poi. Viaggio come alternativa e possibilità, come scenario entro cui poterci pensare esploratori, aperti al nuovo che ogni esperienza porta con sé.
I contributi di due illustratrici, e quello[1] di una graphic-designer[2] e di una musicista[3] arricchiscono il quadro, offrendo ulteriori linguaggi agli appunti di viaggio.
Auguriamoci di non dimenticare le lezioni imparate lungo il cammino, quando la prossima tappa del viaggio ci mostrerà il mondo del “dopo”, del domani. Auguriamoci di non tralasciare di esplorare il germe portatore di cambiamento e opportunità contenuto nelle storie che abitiamo, prendendocene cura, nell’incessante costruirne il senso.
Buona lettura.
1. L’emergenza sanitaria Covid-19 come guerra
“Sembrava di essere in guerra. Mai la sensazione di essere come in trincea è stata così vicina. Vige una sorta di coprifuoco: ci è preclusa la possibilità di uscire di casa, anche solo per passeggiare; parchi, bar, luoghi di ritrovo e socialità sono chiusi. La polizia gira per le strade per controllare e punire chi non rispetta le regole. Dal fronte vero e proprio arrivano solo i racconti mediatici di chi là, in prima linea, combatte per noi: medici, infermieri e volontari. Per le strade, ormai deserte, solo le sirene dei feriti. La sera si contano i caduti in battaglia e si attendono notizie di una possibile tregua” (Camilla).
“Così pronunciava l’altoparlante del furgone della Protezione Civile perlustrando le strade della città: “Armiamoci e combattiamo insieme contro questo nemico terribile e spietato. Non c’è tregua, non c’è pace, non dobbiamo mollare un attimo! Ciascuno di noi, nessuno escluso, deve fare la propria parte! Tutti sono chiamati alle armi, gli italiani, i veneti, i veronesi! State a casa, barricatevi, diffidate degli altri, teneteli distanti, sparate a vista a chi non segue le regole. Solo così vi salverete!” (Giulia).
“Come tutte le guerre, questo Covid-19 ci sta richiedendo nazionalismo, comunità, collettività, senso di responsabilità. Siamo chiusi in casa come fossero i bunker ai tempi dei bombardamenti, facciamo le corse al supermercato. Ci sono momenti di estrema socialità, per esempio tra condòmini dello stesso palazzo che improvvisamente mostrano interesse nel conoscersi e imbastiscono concerti sui balconi, e momenti in cui il panico troneggia a espressione del detto mors tua, vita mea con scontri al supermercato e aggressioni alle forze dell’ordine. Per le strade transitano le volanti della polizia municipale per controllare il rispetto del divieto, i loro megafoni ci ricordano l’ordine di restare tutti a casa e ringraziano i cittadini. Fidanzati e parenti, se non sono conviventi in casa, sono costretti all’incontro “clandestino” con la scusa di fare la spesa, rispettando sempre la distanza di 1 metro ed evitando il contatto fisico. I morti vengono annunciati quotidianamente e le persone si aggrappano alla speranza o a Dio per un futuro migliore e salvifico” (Claudia).
“È ufficialmente una guerra ma questa volta il nemico è invisibile, non sappiamo contro cosa stiamo combattendo. È una nuova forma di battaglia la nostra. Non sappiamo cosa aspettarci. Non abbiamo armi valide per difenderci, le persone muoiono ovunque. Il nemico non fa differenze, uccide indifferentemente” (Matteo).
“La sopravvivenza è una guerra. È una guerra di potere, lo è sempre stata. Solo i più forti sopravvivono. Alcuni, la guerra, la combattono. Stanno in trincea rischiando ogni giorno la propria vita. La loro messa in salvo non dipende solamente da quanto forti si dimostreranno al fronte ma anche da chi, se feriti, dovrà curarli. Eccoli i veri salvatori, i veri eroi di questa guerra. Medici, infermieri e personale sanitario sono l’ancora di salvataggio a cui si tiene forte l’intero popolo. Attori non protagonisti sono coloro che in questa guerra se ne stanno chiusi nelle proprie case in attesa che qualcuno dica loro quanto tempo ancora ci vorrà perché possano tornare ad uscire. Quanto tempo ci vorrà perché possano finalmente riabbracciare le proprie famiglie. Quanto tempo ci vorrà perché riescano a tornare alla vita di prima. È una stasi frenetica da cui nessuno si può sottrarre” (Lucrezia).
“Penso alla forza e al potere dei media, a quello che ci trasferiscono e ci veicolano. Quindi mi chiedo: in che modo costruiscono la nostra esperienza di paura? Cosa ci viene trasmesso e cosa ci viene omesso? Secondo quali modalità e propositi di fondo? Penso ai canti sui balconi: bella la solidarietà tra persone, bello e positivo farsi forza e pensare che tutto passerà. È un grande segnale di speranza, ma in questo momento il mio pensiero va anche, purtroppo, a molte famiglie che non riescono a godere di questa partecipazione collettiva. Famiglie vicine o lontane, conosciute oppure no, non importa: penso al loro profondo dolore, private della vicinanza di un qualcuno che non c’è più. Legami importanti che si spezzano in modo brusco, senza alcuna possibile forma di contatto. Non è consentito conservare il ricordo nel momento del triste passaggio, è tutto asettico, visto o addirittura immaginato dall’esterno, senza alcun margine di azione né di scelta. Penso poi alla grande limitazione della nostra libertà fisica. E allora, guardando l’altra faccia della medaglia, là dove sta la vera libertà di movimento, mi sento di riflettere su come molte volte io e penso altri non l’abbiamo apprezzata, questa libertà. E così in questo momento di “guerra”, voglio anche riflettere sull’uso che forse troppe volte ho fatto delle mie libertà. Lo voglio fare per riscoprire valori legati agli affetti, al tempo e agli spazi di vita che, in questo momento, non mi è permesso esplorare in modo completo” (Elisa).
“L’emergenza Codiv-19 è scattata, e da un iniziale momento in cui sembrava un’influenza in cui era necessario prendere solo alcune precauzioni, si è trasformata in un vero e proprio allarme che ci ha costretti a mettere un freno alle nostre vite. È scattata un’ordinanza ministeriale che ci vieta di uscire dalle nostre abitazioni, ad interrompere qualsiasi attività commerciale o meno. Si può uscire di casa solo per comprare generi di prima necessità. E solo uno alla volta. È scattato il boom di amuchina, mascherine e guanti. La paura si fa sentire. I rapporti relazionali si riducono ad una chiamata o ad una videochiamata. È dilagato il “working at home”. Il pigiama è l’unico abbigliamento possibile. La gente si ribella, ignora il decreto e scattano multe e restrizioni più forti. La popolazione pur di uscire pratica jogging e i cani sono stremati, si porta fuori addirittura il gatto! Quando tornerà tutto normale? Questa è la domanda più gettonata. I social impazziscono e la gente si inventa mille modi pur di non sentirsi sola” (Ludovica).
“Mia madre in trincea, io invece devo pensare ai malati che non possono tornare a casa, fuori si combatte ma senza rumore, senza vedere spari o bombe. Io sono dalla parte dei buoni, mi hanno chiesto di fare la mia parte, ma forse sono dalla parte dei cattivi. Le urla io non le sento delle persone ferite, non vedo neanche gli attimi in cui vengono ferite, ma forse a ferirle posso essere stata anch’io. Posso essere uno di quei soldati che sotto copertura lavora per la fazione opposta. Mi si chiede di scendere in campo e non aver paura, ma ho paura di essere dalla parte sbagliata” (Elisa).
“Cosa stiamo combattendo? Il Coronavirus? L’ignoranza? Il potere? Sembra che in questo periodo tutti abbiano un nemico comune, il Coronavirus; tuttavia è altrettanto chiaro come ognuno combatta prima per se stesso che per gli altri, non capendo che il nemico si sconfigge solamente con un’alleanza solida. I potenti sembrano farsi gioco dell’ignoranza, ma allo stesso tempo ne sono preda. Non favoriscono una linea comune, forse con l’obiettivo di trarre vantaggio dalla battaglia dei “poveri”, e non si rendono conto che tutto ciò sfavorisce anche loro. Credo che in questa guerra debbano essere i generali più esperti a dirigere l’esercito alla vittoria contro il Coronavirus” (Giulia).
“Spesso nelle ultime settimane sentiamo paragonare il Coronavirus ad una guerra. Soprattutto sui giornali o in televisione si utilizza questo termine forte che ci risuona dentro come un’eco catastrofico, impattante, greve e lapidario. La maggior parte di noi non ha vissuto l’esperienza della guerra in modo diretto, ma spesso questa viene associata inconsapevolmente al periodo post-bellico caratterizzato dall’ansia e dalla paura generate dalla guerra fredda.
La guerra unisce e richiede un sacrificio collettivo ma allo stesso tempo viene “imposta”. La guerra inizia e finisce, non porta un cambiamento evidente se non la desolazione e la distruzione oltre alla perdita delle persone care. La guerra è un periodo in cui il tempo viene scandito dai bollettini dei morti, un tempo in cui la paura di uscire di casa, ma soprattutto l’impotenza di fronte ad un evento più grande di noi, sembrano sommergerci e obbligarci a trattenere il fiato in attesa che qualcosa cambi, con la speranza di poter tornare a respirare come prima” (Alessandro).
“È arrivato il nemico, fa molta paura, dobbiamo combatterlo con tutte le armi che abbiamo a disposizione per sconfiggerlo il prima possibile e per tornare alla vita di prima, alla normalità. L’unica cosa che ci rimane da fare è combattere senza mai arrenderci, senza mai mollare, senza mai sentirci fragili e vulnerabili anche se tutto questo ci farà sentire profondamente soli. Siamo in trincea, ci chiedono di essere forti, ci sentiamo abbandonati” (Francesca).
“Questa situazione viene vissuta in termini di “restrizione” e ci si sente appesantiti, stanchi, impotenti. La guerra rimanda a termini specifici, come quello di trincea; luogo paragonabile oggi a ciò che l’ospedale rappresenta per i medici e tutti gli altri operatori sanitari. Ritorna anche la parola “fronte”: forze dell’ordine che delimitano le aree di contagio, si accompagnano a questi anche il senso di paura e la morte” (Annalisa).
“In questi tempi duri e difficili siamo costretti a rinchiuderci nelle nostre quattro mura domestiche, riducendo contatti umani al minimo ed uscendo solo per ciò che è strettamente necessario. Ogni tanto ci si affaccia alla finestra che assomiglia a una piccola fessura tra le pareti di una trincea. Il cibo fortunatamente non manca anche se le persone escono con carrelli colmi di cibo. Quando si fa rifornimento siamo costretti a stare in fila per ore fuori dai supermercati, protetti da mascherine e guanti alla distanza di sicurezza di almeno un metro. Le città sono attraversate solo dal suono degli altoparlanti che, come sirene, ricordano a tutti l’importanza di stare in casa. A cadenza regolare, almeno due volte al giorno, si ascolta il bollettino che annuncia il numero dei morti” (Giorgia).
“Il coronavirus è un mostro che aleggia e ci può colpire improvvisamente, un nemico da cui scappare, da cui difendersi. Costringe ad una vita di RESISTENZA in cui dobbiamo attenerci alle regole imposte per far fronte all’emergenza. Non resta che l’attesa, che la paura, che il desiderio che tutto finisca presto. Si interrompe la vita e si sta con il fiato sospeso, tremanti, al riparo di qualcosa che ha un nome ma non si conosce e che porta con sé lo scenario più terribile: quello della morte. Come un bollettino di guerra i morti salgono, i contagiati pure. E l’altro chi è? Un nemico da cui difendersi ma con cui allearsi da lontano. E cosa possiamo fare se non attendere e sperare che passi, e quando finirà cosa accadrà?” (Beatrice).
“Non possiamo più uscire di casa, è pericoloso incontrarsi con le altre persone. Non posso più nemmeno passare a trovare i miei, anche se sono a una strada di distanza. Ho l’ordinanza dei 200 metri. Al supermercato ci sono sempre code lunghissime e la gente ti guarda storto, una volta non era così. Molte cose non si trovano nemmeno più: la gente fa le scorte e alcuni rifornimenti non arrivano. In alcuni paesi le persone si preparano anche con le armi, là c’è mio fratello, speriamo vada tutto bene” (Elena).
“Siamo tutti chiusi in casa. Non c’è la possibilità di uscire o fare altro. Tutto fuori è più lento, negozi chiusi, poco movimento e molto più silenzio. Qualcuno inizia a chiedersi come andrà, dove ci porterà tutto questo e se andrà tutto bene. Si va alla ricerca disperata dei viveri per avere in casa più provviste possibili e non dover uscire molto spesso. In questo momento, solo le mura di casa ci permettono di stare al sicuro, perché il nemico è lì fuori. E poi penso, se riuscisse a colpirmi? Che ne sarà di me? E se riuscisse a colpirmi proprio lì, dove sono più vulnerabile?” (Federica).
2. L’emergenza sanitaria Covid-19 come viaggio
“I miei compagni di viaggio più vicini sono mia mamma e mia sorella. Mio papà, parenti, amici, ci seguono anche loro ma da altre parti. La mattina ci si sveglia senza troppa fretta, con calma. I piani del giorno sono già stabiliti in parte, in parte no. Una tappa fissa è il racconto della giornata al papà: cosa abbiamo fatto, cosa abbiamo mangiato, come stiamo, eventuali programmi. Non si sa quanto quest’esperienza durerà ma ci teniamo aggiornati. Anche il virus viaggia con noi. Sembra che si muova con le nostre gambe, gli piace avere vita facile a lui!! Spereremmo di prendere presto strade diverse, a volte i compagni, alla lunga, diventano un po’ pesanti. Però, grazie a lui, abbiamo anche avuto il tempo per fermarci in luoghi bui e inesplorati. Alcuni di noi si occupano di un percorso più impervio del viaggio, per loro è più faticoso, ma arriverà un po’ di discesa pure per loro” (Camilla).
“Un certo giorno arrivò nel paese un tal COVID-19 che scombussolò le abitudini, le repliche di vita, degli abitanti. Ci fu da subito un gran spavento e timore per questa entità sconosciuta e per tutti i cambiamenti che tale oscuro essere stava scaturendo nelle loro vite.
Pian piano i cittadini cominciarono a prendere confidenza con questo virus, a studiare come era fatto, come funzionava e cosa stava rappresentando per loro. Gli abitanti iniziarono a confrontarsi, ad esprimere i rispettivi pareri, a decidere insieme come affrontare la situazione.
Stare lontani e rallentare furono le strade che decisero di percorrere inizialmente.
Cominciarono così, comunicando da lontano, a guardare al passato, a cercare di capire come erano arrivati a quel punto, cosa si erano persi per strada, cosa stava insegnando loro convivere con questo Covid e dove li avrebbe portati e che tipo di bagaglio si stavano costruendo per viaggi futuri.
In quel momento di arresto scoprirono e ri-scoprirono risorse individuali e di comunità: appartenenza, creatività e resilienza” (Giulia).
“Sono partita con la leggerezza e il sorriso, ci credevo poco. All’inizio facevo tutto un po’ in automatico e attendevo il nuovo giorno come portatore di aria fresca, diversa. Quando ho iniziato a comprendere la direzione verso cui stavo andando, ho percepito l’ombra e l’oscurità dei miei pensieri, mi sono fatta ingoiare da essi e ho sentito l’agitazione addosso. Cos’è la morte? Cosa succederà stasera? E domani? Cosa succederebbe se io morissi? Come starebbero i miei? E se a morire fossero loro? O Leonardo? Io e lui abbiamo tutta una vita da vivere ancora insieme… Stop. Non voglio buttare via questi pensieri, voglio farmene qualcosa. Perché non prendere questo tempo per ascoltarmi e riflettere su di me? Cogliere la possibilità di un contatto intimo con me stessa, con la mia vita… E allora in questo viaggio, che è appena iniziato, posso già individuare alcune parole chiave su cui rimanere, soffermarsi: lentezza, contatto, amore, puro, umanità, riscoperta” (Claudia).
“Siamo salpati da un porto sicuro e conosciuto verso una destinazione ignota. La flotta si è dispersa nel mare in tempesta, attraversiamo acque profonde, cerchiamo di evitare le secche, speriamo in un buon vento in poppa. Seguiamo la corrente, non ci accaniamo a forzare la barra del timone perché potrebbe spezzarsi. Ci abbandoniamo alla corrente e arriveremo a destinazione” (Matteo).
“La vita è un viaggio. Un viaggio che può essere vissuto come avventura, come ricerca di sé o di un altro, come possibilità o come semplice esperienza ordinaria. In ogni caso, è un viaggiatore colui che lo percorre. All’interno di un viaggio ci sono tanti viaggi quanti il viaggiatore riesce a coglierne. Potrà, anche oggi, dire di essere in viaggio, se vuole. Certo, non un viaggio a cui si è preparato o uno di quelli che pianifica con la massima attenzione, ma pur sempre un viaggio. Intendo dire che può viaggiare anche stando fermo a casa propria. Potrebbe, per esempio, andare a conoscere sé stesso. E, alla fine di questo andare, non è importante che torni o meno al punto di partenza ma che possa comprenderne l’andata, ed eventualmente il ritorno. Respirerà, allora, ciò che di più bello il viaggio ha: il viaggio stesso” (Lucrezia).
“È strano trovarci di fronte ad uno “spazio vuoto”, il nostro. E riflettere su quante volte è stato riempito da cose non sentite come nostre a tutti gli effetti, addirittura molte volte imposte. È cosa impegnativa guardarsi dentro e cogliere l’opportunità di riempire questi momenti di qualcosa di diverso e di veramente nostro, però è anche una possibilità unica che ricade dentro al nostro margine di scelta. Possiamo immergerci nello sperimentare cosa significa “stare scomodi” dentro noi stessi, senza avere la scusa del “non ho tempo per…”. Ed assaporare il piacere di riprendere un libro letto tanti anni fa, cercando di ricordare le sensazioni provate al tempo. E chiedersi: chi sono io, ora? E come ero, allora? E in quale direzione voglio andare? E imparare a destreggiarci nella nostra solitudine, affinché diventi una opportunità” (Elisa).
“Siamo tutti insieme in una barca. La popolazione ha eliminato ogni differenza e si è ritrovata, più o meno dall’oggi al domani, nella stessa barca. Una barca in mare aperto che ondeggia in mezzo alla burrasca delle informazioni esterne. Quando arriveremo al porto? Quando calerà il vento? E intanto ogni persona a bordo della barca cerca un modo per restarci. Abbandonata l’idea che torneremo presto al porto, si pensa ad un modo per convivere dentro uno spazio così piccolo tutti insieme. Si riscoprono così i legami, le passioni, si assapora la bellezza della calma ma si riflette anche tanto sul tempo e soprattutto sulla qualità di ciò che fino ad ora avevamo dato per scontato. Sembra come se dopo tutto ciò, saremo in grado di apprezzare di più ciò che fino ad ora criticavamo, giudicavamo e non ci piaceva fare.
Dicono che in un viaggio non si debba mai tornare uguali a come si era partiti; ecco credo che alla fine di questo viaggio saremo tutti un po’ diversi” (Ludovica).
“Il mio ultimo viaggio è in un altro posto esteticamente simile ad un mondo parallelo, in cui io proseguo le mie abitudini ma il mondo intorno a me è diverso, sento la natura come mai ho sentito, è un posto dove sento gli uccellini cinguettare e vedo gli scoiattoli attraversarmi la strada. Per entrare in questo mondo devo presentare il “passaporto”. È silenzioso, è proprio di una cultura diversa, non ci sono luoghi di culto dove le persone si riuniscono, ognuno prega nella sua dimora, non ci sono le confusioni del traffico, non ci sono neanche le persone, ma le case sì, quindi presumo che dentro ci abiti qualcuno. Ho letto su qualche guida che se sei fortunato puoi assistere a delle manifestazioni dai balconi; nella mia cultura si scendere in piazza, qui le piazze sono vuote” (Elisa).
“Nel nostro cammino abbiamo incontrato un ostacolo sconosciuto, che ha creato parecchio scompiglio, paura, divisione, morte. Forse prima non prestavamo particolare attenzione al modo in cui abbiamo viaggiato e ora siamo sorpresi delle conseguenze. Il Coronavirus sembra una montagna invalicabile, ma percorrendo tutti assieme il sentiero, aiutandoci (chi conosce la parte rocciosa attrezzerà la via di arrampicata, chi conosce il ghiaccio farà strada in cordata, chi conosce la neve farà la traccia), potremmo arrivare in cima alla montagna, anche chi è poco allenato o chi non è esperto. Certo, serve da parte di tutti un atto di coraggio e di umiltà e soprattutto è utile che i navigatori esperti si prestino all’opera, tanto quanto i non esperti seguano le indicazioni. Non so come si concluderà questo viaggio, ma spero che possa insegnarci molto. Non so nemmeno se riusciremo a viaggiare insieme e coordinati, ma spero che almeno ognuno possa raggiungere una maggiore consapevolezza della direzione che sceglie, abbandonando il pilota automatico e prendendosi la responsabilità dei propri passi, che poi saranno parte del cammino comune” (Giulia).
“Immaginare il Coronavirus come fosse un viaggio ci permette di superare la paura e affrontare l’ignoto con speranza. Possiamo tornare ad avere il tempo per imparare e apprendere cose nuove, possiamo cambiare la nostra routine, il nostro modo di socializzare e di entrare in relazione con il nuovo senza però cambiare noi stessi. Non dobbiamo unicamente chiuderci dentro casa e aspettare ma possiamo… possiamo trovare il tempo per tutte quelle cose spesso poco considerate in precedenza: “possiamo” questa è la chiave, possiamo tutto solo nel rispetto degli altri” (Alessandro).
“Scorgo all’orizzonte qualcosa di nuovo arrivare, se lo osservo bene vedo che porta con sé molta sofferenza, molta incertezza, tutto questo inevitabilmente mi fa molta paura, se però mi fermo a pensare che è solo e noi invece al mondo siamo tanti mi rendo conto che tutti insieme, mano nella mano, possiamo andargli incontro per cercare di comprendere cosa vuole dirci provando così a vedere oltre, oltre la paura. Siamo vivi, accogliamo questa nuova opportunità, sentiamoci parte di una nuova umanità” (Francesca).
“È come se fosse un viaggio dentro se stessi, per ascoltarci e ritrovarci. Lo stare in casa causato dall’emergenza sanitaria è vissuto come occasione per prendersi tempo. Tempo per noi, per trasformare le nostre abitudini: leggere, fare arte, riposare, cucinare, fare esercizi, dedicarsi all’ascolto autentico degli altri, creare spunti di riflessione, nuovi stimoli e discussioni. Tutto ciò accresce il nostro bagaglio e le nostre esperienze e fa sì che si possa trarre qualcosa di buono nonostante la situazione difficile” (Annalisa).
“Improvvisamente tutto è fermo. Il mondo intero è in una condizione in cui non si è mai trovato prima. Fermarsi, ma chi ci ha mai pensato? I viaggi a cui eravamo abituati erano piccoli e frequenti, frenetici e ridondanti, scuola, casa, lavoro, casa, sport, ora più nessun viaggio. Hanno cominciato a chiudere scuole, negozi, uffici, fabbriche e via via siamo passati da una condizione ad un’altra. Siamo passati dal rumore della città al silenzio del deserto. Ma forse se ci guardiamo bene allo specchio, non è questo ciò di cui avevamo bisogno? Di una nuova meta? Di calma, di quiete, di meno inquinamento e aria pulita? Non è forse questo un modo per reinventarsi, riadattarsi a una nuova strada? Lasciare la valigia pesante, indossare lo zaino e infilarci le cose fondamentali, a mani libere e con il peso ben distribuito ricominciare a camminare più leggeri, riapprezzando il passo lento e continuo, uno dopo l’altro, senza fretta, assaporando il paesaggio, alzando le braccia e le mani ora libere per sentire come tagliano l’aria. Riassaporare le relazioni umane, e riapprezzarle più di prima. Cosa ci lega? Cosa ci unisce? Questo nuovo viaggio ha una connotazione differente: non mira a raggiungere una meta ma è esso stesso la meta” (Giorgia).
“Il coronavirus è come una lente con cui guardare il mondo, la vita, noi stessi. Può farsi strumento di lettura che ci mostra come stavamo vivendo. Ci porta a fermarci. E questa pausa sembra interrompere un flusso che aveva acquistato un senso di naturalezza e che forse davamo per assodato. È così che si vive, e basta. Questo fermarsi diventa specchio con cui guardarsi dentro e prestare attenzione anche a chi abbiamo accanto. È chiedersi ma dove stavamo andando? E ora? Dove andiamo?
È uscire dall’ovvio per riacquistare una capacità di ascolto dove forse ciò che era “scontato” non lo è affatto. È guardare al nostro bisogno di controllo e vedere la nostra difficoltà tutta umana di accogliere la vulnerabilità, dove il controllo non è più strumento infallibile e il “tempo in pausa” letto molto spesso come “perdita” può diventare valore acquisito. Una pausa per riaprire alla riflessione e alla costruzione di possibilità di “stare al mondo e nel mondo” in una maniera anche diversa. Una pausa che vive nella separazione occasione di incontro e unione. Dove ciò che si considerava limite e divisione (come le tecnologie) acquisisce un senso di contatto autentico, dove il mezzo è solo il mezzo ma ciò che resta sono le persone. Il coronavirus più che terrorizzare forse, per contrasto, può far amare di più la nostra umanità, fatta di mani che ritornano ad impastare il pane e cuori che cantano dai balconi con un grande desiderio di riabbracciarsi e di tornare a vivere di nuovo, in un futuro che ha il sapore della scelta, della libertà, di una libertà che sa di conquista ma questa volta raggiunta insieme” (Beatrice).
“Ho riscoperto le piccole cose, come andare in terrazzo e guardare gli alberi e la laguna, assaporando l’odore salmastro. In questo viaggio la mia famiglia allargata rimane sempre unita e abbiamo trovato nuovi modi per comunicare, fare attività tutti insieme e condividere esperienze e risate. Sto vivendo la convivenza nel senso proprio stretto del termine, e sta andando bene. Almeno sappiamo che stando a stretto contatto tutti i giorni stiamo bene, chissà poi come sarà. È un viaggio che durerà a lungo e sarà sicuramente pieno di ostacoli, ma il pezzo affrontato finora mi lascia un po’ di punti fermi. Chissà che questo viaggio sia il punto di partenza per dei cambiamenti importanti” (Elena).
“Esattamente un mese fa è iniziato questo viaggio, un po’ strano. Forse non eravamo molto equipaggiati, qualcuno l’ha fatto strada facendo, prendendo tutto il necessario per vivere questa nuova avventura. Ci si chiede quale sia la direzione. Ci si chiede dove ci porterà questo viaggio con la consapevolezza che qualcosa sarà cambiato. Il viaggio, adesso, si farà sempre più lungo e duro. Riusciremo mai a vedere la terra ferma?” (Federica).
3. Illustrazioni
3.1. Isole cittadine[4]
In questa nostra condizione di isolamento abbiamo maturato un senso d’apertura introspettiva, che ci porta ad indagarci e metterci in relazione con il piccolo luogo che ci racchiude. Una solitudine condivisa che ci fa forza, perché sentiamo di viaggiare accanto ad altri corpi invisibili che con noi spartiscono tensioni e paure,
alla stessa velocità, usando le medesime nostre armi.
3.2. Virus senza fili[5]
Bibliografia
Kelly, G. A. (1955). The psychology of personal constructs (vol. 1-2). New York, NY: Norton.
Mair, M. (1987). Kelly, Bannister e una psicologia che racconta storie. (E. Minissi, traduzione italiana) Intervento presentato al VII Convegno di Psicologia dei Costrutti Personali, Memphis, Tennessee, U.S.A. Consultato da http://www.oikos.org/mairstoria.htm
- “Sequenze”, opera originale di Sara Tamarin ed Elena Nicoletti, è consultabile al link:https://www.instagram.com/p/B-89Rh8gcV0/?igshid=db6uggacnufd ↑
- Sara Tramarin è Graphic Designer e fotografa specializzata nel settore moda, comunicazione e design. Conduce corsi di formazione di grafica, fotografia e arte-terapia. Attrice in due compagnie teatrali e tutor di teatro-terapia per ragazzi con sindrome di Down. saratramarin.design@gmail.com. ↑
- Elena Nicoletti è musicista e insegnante di musica, ha alle spalle un’intesa attività concertistica in formazioni cameristiche e orchestrali. Attualmente è primo violino del quartetto d’archi al femminile “Les Fleurs Ensemble”. elenic86@gmail.com. ↑
- Elena Colombini è una designer ed illustratrice laureata allo IUAV di Venezia. Con 5 anni di esperienza alle spalle nel campo del Footwear design ed Industrial design lavorando per Drop Soup Studio, decide di specializzarsi nella grafica ed illustrazione, co-creando un brand, “inchiostro and paper”, per il quale si occupa della progettazione ed illustrazione di tutti i prodotti. Nel frattempo diventa co-founder di Metodozero, studio e spazio creativo ed innovativo, nel cuore di Padova. Nel 2020 instaura diverse collaborazioni con aziende della Silicon Valley quali SFCDI e Dreamship, lavorando a progetti inerenti il Computational Design. elena.colombini.k@gmail.com. ↑
- Stellapigna (Stella Tono) è un’illustratrice e creativa italiana. Nasce a Padova e studia graphic design e comunicazione visiva all’università IUAV di Venezia. Le sue illustrazioni mixano palette colore piene e vibranti a pennellate “bold” e dinamiche; sentimenti, stati d’animo e relazioni sono centrali nelle figure che le compongono. La sua esperienza si arricchisce inoltre di interessanti conoscenze nel mondo fashion e sneaker con particolare predisposizione verso la street culture anni ’80-’90, la stampa su tessuto e la customizzazione in generale. stellapigna@gmail.com. ↑
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