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Il costruttivismo in psicologia e in psicoterapia

di Gabriele Chiari

di

Francesca Del Rizzo

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

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Gabriele Chiari è stato, assieme a Maria Laura Nuzzo, il primo a fare conoscere George Kelly in Italia, insegnandone la teoria, traducendo volumi fondamentali della Psicologia dei Costrutti Personali e poi pubblicando suoi contributi originali nei quali ha progressivamente elaborato una sua prospettiva sui “costruttivismi” che ora ha sintetizzato nel suo ultimo libro: Il costruttivismo in psicologia e psicoterapia.

L’ho letto con grande avidità, appena uscito, ed ho avuto quindi modo di ri-guardare al costruttivismo attraverso lo sguardo di Gabriele, che mi ha restituito, con grande pulizia e rigore teorico, la sua costruzione delle varie teorie: dalla teoria dell’autopoiesi di Maturana e Varela al costruzionismo di Gergen, dalla cibernetica di von Foerster alla psicologia narrativa. Certo, io non sono probabilmente titolata per esprimere giudizi sullo stile di Gabriele, però da sua ex allieva posso dire di aver goduto della sua capacità di rendere comprensibili e chiari – anche a chi è digiuno di costruttivismo – i concetti più complessi, di trovare la parola giusta ed il fraseggio adeguato a veicolare ragionamenti di per sé non troppo semplici. Ho ritrovato tutto ciò anche in questo libro e credo sia un grande pregio. Tuttavia, nonostante lo stile espositivo così efficace ed il linguaggio molto comprensibile, il libro può essere goduto appieno soprattutto da chi il costruttivismo un po’ già lo conosce: è infatti denso di informazioni – l’apparato bibliografico è ricchissimo ed accurato – ma è anche sintetico, per cui i contenuti si susseguono a ritmo incalzante e rischiano di creare nel neofita confusione e sovraccarico.

La confusione peraltro può sorgere anche nel lettore più esperto di fronte alla scelta di inserire le teorie fenomenologiche all’interno del capitolo dal titolo “La `via di mezzo’ della conoscenza: la concezione costruttivista”. Se infatti le riflessioni di Bill Warren (1993), Trevor Butt (1988a, 1988b, 2003) e dello stesso Chiari in collaborazione con Maria Armezzani (2014a, 2014b) hanno permesso di constatare come l’approccio fenomenologico e quello costruttivista abbiano delle importanti comunanze, inserire un paragrafo sulla fenomenologia nella sezione dedicata al costruttivismo può assumere un significato

diverso, diverso forse da quello inteso dallo stesso Gabriele. Un po’ come se uno zoologo trattasse dei mammiferi marini nello stesso capitolo in cui scrive dei pesci, sulla base del principio che entrambi hanno le pinne e nuotano. È sicuramente molto interessante per noi posteri osservare (ed anche cercare di comprendere) come, in segmenti temporali parzialmente sovrapponibili, ai due lati dell’Oceano Atlantico si siano sviluppate, indipendentemente l’una dall’altra, due teorie sull’esperienza umana che condividono così tanti aspetti; ma credo sarebbe forse stato più utile mantenere, nell’organizzazione del libro, una distinzione più marcata fra costruttivismo e fenomenologia. Sottolineare le specificità e le differenze, oltre agli aspetti di comunanza, fra il costruttivismo kelliano e la fenomenologia, in particolare Husserl, credo sia importante proprio per poter apprezzare la ricchezza di entrambe, e quindi l’identità, e per poterle eventualmente accostare, non tanto alla ricerca di corrispondenze o differenze punto a punto, quanto di stimoli per l’elaborazione di idee nuove, come peraltro affermano Armezzani e Chiari (2014b): “il nostro confronto [fra Husserl e Kelly] è uno sguardo in filigrana che fa apparire le somiglianze oltre la prima vista, cercando di non snaturare l’originalità e la peculiarità di entrambe le prospettive” (p. 151).

In “Il costruttivismo in psicologia e psicoterapia” viene correttamente enfatizzato il rapporto molto stretto fra filosofia e teorie psicologiche costruttiviste. Chiari delinea alcuni passaggi nel pensiero filosofico precedente al costruttivismo in senso proprio (che possiamo far nascere con Piaget e Kelly, ma che prosegue poi con Maturana e Varela) in cui si possono trovare dei “germi” del costruttivismo stesso, o addirittura degli antecedenti diretti, come nel caso del pragmatismo americano. Naturalmente la ricostruzione storica è importante per capire il “da dove veniamo”, quali siano l’origine e l’evoluzione di questo tipo di pensiero. Tuttavia il legame tra filosofia e costruttivismo non si riduce a questo, non si tratta solo di delineare una genealogia per il/i costruttivismo/i: il costruttivismo psicologico in generale, e la PCP in particolare, sono infatti teorie psicologiche che apertamente prendono posizione su questioni filosofiche, anzi, potremo forse dire che si fondano proprio sul tentativo di dare una risposta psicologica ai due grandi problemi filosofici: cosa sia “ciò che è” e cosa sia “ciò che conosco”. Ed è con Piaget, con la sua epistemologia genetica, che tutto questo prende esplicitamente inizio. Piaget dichiara e teorizza come le categorie fondamentali con cui noi comprendiamo e diamo senso al mondo abbiano origine non in un mondo extraterreno, in un Dio che le ha infuse fatte e formate nella nostra razionalità, né provengano dall’esperienza che le imprimerebbe nelle nostre passive facoltà sensibili, ma come siano invece il frutto dell’incontro, nel corso della crescita e dello sviluppo di ciascuno di noi, di alcune nostre dotazioni di partenza – poi via via modificate – con l’ambiente, in un gioco-dinamica di assimilazione ed accomodamento che ha come risultato la creazione di schemi, prima senso-motori, poi di pensiero, che ci permettono di agire in maniera sufficientemente efficace nel mondo in cui viviamo (Piaget, 1967; Ceruti, 1989; von Glasersfeld, 2014).

Il costruttivismo, fin da Piaget, dice quindi che non possiamo dire semplicemente cosa sia “ciò che è” perché dobbiamo considerare “ciò che siamo” e quindi ricordare che, in fondo, abbiamo sempre e solo a che fare con “ciò che conosciamo”. Nelle parole di Chiari e Nuzzo (1996): “l’etichetta di costruttivismo psicologico dovrebbe essere limitata a quell’insieme di teorie e di approcci che si sforzano di trascendere la tradizionale opposizione tra realismo ed idealismo adottando l’assunto metateorico che la struttura e l’organizzazione di ciò che è conosciuto – compreso il conoscitore come conosciuto – sono inestricabilmente legate alla struttura di colui che conosce” (p. 178; nella traduzione data da Chiari, 2016, p. 107).

Guardando quindi a ciò che noi chiamiamo “la realtà” secondo una prospettiva costruttivista, la distinzione fra ontologia ed epistemologia semplicemente perde di senso. Potremmo considerarla una domanda mal posta, un quesito irrisolvibile. Nelle parole di von Glasersfeld (1991), “il costruttivismo riguarda il processo di conoscenza, non l’essere” (trad. di Chiari, 2016, p. 17) ed ancora: “da costruttivista non ho mai detto (né avrei potuto dire) che non esiste un mondo ontico, ma continuo a sostenere che non possiamo conoscerlo” (ibidem).

In questo senso ho molto riflettuto sulla distinzione che Chiari e Nuzzo in vari contributi hanno proposto fra costruttivismo epistemologico e costruttivismo ermeneutico e che Chiari riprende nel libro. Secondo Chiari (2016), “i costruttivisti epistemologici abbracciano un realismo ontologico in quanto riconoscono l’esistenza di una realtà esterna; tuttavia sul piano epistemologico, ritengono che non sia possibile conoscere tale realtà, ma solo costruire in modi personali l’esperienza che se ne può avere” (p. 108). A me sembra che, per le ragioni elencate sopra, semplicemente Chiari non possa dire che i costruttivisti, in

generale, a prescindere dalle sub-distinzioni, abbraccino un realismo ontologico. Se così fosse non sarebbero costruttivisti, secondo la sua stessa definizione. Kelly viene inserito fra i costruttivisti epistemologici e altrove si dice: “sebbene Kelly non riesca a superare l’opposizione realismo/dualismo e mantenga la distinzione ontologica tra eventi e costrutti, è disposto però ad attribuire a questi ultimi uno statuto di realtà che nessun naturalista concederebbe” (Armezzani & Chiari, 2014, p. 154). A tal proposito sento di voler fare alcune riflessioni: da un certo punto di vista ed in un certo senso – nella misura in cui cioè la psicologia dei costrutti personali venga applicata rigorosamente ed autoriflessivamente su se stessa – Kelly non può che essere “dualista”. Poiché infatti, secondo la teoria, le nostre discriminazioni (i costrutti) sono dicotomiche, anche il pensiero di Kelly non può che procedere per dicotomie. Ma la differenza fra Kelly ed i dualisti è la carica ontologica delle sue affermazioni. Quando Kelly parla di “realtà” sa che si sta riferendo ad un suo costrutto, a “ciò che conosce”, e ciò che conosce non può che essere organizzato per dicotomie. Quando i non-costruttivisti parlano di realtà spesso si riferiscono invece a “ciò che è”, hanno la pretesa di dire il “ciò che è”.

Credo che, rimanendo rigorosamente kelliani, non possiamo mai pensare di poter trascendere il nostro conoscere attraverso dicotomie. Ma questo non significa che la distinzione di Kelly fra eventi e costrutti sia ontologica: gli eventi sono già dei costrutti. Nel momento in cui operiamo una distinzione fra eventi e costrutti stiamo semplicemente distinguendo fra costrutti subordinati e costrutti superordinati all’interno di un sistema di costruzione. E nuovamente, la dicotomia tra soggetto ed oggetto è una costruzione, non si riferisce ad altro se non che a costellazioni di costrutti presenti nella nostra esperienza.

Condividendo la definizione di Chiari data sopra, proporrei quindi di considerare Kelly semplicemente “costruttivista” e il “costruttivismo epistemologico” semplicemente “costruttivismo”. E credo che questo tipo di costruttivismo sia davvero un tertium datur, un modo diverso di comprendere “il reale” rispetto a idealismo e realismo. In questo non sono d’accordo con quanto proposto da Chiari, e cioè che il costruttivismo ermeneutico sia la sola, vera “terza via” della conoscenza. Veniamo quindi al “costruttivismo ermeneutico”. Esso, nelle parole di Chiari, “considera la conoscenza (e la verità) come «un’interpretazione storicamente fondata anziché immutabile, contestualmente verificabile anziché universalmente valida, e linguisticamente generata e socialmente negoziata anziché cognitivamente e individualmente prodotta»” (Chiari & Nuzzo, 1996, citato e tradotto da Chiari, 2016, p. 109). Questo tipo di costruttivismo è effettivamente altro dal costruttivismo così come definito sopra. Che ne sia una specificazione è un possibile interrogativo. La differenza, a mio avviso, sta nel vedere la conoscenza come “linguisticamente generata”. Nella definizione di costruttivismo di Chiari (cfr. più sopra) non si fa nessun riferimento ad una conoscenza di tipo linguistico, ma si parla in generale di conoscenza e nella teoria kelliana (il costruttivismo da cui parte Chiari stesso) i costrutti non sono né linguistici né non linguistici, sono discriminazioni: “human discrimination may take place also at levels which have been called ‘physiological’ or ‘emotional’. Nor is discrimination necessarily a verbalized process. Man discriminates even at a very primitive and behavioral level[2] (Kelly, 1969a, p. 219). I costrutti verbali sono discriminazioni cui si accompagna un’etichetta verbale, ma non esauriscono la gamma dei possibili costrutti comunque conoscibili, poiché nella PCP “esistono” anche i costrutti non verbali, discriminazioni che originariamente non nascono con un’etichetta verbale. Dal mio punto di vista la scelta kelliana è importante, sia perché permette di costruire – con eleganza ed economia, ovvero fondandosi su un unico tipo di processo conoscitivo – i processi di costruzione di un lattante così come quelli di uno scienziato o di un letterato (e nella mia esperienza clinica anche di una creatura non umana come i cavalli – ma questo è forse un ampliamento del campo di pertinenza della PCP che qualcuno può considerare troppo audace); ma anche perché permette di assumere di fronte alla dicotomia mente/corpo una prospettiva del tutto originale su cui in seguito tornerò. Inoltre, e conseguentemente, vedere la conoscenza come frutto di discriminazioni operate nell’esperienza consente di concepire l’impresa terapeutica come una co-costruzione in cui paziente e terapeuta sono impegnati non solo sul piano linguistico e verbale, ma anche non verbale. Dal punto di vista della PCP essenzialmente la terapia è esperienza nella relazione. Solo una parte di questa esperienza viene verbalmente etichettata. Ciò consente di costruire teoricamente come il ruolo terapeutico non si esaurisca né nel “dire cosa” né nel “dire cosa e come”, ma abbia a che fare con il “fare” in senso lato, con un agire che, a partire dal setting terapeutico come luogo fisico, coinvolge l’intera corporeità del terapeuta, l’intero suo “essere nel mondo”. Ed altrettanto si dica per il paziente. Butt (1988a) afferma: “the bodily involvement in playing a role, along with the interactions it entails, leads to a knowledge of that role position that may or may not be spelled out in language”[3] (p. 113). Questo consente di concepire la terapia attraverso il gioco ed anche con bambini molto piccoli, la terapia con persone linguisticamente compromesse, con persone con cui la comunanza di significati espressi attraverso il linguaggio può essere molto bassa (per intendersi con linguaggio psichiatrico, certi schizofrenici); ma in senso lato ci permette di costruire come sia terapeutico proprio l’assetto globale del terapeuta, assetto espresso congiuntamente e contemporaneamente attraverso parole, gesti, sguardi, silenzi, abiti, movimenti. Citando ancora Butt (1988b), “perhaps the greatest opportunity for creating new existential projects are to be found in the client-patient relationship. In the therapy session, it is in clients’ behavior that the therapist sees their questions, rather than in their verbal material[4] (p. 279).

Certo anche considerare la conoscenza come linguisticamente generata è chiaramente una scelta teoretica che ha delle implicazioni sul fronte terapeutico. Considerare la conoscenza come linguisticamente fondata implica che la terapia sia altrettanto linguisticamente fondata, ovvero che la terapia possa essere considerata in una dimensione solo verbale, narrativa. Infatti Chiari afferma (2016): “ritengo di poter far rientrare in questa metafora [della terapia come elaborazione conversazionale] anche la mia proposta di una psicoterapia costruttivista ermeneutica, che si colloca all’interno delle sempre più numerose proposte di concepire la terapia come una conversazione atta a favorire nel paziente una reinterpretazione della sua costruzione personale dell’esperienza” (pp. 205-206). Una reinterpretazione che, per essere rigorosi, non può essere che linguistica.

A mio avviso questa scelta, assolutamente legittima, è effettivamente una forma di costruttivismo diversa dal costruttivismo kelliano, ma non perché Kelly mantenga una posizione dualista che il costruttivismo ermeneutico invece supera, ma perché il costruttivismo ermeneutico sceglie di costruire la conoscenza come linguisticamente fondata e Kelly no.

Un ulteriore importante interrogativo mi si è posto di fronte all’affermazione di Chiari (ibidem): “la conoscenza e la realtà emergono dall’intersoggettività: sono in una relazione di complementarietà, e un’immediata esperienza del mondo precede qualsiasi spiegazione e distinzione, qualsiasi costruzione di quella stessa esperienza” (p. 109, già in Chiari & Nuzzo, 2000; corsivo mio). Il mio interrogativo è: è possibile esperienza senza alcuna forma di distinzione (nei termini di Maturana e Varela) o costruzione (in termini kelliani)?

Un’ultima grossa implicazione di queste diverse scelte teoriche è, come ho già in qualche modo accennato, il modo di trattare la questione della dicotomia mente/corpo, in particolare in riferimento al riduzionismo ed alla natura delle cosiddette patologie psicosomatiche.

Chiari affronta lo snodo mente/corpo nel capitolo Un nodo controverso con una premessa rigorosamente costruttivista, richiamandosi sia alle riflessioni di Kelly (1955) e di Bannister (1968) che a quelle di Maturana (1993). Entrando nel merito delle “malattie psicosomatiche” egli introduce la prospettiva di Graham (1967; 1972). Questa teoria vede il linguaggio psicologico e quello fisiologico come linguaggi paralleli e sulla base di questo parallelismo linguistico sostiene che sia possibile andare alla ricerca di un parallelismo fra patologie e significati (definiti atteggiamenti).

Gli eventi che [il medico] osserva [in un paziente] di per sé non sono né fisici né psicologici. Sono i modi di descrivere e discutere gli eventi ad appartenere ad una di queste categorie (o ad altre). Il problema mente-corpo, quindi può essere considerato la questione su come i linguaggi fisico e psicologico siano in relazione l’uno con l’altro. […] Il punto cruciale è che per descrivere esattamente lo stesso evento possono essere usati linguaggi differenti. (Graham, 1967, traduzione di G. Chiari, 2016, pp. 177-178)

Questa citazione ci permette di sollevare una prima questione: se non si precisa di trovarsi all’interno di una cornice epistemologica costruttivista, il riferimento agli “eventi” rischia di riportarci in una posizione ontologica dualista per cui “esistono” gli eventi e poi ci sono i linguaggi che ne parlano (direi una riedizione di realismo critico). E quindi l’operazione di considerare la teoria di Graham come un modo per far uscire dalla porta eventuali posizioni dualiste alla fine ce le fa rientrare dalla finestra. Inoltre l’ulteriore riferimento agli eventi nell’espressione “lo stesso evento” ci mette di fronte ad un altro problema. Si tratta veramente dello stesso evento? All’interno della prospettiva costruttivista un evento è una costruzione e la costruzione è il prodotto di un’operazione di discriminazione fatta da una certa persona, o da un certo sistema di costruzione. Siamo sicuri che il mal di pancia di cui mi parla Antonio sia lo “stesso evento” mal di pancia di cui parla il suo medico o lo “stesso evento” mal di pancia di cui parla il suo terapeuta? Possiamo essere certi che tutti e tre usano la stessa etichetta linguistica, ma i significati che le si attagliano sono gli stessi? Ed ha senso parlare di un evento separandolo dai significati che porta con sé? Tornando a Graham, quando un medico guarda al mal di pancia di Antonio vede davvero la stessa “cosa” dello psicoterapeuta? O non è invece che quella “cosa” è già carica della teoria che il medico, o lo psicoterapeuta, portano con sé?

Io dubito della possibilità di definire questi due linguaggi (così come altri, ad esempio lo psicologico e lo spirituale) come paralleli. Ipotizzo che Kelly abbia scelto di non teorizzare alcun tipo di relazione fra linguaggio psicologico e fisiologico per ragioni simili. Ogni linguaggio, sia esso scientifico o meno, è carico di teoria ed ogni teoria è carica di presupposti. La fisiologia, in particolare, è una scienza i cui presupposti si fondano su un’ontologia realista (e su un’epistemologia che Kelly ha definito frammentalismo accumulativo) e gli eventi vengono messi fra loro in relazione attraverso legami causa-effetto che scientificamente ne spiegano le dinamiche. I presupposti della psicologia in senso lato non sono definibili, poiché essi dipendono dalla teoria psicologica cui si fa di volta in volta riferimento, ma per quanto riguarda il costruttivismo (come noto ed ampiamente documentato più sopra) essi sono molto diversi da quelli della fisiologia. Peraltro, nel definire gli atteggiamenti che vengono messi in parallelo con le patologie, Graham usa descrizioni che somigliano più ad espressioni di senso comune che a formulazioni tecniche di natura psicologica. Queste descrizioni sono il risultato della rielaborazione dei ricercatori su materiale clinico ricavato da molte interviste raccolte nel corso di anni. Quindi di quale linguaggio psicologico stiamo parlando?

A me sembra che, proprio perché si colloca al di fuori di un’epistemologia costruttivista, la teoria di Graham rimane una psicosomatica dualista che ha la necessità di rimettere in qualche modo assieme quello che è stato separato: la patologia così come definita dal punto di vista medico ed i vissuti delle persone.

La prospettiva inaugurata da Kelly è completamente diversa. Per Kelly ogni comportamento è un esperimento, il frutto di una scelta elaborativa, un interrogativo posto al mondo ed a se stessi (Kelly, 1969b). Ciò vale per il lancio di una palla, un mal di pancia, una lettura prelativa del mal di pancia, un profondo senso di scoramento o l’esplorazione più sfrenata. Come psicologi e terapeuti costruttivisti siamo interessati a queste domande, esperimenti, scelte, a ciò che significano per ciascuna persona, a dove la conducono e a dove non la conducono. Sussumiamo le sue costruzioni, fisiche o psicologiche che siano, grazie al nostro sistema di costruzione professionale e non abbiamo bisogno di aderire ad esse (Kelly, 1955). Possiamo scegliere di darci l’opportunità di guardare a ciò che la persona ci racconta anche attraverso prospettive diverse (ad esempio anche quella medica) e saggiarne la predittività, optando infine per la costruzione professionale che ci sembra maggiormente utile per il paziente ed elaborando assieme a lui una costruzione della sua sofferenza che gli possa permettere di elaborare il suo sistema (Centomo e Del Rizzo, 2016).

In conclusione ritengo il libro di Gabriele Chiari un’ottima lettura, una lettura che invita all’approfondimento ed al dialogo e che sicuramente sollecita il lettore a chiarire le sue stesse posizioni teoriche, a discuterne il rigore e la precisione. Una lettura che apre molte questioni e quindi sicuramente un contributo di valore all’elaborazione del costruttivismo in psicologia e psicoterapia.

 

Bibliografia

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Armezzani, M., & Chiari, G. (2014b). Idee per una elaborazione ed interpretazione fenomenologica della psicologia dei costrutti personali. Parte II. Husserl e Kelly: un caso di comunanza. Costruttivismi, 1, 150-167. Consultato da http://www.aipc.it/costruttivismi/numero-2

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Centomo, C., & Del Rizzo, F. (2016). “Mom I have stomachache, I can’t go to school!” Mind and body from a PCP point of view. Paper presentato al 13th Biennial Conference of EPCA – European Personal Construct Association, Galzignano (PD), Italy, 7th-10th July, 2016.

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Chiari, G. (2016). Il costruttivismo in psicologia e in psicoterapia. Il caleidoscopio della conoscenza. Milano: Raffaello Cortina Editore.

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Note

  1. Chiari, G. (2016). Il costruttivismo in psicologia e psicoterapia. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  2. “Le discriminazioni operate dagli umani possono avvenire anche a livelli che sono stato chiamati “fisiologici” o “emozionali”. E la discriminazione non è necessariamente un processo verbalizzato. L’uomo discrimina anche ad un livello molto primitivo e comportamentale” (traduzione dell’Autore).
  3. “Il coinvolgimento corporeo implicato nel giocare una relazione di ruolo, assieme alle interazioni che ciò comporta, porta ad una conoscenza relativa a quella posizione relazionale che può o meno essere espressa attraverso il linguaggio” (traduzione dell’Autore).
  4. “Forse le maggiori opportunità per la creazione di nuovi progetti esistenziali si possono trovare all’interno della relazione cliente-terapeuta. Nel corso delle sedute di terapia è nel comportamento del cliente, piuttosto che nei contenuti verbali da lui espressi, che il terapeuta vede incarnate le questioni del cliente stesso” (traduzione dell’Autore).