Tempo di lettura stimato: 25 minuti
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La psicologia dello sport dal punto di vista comprensivo della Psicologia dei Costrutti Personali

Sport psychology from a comprehensive PCP point of view

di

Francesca Del Rizzo

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

Il campo di pertinenza della Psicologia dei Costrutti Personali (Kelly, 1991) è molto ampio e ne fa parte anche la psicologia dello sport. In passato, grazie in particolare ai contributi di Richard Butler (1997; 2000) e di David Savage (1999; 2003), ci sono stati rilevanti esempi del modo in cui l’utilizzo di alcuni strumenti di questa teoria possa aiutare a comprendere e facilitare l’esperienza di atleti ed istruttori. In questo articolo tenterò di guardare all’esperienza degli sportivi attraverso le lenti della Psicologia dei Costrutti Personali ed in particolare attraverso il Corollario della Socialità. Tenterò di delineare infatti un approccio globale all’esperienza sportiva centrato sull’uso dei costrutti professionali kelliani, approccio che poi proverò ad esemplificare attraverso l’analisi di un caso specifico.

The range of convenience of PCP (Kelly, 1991) has proved to be quite large, and one of the fields in which it can fully prove its usefulness is sport psychology. In the past, thanks in particular to the contributions of Richard Butler (1997; 2000) and David Savage (1999; 2003), we had important examples of the way in which PCP tools can help understand and facilitate athletes’ and coaches’ experiences. In this paper I will try to look at sportspersons’ experience through the lenses of PCP and in particular of the Sociality Corollary. In the first part I will outline my tentative effort to subsume athletic experience by means of PCP professional constructs. In the second part I will illustrate my constructivist approach by means of a case study.

Keywords:
Psicologia dello sport costruttivista, corollario della socialità, psicologia dei costrutti personali | constructivist sport psychology, sociality corollary, personal construct psychology
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  1. Premessa

Da tempo lavoro nell’ambito della Psicologia dello Sport. Inizialmente non è stato semplice integrare la mia formazione radicata nella Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly (1991, d’ora in poi PCP) con la letteratura scientifica ed i manuali sull’argomento, fondati invece su un approccio cognitivo-comportamentale. Lo studio di quei testi mi apriva ad un sistema professionale estremamente ricco di costrutti teorici, che sembravano indispensabili per poter costruire l’esperienza degli sportivi e che sembravano avere un grande potere esplicativo. Nei volumi di Kelly e dei colleghi di orientamento PCP trovavo invece pochi costrutti professionali, diversi da quelli mainstream, astratti, sovraordinati ma molto potenti nel favorire la comprensione dell’esperienza delle persone. Conciliare queste due visioni mi appariva allora impossibile. Di fronte alle situazioni che si presentavano a consulenza, ho tuttavia gradualmente cominciato a costruire un approccio personale al lavoro con gli sportivi, utilizzando soprattutto spunti PCP provenienti dai testi di Butler (1989; 1997; 2000) e di Savage (1999; 2003) e talvolta sussumendo, grazie alla metateoria kelliana, alcune tecniche cognitivo-comportamentali[1].

Questo articolo raccoglie alcune delle mie attuali e temporanee conclusioni. In particolare, nei prossimi paragrafi, introdurrò brevemente l’approccio cognitivo-comportamentale alla psicologia dello sport per differenziarlo da un approccio PCP. Punterò poi l’attenzione sull’esperienza di una specifica atleta leggendola attraverso gli strumenti della teoria kelliana e rifletterò su come la diagnosi transitiva (Kelly, 1991) possa essere uno strumento sovraordinato e comprensivo utile alla comprensione degli atleti. In conclusione sosterrò che la principale differenza tra l’approccio PCP e quello cognitivo-comportamentale può essere individuata nella costruzione di una relazione di consulenza basata sul Corollario della Socialità (Kelly, 1991).

Come si può comprendere, l’approccio cognitivo-comportamentale sarà uno dei riferimenti del mio procedere. Il mio obiettivo sarà infatti tentare di dimostrare che, nell’ambito della psicologia dello sport, la PCP, pur nella sua natura meta-teorica ed apparentemente astratta, può essere un’alternativa ad esso.

 

  1. Introduzione

La psicologia dello sport è un campo in espansione. È ormai parte del senso comune la consapevolezza che la prestazione eccellente sia possibile anche grazie al possesso, da parte degli atleti, di un atteggiamento mentale “vincente”. Nella ricerca, quindi, di una progressiva ottimizzazione della prestazione, atleti ed allenatori chiedono sempre più la collaborazione degli psicologi in particolare, ma non solo, per risolvere problematiche emotive o relazionali che minano il rendimento sportivo.

La risposta a questa domanda è un crescente corpo di ricerche e tecniche, collocabili principalmente all’interno di un approccio di tipo cognitivo-comportamentale: ad esempio, i costrutti teorici di riferimento sono le nozioni di motivazione, emozione, attivazione, arousal, attenzione, ansia; le tecniche di intervento utilizzate sono la ristrutturazione cognitiva, la visualizzazione e le tecniche di rilassamento, il biofeedback, il training per il controllo dell’attenzione, il controllo dei pensieri negativi ed irrazionali (Gallucci, 2014; Cei, 1998). Più di recente questi strumenti sono stati integrati con strumenti che fanno riferimento ai recenti sviluppi delle neuroscienze (neurobiofeedback) ed alle nuove tecnologie informatiche (realtà virtuale).

Secondo la Divisione 47 dell’American Psychological Association, la Psicologia dello Sport Applicata è:

Lo studio e l’applicazione dei principi psicologici della prestazione umana con l’intento di aiutare gli atleti ad avere prestazioni stabilmente al livello superiore delle loro possibilità e a godere pienamente del processo di costruzione della prestazione sportiva. Gli psicologi dello sport hanno formazione specifica e specializzata utile a svolgere un’ampia gamma di attività, inclusi l’identificazione, lo sviluppo e l’implementazione di conoscenze, competenze ed abilità emotive e mentali richieste per ottenere l’eccellenza in ambito atletico; la comprensione, la diagnosi e la prevenzione dei fattori inibenti la prestazione eccellente stabile, fattori di natura psicologica, cognitiva, emotiva, comportamentale; il miglioramento dei contesti atletici per facilitare uno sviluppo più efficiente, un’esecuzione stabile ed esperienze positive negli atleti. (APA Division 47 Practice, n.d., p. 9, T.d.A.)

Gli assunti che sembrano essere a fondamento del principale e più diffuso approccio alla prestazione sportiva mi sembrano quindi essere: una visione della persona come somma di processi cognitivi, motivazionali, emotivi e comportamentali ed una visione della pratica sportiva essenzialmente come ricerca della prestazione eccellente (vedi anche gli indici dei manuali di Cei, 1998; Spinelli, 2002; Mandolesi, 2017). Il punto di vista della Psicologia dei Costrutti Personali (Kelly, 1991) sull’esperienza che le persone fanno nell’attività sportiva e sul ruolo dello psicologo dello sport possono essere molto diversi. In ciò che segue tenterò di spiegare in che modo.

 

  1. Il punto di vista della Psicologia dei Costrutti Personali sull’esperienza sportiva

Dal punto di vista della PCP (Kelly, 1991) la pratica di uno sport può essere vista come uno degli esperimenti che le persone possono scegliere di compiere nella loro vita. A volte si tratta di un esperimento che coinvolge tutta l’esistenza, altre, invece, è ad essa periferico ed ha un carattere temporaneo. In quest’ottica assumiamo che gli obiettivi che le persone si pongono nell’ambito di questa sperimentazione siano canalizzati dalle loro costruzioni[2] e non semplicemente – ed a priori – dal desiderio di vincere o di ottimizzare la performance o la forma fisica. Utilizzando il Corollario della Scelta[3], potremmo dire che gli sportivi scelgono l’alternativa che anticipano come per loro maggiormente elaborativa e poi ricostruiscono la loro esperienza grazie alle validazioni o invalidazioni ricevute[4]. Costruendo inoltre i cambiamenti cui vanno incontro nel corso di queste sperimentazioni, essi attraversano delle transizioni[5] ed operano nuove successive scelte[6].

A partire da questo punto di vista, i concetti di “motivazione”, “emozione”, “ansia”, “arousal” possono essere visti come costruzioni il cui significato va ricercato all’interno dell’esperienza dello sportivo, piuttosto che “entità reali” individuate da una disciplina psicologica.

Distinguere tra concetti psicologici intesi come rappresentativi di “entità reali” e concetti psicologici concepiti come costruzioni teoriche utili agli psicologi per comprendere l’esperienza dei loro pazienti, ci porta a precisare come la PCP e l’approccio cognitivo-comportamentale siano diversi da un punto di vista epistemologico. Il fondamento epistemologico di quest’ultimo sembra essere il realismo critico (Chiari, 2016). Alla base di questo vi è l’implicita assunzione che esista una simmetria tra realtà e conoscenza umana: come esseri umani, grazie ai nostri processi cognitivi, costruiamo rappresentazioni di oggetti che esistono nel mondo. Se parliamo quindi di “motivazione” assumiamo di far riferimento ad un processo mentale esistente. Da un punto di vista costruttivista, invece, la “motivazione” può essere vista come un’etichetta che si riferisce ad uno dei due poli di un costrutto, cioè di una discriminazione personale o professionale, utile ad imporre ordine e prevedibilità alla propria (o altrui) esperienza[7].

Ampliare questo ragionamento anche ad altri costrutti, utilizzati sia all’interno di un gergo professionale che nell’eloquio spontaneo degli atleti o degli istruttori, porta ad aprire alla possibilità di costruire le esperienze degli sportivi in modo alternativo rispetto alla concettualizzazione mainstream. Ho raggruppato nella Tabella 1 alcuni esempi di come le esperienze degli sportivi possano essere lette in modo diverso in funzione dell’adozione di un approccio cognitivo-comportamentale o PCP. La prima colonna della tabella riporta le parole che alcuni judoka hanno utilizzato in colloquio con me per raccontare alcuni momenti della loro esperienza. La seconda colonna raccoglie i concetti che la psicologia dello sport di orientamento cognitivo-comportamentale utilizza per rendere conto di quelle esperienze. Nella terza colonna si possono trovare alcuni dei modi (che naturalmente non esauriscono affatto tutte le possibili letture) in cui quelle stesse esperienze possono essere costruite con costrutti professionali PCP.

I contenuti della terza colonna evidenziano come talvolta la costruzione professionale in termini kelliani non consista in costrutti specifici, “ad hoc”, quanto piuttosto, coerentemente con la natura meta-teoretica della PCP, combini i costrutti professionali con specifiche costruzioni personali degli sportivi. Come già sottolineato da Savage (2003), questa è una caratteristica importante e di valore dell’approccio PCP, poiché evita la creazione di nuove entità psicologiche, tendenza piuttosto comune nella disciplina, – ricordando le parole di Kelly: “Nella scienza il compito è di sovrascrivere il meno possibile sulla base di nuovi assunti e lavorare soprattutto con inferenze provvisorie” (Kelly, 1991, p. 370, T.d.A.) – e permette di guardare all’esperienza delle persone attraverso il loro sguardo.

Esperienza dello sportivo Concetti psicologici utilizzati dall’approccio Cognitivo Comportamentale Possibili costruzioni secondo un orientamento PCP
“Mi sentivo rilassato, stavo bene” (L., 17 anni, in risposta alla domanda: “Come ti sentivi prima dell’incontro?”). Arousal, attivazione (i.e. Hanin, 1980; 1989; Hanin and Spielberger, 1983). La scelta di costruire in modo lasso (vs in modo stretto) [le costruzioni lasse conducono ad anticipazioni variabili, mentre le costruzioni strette conducono ad anticipazioni invariabili (Kelly, 1991, Vol. I, p. 357, T.d.A.)].
“Mi concentro sull’avversario” (G., 17 anni, in risposta alla domanda: “Cosa fai prima dell’incontro?”).

“Ho imparato a concentrarmi, ad accendere e spegnere la lampadina” (A., 16 anni, dopo un incontro).

Attenzione, focus dell’attenzione (stretto/ampio, esterno/interno) (i.e. Nideffer, 1976). La scelta di costringere – o dilatare – su alcuni elementi del campo percettivo [il processo di dilatazione prevede un ampliamento degli elementi presenti nell’esperienza della persona momento per momento; la costrizione prevede una riduzione del numero di quegli stessi elementi (cfr. Kelly, 1991, Vol. I, p. 352)].
G., se ha un obiettivo, fa di tutto per raggiungerlo (G, 15 anni, auto-caratterizzazione). Motivazione, mancanza di motivazione (i.e. Nicholls, 1992; Vallerand, 2007). Postulato Fondamentale, Corollario della Scelta.
“Mi sento insicura e spaesata” (G., 15 anni, rispondendo alla domanda: “Come ti senti durante gli incontri in cui non riesci a dare il tuo meglio?”).

“Mi sentivo i crampi all’intestino, il mal di pancia, mi sentivo affaticata e con poca energia… non c’ero con la testa…” (A., 16 anni, dopo un incontro).

Ansia di prestazione (ansia di stato) (i. e. Spielberger et al. 1970; Martens et al. 1990). Transizioni: Minaccia [la consapevolezza di un cambiamento imminente e comprensivo nelle proprie strutture nucleari (Kelly, 1991, vol. I, p. 391, T.d.A.)], minaccia di colpa [la consapevolezza di un cambiamento imminente e comprensivo nelle proprie strutture nucleari di ruolo], ansia [la consapevolezza che gli eventi che la persona sta fronteggiando si collocano al di fuori del campo di pertinenza del suo sistema di costrutti (ibidem)].
“Mi sentivo reattiva, concentrata e grintosa” (A., 16 anni, dopo un incontro).

“Mi sento forte”, “I feel strong” (G., 16 anni, in risposta alla domanda: “Come ti senti durante gli incontri in cui riesci a dare il tuo meglio?”).

Mental toughness (i. e. Guicciardi and Jones, 2012), autostima (i.e. Martin and Murberger, 1994) fiducia in sé (i. e. Vealey, 2001), autoefficacia (Bandura, 1989). Aggressività [l’elaborazione attiva del campo percettivo (ibidem)].

Costruzione personale di sé come reattiva, concentrata e grintosa (A.) o forte (G.).

“I miei obiettivi per quella competizione erano:

1. arrivare fino in fondo

2. pensare incontro per incontro

3. ricercare la pulizia del judo”

(N., 15 anni).

Goal setting (i.e. Locke and Latham, 1985). N. sta aumentando il livello di consapevolezza cognitiva relativa al ciclo di esperienza rappresentato dalla competizione che si sta preparando ad affrontare.
“Mi sentivo sicura di me stessa e mi fidavo di me” (G., 15 anni, dopo un incontro).

“Non mi sento all’altezza della finale” (E., 23 anni).

Alta o bassa autostima, alta o bassa fiducia in sé, autoefficacia. Costruzione personale di Sé come atleta come sicura e fiduciosa (G.) o non all’altezza della finale (E.).
“Ho imparato che nessuno mi ferma: se davvero voglio raggiungere il mio obiettivo, posso vincere anche con le più grandi” (G., 15 anni, dopo un’importante competizione in cui fisicamente non stava bene). Resilienza (i.e. Galli and Vealey, 2008).

Mental toughness.

Aggressività.

Costruzione personale di Sè come un’atleta che può fare fronte alle avversità e vincere e che è in grado di competere anche con le migliori atlete della sua categoria.

“Durante l’incontro pensavo che se perdevo avevo sprecato tre anni di lavoro” (A., 16 anni, dopo un incontro).

“Pensavo che tutto quello che facevo era inutile e non mi sentivo efficace” (A., 16 anni, dopo un incontro).

“Penso ai miei punti deboli” (N., 15 anni, rispondendo alla domanda: “Come ti senti negli incontri in cui non riesci ad esprimerti al meglio?”).

Ansia cognitiva (i. e. Morris et al, 1981), dialogo interno negativo (i.e. Hardy et al., 2009). La scelta di costruire solo alcune delle implicazioni della prestazione.

La scelta di pensare di essere non efficace.

“Che sfiga, non ho mai una poul decente!” (E., 23 anni) Locus of control esterno (i.e. Robinson and Howe, 1987). La scelta di costruire le proprie sconfitte come conseguenza della sfortuna. Ostilità [lo sforzo reiterato di estorcere prove validazionali a favore di una previsione sociale che è già stata riconosciuta come fallimentare (ibidem)].
“Se sono lucida posso gestire l’incontro e vincere” (G., 15 anni).

“Ho imparato che se voglio quasi nessuno è impossibile” (G., 16 anni).

Locus of control interno (i.e. Robinson and Howe, 1987). La scelta di costruire la propria prestazione come conseguenza di un proprio stato mentale o dei propri sforzi.

Tab. 1. Esperienza degli atleti e costruzioni professionali

Riprendiamo ad esempio le parole di A.: “pensavo che tutto quello che stavo facendo fosse inutile e mi sentivo inefficace”. L’atleta mi stava spiegando quali fossero i suoi pensieri nel corso di un incontro da lei poi perso. Con questo racconto, A. mi stava mostrando come, nel corso di quell’incontro, avesse scelto – ad un basso livello di consapevolezza cognitiva – di concentrare la sua attenzione solo su ciò che stava andando male, polarizzando così la sua visione di tutto l’incontro. Mi sono quindi chiesta: come mai A. ha operato questa scelta? Quali erano le sue anticipazioni su quell’incontro? E su se stessa? Quali erano invece le alternative? Queste domande mi hanno permesso di esplorare con lei la sua costruzione dell’incontro e dell’avversaria. Ho scoperto così che le sue anticipazioni sull’incontro erano state canalizzate dalla sua costruzione dell’avversaria: si trattava di un’atleta con cui aveva già combattuto e da cui era sempre stata battuta. Prevedeva quindi che sarebbe stata sconfitta ancora e, nel corso dell’incontro, ha scelto di dare valore alla parte della sua esperienza che confermava questa ipotesi di partenza. Abbiamo quindi provato a costruire in modo diverso quella stessa atleta (non più come quella che mi ha sempre battuto ma come quella che io devo ancora battere) e, nell’incontro successivo, è stata A. a vincere. Per superare l’empasse non ho ritenuto necessario sostituire il dialogo interno negativo con un dialogo interno positivo, strategia che poteva essere utilizzata in questa situazione a partire da un approccio diverso, ho piuttosto scelto di concentrarmi sulle ragioni di quei pensieri così estremi e di costruire una visione alternativa.

A mio avviso, questo esempio può illustrare il potere euristico del Corollario della Scelta nel favorire la comprensione dei comportamenti degli atleti e degli allenatori, in alternativa ad un giudizio lungo la dimensione giusto/sbagliato. Focalizzarsi su ciò che non va nel corso di un incontro non è “negativo” o “sbagliato” rispetto ad altri pensieri. Può essere visto come una scelta che ha ragioni che possono essere esplorate. Il pensiero non viene quindi “corretto”, ma approfondito ed esteso nell’ottica di rendere percorribile una scelta diversa. In questo modo lo psicologo ha un atteggiamento comprensivo e collaborativo piuttosto che valutativo e normativo.

Per illustrare più ampiamente il modo in cui la PCP può essere utilizzata nell’ambito del lavoro di consulenza con gli atleti, presenterò il caso di una giovane judoka, Giulia.

 

  1. Giulia

Nel momento in cui la descrivo, Giulia ha 16 anni, è fra i primi cinque posti nel ranking nazionale relativo ad atlete della sua età e del suo peso. Si allena cinque giorni alla settimana e partecipa alle principali competizioni di livello nazionale e ad alcune competizioni europee. È anche una studentessa e frequenta il terzo anno della scuola secondaria di secondo grado. Molti dei suoi amici sono judoka come lei. Assieme condividono allenamenti e competizioni, si sostengono vicendevolmente nei momenti difficili e festeggiano le reciproche vittorie.

Ho conosciuto Giulia nel 2015, anno in cui ho assunto il ruolo di psicologa dello sport nella sua squadra di judo. Da allora e per i successivi tre anni ho incontrato il gruppo degli atleti agonisti regolarmente, con frequenza settimanale, esplorando con loro le loro esperienze, le loro costruzioni dell’allenamento e delle competizioni, lavorando sui loro obiettivi, anticipando gli incontri e revisionandoli, e facendo assieme esperienza di allentamento, di restringimento e di tecniche immaginative.

Fin dai nostri primi incontri, Giulia mi dà l’immagine di una ragazza spaventata e preoccupata (sebbene nascosta dietro una maschera di spavalderia). È veramente molto brava nel judo e vincente nelle competizioni ma, a suo dire, molto in ansia prima degli incontri. Così in ansia da non riuscire nemmeno a sentire i suggerimenti del suo maestro e, dopo l’incontro, non ricordare cosa abbia fatto né come possa aver vinto.

Da un punto di vista cognitivo potremmo ri-descrivere questa situazione dicendo che Giulia ha un problema con l’ansia e che il suo focus attentivo è troppo stretto (Nideffer, 1976). Sulla base di questa analisi potremmo quindi insegnarle delle tecniche di rilassamento e degli esercizi per il suo focus attentivo.

In termini PCP potremmo invece chiederci: qual è l’esperimento di Giulia in quegli incontri? Potremmo considerare ciò che lei chiama ansia come una transizione di minaccia e quindi chiederci: qual è l’ampio ed imminente cambiamento dei costrutti nucleari anticipato da Giulia? Potremmo ricostruire l’esperienza di annebbiamento che caratterizza gli incontri come una conseguenza della scelta elaborativa di costringere, e chiederci quale sia l’alternativa a questa costrizione.

Questo è in effetti ciò che ho tentato di fare con lei. Assieme abbiamo compreso che Giulia temeva di perdere gli incontri, cioè, nei suoi termini, di essere invalidata nella sua costruzione di “futura campionessa”: per diventare una campionessa devo vincere: se non vinco, non diventerò una campionessa. Questa sua costruzione mi appariva prelativa, stretta e regnante. Per evitare la minaccia di colpa, Giulia sceglieva di costringere: con la testa vuota e la sensazione di non essere veramente presente, sul tatami faceva leva sui suoi punti forti (la sua grande forza e le tecniche che meglio padroneggiava) e, in un modo o nell’altro, dominava la sua avversaria.

Ho quindi ipotizzato che una strategia utile a ridurre la minaccia potesse essere ricostruire la sconfitta. Abbiamo quindi esplorato il significato di vincere e perdere tentando di allentare l’implicazione perdere – non diventare una campionessa. Abbiamo costruito perdere come ciò che può succedere quando l’avversaria è più forte, come una possibilità per imparare qualcosa di nuovo, come una delle possibili conseguenze del tentativo di usare nuove tecniche, come ciò che può accadere se non ci sentiamo bene o ci facciamo male. Abbiamo approfondito le carriere di alcuni atleti, comprendendo come hanno affrontato le loro sconfitte. Abbiamo anche usato il ciclo dell’esperienza (Epting, 1990/1984) per prepararci per le competizioni e per poi revisionarle. In questo modo abbiamo valorizzato il ruolo degli errori, che John Wooden[8] definiva come “trampolini di lancio per il successo”.

Nel corso del nostro lavoro, e all’interno del gruppo, abbiamo anche fatto esperienza con la scelta di costringere il campo percettivo agli elementi che ci parevano più utili in ogni data situazione: a volte sensazioni corporee, immagini o pensieri, altre volte caratteristiche, movimenti, espressioni del viso degli avversari. Ma abbiamo fatto anche esperimenti con la dilatazione del campo percettivo, in particolare osservando i video dei loro incontri. In questo modo ho cercato di favorire la sovraordinazione del costrutto prestare attenzione ad una cosa vs prestare attenzione alla situazione mediante il costrutto Sé vs non Sé.

Se nel dojo[9] facevano esperienza di strettezza, tentando di raffinare le loro costruzioni delle tecniche del judo, nel nostro lavoro di gruppo hanno fatto esperienza di lassità, lasciando rilassare i loro muscoli, costruendo la differenza fra l’essere rilassati e l’essere in tensione, giocando con parole ed immagini in giochi di associazioni libere, realizzando collages e poesie. In questo modo ho tentato di favorire la sovraordinazione del costrutto rilassarmi vs innervosirmi da parte del costrutto Sé vs non Sé.

Con queste nuove possibilità nel suo repertorio, Giulia ha cominciato ad essere più presente durante gli incontri, a vivere pienamente ciò che stava accadendo, ad ascoltare i suggerimenti del suo maestro. I suoi pensieri, nei momenti precedenti lo hajime[10], erano centrati sui suoi obiettivi tecnici. Ha continuato a vincere ma in modo molto diverso, più ricco e consapevole. Perdere non era più prelativamente collegato a non diventare una campionessa, ma principalmente, e non solo, definito come una poco piacevole opportunità per imparare qualcosa di nuovo.

Il caso di Giulia permette di esemplificare il modo in cui la PCP può sussumere l’esperienza degli sportivi senza dover fare riferimento ai concetti psicologici creati all’interno dell’approccio cognitivo-comportamentale. In questa situazione io ho usato parole come emozioni, concentrazione, rilassamento ed attenzione solo nella misura in cui erano presenti nel vocabolario dell’atleta e considerandole costruzioni personali.

Nella mia esperienza, da un punto di vista professionale, i costrutti della PCP possono in effetti fornire una migliore comprensione dell’esperienza dell’atleta nei suoi stessi termini. Cercando di comprendere l’esperienza di Giulia mi sono avvalsa principalmente del Postulato Fondamentale, del Corollario della Scelta, del Corollario dell’Esperienza, del Ciclo dell’Esperienza, di costruzioni come dilatazione e costrizione, allentamento e restringimento e minaccia di colpa.

Più in generale, ipotizzo che la diagnosi transitiva possa essere una cornice di riferimento comprensiva e sovraordinata che permette al consulente psicologo di favorire esperienze nuove e maggiormente percorribili per gli sportivi. Per usare le parole di Kelly (1991): “i costrutti diagnostici costituiscono le direzioni di movimento del cliente per come il terapeuta le concepisce, nello stesso modo in cui le costruzioni personali del cliente costituiscono, dal suo punto di vista, potenziali direzioni di movimento per come lui stesso le concepisce” (p.153). Per esempio, nel caso di Giulia, identificare la costruzione stretta e prelativa perdere – non diventare una campionessa ha fatto sì che io lavorassi su proposizionalità ed allentamento.

Kelly scrisse che “dal punto di vista della psicologia dei costrutti personali, la diagnosi è propriamente concepita come lo stadio in cui viene pianificata la gestione del cliente” (ibidem). Penso si possa considerare quest’affermazione valida anche qualora il cliente sia un atleta o una squadra, sia nel caso in cui ci sia un problema, come per Giulia, sia quando un problema non ci sia e l’obiettivo dell’intervento sia migliorare l’esperienza sportiva dell’atleta e della squadra. La cornice di riferimento fornita dalla diagnosi transitiva, ovvero la costruzione professionale dei processi di costruzione del cliente, è inoltre utile per mappare i cambiamenti che mano a mano avvengono in quegli stessi processi.

Costruire una diagnosi transitiva è primariamente un esercizio di socialità: lo è per il consulente ma anche per l’atleta, la squadra o l’allenatore. Assieme essi cercano di comprendere – e, reciprocamente, di aiutare l’altro a comprendere – ciò che sta accadendo e perché.

Alcuni dei momenti più rilevanti nel lavoro con Giulia hanno coinvolto Marco, il suo istruttore. Egli è più di un istruttore per lei: è un esempio, un mentore, una figura validazionale fondamentale. Dal canto suo, Marco è davvero attento a Giulia, è consapevole del suo potenziale e, quando ci siamo incontrati per la prima volta, era sinceramente preoccupato per il suo atteggiamento nel corso degli incontri, ma non riusciva a comprenderla. Era perfettamente in grado di descrivere il suo comportamento e di percepire e riconoscere le sue emozioni, ma non riusciva ad andare oltre, incapace di comprendere le ragioni al cuore del “problema”. Quindi non riusciva ad aiutarla e si sentiva frustrato ed impotente. Nel corso degli anni in cui ho potuto collaborare con Giulia e con i suoi compagni, io e Marco ci siamo incontrati regolarmente. Abbiamo co-costruito una nuova comprensione di Giulia basata sui costrutti che emergevano dalle conversazioni con l’atleta. Costruire i processi di costruzione di Giulia ha aiutato Marco nella sua attività di istruttore, specialmente nel gestire gli errori di Giulia e le sue rare sconfitte, ma anche nel sottolineare assieme a lei l’importanza del duro lavoro nella carriera di un campione. Con una nuova consapevolezza e nuove costruzioni ha ripreso efficacemente il suo ruolo di guida e mentore.

 

  1. Sport, persone e relazioni

Nel paragrafo precedente, utilizzando i costrutti professionali della PCP, ho tentato di fornire un esempio del modo in cui la teoria può efficacemente sussumere i processi di uno sportivo. Come sottolineato, l’uso dei costrutti professionali è stato subordinato al Corollario della Socialità: i costrutti professionali sono cioè stati utilizzati per comprendere i processi dell’atleta. Dal mio punto di vista, il Corollario della Socialità e, più ampiamente, il modo in cui la PCP guarda alle relazioni, sono il contributo specifico della teoria alla psicologia dello sport e ne costituiscono il valore aggiunto.

Sulla base della mia esperienza personale e professionale, vedo lo sport principalmente come un’esperienza relazionale: pratichiamo seguendo le istruzioni dei nostri istruttori, rubando con gli occhi dai nostri compagni, aiutandoli ed essendone aiutati, ricevendo commenti da amici e parenti… e così via. La gran parte di ciò che accade nell’ambiente sportivo è di natura sociale. E, dal mio punto di vista, non è possibile lavorare con un atleta o con un istruttore senza tenere in considerazione il modo in cui essi costruiscono le loro relazioni ed il loro ed altrui ruolo in esse. In effetti, considero gli esperimenti che una persona fa nello sport come esperimenti relazionali dove talvolta “l’altro” è uno dei suoi multipli sé. È qui che colloco, appunto, il valore aggiunto della teoria rispetto ad approcci che si focalizzano sulle singole persone.

Possiamo ad esempio provare a ragionare sulla relazione fra atleta ed allenatore. Insegnare è uno dei compiti degli allenatori. Come insegnano? Essi mi sembrano spesso pensare che ciò che è davvero importante sia fare in modo che gli atleti facciano i giusti esercizi. Generalmente non pongono attenzione al modo in cui loro stessi parlano, spiegano, commentano o forniscono correzioni. La relazione, che è al cuore di ogni esperienza di apprendimento, spesso non viene semplicemente considerata. Troppo frequentemente gli atleti sono implicitamente visti come creature da dirigere o, nel migliore dei casi, recipienti passivi per la conoscenza degli istruttori. L’implicazione di questi presupposti è spesso una gran quantità di frustrazione sia negli atleti che negli istruttori.

Anche per superare questo problema, Butler (1989, 1991, 1997, 2000; Butler and Hardy, 1992; Butler et al., 1993) ha creato il Performance Profile, uno strumento usato per aiutare gli atleti e gli istruttori a fissare i loro obiettivi. Esso costituisce un esempio di come un consulente possa promuovere relazioni di ruolo proprio grazie all’instaurazione di relazioni di ruolo.

Solitamente, soprattutto nello sport giovanile, gli obiettivi di lavoro e di prestazione vengono fissati dagli istruttori: essi, infatti, hanno spesso la convinzione di conoscere profondamente i loro atleti e ciò che essi possono o non possono raggiungere. Le ricerche dimostrano tuttavia che gli obiettivi sono più efficaci quando sono scelti dall’atleta o concordati assieme da atleta ed istruttore (Gallucci, 2014). Possiamo ipotizzare che ciò accada perché le persone normalmente anticipano e fissano i loro obiettivi scegliendo le alternative che avvertono come maggiormente elaborative per loro (Corollario della Scelta) e, nel caso degli atleti, questi obiettivi personali vitali possono talvolta non concordare con gli obiettivi scelti dall’allenatore.

Questa è una delle ragioni per cui Butler ha sviluppato il Performance Profile. La prima parte della procedura può essere vista come un processo di elicitazione di costrutti. Istruttore ed atleta vengono invitati a definire individualmente le dimensioni di costrutto che, dal loro punto di vista, caratterizzano la prestazione eccellente. Poi questi costrutti individuali vengono condivisi e discussi e la prestazione attuale dell’atleta viene valutata lungo le dimensioni risultanti dalla condivisione fra atleta ed istruttore. Infine, anche queste due valutazioni vengono condivise e discusse. In questo modo vengono identificate le aree di debolezza e di forza, così come percepite da atleta ed allenatore, e possono essere concordati degli obiettivi di miglioramento. Al contempo, è in questo modo possibile individuare eventuali differenze nelle costruzioni di atleta ed allenatore e se ne può discutere, esplicitando punti di vista, chiarendo presupposti e trovando, se possibile, punti di incontro. Inoltre, cosa che ha ancor più importanza nel Performance Profile, gli obiettivi vengono fissati nei termini dell’atleta: il punto di partenza del processo sono le esperienze e le costruzioni dell’atleta. Infine, la condivisione delle reciproche costruzioni permette ad atleta ed istruttore di comprendersi meglio, cioè di costruire una relazione di ruolo reciproca. Lo sforzo di costruire i processi di costruzione dell’atleta aiuta l’istruttore a dare valore all’esperienza dell’atleta stesso, e viceversa.

Per descrivere la relazione tra atleta ed istruttore potremmo mutuare la metafora del supervisore e del ricercatore usata da Kelly per connotare la relazione terapeutica. Anche in questo contesto, infatti, facciamo riferimento a due esperienze e a due competenze: l’atleta è l’esperto della propria esperienza sportiva e costruisce la sua prestazione dal suo punto di vista; l’allenatore è l’esperto della disciplina e, auspicabilmente, della didattica della disciplina e costruisce, dal suo punto di vista, l’esperienza e la prestazione dell’atleta. Per quanto ciò possa sembrare piuttosto ovvio, nelle molte situazioni in cui ho condiviso questa similitudine con gli istruttori, nei loro occhi ho riscontrato stupore, sorpresa, incredulità e infine – fortunatamente – curiosità, come se avessi affermato qualcosa di davvero nuovo per le loro orecchie. La curiosità è divenuta poi entusiasmo nei casi in cui essi si sono dati la possibilità di agire con i loro atleti in accordo con questa parziale ridefinizione del loro ruolo. Guardare al mondo attraverso gli occhi dei loro allievi rendeva tutto più semplice, facile e veloce ed entrambi erano più soddisfatti. Un atteggiamento normativo, paternalistico e semplicistico veniva sostituito da un atteggiamento comprensivo, collaborativo e tagliato su misura sul singolo atleta.

Ma la relazione fra atleta ed istruttore è solo una delle mille relazioni presenti nell’ambiente sportivo. Ci sono anche le relazioni fra atleti, fra atleti e genitori, fra genitori ed istruttori, fra dirigenti ed istruttori e così via, e la PCP può consentire allo psicologo dello sport di sussumere e lavorare con ciascuna di esse o con tutte loro: grazie alla costruzione di relazioni di ruolo lo psicologo dello sport costruttivista può favorire la creazione di qualsiasi tipo di costruzione di ruolo.

 

  1. Conclusioni

In questo articolo ho tentato di illustrare come la PCP possa essere utilizzata per lavorare con gli atleti. Sostengo che essa sia una teoria completa ed inoltre che, rispetto ad un approccio cognitivo-comportamentale, essa abbia il vantaggio di guardare alle persone non solo come a dei singoli scienziati, ma come a nodi in reti di relazioni fra scienziati. Nel suo lavoro con gli sportivi-in-relazione, il consulente PCP costruisce relazioni di ruolo e favorisce lo sviluppo di relazioni di ruolo fra le persone con cui collabora. Normalmente ciò esita in migliori esperienze sportive.

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Note sull’autore

 

Francesca Del Rizzo

Institute of Constructivist Psychology

contatto@francescadelrizzo.it

Sono psicologa psicoterapeuta e didatta dell’Institute of Constructivist Psychology di Padova. Mi occupo di psicoterapia e didattica della psicoterapia, psicologia dello sport e di psicoterapia e outdoortraining a mezzo del cavallo.

 

Note

  1. Questo impegno nello sviluppare un approccio originale alla psicologia dello sport prosegue ora anche grazie al Constructivist Sport Psychology Lab, formato con un gruppo di colleghi psicologi che intendono occuparsi di sport in ottica costruttivista.
  2. Secondo quanto affermato nel Postulato Fondamentale: i processi di una persona sono psicologicamente canalizzati dal modo in cui anticipa gli eventi (Kelly, 1991, vol. 1, p. 32, T.d.A.).
  3. Il Corollario della Scelta afferma che la persona sceglie per sé, all’interno di un costrutto dicotomico, l’alternativa per mezzo della quale anticipa la miglior elaborazione (in estensione o definizione) del suo sistema (Kelly, 1991, vol. 1, p. 45, T.d.A.).
  4. Il Corollario dell’Esperienza infatti asserisce che il sistema di costruzione della persona cambia mano a mano che essa costruisce le repliche degli eventi (Kelly, 1991, vol. 1, p. 50, T.d.A.).
  5. Kelly identifica con il nome di “transizione” la costruzione, da parte di una persona, dei cambiamenti avvenuti o in procinto di avvenire all’interno del suo sistema di costruzione.
  6. Ad esempio un bambino può cominciare a giocare a basket per cercare, consapevolmente o inconsapevolmente, di fare, in questo modo, contento il suo papà (la scelta sarà fra i due poli: fare basket vs non fare basket/fare lo sport x). Il suo esperimento inizialmente potrà essere fondato su questa ipotesi: se faccio basket papà sarà contento di me. Fare basket, la scelta elaborativa, sarà percepito come utile all’elaborazione della sua relazione con il papà. In seguito potrà scoprire che l’atteggiamento del padre nei suoi confronti non è cambiato (e quindi la sua ipotesi di partenza sarà invalidata), ma anche che giocare a basket gli piace e basta, a prescindere dal papà, e quindi si impegnerà con entusiasmo nel continuare, per imparare sempre di più e per divertirsi.
  7. Uno sportivo potrà, ad esempio, affermare “mi è mancata la motivazione” per distinguere la situazione cui si sta riferendo (ad esempio una gara in cui non ha sentito una spinta a fare uno sforzo “in più”) da una situazione diversa (in cui ha invece percepito la voglia e l’energia per fare quello “sforzo in più”). In questo caso il suo costrutto potrebbe essere avere motivazione vs non avere motivazione. I costrutti, nella teoria kelliana, sono dicotomici in quanto sono processi di discriminazione: consentono alla persona di operare distinzioni fra gli elementi della sua esperienza, stabilendo contemporaneamente somiglianze e differenze (Kelly, 1991).
  8. John Robert Wooden (14.10.1910 – 4.6.2010) è stato un giocatore di basket americano e in seguito capo allenatore all’Università della California a Los Angeles (UCLA). In un periodo di 12 anni in cui è stato capo allenatore alla UCLA ha vinto 10 campionati nazionali (NCAA), di cui 7 di fila. È stato uno dei più stimati allenatori nella storia dello sport ed è stato molto amato dai suoi atleti. Era rinomato per i corti messaggi che usava per ispirare i suoi atleti e che erano spesso consigli per essere persone di successo sia nel basket che nella vita.
  9. Il Dojo (in giapponese “luogo per la ricerca della via”) è una stanza o uno spazio dedicato all’apprendimento ed alla meditazione. È tradizionalmente indicato con questo nome il luogo di insegnamento ed apprendimento delle arti marziali.
  10. Hajime è la parola giapponese che significa “inizio”. Nelle arti marziali giapponesi come karate, judo, aikido, kūdō e kendo è il comando verbale che dà inizio al combattimento.