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Vivere giocando: un’esplorazione della portata elaborativa del gioco

Lifelong playing. The game as a psychological experience

di

Laura Scartezzini

Institute of Constructivist Psychology

Abstract

Questo lavoro nasce dall’idea che il gioco possa essere uno strumento di grande portata elaborativa per la persona poiché veicola esperienze significative che consentono di mettere alla prova nuove costruzioni personali, mantenendo un basso livello di minaccia. A partire dall’ipotesi della presenza di un sistema-giocatore, all’interno del sistema personale di costrutti, ho analizzato i principali processi psicologici del giocatore e progettato una tecnica che possa coniugare gli obiettivi della psicoterapia e la portata esperienziale del gioco.

This work moves from the idea that games can represent tools for meaningful experiences that can be tested without being threatened. Starting from the hypothesis of a player-system within the personal construct system, I analysed the player’s main psychological processes and I designed a technique that combines the purpose of psychotherapy with the experiential power of the game.

Keywords:
Gioco, giocatore, esperienza, psicoterapia, tecnica | game, player, experience, psychotherapy, technique
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1. Introduzione

Il fenomeno del gioco ha suscitato l’interesse di studiosi provenienti da molteplici ambiti disciplinari, i quali hanno prodotto numerose considerazioni sul tema. La psicologia, la filosofia, la matematica, l’antropologia, l’economia, la pedagogia, la logica, l’etologia e l’intelligenza artificiale si sono approcciate a questo argomento analizzandolo con le lenti della propria epistemologia, giungendo a ipotesi piuttosto diverse tra loro rispetto al significato e alle funzioni del gioco. Anche volendo limitare i contributi al solo ambito psicologico, gli approcci che emergono sono numerosi: Freud (1920), Mead (1934), Piaget (1945), Vygotsky (1966), Winnicott (1971), Bateson (1972), Bruner (1976), solo per nominarne alcuni, hanno dato il loro personale contributo al tema del gioco, sottolineandone l’importanza da un punto di vista psicologico. Gli autori citati hanno sviluppato le loro riflessioni a partire dalla concezione del bambino che gioca. Questa attività si sviluppa molto precocemente nella vita del bambino, che vi dedica tempo ed energia.

Anche grazie a questo tipo di teorizzazioni, si è diffuso nella nostra società il binomio bambino-gioco, quasi inscindibile, che identifica il gioco come prerogativa dei bambini. Se sfruttiamo i poli di contrasto comunemente diffusi per questo binomio, otteniamo una visione per cui l’adulto è colui che fatica ed è serio. Questa prospettiva sembra essere ben consolidata a livello sociale: nella vita di un adulto, il gioco, se proprio deve esserci, deve avere uno spazio ben limitato, che non metta a repentaglio altre attività che sono considerate ben più importanti perché produttive. Si viene così a disegnare l’immagine di un giocatore adulto ritratto nei termini negativi dell’essere “nerd” e della dipendenza da gioco.

Ciononostante, abbiamo assistito negli ultimi anni a un importante sviluppo tecnologico che ha permesso la messa a punto di giochi digitali che hanno ampiamente coinvolto gli adulti. Una fotografia di questa situazione è fornita da Lopez (2010) che sottolinea come il numero di giocatori sia distribuito equamente in tutte le fasce di età.

A partire da queste considerazioni, è sensato immaginare il gioco come un’attività che accompagna la persona lungo la sua vita. Da adulti non smettiamo di giocare, tutt’al più lo facciamo in maniera diversa, usando tempi, spazi, relazioni e finalità diverse da quelle passate. Per i bambini più piccoli il gioco è l’attività quotidiana prevalente, agita con grande spontaneità, poche regole (se non del tutto assenti) e pochi strumenti. Crescendo il gioco diventa sempre più strutturato, sono previste più regole, oggetti specifici e imprescindibili e il tempo dedicato è limitato e organizzato.

Giocando, ci spostiamo all’interno di alcune delle dimensioni caratteristiche del gioco, quali, ad esempio, semplicità/complessità, fisico/virtuale, cooperativo/competitivo, relazionale/solitario, statico/attivo, con alto/basso livello di alea (McGonigal, 2011). Scegliamo, poi, il polo che riteniamo più utile ed interessante per noi in quella particolare circostanza.

Alla luce di questo, al fine di osservare il gioco da un punto di vista psicologico, piuttosto che focalizzarsi sulle caratteristiche del gioco in sé, ho ritenuto più interessante concentrarsi sul giocatore, o meglio sulla persona nei panni del giocatore e sulle relazioni che essa sviluppa durante il gioco.

 

2. Il giocatore

Parafrasando le parole di Maturana e Varela (1987, p. 46), si può affermare che “tutto ciò che è giocato è giocato da qualcuno” e ciò, inevitabilmente, ci porta a valorizzare il punto di vista del giocatore.

Per definire chi sia il “giocatore”, faccio riferimento all’organizzazione strutturale dei costrutti, basata sul corollario dell’organizzazione, sul corollario della frammentazione, sul corollario del campo e sul corollario della modulazione (Kelly, 1955). In primo luogo, i costrutti non sono isolati gli uni dagli altri ma sono organizzati in un sistema le cui relazioni possono essere di superiorità e inferiorità gerarchica. In secondo luogo, un costrutto non può essere applicato indiscriminatamente a tutti gli eventi che ci stanno di fronte: il campo di pertinenza di un costrutto, infatti, ne delimita l’applicazione. In terzo luogo, la persona può utilizzare sotto-sistemi di costrutti che possono essere anche indipendenti tra loro e possono essere utilizzati alternativamente; questo mette in evidenza il fatto che la persona non è sempre uguale a se stessa ma in contesti costruiti come diversi può mantenere una certa incoerenza e costruire aspetti differenziati di sé. Sulla base di questa organizzazione strutturale dei costrutti, ipotizzo che il giocatore possa essere inteso come una porzione del sistema di costrutti personale. Questa porzione, questo sotto-

sistema (denominato sistema-giocatore), sarà tanto più dettagliato e strutturato quanto più le esperienze del giocatore gli permetteranno di arricchirlo e consolidarlo.

A partire da questa definizione non può che sorgere una domanda: perché una persona sceglie di utilizzare il suo sistema-giocatore? La riposta che propongo è che il sistema-giocatore permetterebbe la sperimentazione di nuovi costrutti in una situazione ideale poiché, come sottolinea Bateson (1996), l’essenza del gioco sta nel suo essere metalinguaggio, poiché i giochi sono qualcosa che “non è quello che sembra”. Ogni giocatore deve poter affermare “Questo è un gioco”, cioè ci deve essere la consapevolezza che l’azione è fittizia. La metacomunicazione, secondo Bateson, serve per rivelare la natura del “come se” del gioco e la sua creazione di un mondo irreale in cui azioni fittizie simulano azioni reali.

Quale situazione migliore, quindi, per testare azioni che nel sistema personale potrebbero condurre a importanti transizioni di ansia o minaccia? Se il sistema-giocatore gode di un’adeguata permeabilità, il gioco può avere il grande vantaggio di essere un ambiente sperimentale sicuro, senza ripercussioni “concrete” sulla vita quotidiana, una situazione nella quale si entra volontariamente e dalla quale altrettanto volontariamente si esce. Ritengo che in questo contesto la permeabilità possa essere definita “adeguata” nella misura in cui permette una sospensione delle usuali dimensioni di significato utilizzate dalla persona. In questo modo, nuovi costrutti possono essere messi alla prova e, se l’esperimento del sistema-giocatore va a buon fine, essi possono essere sviluppati all’interno del sistema personale. A titolo esemplificativo, si consideri una persona che vive la dimensione sincero/bugiardo come un costrutto regnante: essa troverà molto scomodo fare un gioco di “bluff” ma se decise di cimentarsi in questa attività potrebbe fare una nuova esperienza: potrebbe ridefinire l’evento “bluff” come connesso alla dimensione strategico/ingenuo e non più sincero/bugiardo. Se, dopo l’esperimento, ritenesse questa nuova costruzione utile potrebbe decidere di metterla alla prova nella vita quotidiana ed eventualmente utilizzare questa nuova costruzione per arricchire il suo sistema personale. In sintesi, il gioco può avere una grande portata elaborativa, nei termini indicati dal corollario dell’esperienza e dal corollario della scelta.

 

3. Il giocatore in relazione

Come in altri ambiti della nostra vita, anche nel gioco la relazione è un aspetto chiave sul quale è importante soffermarsi.

Non sono solo i “giochi di società”, per loro definizione, a metterci in relazione con gli altri. Anche i videogiochi, grazie all’enorme sviluppo della rete internet e della tecnologia, sono diventati “multi-player online games”, generando un complesso fenomeno sociale di scambio e collaborazione tra i giocatori, sia “dentro” che “fuori” lo schermo di gioco. Non da meno, i giocatori di giochi individuali (modalità “single-player”), di solito si raggruppano in comunità, condividendo le loro esperienze e strategie di gioco attraverso forum, chat e altri strumenti di comunicazione. Sembra quindi supportata l’ipotesi che il gioco sia qualcosa da fare “insieme”.

A livello di sistema personale, i costrutti nucleari di ruolo sono così preziosi da essere difficilmente messi in discussione, infatti essi sono “una parte da recitare come se la vita dell’individuo dipendesse da tale interpretazione” (Kelly, 1955, pp. 351-352). Nel sistema-giocatore invece è possibile vivere i ruoli con maggiore flessibilità poiché essi non sono necessariamente legati a dimensioni nucleari. Questo significa che potremmo permetterci di giocare con gli altri giocatori ruoli diversi da quelli convenzionali e al contempo permettere agli altri di giocare diversi ruoli con noi, senza sentirci minacciati da questo.

Un esempio di questo ci viene dal mondo degli animali: molti cuccioli, ad esempio quelli di felino, giocano vigorosamente, facendosi agguati, rotolandosi, colpendosi con poderose zampate. I loro denti e i loro artigli, sebbene non forti quanto quelli di un adulto, possono comunque essere letali ma ciononostante, i cuccioli nel gioco mostrano la gola e la pancia, le parti più vulnerabili del loro corpo, perché vivono il contesto come sicuro: gli stessi comportamenti che potrebbero indicare un attacco, non sono costruiti come dannosi perché contestualizzati come attività sicura e agiti da “compagni di giochi”. Agli esseri umani lo stesso accade in alcuni giochi e sport di contatto: permettiamo agli altri di attaccarci e colpirci e facciamo altrettanto con loro, perché “fa parte del gioco”.

Questo genere di comportamento non è espresso unicamente a livello corporeo: tra i giocatori sono comuni le pratiche di interazione sociale del trash-talking e del pwning. La prima si riferisce alla pratica di deridere più o meno bonariamente l’avversario e può andare da scherzose prese in giro a pesanti beffe per innervosire l’avversario e/o rafforzare lo spirito agonistico. La seconda (che deriva da un errore di ortografia nello scrivere own) fa riferimento al raggiungimento di una vittoria così schiacciante che non si può fare a meno di gongolare, finendo per schernire l’avversario.

Keltner (2009) ha condotto ricerche sui benefici psicologici della presa in giro e sostiene che questa abbia un ruolo prezioso nell’aiutarci a costruire relazioni positive: “la presa in giro è come un vaccino sociale”: essa consentirebbe di provocare delle emozioni negative tra gli individui, in modo da suscitare una piccola quantità di irritazione, dolore, imbarazzo, etc. Questo processo avrebbe due effetti. Da un lato, permetterebbe di confermare la fiducia nella relazione: la persona che prende in giro dimostra la capacità di ferire, ma al tempo stesso, mostra che la sua intenzione non è quella di ferire (scopriamo i denti per ricordarci che potremmo farci del male ma che non lo faremmo mai veramente). Dall’altro lato, consentendo a qualcun altro di prenderci in giro, confermiamo la nostra disponibilità a porci in una posizione di vulnerabilità e dimostriamo attivamente la nostra fiducia nella considerazione che l’altra persona ha del nostro benessere emotivo.

Questo tipo d’interazione è tollerata e spesso attivamente cercata poiché si pone a un livello di comunicazione tra sistema-giocatore e sistema-giocatore.

L’analisi del livello di sistema all’interno del quale si svolge una particolare interazione è utile anche perché da esso è possibile desumere quando il gioco finisce. Solamente fintanto che una persona utilizza il suo sistema-giocatore per interagire con un altro sistema-giocatore possiamo parlare di gioco e nello specifico di “fair play”, di gioco etico.

A proposito di etica, Gilibert0 (2010, p. 228) introduce il Criterio della Persona: “il Criterio della Persona è la consapevolezza che noi siamo una persona solo fra altre persone, in una relazione di reciproca validazione identitaria”. Fintanto che siamo nel contesto di gioco, l’unica relazione possibile è quella tra sistema-giocatore e sistema-giocatore, la relazione tra persone non dovrebbe essere messa in discussione. Per fare un esempio, se sto giocando contro il mio partner e durante il suo turno lo invito, magari a livello non-verbale, a non attaccarmi, sto uscendo dal contesto di gioco: sto usando la mia relazione personale con lui in maniera asimmetrica, da giocatore (io) a persona (lui).

È chiaro che il limite tra sistema personale e sistema-giocatore esiste agli occhi di chi gioca, ma non può essere misurato e tutelato esternamente: le regole non bastano. Per chiarire se un giocatore sta giocando in modo etico, dovremo quindi chiederci “a chi era rivolta la sua azione, all’avversario-giocatore o all’avversario-persona?”. Può essere utile in questo contesto riprende un concetto utilizzato in ambito sportivo: la “gamesmanship”. Si parla di “gamesmanship” per indicare l’utilizzo da parte del giocatore di metodi dubbi (anche se non tecnicamente illeciti) per vincere una partita. Sto qui ipotizzando una versione relazionale della “gamesmanship”: l’utilizzo di questa fa uscire i partecipanti dai confini dell’interazione giocatore-giocatore e fa loro perdere la potenza esperienziale del contesto ludico, esponendoli a una situazione potenzialmente minacciosa perché attinente al sistema personale.

Le relazioni che interessano i diversi livelli tra sistemi personali e sistemi-giocatore possono essere riassunte nello schema seguente (figura 1).

 

Immagine che contiene cerchio, diagramma, testo, linea Descrizione generata automaticamente

Figura 1. Possibili relazioni tra sistemi personali e sistemi-giocatore

 

4. Oltre il ludico: un passo verso la pratica

Il potere di coinvolgimento del gioco è studiato da molto tempo: poche altre attività fanno sentire le persone coinvolte, attive e produttive come quando sono impegnate nel gioco. La “gamification” e i “serious game” sono esempi di come i giochi e l’approccio ludico possano essere efficacemente usati come volano per il cambiamento in contesti sociali, educativi, commerciali, di apprendimento e nella promozione del benessere e della salute (Bellotti, Kapralos, Lee, Moreno-Ger, & Berta, 2013; Petruzzi, 2015).

A partire da questo, vale la pena chiedersi: c’è posto per il gioco nella pratica psicologica?

Pensando all’applicazione del gioco nel contesto clinico il mio primo pensiero va alla “Fixed Role Therapy” (FRT), tecnica principe della Psicologia dei Costrutti Personali, e all’ampia sovrapposizione che vedo tra questa e i Giochi di Ruolo.

Presento qui una breve sintesi delle due attività in questione. La FRT consiste nell’incoraggiare il paziente ad assumere un’identità diversa dalla propria per un breve periodo di tempo, in modo da fare un’esperienza alternativa del mondo. A partire dall’autocaratterizzazione scritta dal paziente, il terapeuta propone un bozzetto da interpretare. La persona descritta nel bozzetto non dovrebbe essere concepita come un miglioramento del paziente e non dovrebbe rappresentare una versione ideale di lui, ma il bozzetto va scritto avendo in mente dimensioni ortogonali. Al paziente è chiesto di seguire il bozzetto per due settimane, durante le quali assume la nuova identità in tutte le sue sfaccettature, desumendone i diversi comportamenti. Il bozzetto deve perciò toccare molti aspetti dell’organizzazione della vita quotidiana e riprendere i costrutti che il paziente utilizza, in modo da preservare la sua personalità. Il primo luogo in cui sperimentare il ruolo è la stanza della terapia: il paziente e il terapeuta interpretano alternativamente il bozzetto, commentano insieme come si è svolta la simulazione, esplorano le sensazioni provate, le scelte intraprese e quelle evitate.

Un gioco di ruolo, abbreviato con RPG (dall’inglese “Role Playing Game”), è un gioco in cui i partecipanti interpretano il ruolo di uno o più personaggi e, tramite la conversazione e lo scambio dialettico, creano uno spazio immaginario.

Le regole del RPG indicano come, quando e in che misura, ciascun giocatore può influenzare lo spazio immaginario. Nella maggior parte di questi giochi, è prevista la figura del “Master”, colui che si prende carico della regia del gioco, funge da arbitro e da narratore. Ogni giocatore può creare il personaggio che interpreterà nel gioco, dandogli un nome, una storia, un carattere e definendo le relazioni che intrattiene e gli equipaggiamenti che possiede. La durata del gioco può andare da una singola sessione di poche ore a una serie di sessioni di gioco ripetute con un gruppo di giocatori e personaggi che evolve nel tempo.

Da questa panoramica, pur non esaustiva per nessuna delle due attività, emerge chiaramente la sovrapposizione tra FRT e RPG, che posso riassumere nei seguenti punti:

– il paziente e il giocatore sono invitati a descrivere un personaggio e interpretarlo;

– il ruolo del terapeuta e del Master può agevolare questa interpretazione, monitorando e stimolando l’aderenza al bozzetto/scheda del personaggio;

– FRT e RPG hanno una durata limitata;

– si configurano come degli esperimenti, come esperienze alternative a quella che è vissuta dal paziente/giocatore come esperienza quotidiana e ricorrente.

A partire da queste somiglianze, ho sviluppato una tecnica con l’obiettivo di mantenere i presupposti teorici e le finalità cliniche della FRT, esaltare le aree di sovrapposizione tra le due attività e implementarle con i benefici sperimentali del gioco precedentemente individuati. Questa tecnica è denominata “Fixed Role Playing Game Therapy” (FRPGT), per enfatizzare la natura ibrida e la diretta derivazione dalle due attività esistenti.

Nella FRPGT, il terapeuta e il paziente definiscono insieme le caratteristiche del personaggio che il paziente dovrà interpretare. Le indicazioni saranno simili a quelle per il bozzetto della FRT: il personaggio non deve essere migliorativo per la persona, non deve diventare l’incarnazione del sé ideale o desiderato e deve essere costruito all’insegna dell’ortogonalità. A differenza del bozzetto richiesto per la FRT, però, il personaggio della FRPGT può avere caratteristiche surreali, magiche e fantastiche (ad esempio può non essere umano o padroneggiare la magia).

La stanza della terapia è il luogo dove si svolge tutta la FRPGT. Infatti, a differenza della FRT al paziente non viene chiesto di incarnare il personaggio al di fuori della terapia.

Il terapeuta ha un ruolo simile a quello del Master poiché a lui spetta il compito di scegliere un’ambientazione idonea al personaggio scelto, narrare la storia, introdurre personaggi di contorno e presentare le sfide.

La tecnica è pensata per poter essere condotta in un orizzonte temporale limitato (orientativamente 6-7 sedute) e per occupare circa la prima metà di un incontro per dare spazio a commenti e considerazioni sull’esperienza. Lo spazio di dialogo extra-gioco è pensato per permettere al paziente di “rimettersi i suoi occhiali” e guardare all’esperienza appena vissuta dal suo punto di vista. Sarà interessante soffermarsi a osservare le scelte fatte nel gioco in termini di ciclo dell’esperienza, valutando i presupposti del personaggio, le in/validazioni a cui è andato incontro e come vi ha fatto fronte. Si passerà poi a una lettura dell’esperienza del paziente nei panni del personaggio, sempre utilizzando come guida il ciclo dell’esperienza, mettendo in luce le transizioni prevalentemente sperimentate e favorendo un confronto tra il punto di vista del personaggio e del paziente per individuare eventuali punti di contatto.

Ancor più che nella terapia individuale, la FRPGT potrebbe rivelarsi un utile strumento nella terapia di coppia o con un gruppo ristretto, come ad esempio una famiglia. In questi casi, in modo ancora più simile a quello che succede nel RPG, i partecipanti saranno invitati a interagire secondo quanto delineato nelle rispettive schede del personaggio e il particolare modo di interagire tra i partecipanti darà luogo a diversi scenari e permetterà di mettere in luce dinamiche diverse da quelle abituali.

È bene sottolineare che la scelta delle tecniche è sempre guidata dal piano terapeutico per cui esse vanno impiegate come strumenti utili a rendere operativi gli scopi di una psicoterapia. Sulla scorta di questo, la FRPGT non potrà essere utilizzata con tutti i pazienti o in ogni momento della terapia. Ipotizzo che se ne possa fare un utile impiego quando il terapeuta ritenga utile favorire alcuni tipi di esperienze, coerentemente con la diagnosi stilata. Nella FRPGT è prevista una fase di allentamento che permette, già a partire dalla creazione del personaggio, un generale movimento del sistema tale da favorire nuove risposte da parte del paziente; questa fase di allentamento è connessa a una possibilità di dilatazione, così che il paziente possa prendere in considerazione una più ampia varietà di materiale (anche volutamente “irreale”). L’allenamento può essere visto anche nella fase di circospezione del ciclo C-P-C, che il personaggio è invitato a seguire durante la FRPGT. Le successive fasi di prelazione e controllo andranno verso un restringimento, così come verso il restringimento va il colloquio post-gioco, in modo che il paziente possa portarsi a casa un’esperienza più definita di ciò che ha fatto nei panni del personaggio. La possibilità di avere più sessioni di FRPGT permette poi di tornare a una fase di allentamento che favorisca la ripresa del ciclo della creatività.

Così come nella FRT, anche nella FRPGT la stanza della terapia diventa un laboratorio protetto, dove il paziente può assumere punti di vista nuovi e forse inaspettati. Ipotizzo che la portata della FRPGT rispetto al cambiamento sia più limitata rispetto a quella della FRT, in particolare perché lo spazio di azione è volutamente fittizio. Proprio in questa caratteristica di artificiosità risiede la forza della tecnica: da un lato mette in risalto la forza del “come se” e quindi dell’assumere un punto di vista diverso dal proprio, concretizzandolo nella narrazione di specifiche azioni; dall’altro, creando un contesto marcatamente fittizio, risulterà molto meno minacciosa e quindi più facilmente affrontabile.

Il terapeuta che decida di utilizzare questa tecnica dovrà mettere in campo creatività e audacia: la prima è necessaria per ideare uno scenario che aiuti il paziente a sviluppare costrutti completamente nuovi e immaginare come egli possa mettere in atto un processo di soluzione creativa dei problemi; la seconda permetterà al terapeuta di entrare in contatto con aspetti che potrebbe non padroneggiare ma renderlo disponibile a proseguire lungo questa strada assieme al paziente, affinché entrambi raggiungano una prospettiva costruttiva. Inoltre, nell’utilizzo di questa tecnica per il terapeuta sarà necessario sviluppare “il talento del novelliere” non solo per entrare nel mondo dell’altro ma anche per creane uno alternativo.

 

5. Conclusioni

L’ampio spazio di studio e riflessione che è stato dedicato al gioco mette in luce come questa attività possa essere interessante dal punto di vista psicologico.

La Psicologia dei Costrutti Personali permette di osservare questa attività in modo ampio, senza rilegare il gioco a una particolare fase della vita ma considerandolo un’esperienza che ci accompagna sempre.

Se utilizzati in psicoterapia, i giochi possono innescare interessanti processi di cambiamento mantenendo un basso livello di minaccia. Tuttavia, al clinico è richiesto sia di essere creativo e rigoroso nel creare un contesto di gioco adatto al paziente, sia di essere sensibile nel rilevare le risposte del paziente.

 

Bibliografia

Bateson, G. (1972). Steps to an ecology of mind. New York: Ballantine.

Bateson, G. (1996). Questo è un gioco. Perché non si può mai dire a qualcuno «Gioca!». Milano: Cortina Raffaello.

Bellotti, F., Kapralos, B., Lee, K., Moreno-Ger, P., & Berta, R. (2013). Assessment in and of Serious Games: An Overview. Advances in Human-Computer Interaction. 

Bruner, J. S., Jolly, A., & Sylva, K. (1976). Play: Its Role in Development and Evolution. New York: Penguin.

Freud, S. (1920). Al di là del principio del piacere. Torino: Bollati Boringhieri.

Giliberto, M. (2010). An Invitation to Elaborate Ethics through PCP. In D. Bourne & M. Fromm (Eds.), Construing PCP: New Contexts and Perspectives, 9th EPCA Conference proceedings (pp.220-232). Norderstedr, Germany: Gmbh).

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Maturana, H., & Varela, F. (1987). L’albero della conoscenza. Milano: Garzanti.

McGonigal, J. (2011). La realtà in gioco. Perché i giochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo. Milano: Apogeo.

Mead, G. (1934). Mind, self & Society. Chicago: University of Chicago Press.

Petruzzi, V. (2015). Il potere della Gamification. Milano: Franco Angeli Editore.

Piaget, J. (1945). La formation du symbol chez l’enfant. Neuchâtel: Delachaux et Niestlé.

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Winnicott, D. (1971). Playing and reality. London: Tavistock.

 

Note sull’autore

 

Laura Scartezzini

Institute of Constructivist Psychology

laura.scartezzini@gmail.com

Laura Scartezzini è psicologa e psicoterapeuta. Si occupa di clinica individuale e dinamiche di gruppo attraverso metodologie esperienziali con Effecinque Formazione. Si interessa di ricerca in ambito psicologico e collabora con il Centro di Ricerca e Documentazione Costruttivista.